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A proposito di ispanismo italiano

Giuseppe Bellini





L'amico Marco Cipolloni, ora cattedratico nell'Università di Modena-Reggio Emilia, ha pubblicato sul numero 28, 2005, della rivista Spagna contemporanea, del cui comitato di redazione fa autorevolmente parte, un corposo e interessante saggio dal titolo Storia di una storia con poca storia: l'ispanistica italiana tra letteratura, filologia e linguistica, testo da lui letto e discusso nel congresso della SSPHS, a Madrid, nel 2003, in una sessione dedicata agli studi italiani sulla storia di Spagna.

L'argomento trattato è certamente di notevole importanza e colgo l'occasione per ringraziare l'autore di avermi, en passant, trattato bene, insieme a Segala e a Tavani, ognuno per i rispettivi settori.

Detto questo, ritengo opportuno chiarire l'iter della vicenda dell'ispanismo e dell'ispano-americanismo italiani, nei quali l'autore del saggio citato lamenta carenza di attenzione adeguata alla storia nella trattazione della rispettiva area letteraria, mentre apprezza i cambiamenti recenti, che hanno portato all'istituzione di cattedre di lingua spagnola e di storia e civiltà del mondo ispanico.

La storia vera dell'ispanismo nella nostra Università è abbastanza circoscritta. La fioritura attuale non deve ingannare: essa è frutto di una lenta e faticosa conquista, come ben sanno i cattedratici più anziani. In tempi più vicini le cose andarono più favorevolmente, proprio perché si era precedentemente forzata la barriera, fino a raggiungere l'indipendenza da commissioni in cui entravano dominanti altre discipline, portatrici non di rado di interessi diversi. Fu una lenta conquista, come lenta fu la conquista dell'indipendenza in anni successivi dell'ispano-americanismo dall'insegnamento della letteratura di Spagna.

Il primo cattedratico di letteratura spagnola uscì da un concorso del 1938, Giovanni Maria Bertini. Un altro dei vincitori, Camillo Guerrieri Crocetti, occupò la cattedra di Filologia romanza a Genova, mentre il Bertini ebbe la cattedra di Lingua e letteratura spagnola nella Facoltà di lingue e letterature straniere dell'Università veneziana di Ca' Foscari e tenne l'incarico della stessa disciplina al Magistero di Torino, dove si trasferì definitivamente molti anni dopo.

Non che nelle maggiori Facoltà di Lettere e filosofia mancasse l'insegnamento della disciplina specifica: lo impartiva un professore incaricato, spesso lo stesso ordinario di Filologia romanza o un suo allievo; era quindi un posto di precariato e quando non «riservato», come detto, affidato a qualche funzionario del Ministero degli Affari Esteri, con una permanenza in Spagna o in America Latina.

Occorre dire che non sempre chi allora si occupava di letteratura spagnola conosceva bene la lingua. Bertini era un'eccezione: cresciuto a Barcellona, dominava non solo lo spagnolo, ma anche il catalano. Egli aveva una visione aperta dell'ispanismo e proprio per diffonderla, per ampliarne gli orizzonti, fondò nel 1946, all'inizio, quindi, del secondo dopoguerra, e mantenne materialmente, la rivista Quaderni Ibero-Americani, che ancora continua e ha raggiunto ora il centesimo numero. Fu la prima palestra specifica dell'ispanismo e dell'iberismo italiani. Bertini la diresse fino quasi alla sua scomparsa e solo negli anni meno felici della sua esistenza ne affidò a me la direzione, ora condivisa con Giuliano Soría.

Molto più tardi si fondarono altre riviste di ispanistica, tra esse gli Studi ispanici, di Pisa, voluti da Guido Mancini, ivi cattedratico di lingua e letteratura spagnola nella Facoltà di Lingue e letterature straniere, gli Studi di letteratura Ispano-Americana, da me iniziati presso l'Università Bocconi, quindi continuati a Venezia e successivamente alla Statale di Milano, e la Rassegna Iberistica, che fondammo Meregalli e io, a Venezia.

Mancini era uscito vincitore dal primo concorso a cattedra di ispanismo bandito diciotto anni dopo il concorso di Bertini, nel 1956. La terna fu formata, oltre che dal Mancini, per il quale era stato bandito da Pisa il concorso, da Franco Meregalli, che occupò la cattedra lasciata libera a Venezia dal Bertini, e da Oreste Macrì, che fu chiamato alla cattedra nella Facoltà di Magistero dell'Università di Firenze.

Sistemato al terzo posto -la chiamata in cattedra doveva seguire l'ordine-, Macrì, fino al momento professore di scuola media a Parma, ma il cui nome già si era imposto tra l'intellettualità italiana, sia per la partecipazione attiva al cenacolo letterario fiorentino delle Giubbe Rosse, sia per la diffusione di cui aveva fatto oggetto la poesia di García Lorca attraverso le edizioni di Ugo Guanda, non gradì la posizione che la commissione gli aveva assegnato, il che non fu in seguito senza qualche conseguenza su alcuni discepoli degli altri due vincitori.

Dopo questo concorso a cattedra ve ne furono, a distanza di tempo, altri, da cui uscirono vincitori studiosi come Rinaldo Froldi, Lore Terracini, Carmelo Samonà, Mario Di Pinto, poi molti altri, prima italiani, poi, in tempi ancora recenti, anche stranieri, vale a dire spagnoli o ispano-americani, entrati nelle nostre Università in qualità di lettori, poi passati ad incarico, quindi a cattedra di aggregato, di associato o infine di ordinario.

Un torto ingiustificato fu fatto costantemente a un grande ispanista come Cesco Vian, reo forse di insegnare alla Cattolica -i tempi erano molto diversi-, il quale, misconosciuto nel suo reale valore, finì per non partecipare più ad alcun concorso, accontentandosi del suo posto di incaricato, poi di associato, sia alla Facoltà di Magistero della Cattolica, sia a quella di Parma, quando io vi rinunciai per andare ad insegnare Letteratura ispano-americana a Venezia.

Naturalmente, per decenni l'insegnamento di letteratura spagnola non contemplò alcuna nozione di letteratura ispano-americana e per dire la verità neppure i docenti di detta disciplina ne avevano granché notizia. Meregalli era, con Mancini e Macrì, un'eccezione: egli condivideva con Bertini l'interesse per un ispanismo di maggiori aperture, che non poteva ignorare l'America, e tanto che, come ho avuto modo di illustrare nel saggio commemorativo apparso sulla Rassegna Iberistica, in occasione della scomparsa del Maestro1, per qualche anno aveva già tenuto alla Bocconi corsi di interesse ispano-americano, dedicati agli Iniziatori del Modernismo, a Silva e a Darío. In seguito aveva affidato a me, suo assistente, tale settore, e io svolgevo una sorta di corso di ampliamento, sempre nell'ambito dell'insegnamento di Lingua e letteratura spagnola. Ma una volta rientrato in Italia e arrivato a Venezia come ordinario, Meregalli riprese direttamente l'argomento, tenendo corsi sul romanzo messicano dell'Ottocento e sul tema gauchesco, quindi, da preside della Facoltà, istituì un vero e proprio insegnamento di Letteratura ispano-americana, che più tardi fece mettere a concorso, chiamando me a impartirlo, e che aprimmo alla specializzazione, dopo un primo biennio generale di Lingua e letteratura spagnola.

Nel frattempo -Meregalli allora aveva per qualche anno lasciato l'Università, per insegnare Lingua e letteratura italiana all'Università di Madrid, poi per dirigere Istituti di Cultura italiana in Germania- io avevo proseguito, alla Bocconi, nell'ambito dell'incarico di Lingua e letteratura spagnola che mi era stato affidato, a interessarmi anche all'Ispanoamerica con corsi aggiuntivi di letteratura, fino a che nell'anno accademico 1959-1960 fu istituito presso la Facoltà di Lingue e letterature straniere l'insegnamento ufficiale di Letteratura ispano-americana, il primo nell'Università italiana indipendente da quello di Lingua e letteratura spagnola.

Questa in breve la preistoria delle discipline ispanistiche italiane, ma occorre tenere ben presente che, come del resto avviene assurdamente anche in Spagna, l'introduzione dell'insegnamento della letteratura ispano-americana, ora denominata Lingua e letterature ispanoamericane, non si sa per suggerimento di quale genio, è favorita solamente dove vi sono ispanisti «illuminati», non legati a convenienze esclusive della propria specifica disciplina.

Quanto all'area portoghese e brasiliana, l'iter fu in parte simile: in Italia la letteratura portoghese non confluì mai nell'area ispanistica o iberistica e il consolidarsi dell'insegnamento universitario si verificò entro l'ambito della Filologia romanza.

Per molto tempo l'unico cattedratico di detta letteratura fu Giuseppe Carlo Rossi, dapprima incaricato all'Università di Roma, poi ordinario all'Università Orientale di Napoli, dove insegnava anche letteratura spagnola. Successe con lui come con Bertini: per anni fu l'unico titolare della disciplina, che aprì all'area brasiliana. In seguito pervennero alla cattedra Giuseppe Tavani, Luciana Stegagno Picchio, Giuliano Macchi, quindi Giulia Lanciani e un gruppo successivo di studiosi, fino a dare definitiva consistenza all'insegnamento nell'università italiana e al giustificato ampliamento, alla fine, alla letteratura brasiliana.

Non è qui il caso di proseguire la narrazione della vicenda ispanistica nostrana, ma certamente l'epoca illustrata fu davvero pionieristica e di essa si avvantaggiarono le generazioni successive.

I concorsi furono, come sempre, giusti e ingiusti in parte, ma ne uscirono spesso studiosi di valore. Per molto tempo si procedette con concorsi nazionali e quasi sempre con risultati di terne di vincitori, regolarmente chiamati a ricoprire una cattedra. Più tardi si istituì la categoria dei professori aggregati, che in seguito divennero ordinari ope legis. Più volte, in seguito, furono modificati i meccanismi concorsuali e le commissioni, alla vana ricerca di un'assoluta imparzialità, fino a che si arrivò a concorsi banditi per ogni singola cattedra, poi a concorsi dove le cattedre venivano raggruppate, quindi a concorsi banditi direttamente dalle Università, che previamente definivano il profilo dell'eventuale vincitore, quasi sempre il proprio candidato, ma con la possibilità di altri due vincitori, prima, poi di due solamente, con curricola scientifici anche diversi da quello richiesto -le leggi sono sempre misteriose-, poi fu il momento della chiamata di professori stranieri «per chiara fama», legge già fascista, ma fatta almeno per Marconi, quindi... una lunga stasi, quella attuale, in attesa di un'ulteriore riforma concorsuale che consacri l'avvento della vera giustizia, dimenticando, come ricordava Quevedo, che Astrea, visto il mondo, era risalita definitivamente in cielo.

In quest'ultimo clima si affermarono nuove discipline ispanistiche: cattedre di Istituzioni, cattedre specifiche di Lingua, e i vincitori furono non di rado studiosi di valore, anche se per lingua si finì per intendere soprattutto la didattica dell'insegnamento.

Cipolloni celebra giustificatamente l'ampliamento dell'ispanismo nei tempi più recenti, e non v'è dubbio che la storia acquisti importanza nelle cattedre di Istituzioni, meno in quelle di Letterature, anche se neppure in esse è spesso trascurata. Infatti, Meregalli l'ha sempre richiesta nei suoi programmi, come del resto anch'io ho sempre fatto, convinto che non vi è fatto creativo indipendente dal contesto storico-sociale. Non si deve, tuttavia, dimenticare la matrice filologico-letteraria degli insegnamenti delle letterature iberistiche, come del resto chiarisce la loro intitolazione.

Nell'ambito del Seminario di Iberistica dell'Università di Ca' Foscari Meregalli inaugurò una politica culturale di grandi aperture accendendo molteplici insegnamenti: oltre a Lingua e letteratura spagnola e Letteratura ispano-americana, Storia delle lingue iberiche, Letterature comparate, Lingua e letteratura catalana, Lingua e letteratura portoghese, Letteratura brasiliana ed era stretto il contatto con un validissimo studioso di storia iberica, Giovanni Stiffoni, che si pensava di chiamare, una volta vinto il concorso.

Lo spettro dell'iberistica sarebbe stato così completo ed efficiente. Ma Stiffoni, purtroppo, non vinse il concorso a cattedra; ricevette sempre giudizi lusinghieri, giunse all'associazione, ma per gli storici italiani, evidentemente, quelli non erano tempi in cui si potesse andare, per la cattedra, oltre la storia nazionale. Lo avevano fatto Rosario Romeo e altri prima, ma Stiffoni era giovane. Si perse così un grande studioso, che aveva già dato numerosi contributi rilevanti al settore cui si interessava, legati anche alla storia veneto-ispanica.

Quanto sopra aggiunge ragioni alle lagnanze di Cipolloni circa il ruolo della storia nell'iberistica nostrana, che alla fine, come bene osserva, nonostante le molte sperimentazioni attraverso cui è passata la critica ispanistica, che hanno messo in un angolo la storia, «loro malgrado hanno finito per moltiplicare gli angoli in cui è possibile trovarla e vedere come si difende dai perversi meccanismi di un plurisecolare olvido sin pacto»2. E ciò proprio quando maggiore attenzione è posta dal pubblico, universitario e no, all'ambito iberistico; attenzione, va detto chiaramente, dovuta più alle vicende politiche ispano-americane, al succedersi di rivoluzioni, all'avvento di dittature militari sanguinose, come l'argentina e la cilena, che hanno richiamato l'attenzione sul mondo americano, oltre che al noto boom della narrativa, al successo di scrittori come Borges, García Márquez, Fuentes, Vargas Llosa e quant'altri, a poeti come Neruda.

Molto ancora vi sarebbe da dire sull'argomento e forse in altra ne tornerò a parlare.





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