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ArribaAbajo Lope de Aguirre fra letteratura e folklore

Alessandro Martinengo


Universidad de Pisa

La figura e le imprese di Lope de Aguirre, intrise como sono dell’atmosfera febbrile che caratterizzò la ricerca dell’(allora) mitico e (ancor oggi) proverbiale Eldorado, continuano a suscitare l’interesse di scrittori, studiosi e artisti non meno che del pubblico: penso naturalmente al forte film di Herzog, ripetutamente proiettato anche in Italia, ma penso pure al romanzo del venezolano Miguel Otero Silva -il più recente fra i molti dedicati al personaggio- che ha avuto ben tre edizioni nell’anno stesso in cui ha visto la luce, il 1979, ed ora leggiamo nella quarta518; né va dimenticato il fervore di approcci e di ricerche cui abbiamo assistito in questi ultimissimi anni in Italia, ove sono state pubblicate (salvo dimenticanze) ben due traduzioni di una delle più significative cronache contemporanee agli avvenimenti e un’antologizzazione tematica delle fonti illustrata da un denso e suggestivo commento519.

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Ho detto altrove che, a mio giudizio, la seduzione ininterrottamente emanata dalla vecchia gesta cinquecentesca deriva dal suo carattere di fiaba atroce ed esemplare, costruita intorno ad un protagonista e a un antagonista che funzionano come il diritto e il rovescio di un arazzo o, se si vuole, come il positivo e il negativo di una lastra fotografica. Se infatti l’affascinante ma ambiguo cavaliere che fu Pedro de Ursúa, capitano della spedizione all’Eldorado, venne immolato alla volontà di potenza di Lope de Aguirre, soldato crudele e senza scrupoli, ma sensibile portavoce della violenta avversione dei suoi pari verso i metodi del governo coloniale, i cronisti contemporanei all’impresa e, ancor più, quelli delle generazioni successive s’incaricarono di vendicare la vittima e la lesa maestà di Filippo II estremizzando i tratti oppositivi dei due personaggi in una raffigurazione oleografica che presenta la morte di Ursúa nella pura luce della dedizione e dell’eroismo, quella di Aguirre sotto il segno dell’obbrobrio520.

Sennonché la sconfitta di Aguirre assomiglia piuttosto a una vittoria e la sua morte obbrobriosa ha quasi il sapore di una resurrezione, se si bada alla pervicace memoria che si è tramandata del suo gesto di protesta e di ribellione. Sono servite in analoga misura di veicolo alla memoria collettiva -specialmente, com’è ovvio, in America- sia le fonti scritte sull’impresa sia la tradizione orale, che senza soluzione di continuità fa capo agli avvenimenti. Se le prime sono il principale, o unico, fondamento delle moderne interpretazioni storiografiche, psicologiche,   —259→   politiche della figura dell’antico caudillo (la più clamorosa delle quali vede, com’è noto, in lui un precursore dell’indipendenza dell’America Latina dalla Spagna), senza un’esplorazione nell’ambito folklorico risulta, a mio avviso, impossibile cogliere appieno il significato delle opere narrative ispirate alla nostra vicenda, specialmente delle più recenti. Questa convinzione e la sensazione che si apra qui un cammino finora a torto trascurato dalla critica mi hanno indotto a tentare questa prima, provvisoria sintesi; e sarò ben lieto se la limitatezza stessa delle prove che offro inviterà a correzioni, integrazioni, approfondimenti quanti più agevolmente di me siano in grado di accingersi a ricerche sul terreno.

Cominciamo da narrazioni meno recenti e più vicine alle fonti scritte. Sappiamo che nel 1881 Ricardo Palma aveva terminato, o quasi, un romanzo dal titolo Los marañones: esso è andato perduto, ma non è arrischiato ritenere che l’autore ne abbia travasato il succo nel racconto Lope de Aguirre, el traidor, che fa parte delle Tradiciones peruanas e, come le altre tradiciones, presenta quel delicato impasto di storia e fantasia, coagulato dall’umorismo, che ha reso tanto famosa la maniera artistica dello scrittore peruviano. C’è rimasto dunque, invece di un romanzo storico probabilmente assia ampio, un romanzo per così dire in miniatura, assai rappresentativo, fra l’altro, dell’atteggiamento ottocentesco degl’Ispanoamericani verso la conquista spagnola. Eccone l’attacco:

Asusta y da temblor de nervios asomarse al abismo de la conciencia de algunos hombres. El solo nombre de Lope de Aguirre aterroriza. Fecundísimo en crímenes y en malvados fue para el Perú el siglo XVI. No parece sino que España hubiera abierto las puertas de los presidios y que, escapados sus moradores, se dieron cita para estas regiones521.



Partigiano dapprima di Gonzalo Pizarro nelle guerre civili che insanguinarono il Perù, Lope si dichiarò poi per il licenciado La Gasca, nel cui nome commise in Lima delitti e atrocità:

Lope de Aguirre se entusiasmaba como el tigre con la vista de la sangre, y sus camaradas, que le veían entonces poseído de la fiebre de la destrucción, lo llamaban caritativamente el loco Aguirre522.



Lui stesso dovette compiacersi di tale epiteto, e di altri simili, perché ne riusciva circondata di rispetto e di tremore la sua meschina e squallida   —260→   figura; tant’è vero che molti ne lasciò circolare (e la tradizione li raccolse), a cominciare da quello di traidor con cui firmò il documento di desnaturalización dalla Spagna là nel cuore della selva amazzonica.

Fra gli aneddoti che Palma riporta dalle cronache antiche alcuni sono intesi a provare l’empietà del tirano (altro epiteto ricorrente nelle fonti). Avendo scoperto uno dei suoi intento a pregare, gli disse: «Yo no quiero a los míos tan cristianos, sino de tal condición, que jueguen el alma a los dados con el mismo Satanás»523.

E in un’altra circostanza, oramai in terra venezolana e vedendo che la marcia dei suoi guerrieri era ostacolata da un violento temporale, inveì in questo modo:

¿Piensa Dios que porque llueve no tengo de hacer temblar el mundo? Pues muy engañado está su merced. Ya verá Dios con quién se las ha, y que no soy ningún bachillerejo de caperuza a quien agua y truenos dan espanto524.



È curioso notare come, parlando dell’empietà di Aguirre, Palma affermi che quegli aveva preso a modello «no sólo en la crueldad, sino en el sarcasmo impío, a Francisco de Carbajal»525; parole che ci autorizzano a congetturare como alcuni tratti di carattere e di formazione attribuiti dal tradicionista all’aiutante di campo di Gonzalo Pizarro li considerasse tipici anche di Aguirre, suo discepolo. Se tale ipotesi risponde a verità, se ne dovrebbe dedurre che un esame della dozzina di tradiciones dedicate al Demonio de los Andes dovrebbe consentirci di completare, per analogia, il ritrato di Lope appena abbozzato nel racconto cui mi sono ora riferito. Mi limiterò qui a qualche osservazione basata su una sola di tali tradiciones, quella intitolata appunto El Demonio de los Andes.

Il tratto di maggior opposizione fra Lope e Carbajal è la costante lealtà di quest’ultimo al suo capo e alla sua fazione, virtù che «rodea de respeto su gran figura»526. Ma i lados sombríos della sua personalità, come si esprime Palma, lo imparentano strettamente con Aguirre, in primo luogo un’atroce crudeltà, che lo induceva non solo a non dar   —261→   quartiere ai vinti, ma in generale ad infierire sui deboli e sulle donne. Un’altra caratteristica messa in luce dal tradicionista in Carbajal mi interessa particolarmente: l’abilità e le risorse di costui nelle battaglie erano così straordinarie, cosí sorprendente la sua resistenza alle fatiche delle lunghe tappe e così prodigiosa la sua rapidità di manovra, che la gente lo credeva posseduto dal demonio o un demonio lui stesso, il demonio delle Ande, precisamente: «El vulgo supersticioso decía que Carbajal y su caballo andaban por los aires. Sólo así podía explicarse tan prodigiosa actividad», riassume Palma527 dalla prosa di un antico cronista; e poco più avanti: «Eran tales la sagacidad y recursos que desplegaba en las expediciones, que el vulgo creía tuviese algún diablo familiar»528.

Credo che il cronista che qui Palma sta parafrasando sia Pedro Pizarro, il quale termina il ritratto di Carbajal con le parole: «Era tan sabio que decían tenía familiar», aggiungendo che, in perfetta coerenza a come era vissuto, «murió como gentil»529; essendo quest’ultima esattamente la stessa circostanza che affermano di Aguirre i cronisti contemporanei più degni di credito530.

Possiamo chiederci a questo punto, incoraggiati a proseguire dal parallelismo che ci ha sedotto, se anche a Lope le fonti attribuiscono tratti e poteri diabolici; e dovremo rispondere che le indicazioni in tal senso sono in effetti numerose ed abbondanti, e sono all’origine di uno dei motivi dominanti nella tradizione folklorica: sempre che non si voglia affermare il contrario (e non mancherebbero per questo gli indizi), che la tradizione scritta cioè si fondi e si sostenga su modelli già tramandati   —262→   oralmente, o almeno che le due tradizioni s’intreccino fin dall’origine inestricabilmente.

Emiliano Jos attribuisce al cronista Gonzalo de Zúñiga, compagno di Aguirre, la composizione del romance che si trova inserito nella sua Relación; chiunque ne sia stato l’autore, è convinzione dello stesso Jos che il romance circolasse di bocca in bocca vivendo ancora Lope, e Rosa Arciniega afferma, in un suo suggestivo studio, che esso ebbe amplissima diffusione orale tanto in Spagna come nell’America Latina531.

Il romance comincia:


Riueras del marañon
do gran mal se a conjelado
se leuanto un Vizcaino
muy peor q[ue] Andaluzado,



e termina precisamente con l’allusione alla credenza popolare in una possessione diabolica:


A nadie [Lope] da confision
por q[ue] no lo a acostumbrado
y asi se tiene por çierto
ser El tal Endemoniado.



Un altro cronista contemporaneo di Aguirre, Diego de Aguilar y Córdoba, nella relazione rimasta a lungo inedita che si suole indicare con il titolo El Marañón scrive per conto suo quanto segue:

Tuvo [Aguirre] por vicio ordinario ofrecer al demonio su cuerpo y alma y su persona por partes, nombrando piernas, brazos, etc. Pocas palabras decía sin blasfemar y renegar de Dios Nuestro Señor y de sus santos. Jamás dijo bien de nadie532.



Proprio riferimenti come questi a parole e gesti d’empietà anche se non espressi in termini così circostanziati e pittoreschi, nonché alla   —263→   sua morte in odore di ribelle a Dio oltre che alla società umana ricorrono con particolare frequenza. Si legga ancora questo passo di Vázquez:

[Alla sua morte] su ánima fue a los infiernos, adonde él decía muchas veces que deseaba ir, porque allí estaba Julio César y el Magno Alejandro y otros bravos capitanes a este tono, y que en el cielo que estaban pescadores y carpinteros, gente de poco brío533.



La tradizione propriamente folklorica si mostrò, como ho detto, assai recettiva nei riguardi del motivo di Aguirre indemoniato già in vita e quindi dannato per l’eternità: la rielaborazione di esso -secondo i moduli propri della creatività popolare- doveva avvenire in particolar modo in Perù e nei Venezuela, come appare naturale, dato che nel primo dei due Paesi ebbe inizio e nel secondo tragica fine la sua folle avventura. Le testimonianze che ho potuto raccogliere hanno diverso carattere e provenienza.

Ricorderò in primo luogo una leggenda intitolata La ciudad encantada, raccolta nella cittadina di Saposoa (Huallaga, Perù) dall’insegnante Aurora Rodríguez534. In essa si narra come la moderna città di Saposoa fu rifondata in luogo diverso dall’antica, dopo che quest’ultima era stata inghiottita dal lago sulle cui rive sorgeva (si tratta dunque di una leggenda di fondazione); e la città fu inghiottita dal lago in punizione di un sacrilegio in essa perpetrato, il furto cioè degli arredi sacri della chiesa ad opera proprio di Lope de Aguirre, di passaggio da quelle parti. Ecco come la fantasia popolare trasfigura il protagonista del’atto sacrilego:

El Capitán Lope de Aguirre, que tenía el brazo derecho más largo que el izquierdo y una estatura considerable, aprovechó el temor de los moradores y se dirigió al templo donde estaban reunidos; ante su presencia los pobladores huyeron despavoridos al bosque.



Appena sarà necessario ricordare che una deformità fisica del tipo cui si fa qui riferimento (più spesso l’andatura sciancata, dovuta alla maggior lunghezza di una gamba rispetto all’altra; in questo caso, la maggior lunghezza di un braccio poiché le braccia sono le esecutrici del   —264→   sacrilegio) è -nell’ambito folklorico e nell’iconografia popolare- segno rivelatore del demonio535.

Naturalmente non tutte le tracce lasciate nella tradizione orale dal nostro personaggio sono immediatamente riferibili alla credenza in una sua possessione demoniaca; però in genere alludono a qualche suo potere sovrumano o rendono testimonianza del terrore della gente che in lui si manifestassero delle forze soprannaturali. Rosa Arciniega, dopo aver menzionato il «salto o pongo de Aguirre», nome dato a una rapida del fiume Huallaga (che attraversa la omonima provincia), aggiunge: «Una vieja tradición, mantenida viva a través de muchas generaciones, asevera que por allí pasó y estuvo en grave peligro Lope de Aguirre, dejando grabadas en las piedras unas letras misteriosas que todavía resultan legibles a la fecha».

La stessa studiosa ricorda che in Venezuela, nella località chiamata El Tocuyo, il 27 ottobre di ogni anno -anniversario dell’uccisione del tirano- si svolse durante più di un secolo una processione religiosa per ringraziare Dio di aver liberato il paese dal flagello; e molte furono le rappresentazioni drammatiche popolari (in Colombia questa volta) incentrate sul personaggio, in funzione di esorcismo contro le paure che il suo ricordo suscitava536.

Sull’ambiente venezolano voglio in particolare soffermarmi, non solo perché mi sembra che le leggende intorno a Lope de Aguirre vi si mostrino più che altrove diffuse e tenaci, ma perché presentano anche svolgimenti peculiari e suggestivi: ne abbiamo diverse attestazioni letterarie e l’autorevole conferma di un illustre studioso del folklore che, come scrittore, non dimenticherà la lezione tramandata dalla viva voce popolare.

Accennerò dapprima alla testimonianza di Teresa de la Parra, scrittrice che passò, com’era costume della ricca aristrocrazia venezolana, la maggior parte dell’essistenza in Europa e per questo visse una riscoperta traumatica dell’ambiente nativo quando -sull’onda del successo dei suoi due romanzi Ifigenia e Las memorias de Mamá Blanca fu invitata a Bogotá a tenere alcune conferenze. Nell’affollarsi dei ricordi d’infanzia, nel riemergere alla sua memoria di leggende e racconti uditi narrate   —265→   da vecchi servitori e nutrici che attingevano al patrimonio folklorico nazionale, ebbe l’intuizione folgorante del carattere mistico e fondazionale proprio della civiltà della Colonia e concepi l’idea di celebrare in un libro il libertador Bolívar, visto come anello di giunzione fra la cultura e la società patriarcale-tradizionale e l’epoca contemporanea. Preparando i materiali per il libro, annotò pensieri e giudizi, a cominciare da quelli che le suggeriva l’educazione di Bolívar, orfano fin da piccino:

Yo pienso con ternura en el batey, como dicen en Cuba, o repartimiento, como dicen en Venezuela, de San Mateo. Bolívar niño debió oír los cuentos (con canto y mímica) de los esclavos africanos. La negra Matea y la otra (no recuerdo su nombre ahora), la que él abrazó cuando su última entrada en Caracas, también tuvieron una influencia íntima y humilde en su alma, enseñándole a querer el pueblo en ellas537.



Il motivo, appena abbozzato, viene poi ampiamente svolto nella terza delle conferenze di Bogotá, in una bellissima pagina che conviene rileggere perché ci riporta al centro del nostro tema:

Es en los brazos de la esclava Matea donde Bolívar oye y mira por primera vez la honda poesía de la vida rural que es la faz más querida y más noble de la patria [...] Al caer la tarde, terminado el trabajo del campo, Matea lleva a su niño Simón al repartimiento o patio de los esclavos. Allí bajo el propio cielo [...] él oye cuentos de miedo con duendes y fuegos fatuos, que narra algún viejo negro. Los cuentos tienen casi siempre como tema los horribles crímenes del tirano Aguirre, el conquistador rebelde y bandido, cuya alma en pena vaga todavía en forma de lucecita que se apaga y se enciende mucho más grande que los cocuyos. Es una luz que camina. A veces aparece en la llanura, otras veces se sube a la copa de un árbol inmenso que se ve desde el corredor de la hacienda allá a lo lejos y que se llama el Samán de Güere. Treinta años más tarde bajo la copa del mismo samán legendario de su infancia, que aunque viejo y tullido todavía existe y aún lleva en su copa el alma en pena del conquistador muerto en pecado, bajo este mismo samán, Bolívar debía acampar con su ejército en una noche histórica538.



La leggenda popolare sull’anima in pena del tirano che così rievoca la Parra -diffusa, a quanto è dato di capire, soprattutto fra i negri del Venezuela- è stata più volte al centro dell’attenzione di Arturo Uslar Pietri, sia come spunto per le sue creazioni di romanziere, sia come oggetto dei soui interventi di studioso e teorico del folklore. Così si esprime nel saggio intitolato El peregrino539: «A un fuego fatuo, que arde   —266→   misterioso algunas noches en la sabana, los campesinos recelosos lo llaman el alma en pena del tirano Aguirre».

In un altro saggio, Tío Tigre y Juan Bobo (si tratta di due personaggi del folklore venezolano, uno è il perpetuo tiranno, l’altro la perpetua ma sorniona vittima), insiste sull’importanza del patrimonio tradizionale come fonte per una letteratura che aspiri ad essere veramente autentica e lamenta che gli scrittori abbiano attinto assai scarsamente ad esso, almeno in Venezuela. Il folklore costituisce infatti l’ideal autorretrato psicológico del popolo, la radiografia delle sue aspirazioni: l’uguaglianza, «que le importa más que la libertad»; la giustizia, che non significa «dar a cada uno lo suyo, sino castigar y escarmentar al poderoso, que nunca es bueno, aun cuando con ello no se remedie el mal»; ecc.: aspirazioni tutte che «surgen diáfanas de esas sabrosas leyendas y consejas sobre el alma del Tirano Aguirre, el carretón de las ánimas, el cantor Florentino, Juan Bobo y los personajes de su comedia animal»540.

Oltre un decennio prima, però, che le sue idee sul folklore giungessero a maturazione e a sistemazione teorica la leggenda del fuoco misterioso aveva ispirato a Uslar uno dei suoi racconti più felici, il cui titolo è, appunto, El fuego fatuo541. Uslar, che Ulrich Leo ha definito -in maniera forse troppo sbrigativa- «un D’Annunzio venezolano en miniatura»542, imposta e costruisce generalmente i suoi racconti (specialmente quelli più giovanili) partendo dall’intuizione di una coppia oppositiva (o di varie coppie, sapientemente giocate) di vivide percezioni sensoriali. Ora quello che fin da principio dovette colpire la sua fantasia nella ricordata leggenda su Aguirre fu il contrasto, al tempo stesso visivo e cinetico, fra lo splendore e la mobilità della fiamma sepolcrale da un lato, e le tenebre e la quiete che avvolgono la campagna dall’altro. A questa fondamentale intuizione di tipo contrastivo nella sfera visuale se ne dovette aggiungere un’altra, quella dell’opposizione che poteva immaginarsi -nell’ambito delle sensazioni auditive, in questo caso- fra un piano evocatore, il cui referente è la silenziosa, immobile campagna,   —267→   e un piano evocato, risonante del trambusto, del tintinnare e cozzare di armi, della violenza dell’antica gesta cinquecentesca.

Due vecchie -forse di razza negra -evocano, in un ambiente notturno illuminato dal riflesso di un fuoco stregonesco, tremebondi episodi dell’epopea del tirano: ad un certo punto una favilla si libera dalla fiammata e comincia ad allontanarsi rimbalzando, sempre più inafferrabile, attraverso la pianura circostante. Il racconto è concepito appunto intorno ad emozioni sensoriali contrastanti e si articola in una doppia serie di quadri alternanti, l’una in funzione del piano che abbiamo detto evocatore, l’altra del piano evocato; un’inversione speculare dell’ordine dei quadri, a metà del racconto, crea un sovrappiù di tensione. Sembra inoltre che l’autore tenda a concentrare le emozioni di carattere visivo nella sequenza relativa al piano evocatore, nell’altra quelle di carattere auditivo, tattile, olfattivo. Ecco un esempio del primo caso:

Viva de grillos, la noche hace delirar el campo. Late agua. Dos o tres estrellas parpadean [...] La vereda viene como una vena, culebreando, pasa junto al rancho y continúa desovillándose en la noche. Por la puerta, humo y luz de cocina salen a hacer fantasmas543.



Ed uno del secondo:

Cuando la gritería del saqueo se iba extinguiendo, la señora gobernadora, desde el cuarto oscuro, asomó la cabeza por el postigo [...] y llamó con la voz y los ojos a su hombre [...]. No le respondió la voz del gobernador, pero sí la sangre que con mil dedos se arrastraba sobre el embaldosado para ir a anunciarle la desgracia544.



È da notare però che, a mano a mano che procede il racconto, le immagini visive (specialmente quelle che si riferiscono al fuoco) tendono a forzare i limiti entro i quali prima erano trattenute, ea invadere l’intero ambito espressivo. Nell’ultimo quadro, completamente ígneo, vengono inoltre a concentrarsi tutte le parole-chiave che avevano in precedenza annunciato la rivelazione finale, la materializzazione dell’anima del tirano nella favilla sfuggente:

Salta del fuego, como lámpara, como luz que navega sobre aceite, una llama quieta que recorre la noche.

-¡Ah!, se fue por el camino de la candela.

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-Candela es, que viaja por la sombra cerrando los caminos.

El resplandor regresa, dando tumbos, desnudando los árboles. Perdidas las figuras, las dos voces viven en la tiniebla.

-Ave María, guárdanos del alma del Tirano Aguirre, que pasa de noche en la candela545.



Grazie alla suggestione emanante dai violenti contrasti sensorial ed emotivi del racconto di Uslar, la scia ignea e diabolica del fuoco fatuo -nel quale la superstizione popolare ha visto per secoli la prigione dell’anima dannata di Lope de Aguirre- non ha cessato di percorrere il corpus della narrativa ispirata al personaggio, lasciando balenare il suo riflesso, in un caso almeno a me noto, anche al di fuori del corpus stesso. Mi sia concesso, a conclusione, di offrire una minima documentazione di quanto affermo.

Com’è noto, Uslar Pietri ha dedicato, dopo il Fuego fatuo, un intero romanzo alla vicenda di Aguirre: l’ultimo capitolo del libro, in cui è descritta la morte e decapitazione del tirano, s’intitola «El farol apagado» e si suggella con quest’immagine di una fiammata che si spegne:

Cuando Custodio Hernández se levanta, los otros se abren para hacerle calle. Va hacia la puerta, por donde entra la luz del día. Lleva de la mano, colgada por los cabellos, casi a ras del suelo, la cabeza del tirano, como un farol apagado546.



Alla tentazione di un finale di questo tipo non ha saputo resistere Otero Silva: il suo romanzo termina infatti su un monologo lirico, in cui Aguirre, ormai morto da secoli, afferma la sua sopravvivenza sotto forma di visioni multiformi e ossessive -vendicatrici, provocatorie e patetiche insieme- nella memoria collettiva dei popoli americani. Così egli descrive una delle forme fantastico-allucinatorie che suole assumere:

Me levanto en las noches de luna menguante mis cabellos son una tea encendida que los vientos no apagan mis pies son llamas errantes que pasan sobre los pajonales sin quemarlos [...]547.



Infine, fuori del corpus costituito dalla moderna epopea aguirriana, una pagina di un recente romanzo di García Márquez mostra in filigrana il ricordo letterario del racconto di Uslar nella descrizione di una limpida notte tropicale sulle sponde del Mar dei Caraibi:

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Hasta entonces no había llovido. Al contrario, la luna estaba en el cielo, y el aire era diáfano, y en el fondo del precipicio se veía el reguero de luz de los fuegos fatuos en el cementerio. Del otro lado se divisaban los sembrados de plátanos azules bajo la luna, las ciénagas tristes y la línea fosforescente del Caribe en el horizonte. Santiago Nasar señaló una lumbre intermitente en el mar, y nos dijo que era el ánima en pena de un barco negrero que se había hundido con un cargamento de esclavos del Senegal frente a la boca grande de Cartagena de Indias548.



L’elegante allusività di questo testo dimostra, a mio avviso, come nelle alchimie creative di uno scrittore contemporaneo di cultura ispanoamericana il riferimento a fuochi fatui di cimitero, perfino nella realistica descrizione di un notturno, implichi quasi naturalmente il transito all’evocazione di fosche tragedie del tempo della Conquista spagnola, secondo un modello di associazione mentale da secoli operante nella fantasia colletiva.