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Abajo

Colombo nell'opera di Pietro Martire

Giuseppe Bellini


Università di Milano



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Nelle Decades de Orbe Novo Pietro Martire d'Anghiera fu il primo e più qualificato diffusore delle notizie relative alla grande impresa colombiana. Ma non ne trattò solo in esse, bensì anche nelle numerose lettere che scrisse in epoca anteriore ai suoi influenti e altolocati amici, o anche ex discepoli assurti a grandi dignità ecclesiastiche o di governo, e agli stessi pontefici, Leone X e Clemente VII, quando i fatti avevano la freschezza quasi della contemporaneità.

Nato nel 1455, o 1457, secondo argomenta il Lunardi1, ricordiamo che Pietro Martire, originario di Angera, si era recato in Spagna al seguito del conte di Tendilla, partendo da Roma nel 1487, dopo aver goduto nella capitale del papato di grande stima per la sua cultura, da parte di personaggi di rilievo, come il futuro Nunzio in Spagna, Bartolomeo Scandiano, il futuro vescovo di Pamplona e colui che sarebbe divenuto arcivescovo di Braga, i cardinali Ascanio Sforza e Giovanni Arcimboldo, l'umanista Pomponio Leto.

Íñigo López de Mendoza, conte di Tendilla, era allora ambasciatore di Spagna presso il papa e al momento di far ritorno in patria accettò di buon grado che un giovane di tanta cultura lo accompagnasse. Presentatolo a corte, lo portò poi con sé nella campagna contro il regno moro di Granada; dopo la caduta   —20→   della città Pietro Martire lasciò le armi e si fece sacerdote. Della repentina decisione non è possibile attingere le ragioni. Il Celotti ne pare turbato, ritenendo che «A poco più di trentanni, non si lascia la spada per la stola dopo una campagna vittoriosa, e tanto meno la splendida vita di corte, senza una grave ragione»2. Egli scarta l'idea di una «vocazione repentina», poiché si sa di un «certo senso di disagio» provato dal novello sacerdote nei primi mesi della sua nuova condizione, «nello squallido isolamento di Granata»3, e propende per la «delusione amara» dovuta al mancato conseguimento delle «vistose ricompense militari cui riteneva di avere diritto dopo la guerra»4.

Il Lunardi non esclude anch'egli delusioni circa il riconoscimento dei suoi meriti di combattente da parte dei sovrani, e neppure possibili contrarietà d'amore, dato il numero delle dame presenti, con la corte, all'assedio di Granada5. Ciò che gli sembra inammissibile è invece una «improvvisa crisi spirituale», poiché, afferma, nella Spagna dei Re Cattolici il clero godeva di una situazione che non gli impediva «di vivere la vita, agitata, ma comoda, di tutti gli altri, che è, come Pietro Martire confessa, un suo insopprimibile bisogno»6. Lo studioso propende piuttosto per la ricerca di uno «status» di supporto al prestigio personale e di sicurezza economica, per uno che non possedeva titoli nobiliari né accademici7.

Supposizioni tutte senza prova concreta, ma certo plausibile l'ultima, data l'epoca e data la categoria che conferiva alla cultura lo stato ecclesiastico. Non staremo, comunque, a riandare le fasi della vita di Pietro Martire. Esiste un'abbondante bibliografia sul personaggio e ad essa rimandiamo8, poiché il   —21→   nostro discorso si riferisce ad altro, vale a dire all'immagine che di Colombo l'Anghiera riflesse nella sua opera. Divenuto istitutore del principe ereditario, consigliere della regina Isabella, del re Ferdinando, e più tardi del reggente, Cardinale Cisneros, quindi di Carlo V imperatore, quando un altro italiano era pure divenuto influente a corte, il Gran Cancelliere Mercurino da Gattinara9, Pietro Martire fu al centro degli avvenimenti del regno, vale a dire del mondo, dato il rilievo della Spagna quale unica grande potenza del momento.

Storiografo ufficiale, ebbe la possibilità di attingere notizie di prima mano, che utilizzò nelle lettere agli amici potenti e nelle Decades, che indirizzò anch'esse ai suoi potenti protettori e che scrisse spesso a loro richiesta, con un ritmo del quale vi è denuncia da parte dello stesso scrittore nelle sua opera, attestazione implicita della curiosità diffusa intorno agli avvenimenti che riguardavano il nuovo mondo appena scoperto e, negli anni immediati, in via di esplorazione e di conquista. Era una lettura affascinante, certo, che apriva la mente del destinano al meraviglioso, all'esotico sconosciuto. Il merito primo era stato di Colombo e alle sue informazioni e scritti attinge direttamente l'Anghiera, ponendo in rilievo la personale dimestichezza con lo scopritore e i contatti privilegiati che manteneva con il genovese.

Ricorda Juan Gii, nel suo conciso, ma pertinente esame delle Decades10, lo sbrigativo, e per lui ingiustificato, giudizio dato su di esse e sul suo autore da Marcelino Menéndez Pelavo, che qualificò11 le une come una sorta di «reportage» e l'Anghiera come un «reporter» a caccia ovunque di notizie; mentre per il Gii le Decades «están escritas y elaboradas sobre material   —22→   de primerísima mano»12. Fu un'attività intensa di scrittura e di narrazione, che altri ampiamente sfruttarono, non ultimo Lucio Marineo Siculo.

Ma quali furono i reali rapporti tra Pietro Martire e Colombo? È difficile dirlo. Non esistono elementi per ricostruirli, benché alcuni studiosi si siano dedicati all'argomento. Ultimamente il Lu nardi ha affermato che i rapporti tra i due erano «stretti, improntati a grande amicizia, nata proprio negli anni precedenti la partenza per il grande viaggio, come afferma più volte Pietro Martire»13. La scarsità delle menzioni di Colombo nei suoi scritti si deve, per lo studioso, all'impegno politico di attenuare le possibilità di conflitto tra Castiglia e Portogallo circa le imprese atlantiche14, così come il definirlo «ligure», invece che genovese, doveva rispondere alla necessità di non far apparire troppo la situazione di Colombo come straniero e per di più appartenente a uno stato, Genova, presto in conflitto con la Spagna15.

Le Decades furono scritte in un lungo periodo di tempo, che va dal 1493 al 1525, e in tale periodo videro alcune pubblicazioni parziali non autorizzate, fino all'edizione di Alcalá de Henares del 153016. Infatti, nel 1501 Angelo Trevisan, che era segretario dell'ambasciatore della Serenissima, aveva fatto una riduzione della prima Decade, che fu stampata a Venezia nel 1504 col titolo di Libretto de tutta la navigazione de' re de Spagna de le isole e terreni nuovamente trovati, poi inserita, nel 1507, nell'opera di Fracanzio da Montalboddo, Paesi nuovamente retrovati et Novo Mondo di Alberico Vesputio, fiorentino.

Infine, nel 1508 il testo del Trevisan vide una traduzione latina17.

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Sono le prime tre Decades che Pietro Martire decise, alla fine, di affidare per la stampa all'amico umanista Antonio de Nebrija e che apparvero nel 151618. Nel 1519 l'Anghiera componeva la quarta Decade, che veniva pubblicata nel 1521, a Basilea, col titolo De insulis nuper inventis liber. Sono queste le Decades che ci interessano in questa sede, poiché si riferiscono a Colombo e alle sue imprese. Dalla quarta Decade all'ottava il mondo nuovo incomincia ad essere esplorato da altri e conquistato da Cortés.

Soprattutto interessante è, per noi, la prima Decade, della quale i libri primo e secondo sono dedicati al cardinale Ascanio Sforza, mentre i rimanenti, dal terzo all'ottavo, sono diretti al cardinale Ludovico d'Aragona. La seconda Decade tratta delle imprese di Alonso de Hojeda, di Diego de Nicuesa, di Vasco Núñez de Balboa e di Pedrarias Davila, quindi non interessa il nostro argomento, mentre nella terza Decade, se i libri dal primo al terzo trattano di Balboa e della scoperta del Mar del Sur, il quarto libro si riferisce al quarto viaggio di Colombo; col libro quinto l'Anghiera ritorna a riferire delle imprese di Pedrarias Davila e di Caboto, tratta del Darién e delle Antille.

Non trascuriamo, ad ogni modo le lettere. La recente edizione degli scritti di Pietro Martire relativi alla scoperta del Nuovo Mondo nell'ambito della «Nuova Raccolta Colombiana» ci offre abbondante materiale. Tali lettere hanno, all'inizio, il sapore della notizia fresca intorno alla grande scoperta. In data 14 maggio 1493, da Barcellona, l'Anghiera scrive al conte Giovanni Borromeo, cavaliere dello Sperone d'oro, circa l'attentato al re Ferdinando, al quale il sovrano era scampato, protestando la bontà dei suoi re, che non hanno «mai recato offesa a nessuno dei viventi, se non a Giudei e Saraceni. Anzi essi sono assai giusti, integerrimi, molto religiosi, governanti, non tiranni»19, e all'improvviso riferisce del ritorno di Colombo, lasciando   —24→   trasparire un velato rimprovero verso chi non gli aveva creduto e gli aveva alla fine proporzionato miseri mezzi:

«Da pochi giorni è tornato dagli antipodi occidentali un tale Cristoforo Colombo, un ligure che dai miei Re aveva a stento ottenuto tre imbarcazioni per questa missione, poiché ritenevano fantasiose le cose che diceva; è tornato, ha portato testimonianze di molte cose preziose, ma soprattutto di oro, che quelle regioni producono spontaneamente».20



Non pare di andare errati se si sottolinea nel testo citato un trasparente orgoglio, se non di compatriota, comunque di originario della stessa entità geografica, l'Italia. Benché quell'espressione «un tale Cristoforo Colombo, un ligure», appaia stonata e sembri dare poca considerazione al Navigatore. E tuttavia ben diverso suona il testo latino:

«Post paucos inde dies, rediit ab antipodibus occiduis Christophorus quidam Colonus, vir ligur, qui a meis Regibus ad hanc provinciam tria vix impetraverat navigia, quia fabulosa quae dicebat arbitrabantur; rediit, preciosarum multarum rerum, sed auri praecipue, que suapte natura regiones illae generant, argumenta tulit».21



Nel medesimo anno, a pochi mesi di distanza, Pietro Martire scrive al conte di Tendilla e all'arcivescovo di Granada, Hernando de Talavera, richiamando la loro attenzione sul grande evento, proponendo un dinamico riassunto dell'impresa di Colombo e dei suoi ritrovamenti. Nel testo latino l'«incipit» dell'epistola è aulico e di grande efficacia: «Attolite mentem sapientissimi duo senescentes, audite novum inventum!»22. Quindi è il richiamo agli antecedenti dell'impresa, al momento in cui «il ligure Colombo faceva pressioni nell'accampamento presso i Re a proposito del viaggio nel nuovo emisfero attraverso gli antipodi occidentali»23; e all'appoggio dato dai due personaggi: «non   —25→   senza il vostro appoggio, come penso, questi si è accinto all'impresa»24.

E tuttavia occorre che agli altolocati signori l'Anghiera rinfreschi la memoria, quasi con impazienza, e quindi con diretta partecipazione per l'audace navigatore e scopritore. Segue la rapida, ma efficace, relazione, che certamente deve tutto alle informazioni dirette di Colombo e al Diario di bordo. Sembra di cogliere un senso di liberazione, di gioia, nell'affermazione che dalla sua avventura Colombo è tornato incolume, e quasi un personale trionfo nel racconto delle strabilianti notizie relative alle terre scoperte e a quanto lo scopritore ha portato in Spagna, anche se l'Anghiera si mostra prudente e sottolinea che egli riferisce quanto Colombo «va dicendo»:

«Egli è tornato sano e salvo; va dicendo di aver trovato cose meravigliose, mostra come prova l'oro delle miniere che si trovano in quelle regioni, ha portato cotone, spezie di forma sia allungata, sia rotonda, di odore più penetrante del pepe nero del Caucaso, prodotti che la terra produce spontaneamente, insieme anche ad alberi di colore scarlatto. [...] Ha trovato uomini contenti del loro stato naturale, nudi, che si nutrono di cibi del luogo e di pane di radici ricavato da arbusti alti una spanna, pieni di internodi che essi coprono di terra al tempo opportuno; da ognuno dei loro internodi, uno per uno i rigonfiamenti cominciano a ingrossare come una pera o una zucca. Colgono questi, quando sono maturi, come noi le rape e i rafani, li seccano al sole, li tagliano, li riducono in farina, li pestano, li cuociono, li mangiano. Chiamano queste protuberanze ages; altri frutti raccolti dagli alberi, in massima parte commestibili, sono diversi dai nostri. Nell'isola non nasce nessun quadrupede, tranne enormi lucertole, tuttavia del tutto innocue, e una razza di conigli piccoli, che è simile ai nostri topi. Questa gente ha dei re, alcuni più importanti di altri; combattono tra loro con fionde, canne bruciate e appuntite, e con archi. E vivo tra loro, sebbene siano nudi, il desiderio del comando; si sposano. Non ha ancora capito che cosa venerino oltre la divinità del cielo».25



Osservazione curiosa, quella relativa alla sete di potere benché nudi. Non v'è dubbio che la dignità della veste era accomunata,   —26→   per l'Anghiera, e non solo per lui, all'idea di comando. La lettera termina ricordando l'esiguità del naviglio dato a Colombo, tre imbarcazioni, e Pietro Martire sottolinea che con meno ancora è ritornato, le due più piccole, dopo aver lasciato sull'isola trentotto uomini perché «esplorino la natura dei luoghi», affidati al «capotribù» del posto, Guaccanarillo, e puntualizza, «anche lui nudo»26. La cosa promette ulteriori sviluppi. Come un racconto a «suspense» chiude l'Anghiera: «Si prepara una flotta più grande; ritornerà. Saprete, grazie a me, se vivrò, che cosa succederà. State bene!»27.

Nella sua concisione, il racconto è completo e non manca di interesse. La peripezia del viaggio colombiano appare invece sfuocata, se non del tutto ignorata, ma in data 13 settembre dello stesso 1493, da Barcellona, Pietro Martire scrive al cardinale Ascanio Sforza Visconti, proprio intrattenendosi sul viaggio di navigazione di Colombo, che, con le tre navi dategli dai Re «è giunto agli antipodi distanti più di 5.000 miglia»28. Egli pone l'accento ora sull'ardire del navigatore e della sua gente: «Per trentatré giorni di seguito, pago soltanto di acqua e cielo, navigano»29. Ai primi di novembre del medesimo anno, scrive allo stesso destinatario che Colombo, nominato dai Re «capo del mare Indiano», ossia almirante, è stato «rimandato con una flotta di diciotto navi e con mille uomini armati e con operai di ogni sorta, per fondare una nuova città e porta con sé animali e semenze d'ogni genere»30. Il sapore dell'attualità permane intatto nella lettera e affascina il lettore, che assiste attivamente allo svolgersi della grande avventura.

Il 31 gennaio 1494, all'arcivescovo di Granada, Pietro Martire dà informazione della nomina di Colombo ad «Ammiraglio del mare oceano» e qualifica la sua impresa «gloriosa», tanto che i Re lo onorano facendolo sedere alla loro presenza31. Ma il 20 ottobre 1494 l'Anghiera scrive una lunga lettera a Giovanni   —27→   Borromeo, richiamando le sue caratteristiche nobiliari e d'italiano: «aureato equiti, civi Mediolanensi, corniti lacus Verbani»32. Sembra di poter cogliere un rigurgito di orgoglio in questa sottolineatura di nazionalità, se proprio del ligure Colombo gli dà informazione, grazie al quale gli antipodi sono stati scoperti, e se «grazie a quel ligure Colombo», come afferma, «Di giorno in giorno, notizie sempre più straordinarie sono riportate dal nuovo mondo»33.

Sono «fatti straordinari»34 e si capisce l'entusiasmo con cui l'Anghiera ne informa i suoi altolocati interlocutori. Se in una lunga lettera all'amico Pomponio Leto, del primo dicembre 1494, si lamenta per la situazione dell'Italia, «come patria in rovina»35, una sorta di conforto egli doveva trarre dalle nuove imprese di Colombo, ora tornato con dodici delle diciotto navi con cui era partito per il secondo viaggio e con nuove e sempre più affascinanti notizie, che comunica con entusiasmo, insistendo sul meraviglioso, senza tralasciare qualche motivo terrificante:

«Quelli che tornano indietro da quel mondo, finora nascosto, riferiscono che quella terra produce spontaneamente grandi boschi di colore scarlatto, cotone e molte altre cose che sono preziose presso di noi, ma, oltre al resto, una notevole quantità d'oro. Oh meraviglia, o Pomponio! Sulla superficie terrestre trovano pepite d'oro grezzo, allo stato naturale, di un peso così grande che si ha ritegno ad ammetterlo. Ne hanno trovato alcune di 250 once, sperano di trovarne di molto più grandi, come gli indigeni fanno capire ai nostri con cenni, poiché hanno capito che i nostri apprezzano molto l'oro. Stai attento a non dubitare che fossero Lestrigoni o Polifemi che si nutrivano di carne umana, e bada che per l'orrore non ti si rizzino i peli! Quando dalle isole Fortunate (che alcuni vogliono chiamare Canarie) si va verso Hispaniola (chiamano infatti quest'isola in cui si stabiliscono, con questo nome), se volgono un po' le prue verso mezzogiorno, ci si imbatte in numerose isole di uomini selvaggi che chiamano Cannibali o Caribi. Costoro, sebbene nudi sono degli eccellenti guerrieri, sono abili soprattutto con l'arco e la clava, hanno   —28→   imbarcazioni di un solo tronco, molto capaci (le chiamano canoe) con cui traghettano, a gruppi, alle isole vicine, abitate da uomini di indole mite. Assaltano i villaggi degli indigeni e mangiano gli uomini giovani, che catturano, evirano i fanciulli, come noi i polli, dopo averli fatti crescere e ingrassare, li sgozzano e poi li mangiano [...]»36



Anche il terrificante fa parte della meraviglia. Pietro Martire non lesina notizie anche su questo aspetto: appartengono al meraviglioso sconvolgente. Riferisce, quindi, della terribile esperienza degli scopritori:

«Una prova per i nostri fu questa: poiché quando si avvicinarono le navi, spaventati dalla loro insolita grandezza, i Cannibali abbandonarono le case e si rifugiarono nelle montagne e nelle fitte boscaglie, i nostri, entrati nelle case dei Cannibali, che hanno di forma rotonda, costruite con travi ritte, trovarono cosce di uomini macerate con il sale, appese alle travi, come noi siamo soliti fare con la carne suina, e il capo di un giovane ucciso da poco ancora bagnato di sangue, e parti di quel giovane da cuocere in pentole, miste a carne d'oca e di pappagallo, e altri pezzi posti vicino al fuoco, da arrostire con spiedi [...]»37



È certamente un motivo d'orrore e Colombo, implicitamente, è colui che è deputato a far cessare il barbaro costume, quindi uomo di merito. Ma che dire di quello spagnolo che, anni dopo, nel Perù, secondo racconta Cieza de León, riservava lo stesso trattamento agli indios che gli erano morti, e «los tenía en la percha para dar de comer a sus perros?»38

Pomponio Leto39 è destinatario di lettere numerose su Colombo e le sue imprese. Pietro Martire trova in lui un interlocutore curioso, assetato di notizie sul mondo nuovo, e con piacere lo mantiene al corrente, informandolo dell'uccisione dei compagni lasciati dallo scopritore al forte di Navidad e trovati tutti trucidati, dell'inganno di Guaccanarillo che accusava Caunaboa   —29→   «re dei monti», di aver ucciso gli spagnoli, della fondazione de La Isabela, delle prime seminagioni e dei primi allevamenti di bestiame40.

E ancora, in data 10 gennaio 1495, l'Anghiera dà all'insaziabile amico nuove informazioni, sulla posizione delle nuove terre, la produttività, la ricchezza mineraria, le variazioni atmosferiche, la natura gigantesca e lussureggiante, la rapidità di maturazione dei prodotti della terra, la nudità degli abitanti, la struttura delle abitazioni, gli oggetti e i tessuti.

Era naturale che su tale argomento il privilegio di Pomponio Leto di esserne informato suscitasse gelosie, o desiderio di uguale trattamento. A questo sembra rispondere la lunga lettera del 9 agosto 1495 al cardinale Bernardino de Carvajal. Pietro Martire lo informa che Colombo è arrivato all'isola di Cuba, come la chiamano gli abitanti, ed ha preso possesso della sua parte meridionale. La notizia è diretta; scrive l'Anghiera: lo stesso Colombo «mi ha scritto di aver navigato verso occidente in continuazione, per settanta giorni effettivi, lungo le coste di quella terra»41, confermando così il canale privilegiato delle sue notizie. Egli non è alieno dal credere ali affermazione di Colombo di aver raggiunto le Indie, poiché ciò non contraddice l'autorità né di Aristotele, né di Seneca42.La nuova regione raggiunta è abbondante di isole e di fiumi, «alcuni freddi, altri caldissimi, i più di acqua dolce, altri di sapore diverso», di pesci, di conchiglie, di tartarughe marine, di mari torbidi e di altri paludosi43; Colombo è convinto di aver scoperto un continente: la terra si presenta assai estesa popolata di grandi animali, viste le tracce che trovava chi sbarcava, «mentre a chi stava in mare, orrendi muggiti, uditi di notte, indicavano che era una grande regione»44.

Tutte cose esaltanti. Colombo diviene quindi, ormai, da «un tale», «un ligure», «Il nostro Ammiraglio Colombo», in una nuova lettera al cardinale, del 5 ottobre 149645. Le notizie di   —30→   Pietro Martire si riferiscono alla terra di Paria ed egli sposa pienamente la tesi del Genovese: «Fu per i nostri una prova significativa che quella terra fosse un continente, il fatto che qua e là i loro boschi sono pieni di animali nostrani come cervi, cinghiali e altri animali del genere e, tra gli uccelli oche anatre, pavoni, ma non di molti colori»46. Parla anche degli abitanti, dei loro usi e costumi, ma avverte che maggiori notizie sono consegnate in altro luogo: «Queste notizie sono esposte più ampiamente in quei libri che scrivo solo a proposito di queste scoperte»47, vale a dire le Decadi.

Pietro Martire non era certo sordo agli echi anche delle scoperte portoghesi, come possiamo osservare dall'ampia relazione a Pomponio Leto, in due lettere, del primo settembre 1497 e del 7 novembre del medesimo anno, quando i portoghesi, definiti «saggi scopritori di grandissimi lidi a mezzogiorno»48, hanno ormai raggiunto Calicut. Anche in questo settore l'Anghiera ha il privilegio di canali riservati d'informazione; lo spiega all'amico nella lettera, appunto, del 7 novembre: «O mio Pomponio, indago su questi fatti con molta attenzione e precisione e non mi manca sufficiente possibilità di sviscerarne i vantaggi, giacché sono amico di famiglia di quell'ambasciatore portoghese che è di stanza qui e spesso vengono non pochi di questi che navigano in quelle zone»49.

Il nuovo mondo attira sempre la curiosità dei personaggi con i quali Pietro Martire è in relazione, ma dall'epistolario si coglie che ora ciò che più interessa non è tanto la novità dei luoghi, quanto la singolarità dei costumi e delle credenze degli indigeni. Su questa materia si diffonde, infatti, l'Anghiera, illustrando le credenze sull'origine dell'uomo50, sui fantocci Zemi che gli indigeni adorano51 -segno che il Dr. Chanca   —31→   aveva diffuso le sue notizie52, recepite, comunque, con molta confusione-, dando anche particolari curiosi, come quelli relativi alla «piccola zucca come un calzoncino, con cui gli indios racchiudono il membro e i genitali», mentre «Alcuni invece, quando il membro è abbassato, legano il prepuzio con una cordicella, che sciolgono solo per orinare o per accoppiarsi; altri, infine, portano delle fasce di cotone puro»53.

Colombo è ormai un ricordo lontano. Pietro Martire non manca di menzionarlo ancora, ma l'interesse va solo alle nuove terre. In data 18 dicembre 1513 scriverà al figlio del «suo» conte di Tendilla, don Luis Hurtado de Mendoza: «Si scoprono di giorno in giorno cose più grandi, finora nascoste»54. E ancora parla delle nuove spedizioni, dell'oro, delle perle, della varietà delle lingue, di animali e di uccelli, di fiumi e di pesci, delle «mille e poi mille province "elisie"», degli alberi perennemente coperti di fronde e dei prati in fiore, di monti dalle nevi perenni e del calore equatoriale, dell'infelice destino di Hojeda, di Juan de La Cosa e di Nicuesa, promettendo: «Un giorno pubblicheremo dei libri particolari su queste scoperte che, a mio giudizio, sono più importanti e straordinarie di quelle che sono state descritte dagli antichi cosmografi»55.

Le lettere successive seguiranno sempre con attenzione le navigazioni, le scoperte e le conquiste americane, quella realizzata da Cortés. Ma per la figura di Colombo occorre tornare alle Decades de Orbe Novo, soprattutto alla prima, dove la spedizione colombiana ha parte rilevante.

L'avvio del primo libro, che funge da preambolo, farebbe pensare a una celebrazione di Colombo, autore della straordinaria impresa, ma il cortigiano ha il sopravvento, o meglio lo ha l'accortezza del politico, il quale sa bene come sono i potenti, anche i «suoi» re, come sempre li chiama, e quindi li accomuna nell'esaltazione:

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«Gli antichi, grati, solevano considerare dèi, uomini per la cui operosità e grandezza d'animo venivano scoperte terre ignote ai loro antenati: noi invece, che abbiamo un unico Dio, in tre Persone, da adorare, se non possiamo venerarli, possiamo tuttavia ammirare tali uomini. Su, dunque, mostriamo rispetto per i Re, sotto la cui guida e auspici fu concesso a quelli di portare a compimento i loro disegni, esaltiamoli anche entrambi e magnifìchiamoli a buon diritto, secondo le nostre capacità».56



La certezza e l'ostinazione del Genovese sono subito poste in rilievo, in queste pagine, dedicate, come s'è detto, al cardinale Ascanio Sforza Visconti, nell'insistenza con cui chiede ai sovrani i mezzi per l'impresa, così come prospetta i due motivi guida di essa: la diffusione della fede e la convenienza economica. È qui che prende corpo la versione dell'apporto regio alla spedizione. Senza distinguere tra i sovrani, l'Anghiera scrive: «Per le sue insistenze, gli furono destinate tre navi dalle casse del Re»57. Per questo motivo la gratitudine a chi, finanziandola, ha permesso la realizzazione della scoperta. L'ardimento del Navigatore è implicito nella frase che già l'Anghiera aveva usato nella lettera allo stesso destinatario in data 13 settembre 1493: «navigò per trentatré giorni di fila, appagandosi soltanto della vista del mare e del cielo»58, o, come recita l'originale latino, «tres et triginta continuos dies coelo tantum et aqua contentus, navigavit»59.

Ma, nonostante tutto, Colombo sembra qui un personaggio secondario. Pietro Martire parla con entusiasmo delle isole toccate nel primo viaggio, delle novità del paesaggio e degli abitanti, della loro bontà -portano in salvo gli uomini della nave, la cui chiglia si è spaccata su uno scoglio, «come presso di noi i parenti non soccorrono i parenti spinti da una generosità certo più grande»60-, implicitamente ci presenta un Colombo d'animo sensibile al canto degli uccelli, ed è una nota di intensa poesia la frase: «Mentre costeggiavano alcune di esse   —33→   -isole-, udirono cantare nel mese di novembre, tra folti boschi, l'usignolo»61. Il Diario di Colombo lascia visibile la sua orma.

Benché l'Anghiera, come si è detto, sembri non dare soverchia importanza al navigatore genovese, tuttavia ne pone in rilievo la costanza e anche la furbizia nella vicenda, allorché i suoi uomini gli si rivoltano contro e vorrebbero tornare indietro spaventati da un oceano che non conoscono e dove non compare terra, ma anche, con la religiosità, la tentazione della fantasia, non sostenuta dalla scienza. Così, quando riferisce che Colombo racconta di aver trovato l'isola di Ophir, chiarisce: «ma, considerati attentamente gli insegnamenti dei cosmografi, quelle sono le isole Antille e altre adiacenti»62.

Del racconto di Colombo tutto viene seguito, con abbondanza di particolari, soprattutto riguardo ai cannibali, argomento che doveva avere fatto gran presa sulla fantasia europea, con il dettaglio che «È proibito e vergognoso presso di loro mangiare le donne, ma se ne prendono giovani, le curano e custodiscono per la prole, non diversamente da come curiamo e custodiamo galline, pecore, giovenche e altri animali»63. Più di questo doveva entusiasmare l'Anghiera, la bellezza cromatica dei pappagalli: «hanno infatti le ali multicolori, hanno alcune penne azzurre e rosse miste a penne verdi e gialle e questa varietà produce diletto»64. Che poi sembra a Pietro Martire una prova per poter identificare nelle nuove terre le Indie. E poi c'è l'autorità degli antichi: Aristotele e Seneca. Le stesse cose consegnate nella corrispondenza dell'Anghiera e che egli riprende e ricopia nelle sue Decadi. Per cui, per quanto più estesa e organica la trattazione, non vi sono novità di rilievo nelle relazioni. Pietro Martire pone insistentemente l'accento sui riconoscimenti, sui titoli e gli onori concessi allo Scopritore dai Re, i cui pensieri, anche quando dormono -incredibile! -, «sono tutti rivolti al diffondersi della nostra religione»65. Perciò essi restano commossi e

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«Trattano Colombo, al suo ritorno, con onore, come meritava per tali imprese; lo hanno fatto sedere davanti a loro pubblicamente, gesto che è segno importantissimo presso i Re spagnoli, di amore, di gratitudine e supremo ossequio. Poi comandano che Colombo venga nominato Ammiraglio. Questi presso gli spagnoli è chiamato Almirante Colón. Inoltre hanno fregiato del titolo di Prefetto di Hispaniola, suo fratello Bartolomeo Colombo, anche lui esperto di mare (chiamano comunemente questa carica adelantado)».66



Felicità generale, quindi. Colombo può essere soddisfatto.

I preparativi per il secondo viaggio fervono, sotto gli auspici dei «due santissimi Consorti»67, i Re Cattolici, spinti, lo dichiara apertamente Pietro Martire, dal desiderio di estendere la fede e dai vantaggi economici che sperano di ottenere dalle terre scoperte.

La spedizione recherà prodotti, sementi, rampolli di alberi, di viti, animali, attrezzi vari, una gran quantità di gente, anche personaggi vicini ai sovrani: «Parecchi, fra i fedeli clienti del Re, spontaneamente, spinti dal desiderio di conoscere nuove cose e dall'autorevolezza dell'Ammiraglio hanno affrontato questa navigazione. Con vento favorevole, il 25 settembre 1493 d. C., è salpato da Cadice [...]»68 e toccata nelle isole Fortunate quella più lontana, Hierro, dove «non c'è altra acqua potabile, se non quella che proviene dalla rugiada che stilla continuamente da un unico albero, sulla cima più alta dell'isola e cade in una conca fabbricata dall'uomo»69, riparte poi: «Ab ac insula, vela in altum oceanum tertio Idus eiusdem coepit protendere»70.

Come si vede, ormai Colombo non è più un quasi anonimo postulante, ma un personaggio autorevole, di cui ci si può fidare. Una certa atmosfera favolosa sembra circondarlo. L'Angoliera sembra fiero del suo eroe. Sottolinea, intanto, la freschezza delle notizie e promette una compiuta informazione:   —35→   «Queste notizie ci sono state riferite a pochi giorni dalla sua partenza. Saprai qualunque cosa accada. Sta bene, vivi felice!»71.

Il secondo libro della prima Decade, diretto sempre allo stesso destinatario, il cardinale Ascanio Sforza Visconti, vicecancelliere, dalla corte di Spagna, in data 24 aprile 1494, è particolarmente prezioso, in quanto del secondo viaggio non ci è pervenuta relazione da parte dell'Ammiraglio, se non il Memorial che dalla città della Isabela egli consegna il 30 gennaio 1494 ad Antonio Torres per i sovrani72, e la singolare narrazione di Michele da Cuneo all'amico Gerolamo Annari73.

Temistocle Celotti rileva che l'Anghiera, in questo libro delle Decadi, segue, appunto, il Memorial citato, si avvale della testimonianza dello stesso Torres e di altri capitani e marinai74. Il racconto è, infatti, assai ricco di notizie sulle isole antillane e sugli avvenimenti ivi verificatisi, ma la figura di Colombo è come in disparte, sembra stare dietro le quinte, poiché ciò che più interessa l'Anghiera, e certamente il suo lettore, è la natura, sono i costumi, è la diversità del mondo nuovo, sono le avventure occorse agli spagnoli, dopo il ritrovamento del forte di Navidad privo degli uomini lasciativi a presidio, tutti trucidati dagli indigeni.

Le poche volte che Colombo viene chiamato in primo piano, fuggevolmente, è per sottolineare la sua furbizia verso gli indigeni, la giustificata ansia di rivedere i compagni lasciati nel forte, la politica abile nei confronti di Guaccanarillo, la sincerità con cui sembra stringere relazioni di amicizia con i cacicchi, o re, locali, fino alla fondazione della Isabela. Ciò che domina è, comunque, la novità, della natura e degli uomini. Il libro di Pietro Martire emula positivamente, per fascino descrittivo, il Diario del primo viaggio steso dall'Ammiraglio. Vi vengono descritte le meraviglie della Galana, i cannibali della Guadalupa, i costumi delle donne di Matinino, la bellezza di Burichéna,   —36→   oggi Porto Rico, le vicende dell'Española, isola divisa in tanti piccoli regni, dominata da capi ambiziosi. E qui Pietro Martire fa una paragone con la situazione trovata da Enea nel Lazio al suo arrivo, per sottolineare come, a differenza dei latini, gli indigeni dell'Española abbiano un rimedio sicuro a portata di mano per vivere tranquilli, con l'arrivo degli spagnoli, la conversione:

«Ma io sento che i nostri indigeni di Hispaniola sono più felici di quelli -i latini-, a patto he abbraccino la religione, perché nudi, senza pesi, senza misure, senza infine il denaro cbe porta la morte, vivendo nell'età dell'oro, senza leggi, senza giudici fraudolenti, senza libri, paghi del loro stato naturale, trascorrono la vita, non preoccupandosi affatto per il futuro. Tuttavia anche costoro sono tormentati dall'ambizione per il comando e si consumano a vicenda con guerre; pensiamo che neppure l'età dell'oro sia vissuta ifnmune da questa rovina, anzi anche in quell'età dominò tra gli uomini il cede non cedam».75



Il libro terzo della prima Decade, dedicato al cardinale Ludovico d'Aragona, da Granada il 23 aprile 1500, tratta essenzialmente della natura che Colombo trovò nell'Española e nella vicina isola di Cuba, cui fu dato il nome dapprima di Juana, ma anche nella Giamaica. Colombo è sempre più nell'ombra, anche se compare tratto tratto come responsabile della spedizione, e direttamente, ad esempio, quando, durante le funzioni sacre, celebrate all'aperto, naturalmente, viene avvicinato da un vecchio che gli tiene un discorso filosofico sul destino delle anime e sulle ricompense assegnate nell'aldilà alle opere:

«Ci è stato riferito che tu hai percorso tutte codeste terre, prima a te sconosciute, con grandi forze e che hai suscitato nelle popolazioni indigene notevole paura, perciò ti esorto e ammonisco perché tu sappia che le anime, quando escono dal corpo, hanno due vie, una tetra e tenebrosa, preparata per questi che sono molesti e nocivi al genere umano, l'altra piacevole e amabile, destinata a quelli che in vita amarono la pace e la tranquillità degli uomini. Se dunque ti   —37→   ricorderai di essere mortale e che a ciascuno le ricompense future saranno assegnate in base alle opere presenti, non farai danno a nessuno».76



Superata la prima sorpresa di udire concetti così ammirevoli e cristiani da un indigeno, Colombo sottolinea al buon vecchio che la sua è una missione di pace e quindi lo stupisce illustrandogli la grandezza e la potenza dei suoi re, provocando in lui il desiderio di seguirlo, sebbene avanti negli anni, cosa che avrebbe fatto se la moglie e i figli non glielo avessero impedito, lasciandolo ad ogni modo nel dubbio «se quella terra che generava tali e così grandi uomini fosse il cielo»77.

Episodio certamente edificante quanto trasparentemente falso, un abile uso dell'exemplum filosofico che rimanda, come ha sottolineato la Mildonian, non solo all'autorità di Cicerone, ma che «attualizza ai suoi fini politici il noto discorso socratico sul destino delle anime dopo la morte»78.

Conveniva, certamente, all'uomo di corte esaltare i sovrani, ottenendo, nello stesso tempo, di sottolineare i buoni propositi di Colombo e della sua azione. E fuor di dubbio che Pietro Martire si era ormai affezionato al suo personaggio, dai cui originali, come denuncia in apertura di libro, traeva le notizie, «tanto rapidamente quanto il tuo amanuense, che scriveva sotto mia dettatura, poteva scrivere»79. Tante cose e cosi dettagliate l'Anghiera non poteva essersele inventate e corrispondono, del resto, a quanto Colombo, attraverso il Las Casas ci ha trasmesso, e a quanto Fernando Colombo pure scrive.

Il libro quarto, diretto al medesimo destinatario, prende l'avvio dalla decisione di Colombo di venire a discolparsi presso i sovrani, in seguito alle «intenzioni malvage»80 dei suoi nemici, tra essi frate Boyl e Pedro Margarit, «amico da vecchia data del Re»81, quindi assai pericoloso. Ma l'Anghiera fa subito un   —38→   gran passo indietro, per narrare quanto l'Ammiraglio ha fatto prima di prendere questa decisione, vale a dire come si comportò nell'Española.

Ciò che a noi interessa, comunque, è l'atteggiamento di Pietro Martire di fronte all'accusato Colombo. Egli sposa subito, in modo trasparente, l'accusa del Navigatore agli spagnoli, che cioè «erano stati più dediti al sonno e all'ozio che alle fatiche, più desiderosi di ribellioni e di novità che di pace o tranquillità»82, giustificando già in partenza la sua azione. Le lamentele circa i suoi ordini «crudeli e ingiusti» portarono a «inventare» molte accuse contro di lui83. L'Anghiera fa di Colombo il difensore degli indigeni dai soprusi degli spagnoli, che distruggono vite e ricchezze. Un atteggiamento interessante e apertamente critico nei confronti dell'azione non di Colombo, ma dei suoi compagni malvagi. Lo scopritore appare qui preoccupato della difesa dell'indigeno:

«Poiché dunque l'Ammiraglio vedeva gli indigeni preoccupati e con l'animo sconvolto, e non poteva trattenere i nostri dal fare violenza e rapine finché si trovavano tra quelli, dopo aver convocato parecchi fra i capi delle regioni confinanti, furono d'accordo che l'Ammiraglio non permettesse ai suoi di aggirarsi per l'isola; infatti col pretesto di cercare l'oro e altri prodotti locali, non lasciavano nulla intatto e incontaminato».84



Le terribili denunce del padre Las Casas hanno qui una ben anteriore conferma. Pietro Martire dà risalto alle condizioni tremende cui erano ormai ridotti gli abitanti dell'isola, per colpa degli spagnoli: «avevano forze del corpo a stento sufficienti per cercarsi da vivere nei boschi, dal momento che per lungo tempo si erano dovuti accontentare delle radici delle erbe e dei frutti degli alberti selvatici»85. Una condanna piena, ma che non impedisce all'Anghiera di porre in rilievo anche la poca affidabilità di capi come Caunaboa e il fratello, contro cui agisce da prode Alonso de Hojeda. Viene poi l'uragano,   —39→   he distrugge le imbarcazioni di Colombo, il quale fa costruire mmediatamente altre due caravelle e, lasciato come Adelantado il fratello Bartolomeo, che aveva intanto trovato miniere d'oro, per le quali l'Ammiraglio pensa a quelle del re Salomone, parte per la Spagna.

Gli avvenimenti dell'Española, in assenza di Cristoforo Colombo, sono narrati nel libro quinto. La condotta di Bartolomeo appare irreprensibile, se stiamo allo scritto di Pietro Martire. Egli si comporta con evidente saggezza, in condizioni che si fanno di giorno in giorno più difficili, privo com'è di rifornimenti e con il diffondersi delle malattie, che fanno, solo alla Isabela, 300 morti. Fonda Santo Domingo, affronta Guarionex e i capi indigeni, alcuni dei quali tortura, ma poi rimette tutti in libertà; stupisce Anacaona e il fratello con una passeggiata sulla nave, ma deve contare anche, tra le cose negative, sulla rivolta di Roldán Jiménez, «uomo scellerato»86, che nutriva odio per lui e contro il quale, al momento, non può nulla.

Pietro Martire nel racconto dei fatti è chiaramente dalla parte dei Colombo, se insiste sulle responsabilità di Roldan Jiménez e sulle azioni riprovevoli di lui e dei suoi, tanto da costringere Guarionex a cercare la protezione e l'aiuto di Maiobanex, re dei monti, e della sua gente bellicosa, discendente, sembra, dai Cannibali. Il capo indigeno gli «riferì di essere stato trattato vergognosamente, scelleratamente, violentemente dai nostri; si rammarica che né l'atteggiamento servile, né la superbia, gli giovarono a nulla presso i nostri»87; perciò chiede rifugio e difesa. Intanto Roldan e i suoi, «senza freni cominciarono a violentare, a predare, a trucidare»88. Il risultato sono le sanguinose incursioni degli indigeni, mentre il «misero» Adelantado attende l'arrivo del fratello.

Una rotta, quella di Colombo, che non punta direttamente sull'Española. Ne riferisce l'Anghiera nel libro sesto, diretto sempre al cardinale Ludovico, resoconto del terzo viaggio colombiano, i cui particolari trae tutti dalle informazioni dell'Ammiraglio, come con frequenza egli stesso denuncia, dai suoi scritti,   —40→   che parafrasa semplicemente, aggiungendovi taluni ragionamenti circa opinioni geografiche e cosmologiche, come già rilevò il Celotti89, tra esse la conformazione a pera della terra90.

Colombo è, comunque, qui, l'uomo delle felici imprese, cui tuttavia la fortuna non è propizia, se del ritrovamento della terra di Paria «un altro -ossia P. Alonso Niño- gli portò via il premio di una così grande scoperta»91. È un concetto che Pietro Martire ribadisce in chiusura di capitolo: ansioso di rivedere i fratelli, il 30 agosto 1498 Colombo si dirige verso l'Española, ma «Come accade, però, per la maggior parte delle cose umane, tra tante cose favorevoli, soavi, liete, la fortuna gettò in mezzo il seme dell'assenzio e la zizzania guastò tutte le sue soddisfazioni»92.

Nel settimo libro della prima Decade Pietro Martire si sofferma sugli avvenimenti e sulla situazione dell'isola, dominata dalla ribellione e dalla violenza di Roldan che, non contento di quanto aveva fatto, non solo non si presentò all'Ammiraglio, «ma cominciò a denigrarlo con accuse offensive e a scrivere ai Re accuse nefande su entrambi i fratelli»93. Le lamentele dei ribelli sono poste in un rilievo del tutto negativo dall'Anghiera, mentre egli condivide le accuse dell'Ammiraglio, il quale definisce i suoi accusatori «tutti scellerati, attaccabrighe, mezzani, ladri, stupratori, rapitori, senza legge, uomini per cui niente era importante, in cui non c'era nessun raziocinio, spergiuri, falsi», e che «condannati nei tribunali o timorosi delle minacce dei giudici per le azioni commesse, erano scomparsi dalla circolazione»94.

L'accumulo di qualità negative è testimonianza diretta della posizione dellAnghiera, che ancora aumenta la dose affermando che

  —41→  

«[...] lì, dediti alla violenza, alle rapine, all'ozio, ai bagordi, al sonno ai piaceri, non risparmiavano nessuno e quelli che erano stati portati per scavare e assolvere al compito di servitori, ora non escono di casa a piedi, neppure per uno stadio: infatti sono portati sospesi dai poveri indigeni attraverso tutta l'isola, come gli edili curuli. Anche per divertimento, perché la mano non si disabitui a spargere sangue, per mettere alla prova la forza delle braccia, estratte le spade, fanno a gara fra loro a tagliare le teste di quegli innocenti con un solo colpo e chi gettava, più velocemente, a terra con un colpo il capo di un infelice, quello era ritenuto più forte e degno di onore tra loro. [...]»95



Spetterà al Padre Las Casas confermare con indignazione simili efferatezze, ma già le denuncia di Pietro Martire e particolarmente dura. Colombo è innocente, naturalmente, come lo sono i suoi fratelli e la parte «buona» degli spagnoli che ubbidiscono al loro comando. Quale credito, dunque si poteva dare alle accuse di esseri così spregevoli, veri e propri assassini. La difesa dell'Ammiraglio è senza riserve da parte dell'Anghiera. Nelle pagine che seguono, nel modo di agire suo e di Bartolomeo contro gli avversari indigeni in rivolta, e sottolineata la moderazione. Perciò, tanto più ingiusta appare la nomina del Bobadilla a commissario straordinario e la sua azione nei confronti dei due frateli Colombo, che «vengono presi, spogliati di tutti i loro beni, vengono condotti via in catene»96, moao di agire che molto dispiace ai sovrani, tanto che, non appena ebbero notizia che erano giunti incatenati a Cadice, «ordinano subito, per mezzo di veloci corrieri, di liberare entrambi e permettono che essi li raggiungano liberi mostrando di aver sopportato di malanimo quell'offesa fatta loro». Come si vede, ne tro Martire sistema le cose per il meglio, sollevando da ogni colpa i Re Cattolici, evitando l'onta di una condotta ingrata e poco onorevole. Quanto al futuro, si rimette al tempo, «giudice assai saggio di tutto»97.

I successivi capitoli della prima Decade non fanno riferimento a Colombo. Solo più tardi, nel 1510, presentando il   —42→   suo scritto al conte di Tendilla, Pietro Martire accenna brevemente all'Ammiraglio, nel frattempo ormai morto, e al suo quarto viaggio. Ma sull'argomento delle sue esplorazioni, delle vicende di questo ultimo viaggio colombiano, che certamente gli stava a cuore raccontare, ritorna compiutamente nella terza Decade, che stende nel 1516 e dedica a papa Leone X, protestando un significativo «fuocherello torturatore dell'animo», che lo esorta a continuare «ancora un po'» la narrazione98. Si tratta di rendere giustizia al merito dello scopritore di Veragua. Scrive l'Anghiera: «Mi sembrerebbe di defraudare l'uomo e di commettere una colpa imperdonabile, se passassi sotto silenzio le fatiche sopportate, le angosce da lui sofferte, i pericoli che affrontò durante quella navigazione»99.

E tuttavia, nonostante il racconto dettagliato della fortunosa avventura, di quanto nuovamente trovato nelle terre scoperte -flora, fauna, umanità, costumi, ricchezze, tra esse l'oro, cui sembra che solamente prestino attenzione gli spagnoli: «Stanno attenti soltanto all'oro, cercano l'oro»100, accusa implicita, che a noi ricorda la dura denuncia di Guamán Poma de Ayala101-, non vi sono nello scritto di Pietro Martire valutazioni esplicite dell'opera dello scopritore. Al lettore è lasciato di trarre le conclusioni dagli strabilianti particolari della nuova avventura che, seguendo Colombo, l'Anghiera presenta. Egli abbandona il suo eroe a Santo Domingo; degli avvenimenti successivi non dà notizia, né della sua morte. Dell'uomo, evidentemente, lo aveva interessato soprattutto l'incontro con la novità e la meraviglia, e di esse dà notizia. Ma non v'è dubbio che da un'iniziale diffidenza, o forse solo riserva, nei confronti del Navigatore, come è documentato dalle epistole, Pietro Martire diviene presto entusiasta sostenitore dello scopritore, ed è orgoglioso di ricevere da lui direttamente notizia delle sue straordinarie   —43→   imprese, e in cuor suo certamente felice che a compiere tali imprese fosse un uomo della sua terra, del quale oltre all'ingegno apprezzava l'umanità.

La figura che di Colombo esce dall'opera di Pietro Martire d'Anghiera è quella di un personaggio eccezionale, destinato dalla volontà divina a grandi cose per l'umanità, sempre umano e giusto, contro il quale, come sempre accade, si accaniscono l'invidia, l'odio e la sfortuna.





 
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