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Grandezza e decadenza del buon selvaggio nella letteratura ispano-americana

Giuseppe Bellini


Università di Venezia




ArribaAbajo1. Il «selvaggio» dalla scoperta alla conquista

Quando Francisco López de Gómara, dedicando nel 1552 a Carlo V la sua Hispania Victrix, o Historia General de las Indias, dichiarava, con comprensibile entusiasmo, che «La mayor cosa después de la creación del mundo, sacando la encarnación y muerte del que la crió, es el descubrimiento de las Indias; [...]»1, era ben lungi dal sospettare quale sarebbe stata nel tempo la difficile traiettoria del «selvaggio», alla cui negatività egli stesso portava involontariamente un decisivo contributo allorché, sottolineata la «otredad» della fauna e della flora, così si esprimeva:

Empero los hombres son como nosostros, fuera del color; que de otra manera bestias y monstruos serían, y no vernían, como vienen, de Adán. Mas no tienen letras, ni moneda, ni bestias de carga: cosas principalísimas para la policía y vivienda del hombre; que ir desnudos, siendo la tierra caliente y falta de lana y lino, no es novedad. Y como no conoscen al verdadero Dios y Señor, están con grandísimos pecados de idolatría, sacrificios de hombres vivos, comida de carne humana, habla con el diablo, sodomía, muchedumbre de mujeres, y otro así. Aunque todos los indios, que son vuestros subjectos, son ya cristianos por la misericordia y bondad de Dios, y por la vuestra merced y de vuestros padres y abuelos que habéis procurado su conversión y cristiandad. [...]2



Per il Gómara solo la conquista e la conversione alla fede cristiana davano un segno in qualche modo più umano al «selvaggio», giustificando la presenza armata della Spagna in America, nel nome di una provvidenzialità divina legittimatrice3.

Era questa, comunque, una visione del «selvaggio» ben lontana da quella che per primo Colombo aveva dato nel suo Diario. Anche se, come sostiene il Portuondo4, interpretiamo la descrizione colombiana delle terre antillane scoperte e degli abitanti delle isole come inizio delle forme moderne di propaganda commerciale, quando «pondera hiperbólicamente la mercancía que trata de imponer», la visione che Colombo dà del «selvaggio» fissa un «cliché» che permarrà vivo ancora nella visione americanista del sec. XVIII ed entusiasmerà, sulle orme di Rousseau, di Bernardin de Saint-Pierre, di Chateaubriand, l'epoca romantica, imponendosi, alla fine, sulle tesi razziste degli assertori dell'inferiorità, della «bestialità» degli americani, non per confermare le idilliache fantasie della felicità dello «stato di natura», ma per riscattare del «selvaggio» le capacità intellettuali e pratiche, la dignità umana.

Colombo era rimasto incantato, non appena entrato in contatto con gli abitanti dell'isola Guanahani, di fronte ai «muy hermosos cuerpos y muy buenas caras» degli indigeni, alla loro «buena estatura», ai «grandes y buenos gestos», al fatto, insomma, che essi erano «bien hechos»5, ma lo entusiasmava anche la buona disposizione che individuava in loro. Egli non abbandonò mai questa idea dell'indio, né della natura paradisiaca dell'America, e questo fu, precisamente, il «cliché» che si trasmise nel tempo, fino a che la Francia del sec. XVIII lo fece proprio.

Nel mondo spagnolo le cose si svolsero fin da principio con notevoli differenze. La colonizzazione diede presto luogo a conflitti morali e politici. La visione colombiana del «buon selvaggio» fu cancellata da una dura realtà di distruzioni e di schiavitù, nonostante le molteplici disposizioni legali della Corona. È il momento in cui intervengono gli ordini religiosi, che si schierano, contro gli abusi di conquistatori ed «encomenderos», dalla parte delle popolazioni indigene; ma non mancano frati che stanno sul versante opposto. Fra Domingo de Betanzos, benché sul letto di morte facesse ammenda delle proprie idee, sostenne in fatti, davanti all'«Audiencia» di Messico, di essere d'accordo con coloro che consideravano gli «indios» come bestie, perché privi di capacità speculative e di qualità morali. Sulla questione della «bestialità» dei «selvaggi» ha scritto pagine interessanti Giuliano Gliozzi, e a esse rimando6 anche per quanto concerne l'intervento decisivo del Papa, Paolo III, soprattutto con la Bolla Sublimis Deus, e dell'Imperatore, Carlo V, con chiari fini anche di controllo della situazione7, che per il prevaricare degli «Encomenderos» avrebbe potuto sfuggire in breve tempo alle mani dell'autorità spirituale e di quella temporale.

Se Julián Garcés, primo vescovo di Tlaxcala, richiamava l'attenzione del pontefice, nel 1536, intorno alla «falsa dottrina»8, anche il Padre Bartolomé de Las Casas, domenicano, autore della nota Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552), fonte della «leyenda negra», che tanto dolse alla Spagna, si levò contro l'aberrante teoria, scoprendo con dure parole il gioco degli interessati alla denigrazione. Nella Historia de las Indias, che il Las Casas lasciò inedita alla morte, denunciava le malefatte e le intenzioni criminali di personaggi come Francisco de Garay, Juan Ponce de Leon, Pero García de Carrión e altri «vecinos desta Isla y que tenían en la servidumbre muchos indios y habían muerto hartos dellos por sus propias codicias e intereses; [...]»9; per avere più «indios» dal re «así lo entablaron por todo este orbe, conviene a saber, infamar y decir cuantos males podían hacer creíbles de los indios, y por principal, que eran bestias y holgazanes y amaban la ociosidad, y que no se sabían regir, por fingir necesidad que pareciese convenir tenerlos y servirse dellos en aquella infernal servidumbre en que los pusieron, diciendo ponerlos en policía y para los hacer trabajar, y que así Dios y el rey serían dellos servidos. [...][...]»10.

Le «Leyes Nuevas» emanate da Carlo V a Barcellona il 20 novembre 1542 abolivano finalmente le «encomiendas», con effetti in realtà disastrosi sull'economia delle colonie e, come nel Perù, lunghi periodi di guerra civile. Ma l'interesse per l'indio durante la colonizzazione si andava accentuando. È noto che domenicani, francescani e gesuiti furono i preservatoti del tesoto culturale delle civiltà precolombiane. In particolare va menzionata l'opera del francescano Bernardino de Sahagún: nella sua Historia General de las cosas de Nueva España, vasta e profonda enciclopedia dedicata alla cultura dell'area messicana -dapprima scritta in «náhuatl», poi riscritta, dopo la requisizione da parte dell'Autorità religiosa, in castigliano-, rivive la grandezza del mondo indigeno anteriore alla conquista, attraverso un vaglio scientifico rigoroso dei materiali d'informazione. L'opera restituiva, con molte altre la cui citazione sarebbe prolissa, dignità al mondo cosiddetto «selvaggio».

Per l'area peruviana un meticcio, Garcilaso de la Vega, el Inca, anche se con intenti meno scientifici, avrebbe illustrato la cultura degli Incas nella prima parte dei Comentarios Reales (1609), assumendo con orgoglio il proprio passato indigeno, fin dal «Prólogo a los Indios, mestizos y criollos de los Reinos y Provincias del grande e riquísimo Imperio del Pirú»; pur senza potersi esimere, politicamente, dal celebrare la «felicità» della sua gente per essere governata dagli spagnoli ricordiamo che Garcilaso scriveva in Spagna -afferma che essa non fu meno felice «por haber sido poseída y gobernada de sus antiguos príncipes, los Incas peruanos», «Césares en felicidad y fortaleza», se i Re Cattolici furono «monarcas de los más y mejor del orbe»11.

Di fronte ad atteggiamenti come quelli di Las Casas, Sahagún, Garcilaso, cui nell'ambito della poesia epica si aggiunge la celebrazione dello sfortunato valore degli araucani nel poema di Alonso de Ercilla, La Araucana che nel discorso del capo indigeno Colocolo entusiasmerà anche Voltaire, come si deduce dal Saggio sulla poesia epica premesso alla Henriade (1726)-, e il non meno significativo Arauco domado (1596), del «cileno» Pedro de Oña, malgrado il suo asservimento allo spagnolo, ben addietro restano le farneticazioni di un Sepúlveda, teso a giustificare il diritto di guerra dei castigliani, o di un Gonzalo Fernández de Oviedo che nella Historia General y Natural de las Indias, Islas y Tierra Firme del Mar Océano (1535-1549) trovò modo di giustificare l'impero universale di Carlo V come voluto da Dio, per una missione d'ordine in un mondo, come l'indigeno americano, costituito da esseri inferiori, afflitti da vizi e tare d'ogni specie, creature demoniache che sembrava meritorio distruggere. Anche contro questo personaggio si levò Bartolomé de Las Casas, che tuttavia, nel suo zelo indianista, non esitò ad abbandonare al suo destino di schiavitù l'elemento negro d'importazione.

Il Landucci nota12 che dal novero dei «selvaggi» venivano esclusi i peruviani e i messicani, in quanto dai filosofi considerati «eccezioni» rispetto al resto degli abitanti del Nuovo Mondo. Lo stesso Robertson lo ammetterà13. Ma Juan Ginés de Sepúlveda non era andato tanto per il sottile: nel Democrates Secundus, aderendo alla teoria aristotelica della servitù naturale degli «inferiori e più imperfetti» rispetto ai «superiori e più perfetti», degli uomini «servi per natura» e di quelli «per natura signori»14, vedeva un chiaro esempio di questo nella vittoria di Cortes sui messicani, dei quali disprezzava ogni forma civile come inferiore e barbara15. Illuminanti sul tema sono i saggi di Lewis Hanke16, il quale sottolinea il merito del Las Casas nella lotta per la giustizia e la dignità umana, contro il Sepúlveda.

D'altra parte il Gliozzi nota che «La sconfitta, in Spagna, di questa concezione paleo-razzista, non è dovuta al prevalere di uno spirito più "umanitario", ma all'imposizione dello stato assolutista feudale su quelle forze -i conquistadores- che avevano contribuito al processo di accumulazione del capitale in maniera determinante, pur nelle forme violente che sono d'altronde una caratteristica peculiare di tale processo»17. In questo seguendo anche l'ideologia di Marx18.

Per quanto si tenga conto dell'interesse della Corona e della Chiesa, tuttavia, l'opera di uomini come il Las Casas, non sembra riducibile a pura tattica politica. E in questo senso va inteso anche l'apporto successivo, non abbondante sul tema, in America, quietata la polemica, ma che più tardi tornerà a dominare quando in Europa la questione si riapre per gli interventi del De Pauw, del Robertson e del Raynal, nel sec. XVIII, ma anche per le grossolane omissioni dei nostri letterati, come il Bettinelli e il Tiraboschi. Leverà alta la voce, allora, la legione di gesuiti espulsi dalla Spagna e dall'America, stanziatisi in Italia, nello Stato della Chiesa.

Nel fervore del sec. XVIII gli americani finiscono, in gran parte, per assumere orgogliosamente l'eredità india. I gesuiti espulsi dall'America per l'editto di Carlo III, del 1767, giunti in Italia entrano nella «querelle» vigorosamente e con sdegno proclamando una totale adesione al mondo indio-meticcio-creolo, non più dei conquistatori. E se da un lato uno spagnolo, il vescovo Juan de Palafox y Mendoza, già viceré del Messico, nemico acerrimo dei gesuiti, porta un ultimo contributo all'immagine idilliaca del «selvaggio» americano, col suo libro Virtudes del Indio, opera secentesca che può essere considerata continuazione, o ritorno, al «cliché» del «buon selvaggio», dall'altro un cronista cubano, José Martín Félix de Arate proporrà nella sua Llave del Nuevo Mundo -ultimata nel 1761-, in animata descrizione, la bellezza dei campi e delle città dell'isola natale, «antemural de las Indias Occidentales», elogerà gli «insignes hijos» dell'Avana, descriverà feste e costumi, apertamente rivendicando una dignità americana di fronte al mondo ispanico, quindi europeo, che è la stessa che anima gli esilati in Italia.

Solo di sfuggita, e per il tema, menzionerò ancora il drammaturgo messicano Eusebio Vela, autore di un'opera di argomento storico indianista, Apostolado en las Indias y Martirio de un cacique. Nella sua visione dell'indio egli torna al momento della conquista, presentando un Cortés subdolo e traditore, al quale contrappone indios «buoni», sinceramente convertiti alla fede da Fra Martin, il principale dei francescani famosi che, in numero di dodici, furono inviati dalla Spagna per convertire i messicani. Dell'impresa, è noto, resta notizia nel Libro de los Coloquios, manoscritto incompleto scoperto nel 1924 nell'Archivio Segreto del Vaticano, raccolto da Fra Bernardino de Sahagún con la collaborazione di alcuni suoi allievi di Tlatelolco; in esso la memoria del mondo vinto presenta drammaticamente lo scontro tra due concezioni diverse dell'esistenza, quella india in un ultimo tentativo, già senza speranza, di farsi intendere dai vincitori, quella europea incapace di comprendere.

L'opera del Vela è un passo indietro nella evoluzione del concetto del «buon selvaggio», come in fondo lo è quella del Palafox, legata a schemi di bontà-passività. La Francia introdurrà presto il suo pensiero anche nel mondo americano. Le idee dell'illuminismo, degli Enciclopedisti, permeano l'intellettualità che esce dagli schemi coloniali. Viaggi in Europa permetteranno contatti decisivi col pensiero francese, con gli esponenti di esso più qualificati. Valga d'esempio il peruviano Pablo de Olavide, frequentatore di Merivaux, di Marmontel, di Diderot, amico di D'Alembert e di Voltaire, cittadino adottivo della Repubblica francese, poi prigioniero dei giacobini. Non di minor rilievo l'equatoriano Francisco Eugenio de Santa Cruz y Espejo, autore del Nuevo Luciano o Despertador de Ingenios, uno dei propugnatori dell'indipendenza americana.




ArribaAbajo2. I gesuiti e il tema americano

Per l'argomento che ci interessa è forza tornare ai gesuiti americani espulsi, residenti in Italia. Essi hanno del «selvaggio» un'idea totalmente positiva, quella stessa del Padre Las Casas, che egli aveva rafforzato attraverso l'esperienza diretta di metodi pacifici esperimentati, con i confratelli domenicani, nella regione di Veracruz. Del resto da tempo gli ordini religiosi avevano superato i termini assurdi della polemica e si erano venuti comportando secondo quello che il Zavala chiama «metodo apostólico»19, secondo norme di organizzazione comunitaria, le stesse che nel Paraguay diedero vita alle note «Reducciones» gesuitiche, tanto discusse, ma che il nostro Muratori, senza mai aver messo piede in America, celebrava con entusiasmo in Il Cristianesimo felice nelle missioni de' Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (1752), per lo «stato» e la «maniera del vivere», cosa che gli pare «Spettacolo degno de gli occhi del Paradiso»20.

Alle aberranti teorie esposte nelle Recherches philosophiques sur les Américains da Cornelio De Pauw (1768-1769), nella Histoire philosophique et politique des établissements des Européens dans les deux Indes di Guillaume Raynal (1770) e nella History of America di William Robertson (1777) si opporrà anche il nostro Galiani e più tardi, tra il 1780 e il 1785 l'istriano Gian Rinaldo Carli, in Belle lettere americane, rifacendosi particolarmente allinea Garcilaso. Ma sarà questo il motore che avvierà una rigogliosa letteratura gesuitica, apologetica dell'America. Il Padre Batllori individua esattamente 4 gruppi di opere: rivendicatrici della colonizzazione ispano-portoghese in America; apologetiche dell'opera della Compagnia di Gesù; poetiche e scientifiche, esaltanti il paesaggio del nuovo mondo; storiche, etnografiche e linguistiche sull'America in genere e sull'uomo primitivo americano in particolare21. È questo il settore che qui ci interessa, ma non staremo a fare un lungo elenco di autori e di opere22. Mi limiterò a due autori tra i più rilevanti: il Padre Rafael Landivar, guatemalteco, e il Padre Xavier Clavigero, messicano. Il primo è autore della Rusticatio Mexicana, opera poetica in latino, edita a Modena nel 1781, in dieci canti, quindi ristampata a Bologna nel 1782 in quindici canti. La generalità della critica spagnola e ispano-americana ha visto nella Rusticatio il preannuncio dell'atteggiamento con cui la poesia dell'Ottocento, da Heredia a Bello, guarderà alla realtà del continente americano. Pedro Henríquez Ureña sottolinea23 nel poema la rottura col convenzionalismo del Rinascimento e la scoperta delle caratteristiche reali del paesaggio del nuovo mondo, con un'attenzione inedita ai costumi, ai giochi, all'industria dell'abitante americano, verso il quale manifesta profonda comprensione e simpatia. Col paesaggio della nativa Guatemala il Landivar canta, infatti, l'indigeno; Miguel Ángel Asturias ha scritto che il poeta canta la razza, «que en todo sale airosa», afferma «un hecho que siempre ha querido negarse: la superioridad del indio americano como campesino, artífice y obrero»24. Infatti l'indio di Rafael Landívar è ben lontano dal «buon selvaggio» affermato da Colombo, come da quello attestato dai frati; lo distingue la sua dedizione al lavoro, inteso come fattore dignificante dell'uomo, affrontato quindi con gioia. E se la preoccupazione del poeta era la verità -«In hoc autem opusculo nullu erit fictioni locus, [...] Quae vidi refero, quaeque mihi testis oculi, coeteroquin veracissimi, retulere. Praeterea curae mihi fuit oculatorum testium auctoritate subscripta, quae rariora sunt, confirmare»25, -la sua interpretazione del mondo americano non è meno pervasa dalla nostalgia, che dà sfumature più tenere alle cose. Nella difesa dell'operosità india il Landívar interviene direttamente, senza farne menzione, nella polemica allusa. Nel libro IV egli traccia un quadro positivo della laboriosità indigena, non solo, ma dello spirito d'iniziativa. Il «buon selvaggio» è divenuto un «buon lavoratore», un personaggio del tutto moderno, che si inserisce logicamente nello sviluppo del mondo.

Quanto a Xavier Clavigero i quattro volumi della sua Storia antica del Messico, editi a Cesena tra il 1780 e l'81, attestano palesemente la sua intenzione polemica nei confronti soprattutto del De Pauw, al quale contesta con durezza l'asserita inferiorità congenita dell'America, a suo dire popolata da «bruti degenerati». Il gesuita si scaglia contro l'infedeltà delle descrizioni di antichi e moderni circa le «nazioni» messicane, denuncia le passioni, le prevenzioni, la «mancanza di lumi», di riflessione in coloro che dell'America hanno parlato. Contro gli spropositi anti-americanisti afferma che le anime degli Indios «sono radicalmente in tutto simili a quelle degli altri figli d'Adamo e fornite delle medesime facoltà: né mai fecero manco onore alla propria lor ragione gli Europei, che allorché dubitarono della razionalità degli Americani»26.

Contro il De Pauw, il Robertson e il Raynal il Clavigero si scaglia in particolare nelle Dissertazioni a illustrazione della sua Storia, prendendosela anche, ma con maggior rispetto, con il Buffon. Egli considera, appare chiaro, i citati personaggi come nemici propri e si impegna nella confutazione per svergognarli, ricorrendo anche al sarcasmo e al ridicolo. Le argomentazioni degli anti-americanisti circa le degenerazioni fisiche, morali e razionali degli indigeni sono svuotate di ogni credibilità. Il gesuita finalmente afferma, forte della propria esperienza diretta:

Dopo una si gran pratica, ed un si prolisso studio, per lo quale mi credo in stato di poterne decidere con manco pericolo d'errare, protesto al Sig. de Pavv e a tutta l'Europa, che le anime degli Americani non sono punto inferiori a quelle degli Europei: che eglino son capaci di tutte le scienze, anche delle più astratte; e che se seriamente si prendesse cura della loro educazione, se da fanciulli s'allevassero in seminari sotto buoni Maestri, e se fossero protetti e allettati con premi, si vedrebbero tra gli Americani de' Filosofi, de' Matematici, e de' Teologi, che potrebbono gareggiare co' più famosi d'Europa.27



Naturalmente al Clavigero non sfugge la condizione dolente dell'aborigeno; infatti egli commenta: «Ma è assai difficile, per non dire impossibile, far de' gran progressi nelle Scienze in mezzo ad una vita miserabile e servile, ed a continui disagi»28. La sua visione dell'indio, quindi, è positiva come prospettiva, se le condizioni di vita fossero modificate, e questo è ben lontano dalla visione del fervore indio nel lavoro fissata nella Rusticano dal Landivar. Ma ciò che importa è che il Clavigero nei suoi scritti giunge a vanificare, a puerilizzare i termini di una «querelle» che i suoi sostenitori volevano scientifica.




Arriba3. Il «selvaggio» tra i secoli XIX e XX

Se il sec. XVIII afferma, ancora una volta, nelle pagine dei gesuiti espulsi, la categoria positiva del «selvaggio», non solo «buono» ma capace di tutto ciò che l'europeo riteneva proprio privilegio, la sua situazione reale continuò a essere, nella sostanza, quella della colonia. Se l'indio non costituì del tutto un'antitesi al mondo bianco29, fu certo un'umanità emarginata, priva di voce nella gestione della cosa pubblica, non solo, ma considerata esclusivamente quale massa da adibire al lavoro, elemento da mantenere ai margini della società -salvo una nobiltà indigena economicamente e politicamente «estrechamente vinculada a la casta dominante»30-, e comunque da sorvegliare costantemente. Numerose furono, in realtà, soprattutto nel Perù, le rivolte indie, a partire dal 1752, quando il Viceré Toledo fece uccidere l'Inca Felipe Túpac Amaru; la situazione divenne estremamente critica verso la metà del 1700 e sul finire del secolo. Nel 1742, sotto il governo del Viceré Marchese di Villagarcia, si solleva Juan Santos Atahualpa; nel 1750 abortisce, per delazione, una sollevazione indio-meticcia a Lima -ma si estenderà con crudeltà nella provincia di Huarochiri-; rivolte si succedono contro amministratori corrotti, in varie località, e infine, nel 1780, José Gabriel Túpac Amaru, per qualcuno «gran precursor de la emancipación americana»31, discendente da una figlia dell'Inca giustiziato dal viceré Toledo, si solleva con sessantamila indios, ai quali si uniscono anche elementi meticci e creoli, scontenti del governo spagnolo, in un tentativo di restaurazione dell'antico impero incaico. Nel 1781, tuttavia, l'Inca viene catturato, torturato e ucciso, insieme a tutti i membri della sua famiglia. La rivolta continua, però, fino al 1783, quando vengono catturati e giustiziati gli ultimi «cabecillas»: Diego Cristóbal Túpac Amaru, Andrés Túpac Amaru, Túpac Catari. Scrive il Bonilla: «Dos largos años, centenares de batallas, miles de muertos, pueblos incendiados, hambre, desolación, una economía atascada, serían necesarios para doblegar a un movimiento que, por muchos conceptos, sería el precursor en las luchas contra la dominación extranjera»32.

Sulla miseria della realtà india si erge nuovamente il mito: non si tratta questa volta del «buon selvaggio», ma dell'eroe che lotta contro l'oppressore per la libertà e un mondo diverso. E tuttavia durante la guerra per l'Indipendenza l'elemento indio non svolse un ruolo determinante, al contrario del negro; si mantenne, anzi, in disparte. L'avvento dell'indipendenza vede, con l'esproprio dei latifondi ecclesiastici, anche la dissoluzione delle comunità indigene, le cui terre vengono distribuite ai singoli componenti delle stesse, facendoli così facile preda dell'iniziativa dei nuovi latifondisti, i vecchi creoli, finanziatori delle guerre di liberazione. La situazione generale dell'indio diviene quella del servo della gleba: egli appartiene di diritto al padrone della terra su cui si trova e lavora, per un misero sostentamento, mano d'opera che il padrone può anche esportare e affittare ad altri. Coloro che dalle campagne riescono a fuggire e a rifugiarsi in città danno vita a un sotto-proletariato miserabile, quello stesso che ora vive nelle «villas miseria», intorno alle grandi capitali.

Precisamente nell'Ottocento romantico il mito del «buon selvaggio» sembra per un momento rinverdire, nell'atteggiamento sentimentale col quale si guarda alla natura. Il colombiano Jorge Isaac nel romanzo María (1867), testo principe della narrativa romantica ispanoamericana, influenzato da Paul et Virginie, da Atala e dalla Nouvelle Heloïse, ma con caratteristiche di sensibilità originali, inserisce l'indio in un paesaggio idilliaco nettamente americano. La storia d'amore e di morte che costituisce il nucleo del romanzo riguarda, in realtà, il mondo dei creoli, ma la bellezza naturale della valle del Cauca, la sottile malinconia, il fascino della solitudine, si proiettano intorno e ricostruiscono il clima primitivo nel quale, benché servo, anche l'indio -come il negro- sembra vivere felice.

Presto si afferma in America una corrente «indianista» nella narrativa; vi prevale dapprima l'elemento pittoresco, il folclore, ma non manca fin dall'inizio un interesse sincero per le condizioni di vita dell'indio. La letteratura, che nel passato aveva costruito il mito luminoso del «buon selvaggio», tende ora a privilegiare le note dell'ingiustizia e della miseria, Cumandá (1871) dell'equatoriano Juan León de Mera, Caramurú (1848) dell'uruguaiano Alejandro Magariños Cervantes, Los Mártires de Anhauac (1870) del messicano Eligio Ancona, l'Enriquillo (1879) del dominicano Manuel de Jesús Galván, sono i titoli di maggior rilievo, l'ultimo soprattutto, dove l'autore, denunciando la condizione india ai tempi di Las Casas, all'arbitrio degli «encomenderos», torna a esalare le qualità morali del «buon selvaggio»: Enriquillo, infatti, difende la dignità della sua gente e di fronte all'umiliazione e al sopruso preferisce la rivolta e la morte.

Quando il realismo trionfa anche in America, l'indio diviene soggetto privilegiato della narrativa. In Perù si distingue Clorinda Matto de Türner, autrice di varie Tradiciones cuzqueñas (1884-1886) e di interessanti Romanzi indianisti, tra i quali il più noto è Aves sin nido (1889); vi è illustrata la condizione inumana dell'indio peruviano, con accenti di Vigorosa protesta, che procurarono alla scrittrice non pochi fastidi. La Matto de Türner, infatti, poneva sotto accusa il comportamento delle autorità civili ed ecclesiastiche, dichiarando il suo amore per una razza di cui rivendicava la positività idilliaca e denunciava la situazione negativa in cui vegetava; scriveva nel prologo al romanzo:

Amo con amor de ternura a la raza indígena, por lo mismo que he observado de cerca sus costumbres, encantadoras por su sencillez, y la abyección a que someten esa raza aquellos mandones de villorio, que, si varían de nombre, no degeneran siquiera del epíteto de tiranos. No otra cosa son, en lo general, los curas, gobernadores, caciques y alcaldes.33



Nonostante l'eccessiva schematicità dei personaggi, rigidamente divisi in buoni e cattivi, la scrittrice peruviana dà il via a una corrente che si unirà al segno della protesta e darà i suoi frutti più notevoli nella narrativa del secolo ventesimo. Ma già l'argentino Lucio Victorio Mansilla, nella relazione dal titolo Una excursión a los indios ranqueles (1870), aveva portato un suo contributo alla protesta: inviato dal presidente Sarmiento tra gli indigeni per rassicurarli circa le intenzioni pacifiche del governo argentino, egli penetra profondamente la condizione india ed entra in polemica col bianco, nel quale vede il distruttore e l'insidiatore di un'esistenza «selvaggia» esaltante. Ancora una volta rinasce il mito del «buon selvaggio», sullo sfondo della protesta. Nel romanzo e nel racconto tale mito avrà ruolo importante nell'idealizzazione dell'indio, e lo sottolineerà particolarmente il peruviano Ventura García Calderón, dalla sua residenza parigina, in La venganza del cóndor (1924), epopea di un Perù carico di mistero, nel quale ancora sopravvivono presenze imperiali incaiche. Mondo falso, s'intende, «escapista» da una realtà tutta diversa.

Un altro peruviano, Manuel González Prada, polemista insigne, sorta di Anticristo per i benpensanti, a motivo delle sue idee sociali, politiche e religiose rivoluzionarie, denunciava in Nuestros indios (1904) la realtà della situazione, per la quale «Moralmente hablando, el indígena de la República se muestra inferior al indígena hallado por los conquistadores»34. Il Prada afferma la sua fiducia nell'educazione, ma soprattutto nell'effetto vitalizzatore dell'orgoglio e della proprietà. Non a torto José Carlos Mariátegui lo considererà il precursore di una nuova coscienza sociale35. Afferma, infatti, Manuel González Prada:

Nada cambia más pronto ni más radicalmente la sicología del hombre que la propiedad: al sacudir la esclavitud del vientre, crece a cien palmos. Con sólo adquirir algo el individuo asciende algunos peldaños en la escala social, porque las clases se reducen a grupos clasificados por el monto de la riqueza. A la inversa del globo aerostático, sube más el que más pesa. Al que diga: la escuela, respóndasele: la escuela y el pan. La cuestión del indio, más que pedagógica, es económica, es social.36



Del medesimo parere sarà il Mariátegui; egli scrive, trattando del problema nei Siete ensayos de interpretación de la realidad peruana (1928), che tutte le tesi relative che eludono il problema indigeno come problema economico «son otros tantos estériles ejercicios teoréticos y a veces sólo verbales -condenados a un absoluto descrédito»37. E ancora, che nel vero è la critica socialista che cerca le cause di tale problema nel campo economico:

La cuestión indígena arranca de nuestra economía. Tiene sus raíces en el régimen de propiedad de la tierra. Cualquier intento de resolverla con medidas de administración o policía, con métodos de enseñanza o con obras de vialidad, constituye un trabajo superficial o adjetivo, mientras subsista la feudalidad de los "gamonales".38



Nell'ambito della narrativa ispano-americana le qualità positive dell'indio si affermano, nonostante le miserabili condizioni di vita, nel romanzo del boliviano Alcides Argüedas, Raza de bronce (1919). È il momento del neorealismo e l'indio nella narrativa degli stati andini è personaggio d'obbligo per una dura denuncia. Si veda Huasipungo (1934) di Jorge Icaza, amarissima analisi della miserabile condizione vitale dell'indio equatoriano. Il «cliché» del «buon selvaggio» è ormai del tutto sbiadito.

Víctor Alba ha scritto che la rivoluzione russa del 1907 ebbe influenza decisiva sugli intellettuali latino-americani della generazione cui Argüedas e Icaza appartengono39. Nel comunismo trionfante essi videro un argine all'invadenza degli Stati Uniti, che appoggiavano regimi oscurantisti e dittatoriali, oppressori delle masse indie. Si comprende come le prime manifestazioni della letteratura sociale coincidessero con le speranze risvegliate in America latina dalla rivoluzione russa. La letteratura accentuò la denuncia; lo scrittore si rese conto di poter fare opera rivoluzionaria e il primo problema che gli si presentò, nelle repubbliche andine, fu quello dell'inserimento effettivo dell'indio nella vita dei singoli paesi, dove permanevano intatte le strutture del tempo della conquista40, consolidate dai nuovi latifondisti, quei «gamonales» che lo stesso Mariátegui denuncia per il Perù.

La figura dell'indio, nelle pagine di Argüedas e di Icaza, è quella dell'oppresso; il primo, tuttavia, ne sottolinea le qualità positive, non cancellate dall'oppressione, quindi motivo di fiducia nel futuro, mentre Icaza ne denuncia la totale distruzione. Raza de bronce e Huasipungo terminano, tuttavia, entrambi, con colori di fuoco. Nel romanzo di Argüedas la rivolta india conclude con l'incendio della casa padronale e le fiamme prefigurano simbolicamente un futuro diverso:

La llama se convirtió en hoguera, y un ancho círculo rojo manchó la negrura del llano, iluminando gran trecho de él. A veces se desplegaba como una colosal bandera, achicábase en seguida, a punto de morir, ondulaba, oscilaba, y de pronto resurgía más enhiesta, levantando sus flecos al cielo.41



Anche in Huasipungo la nota finale è la rivolta, ma sul crepitare dei fucili dell'esercito «pacificatore» e sull'incendio della capanna dell'Andrés Chiliquinga si afferma la sconfitta:

El sol se hundió definitivamente en algodones empapados en la sangre de las charcas. Sobre la protesta amordazada, la bandera del glorioso batallón flameó en ondulaciones de carcajada sarcástica. ¿Y después? Los señores gringos.42



Mentre Raza de bronce modernizza la figura del «buon selvaggio» dandogli una dignità che mai aveva avuto prima, Huasipungo incide nella tragedia di un'umanità perduta per colpa dei poteri costituiti. Il mito positivo scompare, sostituito da quadri orripilanti, «movedizos, gelatinosos», come ha scritto il Garro43, dandoci, nel giudizio di Angel F. Rojas, un documento sociale «pavoroso y macabro, concebido y escrito con una objetividad desoladora», nella quale, tuttavia, il critico ritiene di poter trovare un segno positivo, quello che, «en medio de la más repugnante miseria e ignorancia ambiente, afirma que el indio empieza a encontrar el camino de su redención»44. Giudizio difficilmente condividibile.

Con il peruviano Ciro Alegría il clima si fa più sereno. Il mito del «buon selvaggio» riprende vigore, non come frutto di superficiali idealizzazioni, ma come espressione di una realtà umana attualissima. L'indio di Alegría non presenta le tare di quello di Icaza, ma vive un fortificante contatto con la terra, nonostante l'insidia e alla fine la vittoria del latifondista. In El mundo es ancho y ajeno (1941) egli presenta il dramma del Perù indio, oppresso da un sistema feudale anacronistico; la comunità india di Rumi afferma, di fronte al prepotere, all'arbitrio e alla violenza, valori incontaminati. E anche quando soccombe, permane un messaggio di speranza in un futuro diverso, che dovrà vedere l'inserimento attivo dell'elemento indigeno nella vita del paese. Ciro Alegría trasmette, quindi, un ideale di indio nel quale il mito del «buon selvaggio» è sostituito da quello del «buon contadino», non solo, ma del «buon cittadino».

Con José María Arguedas, pure peruviano, la categoria dell'indio è esaltata come pregnanza spirituale45, sulla linea dell'Alegria, anche se con motivi e tecniche diverse. Lo scrittore si propose, con la sua opera, di riscattare la figura dell'indio dalle falsità di tanta letteratura anteriore, mostrandone la ricchezza spirituale. Da parte di Arguedas, che si identifica totalmente con l'indio, c'è dapprima un pieno ripudio del mondo peruviano castiglianizzato. Lo si può vedere in Los ríos profundos (1958), il migliore dei suoi romanzi, che si svolge tutto sul filo della memoria. È un momento esaltante dell'infanzia, cui l'autore, come il suo protagonista, permane legato, e il mondo indio appare nota di spiritualità intensa, intimamente legato all'animismo indigeno. Nel romanzo successivo, Todas las sangres (1964), Arguedas riscatta dall'immobilismo il suo mondo, per immetterlo attivamente nella vita del Perù contemporaneo, una società industrializzata nella quale l'inserimento dell'indio non solo gioverà al paese e al suo progresso, ma riscatterà la comunità indigena da secoli di forzata emarginazione e di palese ingiustizia.

Per quanto concerne la poesia anche Neruda è tornato più volte al tema indio, soprattutto nel Canto general (1950), dove dedica versi significativi alla violenza dei conquistatori e alla grandezza delle civiltà indigene. Più volte il poeta ha rivendicato, inoltre, nel proprio sangue, e in quello dell'amata, Matilde, le comuni radici araucane. Ma nel Canto general, nel gruppo di liriche riunite sotto il titolo Alturas de Macchu Picchu, va riscoprendo con tenerezza le orme dell'antico fratello, si fa interprete dei suoi dolori, restituendolo alla vita: «Sube a nacer conmigo, hermano»46. Neruda diviene l'interprete dell'umanità precolombiana, che accomuna a quella dell'America attuale, per il dolore della condizione:


Dadme el silencio, el agua, la esperanza.
Dadme la lucha, el hierro, los volcanes.
Apegadme los cuerpos como imanes.
Acudid a mis venas y a mi boca.
Hablad por mis palabras y mi sangre.47



Il mito del «buon selvaggio» non esiste, per Neruda; egli lo sostituisce con quello di una realtà dolorosa di sfruttamento e di sangue, sulla quale «quedó la exactitud enarbolada»48. Proprio per la sua partecipazione alla tragedia india il poeta predilige l'autore de La Araucana, Ercilla. Neruda esalta il passato indigeno non solo come sostanza civile, ma per l'ostinata opposizione agli invasori ispanici. Nella chiusa di Incitación al nixonicidio y alabanza de la revolución chilena (1973) egli scomporrà versi di un'ottava dell'Araucana, celebrativa della gente cilena e della sua indomita natura, al fine di meglio evidenziare di essa il significato permanente e l'attualità:


Chile, mi Patria, no será vencida
NI A EXTRANJERO DOMINIO SOMETIDA.49



Ma Neruda aveva protestato la sua intima adesione al mondo indigeno già in versi del Memorial de Isla Negra (1960): nel primo libro, «Donde nace la lluvia», vi è un verso significativo de «La condición humana»: «Yo crecí estimulado por razas silenciosas». Il mito è riscattato in tutta la sua positività, nella dignità di una cultura e di un atteggiamento che lo pone a un livello superiore rispetto ai conquistatori, del passato e del presente.

Non meno di Neruda il guatemalteco Miguel Ángel Asturias affermerà la grandezza del mondo indigeno, dapprima traducendo il Popol-Vuh, quindi in numerosi momenti della sua opera creativa, nella narrativa e nella poesia, a partire dalle Leyendas de Guatemala (1929). La figura del «buon selvaggio» perde in lui ogni superficialità folcloristica, sia nell'evocazione della sconfitta Mam di fronte ai conquistatori, in Maladrón (1969), sia nell'esaltazione del magico, in Mulata de tal (1963), come nella protesta della trilogia «bananera» e in dichiarazioni numerose di adesione al mondo maya. Ma è nella poesia dove Asturias afferma più scopertamente la sua «indianidad». L'adesione dello scrittore al mondo indio ha il significato non della restaurazione di un mito consunto, ma dell'affermazione di una realtà positiva. Per questo il suo entusiasmo nei confronti della Rusticatio mexicana del Padre Landivar. L'impegno di Asturias porta, certo, a sottolineare la miserabile condizione del suo popolo, ma anche ad esaltarne, al tempo stesso, le qualità morali, la grandezza civile. La stessa epica grandezza del mitico Tecún Umán, meglio si definisce alla luce di un oggi miserabile, quale si afferma in «Alimentos», o nella nota tragica di «Marimba tocada por indios». La magia di un mondo che sembra ripetere il paradiso terrestre spicca, per contrasto, sulla persistente nota di tristezza con cui Asturias fissa per sempre la bruciante situazione della patria. Le grandi presenze del passato maya divengono vive nella contemplazione delle grandi città defunte, di Copan, soprattutto, dove la morte e il terrore del nulla spingono all'unione sulla terra. Per Asturias l'indio non è certo il «buon selvaggio»; la figura è da lui scartata come indegna e offensiva: l'indio è il figlio e il continuatore di una civiltà raffinata, anche se l'attualità lo vede immerso nella miseria, oppresso dall'ingiustizia.

Un altro poeta centro-americano, il nicaraguense Ernesto Cardenal, tornerà, nella poesia, ad accentuare la nota della protesta politica, sia in El estrecho dudoso (1966), sia in Homenaje a los indios americanos (1972). Il «buon selvaggio» non ha più ragione di essere; la protesta elimina ogni «cliché» del passato, in una accesa polemica antiimperialista.

La traiettoria del «buon selvaggio» si prolunga, così, tra sfumature diverse, accentuazioni o ripudi, fino ai nostri giorni. La polemica settecentesca ha contribuito a fissare per sempre i caratteri diremo «umani» dell'indio, finché la conoscenza approfondita delle civiltà precolombiane, propria dei nostri tempi, ha reso del tutto anacronistico il termine «selvaggio», accompagnato da qualsivoglia aggettivo, ristabilendo in pieno la dignità dell'uomo. In questo clima definitivamente mutato, uno scrittore come Gabriel García Márquez potrà giocare a cuor leggero, in El otoño del Patriarca, col mito stesso del «buon selvaggio», presentandolo dalla parte opposta, quella indigena: infatti saranno gli indios, ora, a meravigliarsi, all'arrivo di Colombo, di fronte agli strani tipi colà giunti, vestiti «como la sota de bastos», esprimentisi in un idioma stranissimo e antiquato50. È la rivoluzione del ridicolo e la pietra tombale definitivamente scende sul mito.





 
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