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I tempi dell'Apocalisse. L'opera di Homero Aridjis [Fragmento]

Giuseppe Bellini






Il mito e la memoria

Improvvisamente una pausa si apre nella narrativa di Homero Aridjis, sul filo del mito e della memoria. Va sottolineata ancora una volta l'insistenza, nella scrittura del narratore messicano, del tema autobiografico. A questo settore appartiene La montaña de las mariposas, che appare nel 1999, il cui fascino si mantiene intatto nel tempo, in quanto relazione dell'avvio alla maturità del soggetto, in un ben determinato ambiente, semplice, rurale, ricco di poesia, nel concerto di una natura affascinante.

Prende corpo nelle pagine iniziali del libro il valore unico delle cose semplici, sulle quali si fondano le esperienze della prima infanzia, sconvolta presto dall'incombere drammatico della morte. Aridjis insiste sui particolari dell'incidente che fu sul punto di costargli la vita: il colpo partitogli casualmente dal fucile da caccia del fratello maggiore, maneggiato senza perizia.

Il dramma si svolge tra la vita e la morte, la lunga e accidentata corsa verso un ospedale di discutibile efficienza, l'incontro con dottori restii a intervenire, le angosce dei genitori e l'ostinazione del padre per salvargli la vita, quindi, una volta raggiunto l'obiettivo, il regalo, durante la convalescenza, di romanzi che aprono al giovane le meraviglie della narrativa d'avventura: Salgari, Verne, Zevaco, creatori di mondi affascinanti, la cui attrazione valeva non solo ad attenuare il dolore dell'operazione subita e l'estrema povertà del paese natale, ma attivavano nel ragazzo gli impulsi formativi e presto creativi1. Particolari ormai noti.

La montaña de las mariposas diviene, quindi, storia della famiglia Aridjis, della quale apprendiamo dal testo le origini, le vicende travagliate nella guerra greco-turca, la fuga del padre da Smirne, conquistata dal nemico, e la dispersione familiare tra Europa e America, per il genitore del giovane l'arrivo in Messico, a Contepec, appunto, dove apre un negozio di cose varie, non certo prospero, e più tardi una rudimentale sala cinematografica.

Ma ancor più interessa nel libro la storia «messicana» degli Aridjis al tempo della giovinezza del futuro scrittore, gli strani membri familiari, con le loro fissazioni, tra esse quella della madre per un tesoro nascosto, mai trovato, e della zia Inés, autrice di un'intensa corrispondenza con un supposto innamorato, mai visto e defunto.

Ciò che risveglia in Homero l'entusiasmo per la creazione poetica è, in particolare, la bellezza del paesaggio natale, il «cerro» Altamirano, popolato di farfalle monarca venute ogni anno a svernare dal lontano Canadà, la sinfonia degli infiniti verdi che la madre descrive al marito caricandoli di un'affettività che il giovane condivide:

- Mira, qué hermoso es el paisaje desde aquí, desde la colina -mi madre señaló el campo refulgente de verdes: verde limón, verde oro, verde botella, verde ígneo, verde azulino, verde oliva, verde violáceo, verde negruzco, verde pardo, verde grisáceo, verde castaño, verde bermejo, verde anaranjado, verde cerúleo, todos haciéndose ver, oír y oler. Me fascinaban tanto los verdes que hubiera podido pasar días enteros discerniendo, pensando sus tonalidades, sus ritmos, sus movimientos2.



Una descrizione intensamente poetica che illumina la visione del villaggio e le vicende che in esso si succedono intorno al giovane, timido come tutti i ragazzi che sognano di essere poeti o scrittori, mentre affrontano situazioni, esperienze, che li aprono progressivamente alla vita, alle sue brutture, ma anche alle positività, alla fondamentale conoscenza degli uomini, nel bene e nel male, al significato degli accadimenti.

Un libro straordinario, questo di Aridjis, che si struttura non tanto su una serie di episodi riflesso cronologico del suo iter vitale, fino al trasferimento per gli studi nella capitale, ma su una vera e propria avventura umana che ricrea la vita spesso violenta di tutto un villaggio, il destarsi del giovane al sesso, i primi innamoramenti -la passione frustrata per Marina- e insiste sulla meraviglia del creato.

Lo scrittore arricchisce le sue pagine con celebrazioni entusiaste della natura: l'ascesa esaltante al santuario del monte Altamirano, con lo spettacolo eccezionale delle migliaia di farfalle, simili a «hojas otoñales llevadas por el viento», che, per il vecchio dottor Bill, venuto dal Canadà per averne notizia, «Es como haber encontrado el reino del Cacique Dorado o el centro ceremonial de Teotihuacán»3.

Testimoni, nel romanzo, della passione dello scrittore per la natura sono in particolare i capitoli finali, un inno dedicato alle farfalle, esaltatrici della bellezza del paesaggio con le loro «ráfagas de fuego vivo», così che ogni albero si trasforma in «un esplendor en sí mismo, un mundo animado, una lluvia de tigres alados, arraigado en el tiempo»4. L'ascesa al santuario, per quanto impervia, è come accedere a un paradiso naturale di primitiva bellezza:

Todo nos excitaba, los verdes de la vegetación y los pardos de la tierra dura, las grietas rojas de los barrancos y los amarillos de los abejorros, las flores blancas y los girasoles silvestres, los capulines color vino, los zapotes blancos, los nopales verde botella y los magueyes verde azulino. Caracoles, escarabajos y medidores andaban entre las patas de león, con sus florecillas moradas, y los madroños, que los pájaros comen cuando en marzo les sale la frutilla5.



Vibra in questa descrizione cromatica l'antica emozione, ma ne La montaña de las mariposas non tutto è godimento estetico, come del resto avviene nella vita; intervengono momenti bui improvvisi, che muovono alla riflessione. Non è solo lo spettacolo del prepotere politico o della pazza violenza che, alla fine di una festa, dalla quale tutti escono perdutamente ubriachi, si manifesta nello stupro di due ragazze, nel cimitero, tra tombe e fosse aperte, sotto una pioggia torrenziale che tutto confonde; o la strage di piante promossa dagli interessi del commissario politico, che paga poi con la vita, e neppure la violenza di un trio di suonatori ciechi, muoventisi sullo sfondo del romanzo come un insistito leitmotiv, bensì la riflessione intorno al significato stesso della vita.

Il giovane Aridjis elabora questa riflessione in occasione del giorno dei morti: una pagina particolare del romanzo, dove chi legge è indotto a ricordare il Día de difuntos di Larra e, a maggior ragione, quel Quevedo che, se aiutava il giovane a dichiarare il suo innamoramento «más allá de la muerte»6, altre orme più consistenti doveva aver lasciato in lui.

Per tal modo non sorprende la profondità delle considerazioni circa i nomi scritti sulle lapidi, che Aridjis considera «fechas perdidas en la eternidad de un momento»7, epitaffi «olvidables en las piedras olvidadizas»8, storia del genere umano immagazzinata nel cimitero, così che si comprende come ogni defunto sia solo orma di se stesso, e la storia dell'uomo «la comedia del polvo y el olvido»9.

La montaña de las mariposas compie efficacemente il proposito dello scrittore: raccontare la storia del proprio arrivo all'età adulta, tra illusioni e delusioni, fino al momento in cui lascia Contepec per la capitale, al fine di continuare gli studi.

Il padre lo avrebbe visto piuttosto collaboratore nella sua impresa, ma sono le grandi matriarche a decidere del futuro dei figli e il giovane lascia la propria casa con inevitabile tremore: «La víspera y toda la noche me habían estado ladrando los perros de la nostalgia y apenas había dormido cuando salió el sol»10. Una partenza con un pensiero fisso: Marina, il primo amore.

Il romanzo vale a spiegare l'attaccamento di Homero Aridjis al momento formativo, l'insistenza su di esso attraverso il tempo e nei vari ambiti della sua creazione artistica, senza mai dimenticare, tuttavia, la situazione del suo paese.

Infatti, egli torna a occuparsene immediatamente dopo, nel nuovo romanzo La zona del silencio, che pubblica nel 2001, ricollegandosi, in un certo senso, alle preoccupazioni apocalittiche dei romanzi precedenti, ma per reincidere nuovamente nella valorizzazione della natura, ora del deserto, sorta di rifugio di fronte al disastro del mondo.

La visione del mondo futuro votato alla catastrofe è, qui, resa dapprima in un realistico affondo nella situazione attuale del Messico, direttamente vissuta dallo scrittore. La zona dell'azione è il confine dello stato messicano con gli Stati Uniti, territorio dove si svolge una vera e propria guerra tra narcotrafficanti di opposte fazioni, guerra che miete vittime a migliaia, come, del resto, ogni giorno si apprende.

Con grande abilità il narratore introduce l'avaria di questo mondo in un panorama tra il reale e il fantastico, rappresentato appunto dal deserto, che afferma mai monotono, sempre ricco di sorprese: un fiore rosso improvviso, il vento che, attraversando il letto di mari antichi, produce un rumore come d'acqua e dove, nella secca pianura, «la yuca, el nopal rastrero y la piedra caliza parecen orejas vueltas hacia el infinito»11.

Colpisce la conoscenza scientifica di Aridjis a proposito della fauna e della flora di un territorio che, al comune dei mortali, poiché deserto, sembrerebbe negato a ogni forma di vita vegetale e animale. L'accentuata nota scientifica, oltre che sorprendere il lettore, dà allo stesso la misura della vitalità di zone comunemente inesplorate e lo dispone alla sarabanda di personaggi che, in qualche modo completano, in positivo e in negativo, lo sfondo sul quale si dipana l'azione. Personaggi che contrastano con l'inedita poesia di quella che l'autore definisce appunto, «Zona del silencio», dove gli sciamani affermano legittima la loro presenza.

Spicca nel mondo reale l'attività criminosa instancabile di personaggi come i gemelli, al servizio del generale Harpago, persecutore della sua stessa figlia. Un personaggio, questo, simbolo efficace della degenerazione del potere, violentatore e assassino, sostenuto da sicari privi d'intelligenza e di ogni sentimento.

Nel deserto, la realtà costruita dall'uomo si presenta come sospesa tra il reale e l'irreale; le rovine superstiti della cosiddetta civiltà sono svuotate di ogni valore positivo. L'apparenza è trasformata in assenza e per tutto il romanzo è un movimento di esseri strani, alcuni rappresentanti antica sapienza, gli sciamani appunto, la stragrande maggioranza l'avaria umana.

Di fronte al panorama negativo dell'attualità nazionale lo scrittore reagisce concentrando nel deserto la spiritualità del suo paese e in essa del mondo americano, contrapponendo, in un certo senso, al mitico ombelico del Cuzco, celebrato dall'Inca Garcilaso, e al non meno mitico Macchu Picchu esaltato da Neruda, uno spazio di rarefatta purezza, in cui tutto si origina, proiettandolo nella durata infinita dei tempi, al di là della catastrofe del presente. Non per nulla il deserto mantiene accessi al profondo della terra, camminamenti che sfociano, negli strati sotterranei, in curiose caverne, dove stanno raccolti in circolo, come in consiglio, esseri misteriosi; lì si formano i movimenti che sconvolgono la terra, ma soprattutto si tesaurizza la sapienza del mondo.

La superficie desertica ha, quindi, una complessa valenza vitale, una dimensione «interiore» ai più inavvertita, ma che Aridjis interpreta con inedita sensibilità:

El desierto es el más entregado de los paisajes, su inmovilidad no es inercia, su tranquilidad no es ausencia, cada criatura tiene un tiempo suyo, un color propio, una actividad secreta. Las distancias son relativas, lo lejano está cerca, lo cercano lejos. Su horizonte es un aro de azules desnudos, rojos atrevidos, pardos oscuros, blancos grises, naranjas fulgurantes y negros profundos. El desierto es un laberinto abierto12.



E in esso una straordinaria varietà di flora e di fauna che l'occhio comune non coglie, ma che il competente narratore enumera e interpreta con sensibilità ed entusiasmo: dalle «candelillas», ai «nopales», dai «saltamontes de alas pálidas» alle «ardillas de roca», alle «tarántulas y liebres de orejas transparentes»13.

Di fronte a siffatto universo, dove pullulano «miríadas de ojos»14, la realtà negativa esterna perde senso: le stragi dei narcotrafficanti, le violenze fisiche, gli stravizi sessuali, il vagare dissennato del generale del crimine, in un vano delirio di onnipotenza. Parte dal libro come un incitamento evangelico ad affidarsi a ciò che è minimo, umile solo in apparenza, e vi è una Porta immateriale, senza luogo fisso nello spazio, secondo la geografia sacra degli «odami», che simbolicamente immette nella «Zona del Silencio», occhio attraverso il quale «la tierra mira»15. Aria, luce, notte e paesaggio: «La Puerta es la entrada y la salida del laberinto que nos da vida y muerte»16.

Aridjis richiama miti precolombiani, restituisce spiritualità al mondo messicano ed evoca problemi fondamentali per l'uomo, sospeso tra la realtà e il mistero, tra la vita e la morte. L'ultima parte del libro vive poeticamente questo clima e si rivela come la vera ragione di tutta l'opera, dove i fatti materiali sono solamente pretesto per l'introduzione in un mondo di valenza esclusivamente spirituale.

A distanza di qualche anno, nel 2005, lo scrittore pubblica un altro romanzo, in gran parte centrato, per clima, nuovamente sulle esperienze personali, El hombre que amaba el Sol. Il punto di contatto con La montaña de las mariposas è evidente sin dalla prima pagina, dove lo scrittore riprende l'inno alle farfalle monarca, animatrici del santuario situato sulla vetta del monte Altamirano:

el cerro parecía una pirámide de luz. Los rayos solares bajaban por sus escalones proyectando en el suelo la sombra de una serpiente dorada. La tarde palpitaba como un pecho de mujer a la que una mano celeste ha abierto la blusa. Las monarcas danzaban en el ahora el vals de la luz y de la muerte17.



Vari sono, in realtà, i motivi richiamanti a La montaña de las mariposas, come la rivolta contro i tagliatori di alberi o i tre ciechi che fanno da sfondo a diverse situazioni, ogni particolare elaborato nuovamente e inserito in un contesto dove l'avventura terrena di Tomás Martínez Martín, poi Tomás Tonatiuh, si dipana nel tempo, partendo da esperienze proprie dell'adulto, ma di un adulto particolare, assillato dalla magia del Sole, che va ricercando dovunque, e di cui si sente alla fine parte, fino alla perdita della ragione e alla morte.

Nella vicenda del protagonista è possibile cogliere motivi legittimamente adducigli alla fase vitale dell'autore successiva alla sua partenza da Contepec, ma poi tutto appare diverso, poiché ogni personaggio inventato vive una propria esperienza. Tomás attraversa, infatti, il mondo elaborando una propria solitudine, interrotta dall'amore per Margarita e dall'unione con lei, ma in sostanza immerso in un clima elegiaco che finisce, per contrasto, accentuando la sua mania solare.

Non si dimentichi una delle epigrafi scelte dallo scrittore per il libro, tratta da Sahagún: «Y al tiempo que nació el Sol, todos los dioses murieron»18. Il che spiega come per il protagonista tutto intorno a lui sia contingenza, fortuità. E tuttavia, nel romanzo, a partire dal linguaggio, il mondo messicano è ben presente; lo è anche per la costante menzione dei prodotti locali che intervengono nell'alimentazione, in particolare in quello splendido «bodegón» che dettaglia la varietà di prodotti mangerecci approntati in occasione del matrimonio di Tomás con Margarita, che si pone tra i più celebri inni alla meraviglia produttiva dei paesi centroamericani -luminosità, sapore e nostalgia-, cui hanno dato contributi straordinari, tra i vari, Asturias19 e Carpentier20.

Homero Aridjis dimostra una competenza eccezionale in questo campo e merita riprodurre l'esteso brano in cui descrive il banchetto offerto agli sposi:

El banquete que ofreció Zenobia a los recién casados comenzó con un caldo de hongos y sopa de flor de calabaza. Siguió un menú de ensalada de nopales, chilaques de pobre, tacos de carne deshebrada, tacos de albañil, tacos sudados y frijoles borrachos. Como si no fuera bastante, la comadre preparó pata de cerdo en salsa verde, mole negro, mole colorado y mole con tres chiles: pasillas, negros y mulatos, condimentado con almendras, nueces, chocolate, dientes de ajo, pimientas gordas, ajonjolí y jengibre. También se lució con huevos: revueltos, estrellados, rancheros, a la mexicana, con chorizo y duros. Desplegó una gran variedad de salsas: mexicana cruda, yucateca de habanero, veracruzana del rey feo. Salsa negra, salsa loca, salsa borracha, salsa petrolera sindicalizada, salsa chatarra, salsa de medianoche, salsa de chile de árbol, de chile chipotle, de chile ancho, de chile pasilla y chile piquín21.



Inevitabile il commento: «La comida era un delirio, pues Zenobia pensaba que si el mexicano no lloraba no comía»22. Un pranzo al quale il marito della comare aggiunge le bevande: «refrescos, cervezas y aguas frescas». E poi i dolci: «ate de membrillo, flan de Morelia, cocadas de Puebla, cajeta de Celaya y chongos de Zamora»; e la frutta, «frutas solares» procurate dallo sposo: «plátanos, mangos, piñas, tunas amarillas, albaricoques». Ma ancora: «Zenobia mandó hacer una gallina en mole amarillo y una pancita de carnero rellena de chiles jalapeños, lengua de res estilo Veracruz, piñas, tunas amarillas», che tuttavia non giunsero in tempo per il banchetto23.

Una festa cui farà contrasto, poco tempo dopo, la morte di Margarita, in seguito a un incidente, la tristezza della veglia, «memoria del bien perdido», e di nuovo, come in La montaña de las mariposas, il cimitero, a rendere il senso della brevità umana, con la desolazione propria dei luoghi dai quali i viventi rifuggono: «Una lata de dulces servía de florero. Unos girasoles estaban marchitos. La hora olía a sombra, a tiempo estancado»24.

Con grande maestria Aridjis rende le ore fatali, i luoghi della morte, evocando tristi dettagli, appassite presenze, odori negativi. Tomás si chiude nella sua casa ormai vuota, mentre fuori ulula un vento gelido.

E tuttavia, come sempre avviene, il ritmo del mondo riprende, né manca nel romanzo un moderato clima erotico, la bellezza fiorente della giovane Teresa, cui è attento, senza mai dichiararsi, Tomás, nonostante le iniziative della ragazza, che poi lo accompagnerà nelle sue ultime ore di vaneggiamento.

Anche per questi elementi El hombre que amaba el Sol è un romanzo di particolare interesse, e lo è pure per la rappresentazione della situazione messicana di fronte alla violenza del potere. Infatti, denunciata la malafede dei politici, a capo di essi il Presidente, prodigo di false promesse, venduto all'interesse non solo personale ma dei gruppi di potere a lui vicini, Aridjis formula, una volta ancora, un impietoso atto di accusa contro i poteri giudiziari, la polizia e l'esercito, mezzi solo della violenza che si esercita sui cittadini.

Tomás e il suo amico Andrés ne fanno dura esperienza, dopo la rivolta contro i disboscatori del monte Altamirano, ma inspiegabilmente tornano in libertà e l'adoratore del sole potrà proseguire nella sua ricerca, che lo condurrà oltre il significato della grande piramide azteca della luce, alla Porta che immette nell'Inframondo, dove, secondo una vecchia leggenda, la madre degli dèi abitava25.

È come affermare il valore fondamentale della terra, unica ragione del nostro essere. Ora sì, nel romanzo di Aridjis, risplende, surclassando quello del Perù, il mito dell'antica concezione azteca del mondo che, al disopra delle spettacolose architetture, radica i suoi valori nelle viscere dell'Universo, proprio attraverso quella Porta che solo ai prescelti è dato incontrare.




L'inferno sulla terra

Benché nei precedenti testi Homero Aridjis non abbia mai dimenticato di denunciare l'avaria della società contemporanea, nel nuovo libro, che pubblica nel 2004, La Santa Muerte, riprende in modo deciso la sua campagna, e lo farà anche, con implicazione personale diretta, nel romanzo Sicarios, del 2007.

La Santa Muerte si compone di sei narrazioni, di cui la prima dà titolo al libro. Seguono: Inventando el pasado, Una condición excepcional, El perro de los niños de la calle, La calle de las vidrieras e En el país de los diablos. Tutti momenti dell'inferno umano e terreno, nei cui meandri l'autore introduce il lettore con partecipazione e abilità interpretativa non comuni. Così in El país de los diablos la ricerca antiquaria di Adrián si risolve con la scoperta che la bella moglie, che a suo tempo lo aveva lasciato, è divenuta un'artista del porno, e riprodotta in varie posizioni su cartelloni cinematografici è oggetto del desiderio di squallidi erotomani solitari che, come il contadino che ne fissa immedesimato l'immagine, vorrebbero «hacer suyo ese cuerpo superficial, penetrar el cartoncillo»26.

L'amara constatazione del protagonista è di aver fatto tanta strada, dall'Europa al Messico, in cerca di oggetti dell'artigianato locale -raffigurazioni varie di diavoli-, per constatare la nullità dello spazio: «Tanto viajar para venir a hallar a mi amor en el cine de medianoche de una ciudad ajena»27, una donna oggetto di concupiscenza da parte di una moltitudine volgare, quando a lui non volle concedersi. E il commento dell'amico Jean: «Después de esta noche su odio será más grande que su amor. Qué ironía, aquí ha venido a comprender finalmente su infidelidad»28.

Non meno inquietante è l'inferno della decadenza fisica e dello squilibrio mentale dell'individuo. Inventando el pasado, La calle de las vidrieras e Una condición excepcional ne sono in varia forma denuncia. In fondo, è frutto di squilibrio mentale se Luis Mario Andino, un semplice cittadino di Buenos Aires, vede improvvisamente la grande urbe dominata dalla vecchiaia, una vecchiaia che trasforma tutta una popolazione, dopo la caduta di una pioggia di ceneri verdi, così che tutti, donne, bambini, uomini maturi e anziani appaiono accomunati dai capelli bianchi o dalla calvizie, dai denti malfermi o addirittura assenti. Egli contempla situazioni surreali, gente alla guida di auto e di camion «sin poder oprimir el acelerador o sin poder accionar el freno: los brazos flácidos, las manos manchadas, vencidos por la debilidad o por la falta de ejercicio físico»29, gente malata di cataratta o miope, che «no podían discernir lo que estaba delante de ellos»30.

I luoghi più caratteristici e prestigiosi di Buenos Aires sono come lordati dalla diffusa vecchiaia; anche un parco, «emblema de la noche porteña», è popolato di esseri seduti che «parecían ser contemporáneos: ser padres, hijos o hermanos uno de otro», e dove anche i «bebé» si distinguevano dai nonni solo per il vestito31.

Neppure manca una punta di spillo contro la supponenza argentina, della quale, con gli intellettuali rifugiatisi in Messico ai tempi della dittatura militare, i locali fecero in alcuni casi difficile esperienza: infatti il protagonista si pensa eccezionale, al disopra di tutti, perché unico non intaccato dalla vecchiaia nell'immensa urbe, quindi un Adone: «el guapo entre los guapos, el simpático entre los simpáticos, el inteligente entre los inteligentes. El soltero más codiciado de Buenos Aires»32.

La stilettata dello scrittore arriva nel paragrafo successivo:

En sueños me dije que muchos filósofos han formulado la negación de la identidad del «yo», pero nadie ha podido poner en duda la existencia del ego argentino. Por eso saqué la conclusión de que nadie sería capaz de negar la supremacía del mío33.



Senonché, al mattino seguente, scendendo in strada, Luis Mario Andino si accorge che è lui il vecchio, e neppure il suo sorriso «de ego caído»34 riesce ad attirare l'attenzione di un tassista.

Il contrasto è efficace; Aridjis interpreta con levità e controllato humor il dramma di uno squilibrato, ma avvolgendolo, nel finale, di compassione: colui che si era ritenuto l’Adone per eccellenza, cercando nella tasca le monete per il taxi perde le chiavi di casa, brutto segno. È il disastro finale, al quale fa da efficace contrasto il movimento e la gioia di vivere della gente:

En la esquina de ayer, junto al mismo semáforo, sin retroceder ni avanzar, no obstante los cambios de luz, descubrí que todos los peatones, absolutamente todos, rebosantes de juventud, gozosos de verano, se me quedaban viendo asombrados por mi condición excepcional, porque el único viejo era yo35.



Ne La calle de las vidrieras l’inferno sta ugualmente nello sconvolgimento mentale, qui di un anziano, vedovo, di Amsterdam, Wilhelmus, divenuto maniaco visuale del sesso, frequentatore assiduo del quartiere che nella città olandese è riservato alla prostituzione, goloso ammiratore delle vive forme femminili esposte, a disposizione di eventuali clienti.

Aridjis è stato ambasciatore del suo paese in Olanda, come sappiamo, e attraverso i suoi scritti l'impressione che si ricava è che da tale residenza non abbia tratto entusiasmo. Il testo di cui sopra richiama per clima, in qualche modo, Playa nudista, anche se qui la scena è sopratutto urbana. L’immagine di Amsterdam è ampiamente negativa e bene si comprende la reazione di un messicano, abituato a climi e cieli del tutto diversi, non freddi e plumbei come quelli olandesi, dominati da una pioggia triste, insistente.

Il protagonista considera desolato il paesaggio urbano, né con minore entusiasmo poteva descriverlo attraverso di lui lo scrittore, accostando il cielo invernale della città a una scena del pittore del secolo XVII, Hendrick Avercamp36. Riflette il vecchio: «Ámsterdam en febrero se parece al día de ayer y al día de mañana. Uno tiene la impresión de navegar en la misma hora»37. La pioggia è l'ossessione:

llovía no sólo sobre los canales, las calles y los árboles, sino también sobre la lluvia. Sobre los suelos de antier y de pasado mañana batía, como en un fragmento de Heráclito, la misma y otra lluvia. No sólo eso, la basura también navegaba: cartones, latas de refresco, bolsas de plástico y hojas otoñales atravesaban inmóviles el día húmedo. Sobre esa naturaleza muerta de débil movimiento, chillaban gaviotas blancas38.



Una sorta di introduzione alla morte, dove gli individui non possono che essere parte del clima negativo. Lo è infatti Wilhelmus, sia per l'età avanzata, sia per la residenza, una pensione per anziani, dove vegeta, non ancora cancellati desideri che hanno superato la vedovanza, illusioni di una virilità ormai scomparsa, che si esprime solo in contemplazione lussuriosa della donna e, allorché riesce a ottenere un contatto con una delle prostitute in esposizione, miseramente fallisce, in una confusione di immagini, della moglie defunta con la donna attuale, di modo che «El coito se convirtió en una experiencia necrofílica. La tristeza postcoital insoportable»39, mentre un nuovo tentativo naufraga in un sonno profondo, dal quale la prostituta lo scuote scacciandolo sotto la pioggia40.

Aveva avvertito Aridjis che il sabato era «un día cruel» per i vecchi, quando i giovani si preparavano a festeggiare la sera in locali negati agli anziani; perciò le strade ribollenti di gente sembrano a Wilhelmus vuote e noiose41. L'evasione erotica era, quindi, predestinata al fallimento. Ed è proprio il fallimento che riscatta alla comprensione del lettore l'immagine del vecchio. Lo scrittore mostra sempre un'umanità particolare nei riguardi dei suoi personaggi falliti, ed è ciò che ne rende viva la peripezia, in quanto oggetti incoscienti del disastro del tempo.

Di non minore interesse è la vicenda di Gabriel Lieberman in Inventando el pasado: una complessa storia di deriva mentale in cui il soggetto si sdoppia assumendo la personalità di Edward Weston, il celebre fotografo nordamericano. Gabriel trascorre gli anni della sua vecchiaia avanzata -ha novant'anni-, con la moglie Louise Chazal, pittrice, in una Città del Messico successiva al terremoto del 1985, che distrusse gran parte della metropoli più monumentale.

L'interpretazione della deriva mentale di Gabriel-Edward è uno dei capolavori di sensibilità di Homero Aridjis, acuto indagatore dell'abisso in cui può precipitare chi, giunto alla fine della vita, confonde realtà e irrealtà, vissuto e aspirazioni frustrate, talvolta non senza un pizzico di ostentata acredine nel discorso verso altri.

Del resto, il clima familiare del protagonista è del tutto avariato: la moglie, di dieci anni più giovane, lo sopporta a fatica, e in realtà egli vive in un isolamento negativo, circondato dai suoi fantasmi. Le dispute sono frequenti, in una lingua, il francese, fatta di un repertorio di parole offensive, in cui la moglie supera il marito42, il quale

nunca se sabía orando estaba despierto (con los ojos cerrados) y cuando estaba dormido (con los ojos abiertos). Y si no se le llamaba para comer se quedaba el día entero en ayunas, pensando, dormitando, inventando el pasado43.



La deriva del personaggio è seguita dallo scrittore con attenzione estrema ai particolari, dove realtà e invenzione si mescolano continuamente. Ma vi è anche una positività concreta in questo, per il lettore: la ricostruzione del passato artistico parigino degli inizi del Novecento, in cui compaiono personaggi celebri numerosi, tra essi Apollinaire, Chaupin, Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont, Pessoa, Lamm, Lévi-Strauss, e tra i sudamericani César Vallejo, allora alla sua prima edizione di Trilce.

Immedesimatosi in Weston, il già Lieberman riferisce, in sostanza, delle due vite d'artisti, confermando le particolari competenze dello scrittore nel campo dell'arte e della cultura. La fine del personaggio conclude il disastro di tutta una vita; cadendo dalle scale, insieme al baule che ha preparato per una partenza immaginaria, completa il suo «retorno al pasado», che è poi l'ultimo traguardo possibile, poiché il tempo è il «más perverso y despiadado asesino serial del mundo»44.

Con La Santa Muerte e El perro de los niños de la calle Aridjis entra più direttamente nel suo programma di denuncia della deriva, non tanto dell'individuo, quanto di tutta una società, con riferimento particolare alla situazione messicana. La prima narrazione è dedicata alla denuncia del narcotraffico, la seconda ne è, in sostanza, la perniciosa conseguenza sui settori innocenti della società.

Protagonisti di La Santa Muerte sono i padrini della droga, in particolare il capo dei capi, un certo Santiago López, il quale festeggia il suo cinquantesimo anno in una delle sue immense tenute fortificate fuori città, evento al quale ha invitato anche un giornalista, esperto nella denuncia dei delitti legati al narcotraffico, sulla cui vita gioca come un gatto con il topo, ma senza riuscire ad eliminarlo.

La presentazione del temibile e grottesco personaggio è efficacemente negativa:

Por la vereda alfombrada camino el capo como si fuese un rey vulgar, con el brazo fracturado, el andar agresivo y la mano férrea (acostumbrada a empuñar revólveres y tetas, a matar y acariciar). A su derecha, un hombre con cola de caballo y ojos crueles peinaba los alrededores. Delante de él, Ana Rangel iba extendiendo un tapete rojo salpicado de flores. Por esa pompa vana, los ojos del capo pasaron de la malevolencia al fulgor45.



Intorno al capo potente del narcotraffico lo scrittore denuncia il pullulare non solo di guardaspalle, ma di uomini del malaffare, di alte cariche dello Stato, di pubblici ufficiali, giudici ed esponenti di rilievo delle forze repressive e militari. La corruzione è generale e domina tutto il paese. Aridjis ne dà testimonianza spietata, mentre tesse intorno al gran capo una rete di situazioni volgari, che vanno dalla facile prostituzione alla piaggeria terrorizzata di sottoposti e collaboratori, a qualsiasi categoria appartengano. Nel vasto spazio della sua tenuta l'abbondanza straripa, sia in commestibili che in nudità femminili, il tutto sempre strettamente sorvegliato dai gorilla dei vari esponenti, a loro volta sorvegliati dai guaruras del capo.

Che dire di un panorama tanto squallido, naufragio ultimo di tutto un paese? Certamente nella denuncia spietata dello scrittore vi è molta passione, molta sofferenza per come vede correre alla deriva il Messico. Perché tutto appare dominato dal crimine, e il festeggiato lo riassume in sé egregiamente: «Unos cuantos asesinatos, unas cuantas acusaciones de narcotráfico y de lavado de dinero, unos cuantos secuestros y unas cuantas violaciones a menores de ambos sexos los llevaba en el pecho como medallas»46. E tutto impunito.

Anche il riferimento, per il nome di battesimo, all'apostolo Santiago è contaminato dal cattivo gusto, nel carosello celebrativo di «Santiago López el Mayor»:

CINCUENTA AÑOS ES NADA
SANTIAGO LÓPEZ EL MAYOR

Las letras que envolvían la figura del santo imaginario giraban felices honrando al hampón real. O se elevaban tonantes en el cielo poluto. Algunas tenían cauda, otras parecían ser parte de la noche perdida; otras buscaban perpetuarse en el tiempo trivial47.



Intanto «Los Pericos del Norte, un conjunto de cuatro narcobaladistas» incomincia a suonare, fisarmonica, batteria e basso:


Vivo de tres animales
que quiero como a mi vida.
Con ellos gano dinero
y ni les compro comida.



Che sono, fuor di metafora, come lo scrittore chiarisce, «el perico, el gallo y la chiva», ossia la cocaina, la marihuana e l'eroina48.

Di fronte a questa impressionante narrazione di Aridjis si è portati a ricordare i Sueños di Quevedo. Qui, naturalmente, l'inferno è sulla terra e tutto copre, sia pure malamente, ciò che sta «debajo de la cuerda», una serie di «pocilgas» in cui imputridisce l’umanità, assediata dal malaffare.

La vicenda del giornalista che, pratico della situazione, riesce a salvarsi dall'assassinio, è una valida invenzione che permette di approfondire i meandri della criminalità, di tutti i suoi loschi affari e compromessi. Non era certamente nuova questa nota nello scrittore messicano, lo abbiamo visto, ma qui è particolarmente efficace e permette anche al lettore di addentrarsi nel singolare culto per la «Santa Morte», del quale ben poco si sapeva e che efficacemente chiarisce uno studioso dell'Aridjis, Bernardo Barranco, il quale informa che tale culto si nutre di un vastissimo sincretismo religioso messicano, che intreccia le radici preispaniche con il cattolicesimo barocco spagnolo e tracce della santería49.

Lo stesso Aridjis ha spiegato che in tale culto convergono due settori della nazione: «El de la gente que pide favores o milagros para tener trabajo, salud o comida, y el de los hombres del poder económico, político o criminal, quienes curiosamente le solicitan venganzas o muertes»50.

È quest'ultimo il caso contemplato nella narrazione di Aridjis. Il potente Santiago Pérez è un devoto della Santa Muerte; il giornalista scopre, alla fine, una sorta de cappella dietro una porta nera, con candele accese, ornate alla base di nero, formate di cera rossa, e al fondo, bloccata da un cortinaggio di velluto sempre nero, la sede dedicata alla curiosa divinità, immagine della morte violenta51. Qui si reca a rendere culto il capo dei capi del narcotraffico, presenti alcune vittime sacrificali, membri, boia e vittime, dell'alleanza per il narcotraffico, «practicantes de un culto secreto sellado con sangre»52.

Lo scrittore descrive con realismo macabro la divinità terrificante:

En el altar cubierto con un mantel negro estaba la Santa Muerte. En sus cavidades orbitales asomaban dos arañas capulinas. En la mano huesuda esgrimía una criatura del desierto de Chihuahua: un alacrán Centruroides scorpion. En la mano izquierda echada hacia atrás, se apreciaba la cabeza negra de un coralillo. Bandas negras y rojas, limitadas por anillos amarillos, circulaban el cuerpo de la serpiente venenosa. Alrededor, en el piso, había veladoras rojas, botellas de tequila, mezcal y cerveza, una jarra de agua negra, una tarántula disecada, lociones mágicas, hierbas y conjuros, semillas de colorín, una pistola de 9 milímetros, una 38 super y una cuerno de chivo53.



La descrizione prosegue, ma sono sufficienti questi elementi per comprendere la natura caotica e criminale del culto. Si aggiunga la mescolanza di immagini cristiane e l'aspetto terrificante della Santa Muerte, «un esqueleto envuelto en ropajes blancos, rojos y negros, representando sus tres atributos: el poder violento, la agresión artera y el asesinato cruel»54. A tale divinità ricorrono gli assassini e i narcotrafficanti che fanno di Santiago Pérez l'imperatore del crimine.

Un crimine, come detto, che incide su tutta una generazione giovane, come documenta Aridjis in El perro de los niños de la calle, narrazione estremamente interessante, che induce per un momento il lettore a ricordare alcune novelas ejemplares cervantine, il Coloquio de los perros e Rinconete y Cortadillo, ma con l’immediata presa di coscienza che, in raltà, nel racconto dello scrittore messicano domina ben diverso impegno.

Infatti, se il povero cane Pick, legato alla sua giovane e misera padrona Silvia, si fa tramite di interpretazioni circa la disastrosa realtà della banda di giovani disperati cui la sua padrona appartiene, nulla vi è in lui della cultura filosofica dei due cani cervantini dei quali, degente in ospedale, l'Alfiere Campuzano registra il singolare colloquio; né tanto meno gli attori del racconto hanno a che fare con i ladri di Cervantes, sorta di giovani artisti dell'imbroglio, presieduti da un serioso Monipodio.

Anche potrebbe richiamare il Lazarillo de Tormes il passaggio temporaneo del cane al servizio di un cieco, qui peraltro buono, ma sono riferimenti letterari non del tutto calzanti. Ciò che veramente conta nel testo è la cruda denuncia di Aridjis di una situazione perduta della gioventù della capitale, vegetante negli anfratti delle rovine del terremoto, dedita alla rapina, a una droga distruttrice che si procura dagli oggetti più negativi, allo spaccio per conto dei narcotrafficanti di quella vera. Naturalmente, a proprio rischio e pericolo, perseguitati i ragazzi da una polizia che ne sfrutta l’attività, incassandone frequentemente i guadagni, ma anche commettendo su giovani e ragazze orribili abusi.

Tutto è corruzione in tale mondo e il cane Pick lo rappresenta bene penetrandolo dal basso, da un'esperienza personale fatta, fin dalle proprie origini, di violenza: la morte per strada della madre, travolta da un autobus indifferente, ridotta a «un pellejo embarrado en el asfalto»55 e, come i suoi compagni umani, non sa di padre né di fratelli, vive alla giornata, uso al digiuno e alle intemperie.

Anche qui, come in Rinconete y Cortadillo, c’è un organizzatore, il Re dei Sotterranei, non un Monipodio, ma uno sfruttatore criminale. La polizia alla fine lo arresterà, non senza essersene prima ampiamente servita per il proprio utile economico, e la banda di ragazzi, giunti alla propria distruzione, si scioglierà.

Qualcuno tenta la fuga verso altri luoghi; si propone di farlo Dientes de Peineta, ma viene ucciso dalla polizia, che gli spara alla schiena, senza che nessuno affermi di aver visto i colpevoli. I pochi indiziati sono presto posti in libertà e il vero assassino scompare. Particolare significativo, o «observación curiosa» del giornalista che racconta il fatto: «Después de muerto, las botas de Dientes de Peineta desaparecieron: alguien se las robó»56.

Il cane Pick presenzia lo sfacelo del mondo in cui, più male che bene, ha vissuto, ma che alla fine era il suo:

Yo me quedé abandonado en esa estación que parecía crecer de tamaño a medida que el mío desminuía. Mi soledad era completa. Por los corredores me quedé viendo al vacío, a las escaleras desnudas, a las salas de espera llenas de fantasmas vestidos, a los tableros. Alrededor pasaban sin cesar muertos vivos57.



Nulla di arrogante in questo povero cane, che mestamente conclude tra «muertos vivos» la sua avventura con i ragazzi della mala, senza neppure alcuna certezza in un aldilà riservato ai cani. Con grande sensibilità e poesia Homero Aridjis penetra il mondo affettivo di Pick. Il passo merita di essere sottolineato; il cane si interroga con pessimismo se vi sarà «un ladrido» dopo la morte, se per i cani esisterà un aldilà o se essi sono solo «criaturas del más acá». Se cosi fosse, ritiene che la sua padrona, Silvia, lo porterà certamente in quello degli umani, «compartiendo conmigo la bienaventuranza que se merece», oppure, se esiste «un dios perro», lui porterà la ragazza con sé, «pues de ninguna manera podría abandonarla en el mundo de los espíritus»58.

L'avaría del mondo prospettata da Homero Aridjis conclude con i toni tristi del disfacimento e della morte, ancor più impressionante trattandosi di una generazione sulla quale dovrebbero invece fondarsi le speranze del futuro della nazione.

Quanto al singolare romanzo Sicarios, lo scrittore parte da una situazione personale, verificatasi nel 1997: una ricorrente minaccia telefonica anonima e volgare di rappresaglie nei suoi confronti e della sua famiglia, per cui si vide costretto a ricorrere alla protezione di infidi guaruras o guardaspalle59.

Si tratta di una «crónica que se convierte en ficción»60, come l'autore stesso la definisce, ma in realtà è ben altro che una semplice cronaca trasformata in romanzo, poiché implica un esame dolorosamente critico della violenza nel paese, in particolare nella capitale, dove si susseguono i sequestri di persone, le mutilazioni, le morti e le richieste di riscatto.

Il giornalista di El Tiempo, Miguel Medina, alias Homero Aridjis, che si occupa di sequestri e relativi delitti, è indotto dal direttore del giornale a dotarsi di una protezione, un guarura, in effetti, cui poi se ne aggiunge un altro, ma dei quali pochissimo il protagonista si fida. Egli è, infatti, cosciente che la corruzione generale, che coinvolge anche la polizia, non permette alcuna sicurezza. L’incidente è il mezzo migliore per l'eliminazione delle persone, e non di rado il protetto si ritrova vittima del suo stesso guardaspalle, poiché il guarura è un essere infido, né mai si sa se appartiene davvero alla speciale polizia che lo assegna o se fa parte della criminalità organizzata.

Il romanzo di Aridjis consegna un mondo complesso e infernale, al cui confronto le bolge dantesche sono una realtà irrisoria. Il lettore si trova coinvolto in una serie di accadimenti che si intersecano, formando una fitta rete dalla quale esce un paese impossibile, dove l'individuo, se di qualche rilievo economico, non ha scampo e dove, come si ripete in una sorta di leitmotiv, la morte tesse le sue trame, in un panorama naturale spesso inquietante:

Los dedos huesudos de la muerte urdían su trama siniestra. La noche estaba bañada por una lluvia verde. Los árboles de la calle brillaban cargados de semillas glaucas y hasta el asfalto parecía oliváceo61.



Perché i luoghi del crimine hanno fatto perdere alla capitale messicana quell'aura meravigliosa, lo ricorda lo scrittore en passant, che stupì i primi spagnoli quando dall’alto delle montagne scorsero Tenochtitlan, tanto che, come scrive Díaz del Castillo nella sua Historia verdadera della conquista del Messico, sembrava loro cosa «de encantamiento»62. Il contrasto con l’oggi, come lo scrittore lo presenta, appare sconcertante:

El suelo de las calles se confundía con el de las aceras. Los cables colgaban como cinturones flojos a la altura de la cabeza humana. Un niño drogado descansaba sobre pedazos de linóleo y cartón, su cama perfecta para el alucine. Un ebrio iba de un lado a otro con una botella vacía en la mano. Trastabilló con un perro muerto que alguien había tapado con una cobija vieja. Una mujer recargada en un poste se ponía gotas en los ojos63.



Panorama da bassifondi, cui contribuisce lo sfarzo peccaminoso delle case di malaffare, gestite da criminali, abbondanti di oscene nudità e luoghi di perversioni sessuali, ma anche di vero e proprio crimine.

La denuncia di Aridjis in Sicarios va, tuttavia, molto più in profondità dell’episodio che coinvolge lui e la moglie: si estende al sistema giudiziario e a quello politico. Il delinquente sequestratore, Miguel Montoya, sadico tagliatore di orecchie, catturato il 17 agosto 1998, si era valso per anni dell’appoggio di poliziotti comperati a suon di milioni di pesos, e come lui gli altri delinquenti, di modo che anche se la giustizia avesse voluto procedere correttamente ne era impedita dalla generale corruzione e dalla vendetta, che si concretava nell’assassinio. Perché sempre «los dedos siniestros de la muerte» ordiscono la loro trama e nulla può salvarsi.

In una intervista Aridjis allude alla vicenda del poliziotto che catturò la banda de «La Culebra»: essa «se vengó del comandante que los aprehendió, colgando a su esposa y a su hijo de un árbol en un parque público de Cuernavaca. Sobre la piel del costado derecho de ambos les marcaron con un cuchillo la palabra Benganza»64.

Sicarios, pur nella vivacità delle scene, nella condiscendenza verso una nota erotica in versione criminale, ma in sostanza vivace, è un libro pessimista, frutto di esperienza personale drammatica, certo, ma soprattutto della reale preoccupazione etica dello scrittore nei riguardi del suo paese, che vede perduto. Né diverso è il suo giudizio, quale scaturisce dagli episodi di cui si compone Los perros del fin del mundo, romanzo che pubblica nel 201265.




Il viaggio nel mistero

Prima di ritornare alle tematiche che maggiormente dominano nella sua narrativa, Homero Aridjis affronta un argomento nuovo, denso di mistero, nel romanzo Los invisibles, che pubblica nel 201066.

L'ambientazione è in una Parigi misteriosa, tesa tra gli inizi del secolo XVII, al momento della comparsa di presenze umane incorporee, i Rosa-Croce, e l'età attuale. L'ambientazione è fortemente parigina, segnata dalla minuziosità dei riferimenti toponomastici, non solo, ma dal ricorso frequente ad espressioni e citazioni in francese, anche se non manca una sostanziosa presenza di inglese.

Una fitta rete di riferimenti biografici e culturali interviene a confermare il cliché di Parigi capitale mondiale della cultura. Aridjis mostra, qui, una volta ancora, la profondità delle sue conoscenze artistiche, letterarie, musicali, e in esse l’adesione alla cultura europea, senza tuttavia mai dimenticare le peculiarità di quella messicana e latino-americana.

Un reticolato complesso di vie, piazze e luoghi, storici o meno, di riferimenti a siti commerciali o artistici, conduce vertiginosamente il lettore a seguire gli spostamenti continui e le avventure di un certo Nicolás Antschel, discendente da una famiglia di rifugiati romeni a Parigi, divenuto improvvisamente invisibile. Il materiale umano utilizzato da Aridjis è quello della società «bassa», o anche infima, popolare, che si estende ad erotomani, prostitute e travestiti.

I fratelli Cobra, con il loro padre, sono i costanti persecutori del protagonista, e tutta una trafila di eventi vari conduce il lettore, al seguito delle minime avventure di Nicolás, a una corsa vertiginosa nel dedalo viario, minuziosamente descritto, della capitale francese.

Per qualche verso vengono in mente gli affreschi ottocenteschi della società proposti dai grandi narratori del secolo XIX francese, da Sue a Zola, senonché nel libro di Aridjis domina l'attualità, un'attualità profondamente avariata, della quale in genere il lettore è stato ed è testimone. Essa si configura nei crimini nazisti contro gli ebrei, continua con la fuga dalle criminali dittature che hanno funestato il secolo XX -anche in Romania-, da parte di alcuni gruppi ebraici che trovano rifugio a Parigi, si sofferma sul tentativo insistito per scoprire il segreto dell'invisibilità, mosso da fini delinquenziali, problema acuito sul finire del Novecento dalle grandi potenze alla ricerca di nuove strategie militari, di armi invisibili.

In diverse occasioni Aridjis ha rivelato le origini del suo racconto, la scoperta di una delle due uniche copie esistenti -quella conservata nella Biblioteca parigina Saint Geneviève-, della cronaca di Gabriel Naudé, Instruction a la France sur la Verté de l’Histoire des Fréres de la Roze-Croix, del 162367, oltre a un anonimo testo dal titolo Effroyables Pactions Faites entre le diable et les pretendus Invisibles, uvee leurs damnables Instructions, perte déplorable de leurs escoliers, et leur miserable fin68, ma certamente supportata anche dalla vasta bibliografia fantastica sull’invisibilità, fiorita sul finire dell’Ottocento e nei primi decenni del secolo XX, che ha in Wells il suo maestro.

Dall'iniziale rappresentazione degli strani accadimenti occorsi a Parigi nel 1623, che misero in pericolo, suppostamente, una parte monumentale della città e il ponte di Alexandre III sulla Senna, oltre a una strana nave sorvolante lo spazio emettendo raggi distruttori, prodromo all'invasione degli invisibili, che di tra le tombe del cimitero dei Santi Innocenti, camminando sulle ceneri, andavano lasciando per le strade «lodosas» della città, sulle pareti «brumosas» delle case, come «siluetas amarillentas», solo percettibili all’occhio «por el vaho que exalaban a lo largo de calles estrechas y sombrías»69, il salto all’attualità è breve, e una nuova invasione di invisibili rosa-croce appare annunciata dall’improvvisa invisibilità del protagonista, il citato Nicolás, in aiuto del quale elementi non visibili intervengono in aiuto nei momenti critici. Invisibili la cui invasione numerosa determinerà ad un certo punto nel protagonista il ritorno alla visibilità.

Il personaggio, tuttavia, non compie nel romanzo grandi imprese, conduce piuttosto, malgrado tutto, una vita insignificante, lontana da quel concetto espresso da un antico supposto invisibile citato in apertura di libro dallo scrittore:


La Máscara que cubre nuestra Cara
Oculta la Transparencia de la Materia vana.
Sólo aquellos que perciben lo Invisible
Son capaces de apreciar lo Visible70.



Ciò che nel libro di Aridjis colpisce è soprattutto l'instancabile inventiva, la già accennata e frenetica dinamicità, ma anche particolari non secondari, che appartengono all'intimità dello scrittore, come la ridicolizzazione della retoricità e della burocrazia dell'Unesco71, dove per vari anni Aridjis fu ambasciatore del suo paese, e una nota non certo di simpatia per un tipo «con cara de adolescente envejecido»72, lo scrittore Julio Cortázar, un tempo traduttore allo spagnolo del Correo dell’Istituzione73, nota che proviene, certamente, dalla più volte manifestata antipatia per gli argentini, tra i quali lo scrittore celebra invece Borges, immerso nella solitudine della cecità, inventore di racconti, compositore di poemi, il quale afferma «Si toco con las manos el mapa de mi rostro, encuentro el rostro que ven los hombres, pero cuando sueño, encuentro mi verdadero rostro, aquel con que me ve Dios»74: un invisibile, quindi, a sé stesso.

Nel complicato reticolo del libro, non di rado trasformato in saggio, vi sono un'infinità di raggiungimenti creativi preziosi, come, ad esempio, la descrizione della famosa Saint Chapelle, che Nicolas fa a Valérie, la fanciulla cieca75, e quella della non meno famosa Certosa di Chartres, un vero e proprio miracolo dell’arte, che colpisce profondamente il protagonista invisibile:

Enfrente de la catedral, parado sobre la grava, pensó que el hombre que veía a Chartres por primera vez la construía en sus ojos, pues la obra realizada en 26 años, con naves, pórticos y vitrales, en unos cuantos segundos nacía entera en la mirada como si hubiera sido trazada en los confines ancestrales de sí mismo76.



È quindi la descrizione dell'interno favoloso del gioiello gotico, delle vetrate policrome, il labirinto del pavimento, il «dédalo figurado en las baldosas», l'immagine ieratica di Notre Dame de la Belle Verrière, e la simbologia della rosa-croce sul pavimento77, tutta una sinfonia di segni e di colori, di blu mitici dei quali non ci è giunto il segreto, captati e proposti da un vero artista.

È questo un aspetto dei più rilevanti del libro, a conferma delle straordinarie doti interpretative, oltre che creative, dello scrittore. Non a torto afferma José Gordon che nel testo di Aridjis «se teje de manera intermitente un poema, una respiración secreta que nos habla de una percepción con lo que todos hemos soñado»78.

Con Los perros del fin del mundo, Aridjis ritorna, invece, ai più che visibili elementi del mondo patrio, reincide nella denuncia del disastro, con un coinvolgimento originale della mitologia indigena.

Nel nuovo romanzo, che si sfaccetta in numerosi episodi suscettibili di vita propria, lo scrittore presenta, come egli stesso chiarisce, il conflitto tra «el supramundo y el inframundo mexicanos», i quali «se parecen», e dove «los sacerdotes del sacrificio humano se han convertido en sicarios sicópatos, y un xolo, el perro mexicano, conduce a José Navaja por estas realidades alucinantes»79.

Come sempre, un'atmosfera grigia copre la città del crimine, ancora Ciudad Juárez, e la pioggia vi contribuisce con la sua tristezza, mentre si susseguono le scosse telluriche:

Ese martes las nubes estaban ribeteadas de gris y por la tarde comenzó a llover. Y llovió tanto que parecía que diciembre deseaba devolvernos a junio. Tapadas las alcantarillas con cenizas y basura, las calles se encharcaron y una cuadrilla de trabajadores tuvo que limpiarlas. Mas apenas había pasado la lluvia, las erupciones volcánicas dieron la impresión de detonar perros, arrojar al mundo carnadas de xolos80.



I xolos sono i cani che, secondo la mitología indigena, scortano nel cammino dell’inframondo i defunti, fino alla presenza del Signore della Morte.

José Navaja, un giornalista di schede funebri, se ne trova improvvisamente uno accanto, Pek, segno che al momento non riesce a decifrare. Il personaggio, come tutti i protagonisti principali dei romanzi di Aridjis, ai margini della società, appare qui immerso nella nostalgia -come il Tomás Tonatiuh di El hombre que amaba el Sol-, per la scomparsa della donna amata. Solo, quindi, in un mondo disastrato e violento, di delitti e prostituzione sfacciata, non è fuor di luogo che la riflessione del personaggio si concentri sulla morte, con una casistica della quale appare esperto.

L'attenzione del necrologista va ai diversi modi di morire, nessuno dei quali è uguale all'altro, e neppure ha lo stesso significato, perché non è la medesima cosa, afferma Navaja, morire in un ospedale o cadere da una terrazza, o essere crivellato di colpi in un téibol, o cadere a testa in giù in un drenaggio profondo, e pure vi è differenza tra dire «privar de la vida», «arrancar la vida», «quedarse exánime», «desangrarse en un accidente», «sufrir una muerte cruenta» o «ser sofocado con una bolsa de plástico en la cabeza»81.

È a questo punto che l'occasionale padrone e il suo cane si fissano come fosse la prima volta che si vedono, «O como si fuesen figuras extraterrestres reencontradas en un paisaje terrestre»: il xolo «con su pelambre descolorido y sus patas engarruñadas, parecía haber pasado mucho tiempo en una tumba»82.

Sta qui il messaggio profondo, il legame con il resto dell'opera creativa di Aridjis: la vita rappresenta solo una riflessione sui modi fortuiti del morire. Il mondo è un disordinato insieme di violenza, esercitata da chi per nulla pensa alla propria finitezza. Gli stordimenti della ricchezza, ottenuta con il crimine, e della potenza fondata sulle armi, vengono dissolti, svuotati dalla morte. Neppure la macchina infernale del potere e della forza armata ha alcun significato duraturo, come non lo ha il piacere dei sensi, sollecitati dall'oscena esposizione femminile, della quale nel romanzo vi è vasta e insistita presenza.

La città appare un bassofondo confuso, privo di ogni valore positivo, regno del caos umano e materiale, dominato dal cosiddetto Señor de la Frontera, che nessuno conosce, con l’eccezione forse -l’inciso è significativo-, di sua madre. I suoi sicari «transgredían los géneros», maschile e femminile83; «Sus matones firmaban cadáveres como firmaban cheques»84. Era il terrore di funzionari e poliziotti, mentre, non meno indotti dal terrore, alcuni giornalisti arrivavano ad esaltare qualità positive, proprie, in certe occasioni, dei grandi delinquenti.

Con evidente ironia Aridjis lo sottolinea: detti pennivendoli assicuravano, incidendo in un inconsapevole bieco umorismo, che il Signore della Frontiera era così cattolico da mandare i suoi sicari, vestiti da sacerdoti, a «regar con agua bendita las tumbas de sus víctimas», e in altra occasione, «apiadado de los familiares de un narcobaladista ejecutado por cantar las proezas de un capo rival había enviado a la funeraria a María Antonieta de la Sierra a cantar en el velorio»85. Si comprende, quindi, quanto José Navaja fosse desideroso di anticipare, di tale personaggio, l’annuncio funebre, come se l’interessato e i suoi sicari potessero così vedere preannunciato il loro destino finale di morte.

Il ritratto che di Ciudad Juárez fa lo scrittore è impressionante. Il giornalista, giunto in città, si trova davanti una serie di avvertenze dell'Honorable Ayuntamiento, affisse a una parete del caffè dove è entrato, e gli si gela il sangue, in quanto tutte sono annunci di morte. Ciudad Juárez è un luogo in cui una passeggiata può finire in una sepoltura, una discussione con la polizia avere conseguenze fatali, neppure evitabili con una mordida. In sostanza, l’avvertimento è che «No importa que alivianado ande», deve fare attenzione alla «Parca, esa zorra vestida de mujer que camina despreocupadamente de noche por las calles con su guadaña al hombro y le hace un guiño»86. Tutto, del resto, è vizio e danaro, in un ambiente dove «la droga es como una hamburguesa de MacDonald: siempre hay una en su camino»87.

Per questi accenti funebri, forte si fa nel lettore, una volta ancora, il richiamo dei Sueños più cupi di Quevedo, ma nel romanzo di Aridjis tutto reca il segno di una ferita viva, denuncia un dramma del quale non giunge l’eco remoto, bensì tutta la drammaticità del momento. Il negrore del mondo descritto dallo scrittore messicano supera di gran lunga quello del grande satirico e moralista ispanico del secolo XVII. La modernità sembra aver perduto ogni attrattiva; il crimine ribadisce la brutalità del presente, la difficoltà dell’essere e del vivere. Con particolare efficacia Aridjis impegna la sua arte in tale denuncia, sottolineando, con la gratuità del crimine, la sconfitta del genere impropriamente detto umano.

Significativo, ad esempio, è il capitolo intitolato En el jardín de las muñecas rotas, dove inaspettatamente il protagonista coglie i segni dello squilibrio mentale degli assassini nella strage di bambole, e, nel medesimo passo, la conturbante offerta alla prostituzione di una púber, cui la «maestra» insegna a imbellettarsi, di fronte ai potenziali clienti88. Verrebbe da dire «Cose dell’altro mondo», ma lo sono di questo, dominato da un ordine di poteri, finanza, esercito e polizia, profondamente corrotti.

In America Latina le forze armate sono, come la storia insegna, un pericolo costante per la democrazia. Aridjis presenta significativamente il muro di soldati che, al Zócalo, si accinge a disperdere pochi manifestanti; li comanda un generale, sorta di dio distruttore, tronfio del proprio potere, carente di ogni sentimento:

De las caballerizas del Campo Militar Número 1 había salido a caballo el general Genaro García Flores con el pecho cubierto de medallas. Su brazo colgaba de un cabestrillo. Sus ojos detrás de las gafas de espejo observaban las tropas. El equino cubierto del cuello a la cola de cerdas plateadas conocía el camino. Detrás vinieron los animales de carga, galoparon con las narinas dilatadas89.



Di certo il passo di cui sopra, che presenta l'intervento militare contro gli emos e i punkeros, allude nella sostanza al tragico evento del 2 ottobre 1968, quando l’esercito represse con la violenza, in vista delle XIX Olimpiadi a Città del Messico, la reazione popolare all’assalto della forza armata all’Università Autonoma, per sedare le proteste studentesche.

La strage di Tlateloco, nella Piazza delle Tre Culture, contò un gran numero di vittime, ancora non chiarito oggi, ma i morti pare fossero centinaia. La stessa scrittrice italiana Oriana Fallaci rimase ferita, colpita da pallottole sparate da un elicottero, mentre dalla finestra della sua abitazione prospicente la piazza, osservava quanto accadeva.

La descrizione della repressione di emos e pulkeros presentata da Aridjis, è impressionante pur nella sua sinteticità:

Veinte policías bloquearon las salidas para que los emos y los pulkeros no pudieran escapar. Veinte agentes descendieron de vehículos armados con pistolas calibre 45 y rifles AR 15. Los veinte dispararon a diestra y siniestra, alcanzando algunas personas que pasaban por la plaza. Al pie de la escalera del Metrobús tres jóvenes cayeron abatidos, cuatro fallecieron con los brazos sobre la jardinera; dos se desangraron sin recibir atención médica; una chica recibió un balazo en la espalda cuando trataba de alzar la cortina de una boutique de uñas90.



Del resto, Tlateloco non era nuovo a tali stragi: il ricordo storico va a un'altra carneficina che vi si era consumata secoli prima, il 13 agosto 1521, da parte dei conquistatori spagnoli e dei loro alleati indigeni, contro gli Aztechi, con l'uccisione, sembra, di approsimativamente 40.000 persone.

Dal supramundo all'inframundo il passo è breve: José Navaja lo compie accompagnato dal suo cane, attraversando un ambito di negrore, di assillanti presenze deformi, tra sommovimenti tellurici, acque grondanti e improvvisi lucori. L’inframondo rappresentato da Aridjis mescola elementi del sopramondo con quelli propri della concezione religiosa azteca, inerenti al viaggio dei defunti verso il Mictlán, nono e ultimo livello del mondo sotterraneo91, con un’inventiva sorprendente, i cui dettagli sono difficili da isolare, poiché la fusione è strettissima, perfetta, carica di raccapriccio.

In una ostentata svalutazione delle vite e delle cose del sopramondo, il cupo ambito che accoglie gli spiriti di chi ha lasciato, in un modo o nell'altro, l'esistenza terrena, si presenta, nella creazione del narratore, come un immenso inferno. Non vi sono ricordi positivi del tempo passato, se non in José Navaja per la moglie perduta, o per la bella Lluvia, che tuttavia nell'inframondo profondamente lo delude.

Panorami surreali si succedono nella creazione di Aridjis, promossi anche dal suo ecologismo, come la foresta ridotta a tronchi92, o il panorama di peni93, a rappresentare, parrebbe, l'inutilità del concepimento, se il mondo è tanto avariato come lo scrittore denuncia. Pipistrelli e altri uccellacci svolazzano per l'ambito tenebroso e migliaia di occhi sembrano scrutare da ogni parte. Rumori improvvisi e assordanti empiono lo spazio, e notti procellose si succedono, come quelle presenti nel mai dimenticato Salgari dell'infanzia, del quale lo scrittore evoca, qui, Los tigres de Mompracem94. Un’acqua contaminata, lurida, cade torrentizia dall’alto e fiumi immondi scorrono trascinando nelle loro acque le brutture del mondo.

Un unico momento liberatorio è rappresentato dall'improvviso canto del cenzontle, «ave de las cuatrocientas voces», Nimus polyglottos, precisa Aridjis, sospeso a un ramo invisibile95: era «el gorjeo más bello» che José avesse mai udito e riaccende in lui sentimenti umani:

Como en su infancia, en el jardín de su madre Josefina, José oyó su visión. Y siguió viéndola hasta que un remolino se la llevó. Cosa que le partió el alma. Pero lo que había visto, y oído, era como la cifra de su pasado y presente manifestada en unos instantes, de un canto fuera del tiempo que sólo pervivía en su memoria96.



Come nell' Inferno dantesco, taluni abitanti dell’inframondo conservano i sentimenti, o quanto meno l’eco di essi. Un paesaggio straordinario, tra il reale e l’irreale, conclude il momento magico sperimentato dal protagonista: «Era un alba que no era alba, pero parecía alba. Era un viento que no era viento, pero parecía viento. Envuelto y desenvuelto, envolvía todo»97.

Nel romanzo vi sono rappresentazioni dei mali del mondo che fanno pensare alla pittura del Bosco, ma ne superano l'efficacia per drammaticità. È il caso dei corrotti e degli affamatoti del genere umano, che parlano una lingua superficiale incomprensibile. José e il cane Pek, suo accompagnatore nell'inframondo, giungono al luogo «donde se come el corazón de la gente», e vedono sfilare gli individui più negativi del sopramondo, corrotti e ancora assetati di ricchezza:

Bla-bla-blá - con la cabeza rapada y la panza descubierta iban los corruptos echándose rollos unos a otros, engañándose con palabras, magnificando su insignificancia. Bla-bla-blá - hambrientos de riquezas cargaban su panza como a una bolsa de oro, cuidándola con delicadeza como a su persona, hasta que reñían a cuchilladas y periodicazos por un pedazo de oro. Bla-bla-blá - sedientos y hambrientos, en vez de agua y alimento se llevaban monedas a la boca, y acompañados por secretarias, guardaespaldas y asistentes se sentían amenazados por secuestradores, policía, socios y parientes, y hasta de su sombra. Bla-bla-blá - los depredadores que cuando hacían negocios causaban millones de pobres recorrían la ciudad del submundo en camionetas blindadas y vidrios ahumados. Bla-bla-blá - entre sudores fríos entraban a una enorme caja fuerte, en realidad un rastro, donde eran destazados. Pero como la bóveda bancaria no podía contenerlos a todos, entre muros de acero esperaban su turno para ser desollados98.



Di questa gente si stupisce persino Xipe Totee, «Nuestro Señor de los Desollados» e dio degli orefici, al quale i sacrificati vengono offerti.

José Navaja prosegue, intanto, il suo tragitto nell'ambito sotterraneo ed entra nel girone finale, il Mictlán, ma senza esserne impressionato, anzi riflettendo sul fatto che forse «el vasto laberinto en que se había perdido estaba dentro de él»99. Altri incontri si susseguono con divinità e defunti, tra essi Moctezuma Xocoyotzin, intento solamente a udire l'eco della caduta degli imperi, vani ormai i riti dell'antico cerimoniale e gli ornamenti preziosi. Il giudizio di Aridjis è severo: «su reinado había sido una larga borrachera cuya resaca le duraría una eternidad»100.

Ma il protagonista giunge a una conclusione rilevante: il sopramondo e l'inframondo, le nostre vite, confluiscono nell'abisso, e «todo es como un sueño de otro»101. Il che conferma la pochezza umana, l'inutilità della cupidigia e della violenza che dominano il mondo, dimentico dell'albero sacro della vita, la ceiba, che dall’inframondo in cui affonda le sue radici, connette il finito con l'infinito, presiedendo le quattro direzioni dell'universo.

Un finale imprevedibile per un libro di denuncia di atroci misfatti come Los perros del fin del mundo, riflessione filosofica profonda sul perché dell'esistere. Il vecchio Seneca dall'antichità aveva avvertito: «non accipimus brevem vitam, sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus»102; è con le nostre opere che la distruggiamo, provocando la distruzione dell'universo.

È questa la convinzione profonda dello scrittore manifesta in tutta la sua narrativa, o meglio, in tutta la sua opera creativa, e nell'attività concreta di tutta una vita.





 
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