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Il problema degli epitaffi ripetuti e le sue derivazioni

Sebastián Mariner Bigorra





La ripetizione di testi epigrafici funebri presenta una problematica singolare, senza connessione con le ripetizioni di titoli degli altri generi epigrafici. A nessuno pare strano che lo stesso testo, votivo, commemorativo o, soprattutto, onorifico, sia stato iscritto su due monumenti o più, benché le notizie che di questi abbiamo li riferiscano forse a luoghi diversi ed anche abbastanza distanti fra loro; e ciò perché il numero di testimonianze di ringraziamento o d'esaltazione onorifica che qualcuno ha voluto far iscrivere non ebbe nessuna limitazione intrinseca. Al contrario, in quello che riguarda gli epitaffi, questa limitazione pare evidente; si direbbe che dallo «statutum est hominibus semel mori» s'inferisca direttamente che non si può morire in più di un luogo.

Dunque, mentre intorno alla molteplicità d'iscrizioni dedicatorie od onorifiche col medesimo testo i critici non sono stati troppo esigenti, e le hanno accolte sotto condizioni non molto dissimili da quelle che si richiedono comunemente per qualsiasi iscrizione (legittimità, cioè, dell'origine loro, rispetto alle forme antiche dell'incisione, nel caso dei monumenti pervenuti fino a noi; onestà dell'antiquario, coerenza del testo e delle formule, nel caso di quelli che, spariti gli originali, noi non conosciamo se non per la testimonianza degli umanisti o per le raccolte deglie eruditi); al contrario, pare che non si sia stati mai abbastanza sicuri dell'autenticità delle iscrizioni funerarie ripetute, soprattutto di quelle che si dicevano trovate in luoghi non molto distanti fra loro. Gli animi parevano spontaneamente inclinati a crederne autentica soltanto una, mentre le altre erano ritenute falsificazioni, se ancora esistevano, o, nel caso che fossero conosciute soltanto perché appartenevano a collezioni, si pensava che fosssero erroneamente assegnate dagli autori di queste a luoghi che loro non corrispondevano. Implicitamente, poi, si faceva derivare dall'impossibilità di morire, ed anche di essere sepolto contemporaneamente in più di un luogo, l'impossibilità di veder commemorata la stessa morte in due luoghi o più, ora come effetto di un cambio di sepoltura, ora come effetto della dedicazione di un cenotafio in un paese lontano da quello dove il corpo era stato realmente sepolto; senza parlare della possibilità che due personaggi omonimi, forse della medesima famiglia, avrebbero potuto scegliere le medesime formule per i loro sepolcri.

Un caso particolare costituivano le ripetizioni di epitaffi con parte poetica. Qui l'ipotesi dell'esistenza di formulari metrici a disposizione dei marmorari aveva trovato una delle più forti ragioni su cui appoggiarsi. La ripetizione dei versi funebri sarebbe una prova del fatto che da un medesimo modello del formulario si ricavavano gli epitaffi qualche volta con tanto automatismo, che anche la parte onomastica era ripetuta senza avvedersene.

Noi abbiamo, in Spagna, ad Ilipula, oggi Niebla, uno degli esempi più rilevanti di queste ripetizioni, la cui storia nelle opere del Hübner e del Bücheler rappresenta un mezzo notevole di illustrazione della necessità di una revisione dei principi metodici intorno al problema che ho osato proporre alla considerazione di questo Congresso.

La prima notizia che ne abbiamo è dovuta a Rodrigo Caro, il nostro grande archeologo-poeta delle rovine d'Italica, nell'opera Antigüedades de Sevilla, anno 1624 (fol. 216, v.). Erano, ci dice Caro, solo tre versi:


Terrenum corpus, caelestis spiritus in me,
quo repetente suam sedem nunc uiuimus illic
et fruitur superis aeterna in luce Fabatus,



ma lo stesso Caro aggiunge che questi versi erano anche parte di un epitaffio fatto porre ad un certo Clodio Fabato da sua moglie Iulia Marcella e riferito nella selezione Epigrammata uetera del Pithoeus; conchiude poi che all'epitaffio ilipulense manca la parte dedicatoria; si tratterebbe, perciò, di un'epigrafe frammentaria. Per altro, ho avuto la possibilità di vedere il piccolo marmo (0,276 x 0,135 m.) pochi anni fa, ed ancora oggi non presenta indizio alcuno di mutilazione. Dico «ancora oggi», perché la stessa affermazione è stata fatta da tutti gli altri testimoni che l'avevano visto prima di me.

Altro errore fu quello di don Aureliano Fernández Guerra in una nota sul lavoro Bosquejo histórico de Niebla, di don Antonio Delgado, Bol. R. Acad. Hist. 18 [1891] 498 ss.), per cui si suppone che, in luogo di una lapide, ci fosse un'urna cineraria «que, rellena por dentro con mortero, transformaron en sillar los árabes», e che la dedica a Fabato sarebbe stata nel suo coperchio. È errato, perché il marmo è stato poi trasportato dal muro della chiesa di S. Martino, dov'era nell'epoca di Fernández Guerra, al muro di quella di Sta. Maria, e non c'è nessuna notizia che assicuri questo carattere di urna.

Un terzo errore, materiale come i precedenti, è quello di J. Albelda (cf. lo stesso Boletín 88 [1926], 487 sgs. Antigüedades de Niebla), per cui la dedica sarebbe ancora nella lapide, «con letras del mismo tiempo, pero que aparecen débilmente indicadas, hasta el punto de pasar inadvertidas, cuando se leen los tres renglones conocidos hasta ahora, sin duda por la idea hecha previamente de no haber otros». Ed è errore, perché, oltre al fatto che codeste lettere a cui Albelda allude non erano incise in profondità come le altre linee «de letra diferente» vedute dall'Albelda stesso fra le linee incise realmente ed anche negli ornamenti che circondano l'epitaffio (sono dunque addizioni, forse grafitiche, forse incise col coltello: io non ho visto nulla), lo stesso epitaffio del Pithoeus è stato nuovamente riconosciuto dal Bormann «in agro Capenati» -non lontano da Rignano-, ed è pubblicato nell'undecimo volume del Corpus, num. 3.963: Marcella non si chiamava Iulia, ma Atilia; dunque la dedica che Caro suppose -che sarebbe stata effetto di una mala lettura di Atilia come se fosse stata Iulia- non può essere mai esistita nell'epitaffio ilipulense, ammesso che l'ipotesi di Caro e degli altri archeologi che lo seguirono, cioè di supporre identica la dedicante dell'epitaffio di Niebla con la dedicante di quello di Rignano, sia vera.

In corrispondenza a questi errori materiali, di autori che vedevano la lapide e non potevano non credere ai loro occhi, vi furono altri errori critici, onestamente ritrattati dagli stessi Hübner e Bücheler (cf. EE 8, p. 380 e l'edizione dei CE del 1921, num. 591): e cioè, prima di tutto, la supposizione che l'epitaffio ilipulense non fosse neppure esistito; poi, che esso sarebbe stato una falsificazione dello stesso Caro. Ma, assicuratosi Hübner per la testimonianza di un suo corrispondente inglese, Mr. Dodgson, dell'autenticità ed antichità della pietra, si lasciò ancora attrarre dalla visione semplicistica a cui ho accennato al principio -l'impossibilità intrinseca della ripetizione «naturale» degli epitaffi- e scrisse: «propter formam tabellae et litterarum e Capena Italiae eo delatum crediderim a docto quodam peregrinatore. Mirum sane si in Fabatum alterum... iterum adhibitum esset ex sylloge aliqua exemplorum quibus lapicidas usos esse saepius observatum est...».

Ma l'ipotesi del «doctus peregrinator» non fa altro che trasportare in Italia la ripetizione dell'epitaffio... E neppure ciò ci spiega un altro caso di ripetizione, molto più epigrafrica, se mi si lascia chiamarla così, cioè quella del num. 6.130 del Corpus II, uguale al 23.042 del Corpus VI, con la sola variante della risoluzione delle sigle di Dis Manibus e lo scambio di qualche interpunzione:


D. M.
SEXTI . PERPENNAE FIRMI
VIXI . QVEM . AD . MODUM . VOLVI
QVARE . MORTVVS . SVM . NESCIO



Qui neppure il valore filosofico del contenuto, nonché quello poetico della forma poté essere cagione bastante a sollevare l'ammirazione di nessun «doctus peregrinator».

Resta, dunque, l'argomento dei formulari, già dallo stesso Hübner proposto senza troppo fidarsene. E, certamente, ammettendo che fosse stato adattato da un formulario, da un marmorario inetto a un grado tale da lasciare con i versi anche il nome di Fabatus, quale sarebbe stata l'utilità di questi versi nel nuovo epitaffio, dove non c'è nessun'altra informazione né del defunto né del dedicante se non questa ipoteticamente falsa? Non si può ammettere la ripetizione se non con la condizione espressa dallo stesso Hübner: il defunto sarebbe stato un altro Fabatus. Ma se vale questa condizione, dov'è allora la necessità del formulario, bastando supporre una relazione di famiglia, alla quale l'identità del nome non farebbe altro che giovare?

Non è, certamente, il mio scopo quello di riassumere qui la discussione dell'ipotetica esistenza di questi formulari. La mia opinione è stata lungamente spiegata nella mia tesi di laurea sulle iscrizioni metriche della Spagna. L'ho appoggiata dopo, aggiungendo agli argomenti ivi esposti quello che risulta dalla somiglianza fra due epitaffi tarraconensi, uno dei quali scoperto recentemente negli scavi dell'Anfiteatro e che ripete quattro dei sette versi di quello finora conosciuto. Ciò che mi propongo di fare è una distinzione profonda fra la questione dei formulari e l'esistenza d'epitaffi ripetuti, alla quale potranno conformarsi anche quelli, se vi sono ancora, che credono all'esistenza dei «manuels professionels des graveurs d'inscriptions Romaines», come li chiamò il Cagnat, uno dei suoi fautori più notevoli, in un articolo diventato celebre (Rev. de Philol. 1889, pp. 51-65). Mi pare, dunque, molto più verisimile di tutte le altre ipotesi ammettere, per quello che riguarda i doppi epitaffi di Fabatus e di Sextus Perpenna Firmus, che essi si riferiscano agli stessi morti, i quali ebbero una sepultura in Spagna ed un'altra (reale o soltanto onorifica) in Italia. Almeno questa ipotesi può essere appoggiata non su altra ipotesi, ma sul fatto, conosciuto per mezzo di tanti altri monumenti, della dedica di nuove sepolture senza che vi fossero davvero i morti a cui erano state offerte. Gli epitaffi ripetuti sono, dunque, da spiegare con ragioni storico-culturali, connesse con le idee escatologiche dei Romani, o con il costume di trapassare ai figli i nomi dei loro padri; o forse ancora per molte altre ragioni, ma nessuna di carattere letterario. Al contrario, il problema delle formule metriche che appaiono su molti monumenti funerari, ma sono dedicate a morti diversi, è un problema meramente letterario, e non vi è nessuna relazione fra l'uno e l'altro.

Per conseguenza, nei metodi delle nostre ricerche credo che possiamo pensare se non sarebbe opportuno lo studio delle ragioni che per ciascun caso abbiano determinata la ripetizione degli epitaffi; giacché non è lecito spiegare a priori tutte le ripetizioni con una ragione sola, sia essa l'ominimia, sia il costume dei cenotafi, sia un'altra qualsiasi.

E, accettata la possibilità dell'esistenza d'epitaffi ripetuti, vi è un altro aspetto della critica delle iscrizioni che forse bisognerebbe rifare in qualche modo: se vi sono stati in Spagna e in Italia gli stessi epitaffi con gli stessi nomi, non è da escludersi la possibilità che vi fossero anche in due città di una stessa provincia. Dunque, prima di rigettare come errori le testimonianze delle raccolte erudite quando ci dànno come riferito a più di un luogo un epitaffio, come si fa sistematicamente, supponendo che una delle due attribuzioni sia erronea, non sarebbe opportuno cercare e poi spiegare le ragioni che ci impediscono di dar fede ad ambedue?





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