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ArribaAbajoParte II

La commedia romantica


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ArribaAbajoCapitolo I

Gli ultimi anni del regno di Fernando VII


Al tramonto del regno di Fernando VII, quando le nozze con Cristina e la nascita di Isabella contribuirono ad attenuare il rigore della tirannide, la commedia spagnola offre, di riflesso, quadri meno desolati della società contemporanea. Certo continua a puntare il dito sulle falle più appariscenti di essa, ma insieme sembra voler infondere una speranza nei rimedi e illuminare gli aspetti positivi del tempo.

Spesso accade che la società con i suoi problemi tenda a esser proiettata sullo sfondo, mentre, a modo di compensazione, il personaggio aspira nuovamente a ruoli centripeti.

Si capisce che i personaggi continuano, in generale, a interpretare vizi e virtù propri del tempo, ma ciò avviene su di un registro prevalentemente individuale che offre all'autore il destro per analisi, più attente di quanto non accadesse in passato, delle reazioni psicologiche.

La maggior apertura culturale che si verifica in Spagna dopo il 30, soprattutto nei confronti delle lettere straniere, determina inoltre un accoglimento più puntuale e cosciente di motivi romantici; non è ancora la pienezza dell'adesione che si realizzerà con Bretón dopo il 35, ma già si ha la chiara impressione che sia ormai trascorsa la fase di una ingenua orecchiabilità.

Vengono affrontati ora temi che rientrano con pieno diritto nel sistema romantico: opposizione fra amore genuino e amore sofisticato; scarto fra realtà esistenziale e modello letterario; problemi della sensibilità, dell'intesa fra gli uomini, del linguaggio sincero e del retoricismo ingannevole; così pure l'insoddisfazione, l'incapacità di render felici sé e gli altri, il piacere delle cose semplici.

Nonostante tutto ciò, non sono, le commedie di questo periodo, capolavori di indagine psicologica, ma rivelano, in alcuni casi, un interesse inconsueto per il dibattito delle idee e l'esposizione dei sentimenti; per questo il dialogo tende ad abbandonare la genericità e a divenire più denso e sottile. Come, in fondo, si addice a questi personaggi: banditi i figurones, prevalgono ora individui appartenenti alle sfere più colte della borghesia che sembrano preannunziare quell'alta comedia destinata a trionfare un decennio più tardi.

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Nello stesso tempo, un certo allentamento nelle maglie della censura permette ai commediografi di avventurarsi nuovamente nei territori, fino ad allora insidiosi e sospetti, dell'insegnamento morale incisivo ed esplicito non senza incursioni nelle zone della politica e della sociologia.

Il primo sintomo di un tale rinnovato interesse è offerto da Carnerero che, nel giugno del 1830, fece rappresentare El afán de figurar, una delle tante traduzioni-rielaborazioni del teatro francese, in cui biasimava l'arrivismo politico. Quasi a maggior conferma dei tempi nuovi, impostava buona parte della vicenda su di un libello politico consegnato da un delatore al ministro interessato e causa di una serie di peripezie: situazioni, insomma, verosimilmente impensabili qualche anno prima.

Dopo Carnerero, toccava a Larra riprendere, con un'altra rielaborazione dal francese, il vizio dell'ambizione, questa volta di tipo sociale. In No más mostrador, rappresentata nel 31, era messo in ridicolo il fatuo desiderio di una bottegaia di accasare la figlia con un conte, sia pure spiantato. Motivo antico, certo, ricco di antecedenti che risalgono almeno ai Menestrales, ma che qui è rinverdito da una prospettiva sociale più aperta che è prevalentemente di Larra e solo parzialmente del modello. L'autore spagnolo travasa infatti nella sua commedia quelle concezioni sociali che affiorano spesso nella sua saggistica; soprattutto quella sua convinzione che la clase media costituisca il centro propulsore della nazione spagnola. Ne nasce dunque un'esaltazione dell'attività mercantile e, attraverso di essa, del buon borghese che appare certamente preferibile a un aristocratico inutile e cacciatore di dote.

Un atteggiamento di fondo abbastanza ardito per i tempi, soprattutto per la chiarezza con cui emergeva; tanto che Carnerero, recensendo l'opera, sentiva il dovere di segnalare l'esigenza

que el Conde no hiciese un papel tan mezquino y despreciable, o por lo menos que formase más exclusión de la generalidad de su clase.79


Un tema molto affine, ma spostato su di un piano prevalentemente etico e psicologico, veniva infine affrontato da Coquetismo y presunción, una commedia originale con cui Flores Arenas raccolse il primo, e forse unico, grande successo della sua carriera di commediografo.   —83→   La commedia, il cui debutto ebbe luogo al teatro de la Cruz il 7 maggio del 1831, sette mesi prima di Marcela, era, come l'opera di Bretón, una sorta di ricerca condotta intorno all'amore; e, come quella, si risolveva in un nulla di fatto, lasciando che ogni personaggio ritornasse a occupare la casella da cui aveva preso le mosse.

A differenza invece di Bretón, che in Marcela scoprirà la possibilità di un felice disimpegno, Flores Arenas si atteggia a moralista, proponendosi appunto di censurare i due vizi che indica nel titolo della pieza. Sotto questo aspetto Flores partecipa a quel ritorno di preoccupazioni morali e didattiche che coinvolge un po' tutti (Bretón, al solito, occupando un posto a sé) in questo scorcio dell'età fernandina. È quasi una rivalsa dopo circa un quindicennio nel quale il sospettoso e miope autoritarismo aveva imposto ai commediografi di accontentarsi di blande riprovazioni di difetti superficiali e di affidare intenzioni etiche più profonde alle sollecitazioni di richiami indiretti e di situazioni allusive.

Il vizio che l'autore biasima in entrambi i protagonisti (poiché il coquetismo della fanciulla non è altro che la versione femminile della presunción del giovanotto) è la presunzione nel campo amoroso: da una parte Antonio è talmente convinto del suo fascino che entra sotto il falso nome di Fermín nella casa della promessa sposa con l'intento di farla innamorare di sé senza rivelarle la sua vera identità; dall'altra Adela pretende di essere corteggiata e amata senza dover corrispondere in alcun modo. La disillusione dell'uno e dell'altra è il giusto castigo che li colpisce; peccato che, per conseguirla, anziché realizzare lo scontro dei caratteri, Flores abbia fatto ricorso al consueto deus ex machina, qui rappresentato dal cugino Luis.

Questi si assume il compito di castigare Antonio e Adela, facendo innamorare di sé quest'ultima e organizzando le cose in modo che Antonio ne venga informato ma che egli, all'ultimo momento, possa liberarsi dignitosamente dall'impegno.

Ma l'aspetto per noi più interessante della commedia sta nell'aver attribuito ai due presumidos tratti caratteristici del manierismo romantico, i quali costituiscono, peraltro, uno degli aspetti più negativi e risibili del loro comportamento.

Antonio-Fermín ha la mania della sensibilità, che esprime secondo gli schemi di quel romanticismo xenofilo che era, in quegli anni, la forma più vistosa, se non l'unica, nella quale il movimento si era   —84→   fatto conoscere agli Spagnoli. Ad Adela e a sua madre Doña María che, rattristate dalla grave infermità di una loro congiunta, ne descrivono le sofferenze, replica che quanto a sensibilità nessuno supera le francesi; quindi narra una sua avventura erotica e finisce per aggiungere particolari del più tipico Kitsch romantico, quanto mai inopportuni in quella circostanza:


En todo el norte
suelen morirse de celos
o de amor, con la frecuencia
que por acá morir vemos
todos los días de asma,
calentura, o mal de pecho.
Allí una mujer se ahorca
o se atraca de veneno
con la frescura del mundo
por lo que aquí importa un bledo.
.........................................
¿Por ventura no sabemos
que en el Támesis y el Sena
se encuentran cada momento
cadáveres a montones,
víctimas de su despecho?


(I, 6, p. 33)                


Anche Adela tocca il tasto della sensibilità ma, senza l'improntitudine di Antonio, vi fa ricorso nell'intento di sedurre Luis, cui languidamente dichiara, per spiegare un proprio finto malessere:


En este mundo
a nadie faltan cuidados,
y más a quien por desgracia
es sensible.


(II, 2, p. 67)                


Ma Luis, che non abbocca, ricorre a sua volta al linguaggio dell'amore romantico e con quello riesce, se non a sedurre la fanciulla, almeno a farle credere alla sincerità dei suoi sentimenti. Dapprima esce in un convinto elogio della sensibilità che distingue l'uomo dal bruto e senza la quale «l'amore sarebbe un nome vano»; poi comincia la finzione retorica:


Abrumado
da pesares, de tristezas,
aún puede tal vez la mano
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del tiempo, y la reflexión
curar la llaga, que el dardo
del amor abrió en mi pecho;
..........................................
este amor, que eternamente
debiera estar encerrado
dentro de mí, ya en su furia
rompió del deber los lazos...


(II, 2, pp. 68-69)                


Don Luis usa pertanto questi artifici espressivi coscientemente, ben sapendo che, alle orecchie della sofisticata Adela, essi suonano come una perfetta imitazione dell'amore. Ben altro è naturalmente, per lui, l'amore autentico, che si realizza nella fedeltà costante e nella semplicità di un rapporto che rifiuta qualsiasi forma di artificio. Non a caso Antonio-Fermín lo accusa, al riguardo, di gusti volgari:


¿No ves, Luis,
que ya estás a vulgo oliendo?
¡Cuánta falta te está haciendo
un bañito de París!


(I, 5, p. 24)                


Il che conferma come il comportamento di Luis sia genuinamente castizo. A buon diritto perciò, alla fine della commedia, il serio giovane potrà impartire, ai due presuntuosi, consigli per un matrimonio pienamente rispettoso delle virtù tradizionali. Ad Antonio:


Busca esposa amante y fiel,
que es el mayor tesoro ecc.


Ad Adela:


Sea en todo compromiso,
formal, constante, amorosa ecc.


(III, 11, pp. 154-155)                


Il moralismo un po' greve e scoperto di Luis non impedì alla commedia di conoscere sette repliche nel 1831 e di comparire in cartello per molti anni successivi; e probabile che lo si debba in buona misura a quella satira antiromantica che, col diffondersi del movimento, andava acquistando sapore di sempre maggiore attualità e,   —86→   grazie ai suoi accenti xenofobi, si accattivava l'approvazione dei fautori del justo medio80.

Le stesse ragioni determinarono probabilmente l'analogo duraturo successo di Contigo pan y cebolla (6 luglio 1835), in cui Gorostiza, poco prima di lasciare definitivamente la Spagna, tesseva per l'ennesima volta la trama della beffa giocata a una persona al fine di porla dinanzi a una realtà ineludibile81.

L'anima della beffa è, in questo caso, il giovane Eduardo che, per sposare la troppo sentimentale e fantasiosa Matilde, è costretto a fingersi povero, a immaginare un matrimonio contrastato e a organizzare un finto rapimento. La vita misera che i due sposi sono costretti a condurre, unita a una serie di umiliazioni e contrattempi, fa rinsavire Matilde: ella accoglie come un liberatore il padre che, complice del gioco, la riconduce a vivere, con lo sposo, nell'agiatezza della vecchia casa.

La satira è propriamente diretta contro «las jóvenes de diez y siete años que leen novelas» (le quali sole possono gustare «los placeres de la indigencia» e disprezzare «las ruines comodidades de la vida», IV, últ., p. 119) e il suo fondo letterario appartiene alle regioni del sentimentalismo preromantico e popolare: Paolo e Virginia (nella cui isola Eduardo finge di volersi esiliare) e, appunto, i romanzi popolari (si può pensare alle novelas por entrega) in cui -come dice il saggio servitore Bruno- un giovane «de los ojos dormidos y pelo crespo» e di incerti natali, finisce per sposare «una joven boquirrubia que se muere por sus pedazos» (I, 1, p. 6).

Ma, a parte questi espliciti riferimenti, un più generale richiamo è rivolto verso quel gusto, fra letterario e di costume, che il romanticismo   —87→   aveva ormai largamente diffuso e i cui ingredienti sono facilmente ravvisabili nella ricerca di un amore impossibile, nel ratto, nella mitizzazione dell'indigenza. Ne è interprete Matilde, che si atteggia a eroina romantica nell'esaltazione, al solito, della propria raffinata sensibilità («A mi edad, con mi sensibilidad, y en las circunstancias terribles en que me hallo...», I, 3, pp. 13-14) e nell'amore per le scene madri, ricche di patetismo. Dopo che Eduardo si è dichiarato, ella irrompe recitando la parte della figlia indegna e pentita:

¡Ah! Padre mío, y qué criminal debo de aparecer a los ojos de usted (...) arrastrada por una pasión irresistible (...) que como una erupción volcánica...


E, dopo un'interruzione di Eduardo, prosegue:

Calle usted; no me distraiga... se apoderó de mi pobre corazón, que estaba indefenso (...) no seré nunca de otro (...) pero gemiré en silencio sin ser suya, o iré a sepultarme en las lobregueces de un claustro.


(I, 8, pp. 24-25)                


La scena naturalmente risulta comica perché il padre, al contrario, non ha nulla da rimproverarle e anzi esprime la sua più viva approvazione per le future nozze. Coerente sino in fondo, Matilde, quando apprende che il padre non si oppone e che, inoltre, il suo fidanzato è ricco, vede cadere i principali ingredienti dei suoi sogni sofisticati e decide di respingere l'amore di Eduardo.

Seguendo uno schema che si va sempre più diffondendo e che troverà il suo pieno sviluppo qualche anno più tardi nell'opera di Bretón, Gorostiza contrappone all'affettato manierismo della fanciulla quella che più tardi si sarebbe definita la visione «classica» dell'esistenza: una visione ispirata al buon senso che non poteva non suscitare vivi consensi fra gli spettatori. La impersonano soprattutto Eduardo e Don Pedro, il padre della fanciulla: due persone agiate, amanti di una vita normale e di un quieto vivere. La prospettiva borghese domina, al solito, in questa commedia; anzi, appare perfino esasperata, al punto da tradursi in spunti antipopolari e in accenti di freddezza calcolatrice.

Infatti la sola persona del popolo che vi compaia è una vicina di casa dei novelli sposi, la quale risulta così petulante e triviale da far avvertire alla fanciulla gli inconvenienti cui va incontro chi si appresta a scendere lungo la scala sociale.

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Del pari, Gorostiza trae i suoi spunti in certo modo didattici dalla dimostrazione di quanto sia umiliante per una fanciulla «di buoni natali» essere costretta alle fatiche manuali e a guadagnarsi la vita lavorando. Anzi, è proprio l'offerta di un lavoro, fatta a Matilde da un'antica compagna di scuola, quella che fa traboccare il vaso della disperazione. L'amica appare dinanzi alla giovane sposa come il simbolo di una concezione esistenziale totalmente opposta alla sua; sebbene infatti, nei lontani anni del colegio, ella avesse condiviso con Matilde gli spericolati idealismi, a un certo punto ha preferito il confortevole calore di una vita agiata; per questo ha sposato, pur senza amarlo, un ricco marchese ed è ben contenta della scelta compiuta. È curioso come Gorostiza, trascinato dall'amore della tesi, giunga infine a presentare come esemplare un matrimonio di interesse: il che dimostra, se non altro, quanto sia ormai lontano Moratín.

Egrave; vero tuttavia che l'interprete più autorevole del pensiero dell'autore è Eduardo, romantico a modo suo, proprio nel ripudio del conformismo assurdo di Matilde oltre che nel suo amore solido e sincero, disposto ai sacrifici, in una parola tradizionale e castizo.

¡Muchacha encantadora! -esclamerá dinanzi ai gorgheggi sentimentali di Matilde, soggiungendo-: Es lástima por cierto que haya leído tanta novela, porque su corazón...


(I, 5, p. 17)                


Non per questo il suo affetto diminuisce, come dimostra, in fondo, il ricorso a tanti stratagemmi pur di ottenere il consenso dell'amata82. Entrambe le commedie si muovono dunque in quella zona dell'antiromanticismo romantico che acquisterà piena consapevolezza nel secondo lustro degli anni Trenta ma che già aveva conosciuto i suoi banditori ufficiali fin dal 1828, col Discurso di Durán. Polemici nei confronti delle «esagerazioni» (il vocabolo entrerà fra breve nel lessico di ogni trattato sull'argomento) del romanticismo straniero, Flores Arenas e Gorostiza si fanno invece paladini di quei «placeres más tranquilos e individuales», di quell'amore più spirituale e «delicado», di quella «felicidad doméstica, único fin a que aspiraba   —89→   el pacífico ciudadano», che, appunto secondo Durán, caratterizzano il mondo cristiano-romantico in opposizione a quello pagano-classico83.

Non mancano naturalmente tentativi di commedie in direzione di un romanticismo per così dire più ufficiale e conformistico, magari attraverso l'impiego di surrogati che l'incerta informazione del tempo poteva far passare per prodotti romantici genuini.

Eugenio de Tapia, per esempio, appena rientrato dall'esilio e quindi non privo di una qualche informazione sul movimento, sembra voler rinverdire, ne La madrastra, la vecchia commedia lacrimosa; un genere in verità mai scomparso del tutto dalle scene e i cui toni sembravano affiorare di tanto in tanto anche in commedie di più lieve impegno.

Vi narrava le persecuzioni che una matrigna infligge alla figliastra Leonor, complice la debolezza del padre di quest'ultima e la consueta clausola testamentaria che vincola il godimento dell'eredità al matrimonio di Leonor con un non amato cugino Don Fabián. L'intervento del solito zio ricco di bontà e di buon senso e il pentimento tanto repentino quanto imprevedibile della matrigna permettono infine che la fanciulla sposi l'amato Don Félix.

Alla trivialità degli abusatissimi modelli semiologici corrisponde una certa dignità nella trattazione che punta soprattutto sulla delineazione dei caratteri dei «perversi»: quello di Doña Carmen, la matrigna, se non cadesse nel finale, e quello della fredda, astuta Doña Mercedes, la madre di Carmen.

Ma la ricerca di un troppo facile patetismo conduce l'autore a un linguaggio che arieggia sì quello romantico ma che rimane ancorato al vecchio gusto larmoyant. Si legga, a modo d'esempio, una delle scene madri in cui il padre tenta di imporre a Leonor le nozze con il cugino:

DON JUAN
No hay remedio;
o das la mano a tu primo,
o encerrada en un convento
vivirás
DOÑA LEONOR
Este partido
al matrimonio prefiero.
DON JUAN
¿Estás resuelta?
DOÑA LEONOR
Lo estoy.
Morir encerrada quiero
—90→
antes que un sí pronunciar
con falsedad en el templo.
DON JUAN
¿Quién te ha dado esa firmeza?
DOÑA LEONOR
Mi conciencia.
DON JUAN
Ya no puedo
sufrirte más.
DOÑA LEONOR
Padre mío,
perdonadme si os ofendo.
DON JUAN
A Dios. ¡Nunca yo te hubiera
dado el ser! ¡Día funesto!

(II, 3, pp. 52-53)                


D'altronde, nel 1831, l'anno di Marcela, questo era forse il massimo che si poteva pretendere in fatto di adesione al linguaggio romantico.

A taluni degli inconvenienti ora segnalati Tapia seppe tuttavia porre rimedio nella commedia che mandò in scena l'anno seguente: Amar desconfiando o la soltera suspicaz. In essa continuava nella descrizione attenta dei caratteri, qui concentrando la sua attenzione su quello della protagonista che fornisce all'opera il secondo titolo. Si tratta di una marchesa che, rosa dalla gelosia e da una generica sfiducia negli uomini, immagina continui tradimenti del suo fedelissimo e impeccabile fidanzato Don Carlos.

Stavolta ci troviamo dinanzi a un personaggio che già possiede tratti marcatamente romantici: la fanciulla -pur attirandosi la riprovazione di tutti, autore compreso- è in fondo un essere sofferente, tormentato e tormentoso suo malgrado, che sente l'angoscia di un mondo il quale a lei mostra continuamente cento volti fallaci. Una certa fatalità, romantica anch'essa, sembra spingerla contro voglia a soffrire e a far soffrire. Come riconoscerà ella stessa sul finire della commedia:


un fatal signo
me hizo que apurase el cáliz
de la amargura.


(IV, 5, p. 249)                


Peccato che la mania del lieto fine e un certo irreprimibile moralismo abbiano, anche in questo caso, forzato la mano all'autore spingendolo a descrivere una patetica conversione della protagonista che improvvisamente capisce i suoi errori.

A questa maggiore adesione alla nuova sensibilità si accompagna anche un linguaggio meno languido, ispirato ancora a un romanticismo   —92→   manierato, il quale suona al nostro orecchio falso e costruito ma certamente rappresentava per le platee del tempo una discreta novità. Eccone un esempio nel frammento di una battuta della marchesa:


¡Hombre injusto! ¿En qué aciaga
hora se prestó mi oído
a escuchar sus voces falsas?
¿Qué le hizo a usted esta débil
muger para alucinarle
y clavar con dura mano
un puñal en sus entrañas?


(II, 10, p. 189)                


Oppure:


Triunfe mi rival: la amarga
sonrisa el galardón sea
de mi insensata pasión,
de mi gran condescendencia.
Así estará satisfecho
ese corazón de piedra...


(III, 4, p. 209)                


Logicamente, toni di questo genere non pervadono l'intera commedia, che altrimenti sconfinerebbe nel dramma: ciò non toglie che l'opera di Tapia per molti versi vi si avvicini e in qualche caso, come in quelli che si sono visti or ora, anticipi gli accenti che un paio d'anni più tardi avrebbero preso a risuonare sulle labbra dei più cupi eroi del romanticismo trionfante.

Al teatro del siglo de oro sembra invece richiamarsi Javier de Burgos nel suo Baile de máscara che fu rappresentato a Granada nel 183284. Vi si accumulano in effetti i vecchi ingredienti del travestimento (con un gioco così fitto di sostituzioni che difficilmente il pubblico sarà riuscito a seguire)85, degli equivoci conseguenti e di una conversazione fiorita e altamente intellettualizzata. Non manca   —92→   neppure un esplicito richiamo al teatro antiguo nella persona del protagonista, Don Pedro:


Las piezas de Calderón
son su placer, su recreo,
y donde no hay discreteo
él no encuentra diversión.


(I, 1, p. 270 b)                


Appunto uno dei nuclei centrali della commedia è rappresentato dal raffinato e coltissimo discreteo fra il suddetto Don Pedro e Julieta. Nel corso delle loro conversazioni vengono passati in rassegna alcuni degli argomenti di maggior discussione nel tempo: l'istruzione femminile (ovviamente delle niñas bien criadas), difesa con dovizia di argomenti anche se nei limiti di un justo medio:


Éste es el medio acertado,
que entre dos estremos toco,
que es tan malo saber poco,
como saber demasiado;


(III, 3, p. 303 b - 304 a)                


gli errori e le conseguenze -vecchio tema- di un'educazione ipocrita:


Así en engaño o ficción
por fuerza la muger para,
pues o ha de tapar la cara,
o encubrir el corazón;


(II, 8, p. 292 a)                


o le più sottili distinzioni, queste pienamente nel gusto dell'epoca, fra il sentimento e la passione:


Éste es por sí puro y bueno,
aquélla hace al hombre esclavo.
Así el sentimiento alabo,
mientras la pasión condeno.


(I, 10, p. 281 b)                


Proprio dunque sul piano dell'apprezzamento per la reciproca discreción nasce l'intesa fra i due. Si tratta di una comprensione e di un accordo sul piano comunicativo che non solo conducono all'amore   —93→   prescindendo dalla bellezza fisica (i colloqui si svolgono sempre al riparo della maschera) ma sono anche più forti dei travestimenti e degli scambi di persona: Julieta cambia il suo costume con Rosita; Don Pedro crede che Julieta si chiami Rosita e che sia la sorella di un amico suo che invece ne è il pretendente; la zia Antonia tenta ogni espediente per impegnarlo con Rosita; nonostante tutto ciò, egli, pur equivocando sul nome, chiede la mano di Julieta.

Il tutto ha quasi il sapore di una favola simbolica: in un mondo di pure apparenze continuamente cangianti, in cui ognuno si serve della maschera per ingannare il prossimo, e in cui pertanto gli equivoci sono il fenomeno più ricorrente, fermo e incapace d'errore rimane soltanto l'amore autentico, quel sentimento «por sí puro y bueno» che si realizza come superiore intesa di spiriti.

Egrave; forse questa la geniale trovata della commedia, quella con cui Burgos paga il suo tributo al romanticismo86.

Infine anche Martínez de la Rosa, appena ritornato dall'esilio, offre il suo contributo al teatro comico, rielaborando Los celos infundados o el marido en la chimenea, che aveva già abbozzato durante il suo soggiorno in Francia.

Egrave; curioso notare come questo scrittore vada sempre più orientandosi verso forme di assoluto disimpegno: questa che va in scena alla fine di gennaio del 1833 è una farsa abbastanza grossolana in cui una moglie, nascosto in un camino il marito ingiustamente geloso, lo fa assistere a un suo colloquio con un presunto corteggiatore. Puro divertimento, facile e popolaresco, conobbe -come c'era da aspettarsi- un elevato numero di repliche nello stesso anno e ancora nei successivi.

La produzione di questi ultimi tre-quattro anni del regno di Fernando VII (che include anche la Marcela di Bretón della quale ci si occuperà nel prossimo capitolo), abbastanza intensa e quasi tutta di buon livello, è la testimonianza di una ripresa culturale che si intensifica soprattutto con l'amnistia del 32 e il conseguente ritorno dall'esilio di tanti ingegni.

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Del posto di rilievo che nel quadro della cultura nazionale va riacquistando il teatro comico offre conferma l'improvviso interesse della critica giornalistica la quale conosce una discreta fioritura di recensioni spesso attente e scrupolose. La critica, che negli anni precedenti aveva trascurato alquanto il teatro nazionale, sembra ora sospinta verso di esso dall'ottimistica convinzione di assistere a una rigogliosa ripresa del genere. Larra, che non era certo uomo da accontentarsi facilmente, esprimeva, all'inizio del 33, il suo compiacimento per l'intensa e valida produzione degli ultimi anni:

nos atrevemos a asegurar que hace mucho tiempo que no se han agolpado al templo de Talía y de Melpómene tantos candidatos a la corona de laurel: apenas transcurre un mes en que no hayamos visto una de esas raras apariciones; en pos de Moratín y a más o menos distancia de este coloso dramático vemos marchar un número respetable de composiciones que, si bien no pueden, las más, rivalizar con el gran maestro, honran y no poco nuestras tablas.


E citava, a sostegno della sua affermazione:

las varias comedias del señor don Manuel Bretón de los Herreros que sucedieron a las de Gorostiza, las del señor Gil, las dos del señor Tapia, Coquetismo y Presunción, Cristina, No más mostrador;


e infine Los celos infundados, di cui si stava specificamente occupando: in gran parte, come si vede, commedie di epoca recentissima87.

A loro volta, queste recensioni rivelano, tutte, un'impostazione culturale di fondo, la quale rifiuta l'idea di una commedia che non risponda ai canoni letterari o che si proponga come fine il puro divertimento; tanto che, quando questo accade, ci si premura di sottolinearlo come se si trattasse, appunto, di un caso eccezionale. Il recensore de Los celos infundados si preoccupa perfino di scagionare l'autore:

Estamos persuadidos -afferma- de que el autor no ha tratado de hacer más que un juguete, y no una comedia en regla.


Ma quasi per riscattarla, loda, della commedia di Martínez de la Rosa, quelle componenti letterarie che la collocano in un rango dignitosamente culturale:

  —95→  

es difícil hallar un diálogo más animado, ni más agradable (...) natural, de buen tono, gracioso sin ser chocarrero...88


Alle spalle di queste analisi stanno due convinzioni pregiudiziali: in primo luogo che la commedia appartenga al «genere classico» e che pertanto debba essere l'espressione di una raffinata letterarietà; in secondo luogo che si rivolga a un pubblico particolarmente selezionato.

Si fa assertore chiarissimo di entrambi i principi nientemeno che Agustín Durán89 il quale, quattro anni dopo aver lanciato il manifesto del romanticismo spagnolo col suo celebre Discurso, passa ora a esaltare la «classicità» di Tapia in Amar desconfiando, che definisce «una nueva comedia clásica en toda la estensión de la palabra». Durán vede in Tapia un «discípulo e imitador de Molière y Moratín» che ha ottenuto «un triunfo inesperado en una época tan contraria al género que cultiva». L'epoca infatti, aveva asserito il critico poco prima, è orientata verso emozioni violente e verso una recitazione esuberante di gesti e di grida, ossia verso quell'esasperazione delle passioni «que algunos confunden con el bello y sublime romanticismo».

Secondo una tesi tante volte perseguita da Durán e destinata a divenire familiare tra gli Spagnoli, la causa di un tale cattivo gusto del pubblico e degli attori risiedeva in un inopportuno accoglimento delle mode straniere e in una deviazione dalla tipica sensibilità nazionale. Tanto che, egli affermava, quando gli stessi attori rappresentano commedie del «teatro antico» rivelano doti istintive di «naturalidad, gracia, espresión, buen oído».

Il male è, dichiarava Durán, che

Ya no somos clásicos a la griega ni románticos a la española.


Ma ciò che egli voleva -e che traspare dalle righe di questa recensione- era che ci si mantenesse «a la española», qualunque fosse il «genere» prescelto: romantico o classico. In altre parole: romantici sulla scia del «sublime» Calderón, classici su quella del «culto» Moratín. Sublimità e cultura si definivano pertanto come   —96→   i due poli in cui si manifestava il genio drammatico nazionale: Volkspoesie e Kunstpoesie del teatro spagnolo, ma nell'ambito di quel justo medio ispanico e castizo che era destinato a divenire il tratto caratteristico del romanticismo in terra iberica.

La distinzione fra i generi sottintendeva una differenza di pubblico: nell'articolo in esame, Durán attribuisce chiaramente alla commedia classica un pubblico adeguatamente colto e raffinato. Premette infatti:

El instinto de buena sociedad que a fines del siglo XVIII ponía el público en el caso de apreciar las gracias de un estilo sencillo, la naturalidad y rapidez del diálogo, la verosimilitud de los lances, la fina, culta y delicada sátira, parece que se ha dirigido a otro de sensaciones acres y terribles, a un estilo declamatorio y cargado de color, que se complace a desgarrar el alma...


E, nel caso specifico, racconta:

Su [di Tapia] nombre, ya conocido ventajosamente en la república literaria, atrajo espectadores ilustrados al teatro, y allí sin máquinas, sin tramoyas, sin aparato de pasiones ni de gritos, sin puñales y sin chocarrerías de bajo cómico, ni gracias groseras, consiguió, con solo el auxilio de una decente ejecución, entretener y agradar al pueblo reunido, e incitar aquella sonrisa templada que indica el triunfo de la alta y culta comedia, sin mezcla alguna de la risa desmedida impropia de la buena sociedad...90


Altri critici risultano meno espliciti di Durán ma ci si accorge che muovono da uguali premesse e convinzioni, ora nel rimprovero che rivolgono alle gracias groseras e alle palabras malsonantes, ora nell'istanza, che continuamente formulano, di rigore strutturale e di verosimiglianza.

«Trivialidades» e «frases atrevidas e indecorosas» vengono attribuite a No más mostrador91; «frases demasiado libres» e «frases malsonantes» sono rimproverate a Marcela92, mentre il recensore di Contigo pan y cebolla ammonisce:

hay otros [chistes] que no son de buena ley y que si bien hacen reir, debe todo autor culto y escrupuloso desterrarlos de sus composiciones93.


  —97→  

Non si tratta tanto di pruderie quanto di un'istanza di raffinatezza che, infatti, pone sullo stesso piano le volgarità di significato e le ineleganze formali. Anche Larra partecipa a questa generale richiesta ma ne sottolinea la portata sociale. A proposito, per esempio, di Contigo pan y cebolla, egli biasima, a sua volta, alcune «gracias demasiado chocarreras» che definisce

da mal tono, de no muy buen gusto y de baja sociedad.94


Per ragioni opposte, un poco più tardi (nell'aprile del 34) loderà il dialogo de La niña en casa, di cui recensisce una ripresa, perché

salpicado de chistes del mejor gusto.


E soggiunge:

Presiden a él siempre la cultura y el conocimiento de la fina sociedad.95


Parimenti, il Boletín de comercio, nella già citata recensione de Los celos infundados, si compiace nel definirne il dialogo «de buen tono» e «gracioso sin ser chocarrero».

Questi rilievi si affiancano ad altri di carattere più squisitamente stilistico, i quali tuttavia sembrano adattarsi a un cliché valido per qualsiasi opera letteraria: «lenguaje castizo y puro, versificación fluida, diálogo natural» ed espressioni consimili sono quelle che ricorrono con maggior frequenza e che ritroveremo identiche nelle recensioni dedicate ai drammi romantici96.

In particolare, su di un punto, concordemente, tutti i critici non deflettono: la verosimiglianza. Precetto classicistico per eccellenza, assume i connotati di un'istanza culturale, tanto è il rigore con cui viene perseguito.

Si presume che la commedia debba essere il ritratto fedele della società al fine di poterne correggere le storture e pertanto si giudica severamente qualsiasi allontanamento dalla realtà.

Uno es el objeto del poeta cómico -sentenzia Larra nel già citato articolo che, posteriore di qualche mese alla morte di Fernando, esprime un pensiero   —98→   che certamente l'autore già seguiva da tempo-: la corrección del vicio que se propone por asunto de su obra (...) Para esto basta con que el poeta (adopte el camino que quiera) presente siempre la verdad y no transija un punto con la inverosimilitud.97


Questa norma, accettata rigidamente, impedisce ai critici di accogliere ogni concessione all'estro un po' fantasioso di qualche autore e limita grandemente le possibilità di comprensione della comicità. Di Coquetismo y presunción (che pure è lodata come «una de las pocas piezas de más dotes dramáticas que ha visto la escena española desde Moratín aquí») viene respinto Don Judas «con sus amontonadas dicciones náuticas»98. Don Judas, come s'è visto, applica comicamente espressioni marinare alla vita borghese: il critico delle Cartas Españolas lo rifiuta come esagerato, dimostrando di non saper apprezzare una caricatura. Ma tanta è la riverenza per il feticcio del verosimile che Flores Arenas si difende goffamente asserendo che di tipi come Don Judas se ne incontra in tutti i paesi marinari99.

Per ragioni consimili, la stessa rivista rifiuta «el viejo de los sinónimos», ossia lo zio Timoteo di Marcela, un'altra caricatura realizzata su di uno sfondo di linguaggio: e sebbene non lo definisca inverosimile, ma «pesado», è chiaro che lo accusa di essere innaturale100.

Gorostiza, il quale più che commedie scrive allegre favolette incentrate su di una beffa del tutto impossibile, è più che mai tacciato di inverosimiglianza. E critico del Boletín de comercio non si contenta di rilevare «inverosimilitud continua» e «caracteres poco naturales» in Contigo pan y cebolla, ma risale alla precedente Indulgencia para todos per ravvisarvi ugualmente un «argumento intrincado e inverosímil»101.

Anche Larra partecipa al coro e a sua volta protesta per le inverosimiglianze di Contigo pan y cebolla e de Los celos infundados102.

I critici sono infine così esigenti al riguardo che ben raramente si riconosce in qualche commedia l'obbedienza alle leggi dei verosimile;   —99→   per quanto mi consta, solo a La madrastra viene riconosciuta verosimiglianza nella trama e nei caratteri103.

Con minor puntiglio è ricercata l'applicazione dell'altra norma classicistica, quella dell'unità; tuttavia non mancano appunti a «cierta difusión en el plan» di No más mostrador104 o ai «planes embrollados y poco naturales» di Gorostiza105 o, infine, positive sottolineature del carattere unitario de La madrastra106.

Si tratta dunque, in generale, di una critica ancora molto legata agli schemi neoclassici, la quale presuppone il classicismo in certo senso congenito alle commedie che analizza e guarda pertanto a Moratín come al modello e alla pietra di paragone.

E tuttavia già lascia intravedere qualche spiraglio verso una maggiore apertura interpretativa. Sono a volte brevi intuizioni che lasciano intendere come si vada gradualmente insinuando una nuova concezione estetica. Ora è Durán che, come s'è visto, tende a delineare una linea spagnola del classicismo e a collocare le commedie del suo tempo in un justo medio; ora è Carnerero che a sua volta cerca un justo medio per Marcela, attribuendole la fusione di «sencillez y regularidad» moderna con «lujo poético» antico107 (che coincide, nel fondo, col programma del Discurso duraniano); ora è infine Larra che riconosce a Moratín e a molti contemporanei (che invero non nomina) il merito di aver fuso «los dos géneros encontrados» del comico molieresco e del patetico alla Kotzebue, creando un «género mixto» che per molti aspetti pare potersi identificare col romanticismo108.

Sono concetti che Larra aveva anche più estesamente affrontato in un precedente articolo nel quale, prendendo lo spunto da una rappresentazione del Sí de las niñas, istituiva un'attenta comparazione fra Moratín e Molière, da cui il primo usciva con parecchi tratti romantici.

Moratín -vi affermava Larra- es el primer poeta cómico que ha dado un carácter lacrimoso y sentimental a un género en que sus antecesores sólo   —100→   habían querido presentar la ridiculez. No sabemos si es efecto del carácter de la época en que ha vivido Moratín, en que el sentimiento empezaba a apoderarse del teatro. (...) Ésta es una diferencia esencial que existe entre él y Molière. Éste habla siempre al entendimiento, y le convence presentándole el lado risible de las cosas. Moratín escoge ciertos personajes para cebar con ellos el ansia de reír del vulgo; pero parece dar otra importancia, para sus expectadores más delicados, a las situaciones de sus héroes. Convence por una parte con el cuadro ridículo al entendimiento; mueve por otra al corazón (...) parece que se complace en poner a la boca del precipicio a su protagonista, como en el Sí de las niñas, y en el Barón; o en hundirle en él cruelmente, como en El viejo y la niña, y en El Café. Un escritor romántico creería encontrar en esta manera de escribir alguna relación con Víctor Hugo y su escuela, si nos permiten los clásicos ésta que ellos llamarían blasfemia.109


Corrisponda o meno, questo giudizio, alla reale personalità di Don Leandro, esso è l'indice della nuova prospettiva in cui si comincia a collocare il teatro comico contemporaneo.



  —101→  

ArribaAbajoCapitolo II

Bretón de los Herreros


1.- Antiromanticismo romantico

Intenti alla rappresentazione, fedele ma spesso caricaturale e sottoposta a interpretazioni ideologiche, della realtà che si dipanava sotto i loro occhi, commediografi e costumbristi -a differenza dei drammaturghi- si burlarono a lungo della «maniera» romantica, soprattutto nei suoi aspetti più vistosi e snobistici.

Alla consuetudine delle satire antiromantiche -in auge soprattutto negli anni Trenta110, ma di cui abbiamo già visto concrete avvisaglie nel decennio precedente -partecipò intensamente anche Bretón de los Herreros, il quale, avvertite le risorse comiche del tema, ebbe buon gioco a rilevare i momenti più superficiali e topici di una moda culturale che ormai erano trasmigrati anche nel costume quotidiano, divenendo pertanto accessibili a larghe fasce di spettatori.

Le prime tracce di quest'atteggiamento satirico si avvertono già fin dal 1830, quando il romanticismo non è ancora penetrato ufficialmente in Spagna ma già se ne ha sentore per le opere straniere che vi circolano da qualche anno e per un costume che si va diffondendo.

Nell'atto IV de La falsa ilustración -che appunto in quell'anno andò in scena a Siviglia- l'autore presenta un certo Don Fabricio (che è il solito tipo di lestofante foggiato sulla falsariga del barón moratiniano) nel momento in cui sfodera quello che sarà il repertorio romantico, parlando di veleno e di pugnali al fine di convincere l'ingenua Carolina e fuggire con lui.

Nel 1831, nel finale della celebre Marcela, mette in bocca ad Amadeo espressioni che non stonerebbero del tutto sulle labbra di un eroe romantico sebbene ancora vi si stenda una patina residua del bucolicismo patetico alla Meléndez Valdés:

iAdiós, mujer aleve!


¡Adiós por siempre! ¡Adiós! Nuevo Macías
víctima moriré de tus rigores.   —102→  
En tiernas elegías
cantad, hijos de Apolo, mis amores,
y en mi huesa llorad, ¡llorad, pastores!


(III, 7, p. 81 a)                


A queste parole, particolare interessante, risponde Don Martín, recitando quella parte della persona di solido buon senso che più tardi sarà considerata un attributo «classico», e asserendo,


Ya ve usted; poeta... Pero
no hay cuidado: ése es un flujo
de palabras. El morirse
de amores ya no está al uso.


(III, últ., p. 81 b)                


Ma già prima lo stesso Don Martín aveva esplicitamente satireggiato certe mode letterarie del tempo, quando aveva affermato che ormai non si poteva pubblicare nulla


si no es alguna espantosa
novela donde haya espectros,
y violencias, y mazmorras,
y almas en pena y suicidios...
Y, en fin, eso que está en boga.


(I, 8, p. 63 a)111                


Nel 33, quando, col ritorno degli emigrati, il romanticismo era ormai divenuto un fatto corrente, Bretón inserì in Un tercero en discordia alcuni versi che colpiscono per il loro sapore pienamente romantico, appena velato da un leggero tocco di parodia che nasce essenzialmente dal contrasto con l'ambiente e dalla sproporzione con la portata della vicenda. Una fanciulla, Luciana, replica alle insistenze del padre, il quale vuol farle sposare un giovane che ella aborre, esclamando:


que las galas me preparen
de boda;... y al mismo tiempo
las antorchas funerales.


(III, 1, p. 69)                


  —103→  

L'anno seguente, alle soglie della prima stagione teatrale romantica, Bretón ne fornisce un anticipo in chiave ironica, presentando, in Un novio para la niña, una coppia di innamorati che infarciscono il loro linguaggio delle affettazioni, delle svenevolezze, dei facili retoricismi che il dilagare della nuova moda aveva rapidamente divulgato.

In apertura, Concha si rivolge, in toni comicamente lirici, a un cardellino in gabbia:


¿Suspiras por la pradera
que embelesaba tu canto?
¿Es causa de ese quebranto
tu perdida compañera?
Consuélate, que en prisión
yo también penando vivo.
¡Ay! También vive cautivo
mi llagado corazón.


(I, pp. 157-158)                


Di poi, con gesto teatrale (è il caso di dirlo), gli apre la gabbia esclamando:

Vuela a tu foresta umbría...


A sua volta, Manuel prorompe nelle espressioni infuocate proprie degli eroi romantici:


No escucho tus gritos,
cobarde razón,
ni sigo tu senda,
que es ciego el amor ecc.112


(III, p. 176 a)                


Questo crescendo di allusioni e di satire raggiunse il culmine nel 1835, dopo che i primi drammi romantici spagnoli erano saliti alle scene e offrivano perciò il destro a una parodia più diretta ed efficace; stimolavano infatti punti di riferimento più ricchi di interesse di quanto non potessero proporne le più sbiadite anticipazioni romantiche dei vari Delavigne o Ducange o Cooper o delle opere liriche italiane che stavano riscuotendo, in quegli anni, un successo senza pari.

  —104→  

Il 13 maggio, appunto dopo La Conjuración de Venecia, Macías, Don Álvaro, dopo Elena dello stesso Bretón, e solo dieci giorni prima dell'Alfredo, il nostro commediografo faceva rappresentare Todo es farsa en este mundo: una commedia che fin dal titolo vagamente calderoniano, oltre che al teatro del mondo, poteva anche alludere in sordina, ci si passi il bisticcio, al mondo del teatro. Nel testo infatti i richiami ai drammi romantici pullulavano e non potevano certo passare inosservati soprattutto dopo lo scalpore sollevato dal Don Álvaro.

L'opera del Duque de Rivas sembra anzi essere l'oggetto immediato della parodia, unitamente all'Alfredo, non ancora rappresentato ma pubblicato da tempo e ormai alle soglie del debutto. Si leggano le battute in cui Faustino protesta la sua infelicità di amante non ricambiato, culminanti in un concentrato di satanismo, fatalismo e disperazione:


¡Ah! Satán
Satán encendió en mi pecho
esta pasión infernal.
................................
¡Yo he nacido para amar,
y no para ser amado!
¡Este anatema fatal
pesa sobre mí!


(I, 3, p. 131 a)                


Parrebbero davvero parole di Don Álvaro o di Alfredo e di altri cento eroi romantici (magari del Gerardo di Elena), se l'intento parodistico non fosse sagacemente sottolineato da un contesto espressivo e strutturale apertamente contrastante, nonché dal successivo intervento di Doña Vicenta, che col suo buon senso castizo ricorda che la fanciulla, Pilar, non può corrispondere così facilmente «a modo de huracán». Infatti


Ella ha nacido en Madrid,
no a orillas del Senegal;
no ha leído a Víctor Hugo,
ni a Lord Byron, ni a Dumas;
............................................
¿Y ha de ser por fuerza actriz
en un drama sepulcral?


(ibidem)                


  —105→  

Faustino intende invece sottolineare il carattere, per così dire, letterario del suo amore e non esita a chiamare in suo aiuto i numi tutelari di Voltaire (Tancredi) e dello Scott (Anna di Geierstein):


Dulce Amenaida
amó a Tancredi marcial,
y Carlos el Temerario
a la Virgen de Underlac,


(I, 3, p. 131 b)                


guadagnandosi ancora una volta le risposte irridenti del buon senso di Doña Vicenta; questa gli ricorda infatti che senza un suo tempestivo intervento, il sogno d'amore di Faustino sarebbe già sfumato:


Si vengo un día después,
¡adiós, Virgen de Underlac!


(ibidem)                


Sul finale (III, 12), al momento della dichiarazione amorosa, Faustino nuovamente saccheggia il repertorio lessicale e stilistico della drammaturgia contemporanea, non senza che, naturalmente, un guizzo umoristico rammenti, di tanto, l'intenzione parodistica: «antros del dolor eterno», «alma ardiente», «celeste solio», «proceloso piélago», «acerbo tósigo», «horror patibulario», «fantasmas y espectros terrorosos», «querube encantador», «caledonio bardo» si alternano, nel suo dialogo concitato, a espressioni altrettanto topiche: «a las garras lanzarme del demonio», «esas palabras despedazan mi seno congojoso», «frenético me arrojo a la depravación», «este corazón es ascua ardiendo» e così via.

Da ultimo, quando una lettera gli apre insospettatamente lontani orizzonti di carriera e di agiatezza, cerca in ogni modo di liberarsi dall'impegno amoroso e recita la parte della vittima di un destino avverso. Le sue ultime battute -curiosa parodia nella parodia- sono un centone delle più caratteristiche espressioni e situazioni romantiche:


Sí... somos víctimas
¡Un muro sin límites
se levanta entre los dos!
¡El último adiós!
¡He aquí los hombres!
Nada importa que asesinen
—106→
como luego con dulzura
a su víctima acaricien.
¡Ay! Este golpe
cruel, atroz, insufrible...


E dopo due «¡Maldición!» sgattaiola declamando:


Cumplióse mi atroz destino.
¡Adiós! ¡Adiós! ¡Maldecidme!


dove richiama le imprecazioni finali del Don Álvaro e anticipa il «¡Maldición sobre mí!» delle ultime battute dell'Alfredo.

In questa commedia compare anche, esplicitamente citato, il termine romántico, con quell'accezione negativa e ironica che, proprio in quegli anni, stava assumendo ad opera dei fautori del justo medio.

Lasciando soli Faustino e Pilar, la saggia Doña Vicenta li ammonisce:


Sed vos casta Melisenda;
vos, rendido Belianís.
Cuidado con algún lance
romántico a lo Antoní.


(III, 11, p. 153 b)                


Dove è chiaramente palese la contrapposizione, ormai corrente, fra la tradizionale costumatezza spagnola e la corruzione di quello che Durán chiamava il romanticismo malo e che veniva comunemente identificato con le mode letterarie francesi.

Una seconda volta il termine è impiegato in relazione alla polemica classico-romantica. Anche questa infatti fa la sua comparsa, ma stravolta nei termini correnti della satira giornalistica e della battuta costumbrista; in altre parole, al livello dell'ormai celebre vignetta del Semanario Pintoresco intitolata «Un clásico y un romántico cuando llueve», dove nel primo che, soddisfatto e ben pasciuto, si ripara sotto l'ombrello (mentre il magro, spiritato romantico s'inzuppa) è facile scorgere l'interpretazione del classicismo come del buonsenso, della pienezza umana e della solidità economica, mentre il romanticismo vi appare come sinonimo di stramberia e di fallimento113. Con lo stesso spirito Bretón fa sì che il romantico Faustino,   —107→   pentitosi della dichiarazione fatta a Pilar, così esprima le sue perplessità sul passo che sta per compiere:


Todo lo que no es fantastico
me parece a mí ridículo.
¡El matrimonio es tan clásico!
.........................................
¿Y qué dirán los románticos?
Dirán que soy un estólido,
un pobre hombre ¡Ah! De sus sátiras
líbreme el Señor, amén.


(III, 14, p. 155 a)                


La medesima prospettiva, solamente intensificata e più ricca di trovate, ricompare sul finire di quello stesso anno 1835 in Me voy de Madrid (rappresentato il 21 dicembre) in cui la giovane vedova Manuela si autodefinisce romantica perché ama «las grandes pasiones» e «los raptos», perché odia la routine e infine perché


el romanticismo
............................................
está de moda, y esto basta
para que sea el encanto
de las mujeres.


(I, 1, p. 160 ab)                


Mentre ammira Lucrezia Borgia, che ha visto agire nel dramma dell'Hugo, sente i lavori casalinghi come una «clásica servidumbre» e accusa di insensibilità e «classicismo» le donne fornite del comune buon senso:


vosotras,
las clásicas, no sentís...


(I, 9, p. 168 a)                


Quando infine è delusa dal comportamento di Joaquín, prorompe:


¡Infame! ¿Quién ¡oh Dios!
creyera tal de un romántico?


(II, 4, p. 176 a)                


  —108→  

Da ultimo, nel tentativo di arrestarne la fuga, gli grida, come l'ombra di Jorge nell'Alfredo:


¡Detente, sacrílego!


(III, 16, p. 189 b)                


Di fronte a lei, oltre a Joaquín, che è un mariolo ricco di espedienti, stanno le persone più sagge: l'amica Tomasa, che Manuela appunto non esita a definire «classica» e il fratello Don Fructuoso, che a un certo punto esplode:


Pues yo te prohíbo
romantiquizarte; ¿estamos?
que a gobernarme la casa
no te han de enseñar Lord Byron
ni Víctor Hugo.


(I, 1, p. 160 b)                


Se in Todo es farsa e in Me voy de Madrid, la satira del dramma romantico procede per allusioni o per riferimenti diffusi nel corso della commedia, essa diviene struttura portante nella breve composizione El plan de un drama o La conspiración che, elaborata (o, secondo il sottotitolo, improvvisata) da Bretón in collaborazione con Ventura de la Vega, andò in scena il 22 ottobre del 1835. I due autori vi compaiono in veste di personaggi mentre stanno componendo un dramma che è una palese parodia di quelli romantici. Il titolo: «La conspiración y la amnistía, o sea Ellos y nosotros, drama político-mecánico-pirotécnico-epiléctico-tenebroso» ecc.

Il primo quadro: «Votos y maldiciones. En la cueva de una botica de esta corte, bien surtida de arsénico sublimado...».

Più avanti: «Recepción de un patriota neófito con toda la pompa subterránea misteriosa que el acto requiere...»

E così via, finché, mentre i due discorrono di pugnali e ribellioni, sono uditi dalla polizia e scambiati per cospiratori carlisti.

Evidentemente Bretón aveva scoperto, in quello scorcio di tempo, una vena comica ricca e fresca e non esitava a sfruttarla ogni volta che se ne offrisse l'occasione; ma, mentre faceva ridere il pubblico alle spalle dei suoi colleghi drammaturghi, prendeva le distanze dal conformismo della nuova moda e denunziava come falsamente retorici i topoi del nuovo manierismo.

  —109→  

Negli anni successivi, cessata la novità dei drammi romantici, sfruttò un po' meno questa vena; ma nel 1838, dopo l'introduzione massiccia delle opere dell'Hugo e del Dumas e dopo la stagione dei massimi successi teatrali del romanticismo spagnolo (quel 1837 che il Peers definì l'annus mirabilis del teatro romantico)114, infarcì nuovamente due opere di spunti satirici contro il movimento letterario in voga.

El poeta y la beneficiada (15 marzo 1838) presenta una copia del moratiniano Don Eleuterio vagamente aggiornata nella figura di certo Ambrosio Barragán che, avendo scritto


un drama
romántico, singular,
terrible,


(I, 10, p. 81 a)                


vorrebbe farlo rappresentare per poter estinguere, con l'incasso, i debiti che l'opprimono. Naturalmente l'opera, di cui vengono recitati brani, è un ammasso dei più tipici ingredienti del romanticismo di maniera: dai personaggi, tra cui un priore (richiamo al Don Álvaro?) che grida: «¡Misericordia!», una strega (El Trovador?) che impreca:


¡Dios del infierno,
salga de su centro el mar
y crujan los elementos!


alla solita Doña Elvira (Elvira de Albornoz o l'Elvira del Macías o di Fray Luis de León?) che sviene, ai consueti sfondi tenebrosi: «Dase batalla entre el granizo y los truenos» -un po' come nell'Alfredo- oppure: «El teatro representa un cementerio...» come nella Conjuración de Venecía (II, 2, p. 82 ab).

Nell'atto unico El hombre pacífico, che si rappresentò il 7 aprile, ritorna invece la contrapposizione classico-romantica secondo lo schema già collaudato in precedenza. Certa Casilda, che, da buona romantica, esclama:


¡Maldición!... se cumplió
mi atroz destino funesto,


definisce sprezzantemente «classica» l'anima del pacifico Don Benigno   —110→   che non capisce il suo involuto linguaggio e il cui spregevole destino


es comer como un monstruo,
dormir como un ganapán
......................................
y al fin morirse de viejo.


(I, 14, p. 112 b)                


Durante tutta l'opera ella continua ad accumulare esclamazioni in nome dell'«amor romántico / inescrutable y eterno» che la tormenta e a invocare i personaggi canonici del romanticismo: Bug-Jargal, Quasimodo e l'abate Lamennais, tanto che il padre, altro «classico» con i piedi per terra, pensa di rinchiuderla in convento


hasta que curada estés


le dice


de esa romántica fiebre.


(I, 7, p. 115 a)                


Con questi molteplici riferimenti (e altri che, per amor di brevità, si sono tralasciati)115, Bretón contribuiva a modo suo alla polemica fra romantici e classicisti nonché al diffondersi della distinzione fra dramma romantico e commedia non-romantica o addirittura classica.

D'altra parte, non si trattava solo di espedienti teatrali, anche se l'efficacia comica di questi attacchi non mancò certo di esercitare una sua influenza, dal momento che Bretón ripeté le sue polemiche   —111→   antiromantiche anche in articoli critici116 e, in una nota apposta, molto tempo dopo, a Elena, nell'edizione parigina delle Obras escogidas, ribadì la contrapposizione fra dramma e commedia. Dichiarava infatti, con l'aria di chieder venia al lettore per un suo peccato giovanile:

Con este drama hizo el autor su primer ensayo en un género harto distinto del que habitualmente ha cultivado. Sus amigos le instaban a dar alguna muestra de su poca o mucha capacidad para crear situaciones de grande interés y pintar afectos y caracteres de aquellos que no caben en la comedia propiamente así llamada. El moderno romanticismo estaba en su mayor auge, y era difícil que temprano o tarde dejase de llevar también alguna ofrenda a las aras deI ídolo nuevo.117


E tuttavia, nonostante le abbondanti testimonianze al riguardo, non ci si deve lasciar trarre in inganno dall'impiego di una certa terminologia. Non possiamo infatti dimenticare a quale logorio fossero ormai sottoposti i vocaboli «classico» e «romantico» che peraltro, nella coscienza dei più -degli stessi teorici del movimento- stavano a indicare semplicemente due diversi generi letterari quando non, semplicemente, due atteggiamenti psicologici o fatti di costume.

Bretón sembra adottare un po' tutti questi punti di vista. Che egli, commediografo, si faccia paladino di un classicismo che poi sembra negare quando, nelle rare ma valide prove di drammaturgo, aderisce al romanticismo nelle sue forme più ricche e appassionate si può infatti spiegare solo ammettendo una sua adesione alla teoria dei due generi letterari: non si dimentichi che dopo Elena, negli stessi anni in cui le sue commedie suscitavano il riso facendo il verso ai drammoni alla moda, compose Don Fernando el Emplazado e VeIlido Dolfos -due drammi storici di cui il primo è certamente uno dei più riusciti fra quelli che salirono alle scene in quello scorcio di tempo- nonché La batelera de Pasajes in cui riprendeva, sia pure con una qualche maggiore moderazione, le tonalità «patetiche» di Elena.

Occorre aggiungere che, sebbene nelle sue commedie l'ironia investisse la drammaturgia romantica in genere (anche quella spagnola cui richiamavano le trasparenti allusioni), esplicitamente -ufficialmente si vorrebbe dire- il bersaglio erano, come si è visto, Dumas   —112→   e Hugo, oltre naturalmente a Byron, Scott e altri scrittori non di teatro.

In altre parole, Bretón, pienamente inserito nella linea del romanticismo tradizionalista, casticista per meglio dire, di Böhl e di Durán, dirige i suoi strali contro la letteratura straniera, ossia contro quel romanticismo che i fautori del justo medio definivano «esa ridícula fantasmagoría de espectros y de cadalsos, esa inmunda parodia del crimen y la iniquidad, esa apología de los vicios»118, che pareva voler sovvertire i costumi esaltando «los hermoseados vicios, los heroicos crírnenes, la grandiosidad de los suicidios, de los asesinatos»119, che si esprimeva, a detta di Lista, in un linguaggio «furibundo»120a modo de huracán», diceva più scherzosamente Bretón) e via discorrendo attraverso l'infinita serie di critiche acrimoniose o beffarde che pullularono negli anni Trenta.

In particolare il nostro commediografo si faceva beffe di quell'exagerado drama romántico121 che l'opinione pubblica corrente e i suoi spettatori identificavano col teatro francese; per distinguersene, egli pertanto preferiva presentarsi come fautore di un «classicismo» che intendeva, ed era inteso, alla stregua di casticismo122.

Certo i termini sfumano, in una siffatta prospettiva, e i campi semantici si intrecciano ingenerando profonda confusione. Di conseguenza, l'imbarazzo che i critici spagnoli provavano nell'uso dei vocaboli «classico» e «romantico» e dei loro derivati (e che cercavano affannosamente di superare introducendone dei nuovi come eclecticismo o género español)123 si accentua quando essi affrontano l'opera di Bretón. Nel 1839, Patricio de la Escosura aggirava l'ostacolo   —113→   affermando che il nostro autore non era né classico né romantico ma che... «Bretón es Bretón»124.

Prima di lui, Ochoa già aveva asserito che il genere seguito dal commediografo, incomparabile con qualsiasi altro, non poteva definirsi altrimenti che come «el género de Bretón»125.

Qualche anno più tardi, Juan del Peral esaltava Bretón insieme a parecchi altri (Hartzenbusch, Gil y Zárate, Zorrilla, Saavedra, García Gutiérrez, Rubí) come rappresentante di quel teatro che apparteneva al genere «esencialmente español»126.

Ma né le ingenue tautologie dei primi né il nazionalismo di quest'ultimo colpiscono tanto nel segno quanto l'anonimo recensore che, nell'Eco del Comercio del 1837 ebbe invece il coraggio di definire Muérete y ¡verás! come «la que nos atreveríamos a llamar, con permiso de quien haya lugar, la comedia romántica»127. Ma colpiva ugualmente nel segno il Semanario pintoresco che, sebbene con minor ardimento, lasciava ugualmente intendere che Muérete y ¡verás! apparteneva al romanticismo: sosteneva infatti l'articolista che, quantunque fosse necessario liberarsi dalle pastoie del classicismo, «los apellidados románticos de la escuela francesa» erano caduti in una produzione «falsa e inmoral». Si trattava di un pericolo, soggiungeva, da cui dovevano guardarsi gli scrittori spagnoli e in cui non era certamente scivolato Bretón che aveva infuso nella sua commedia «fin moral, caracteres verdaderos, con verosimilitud en la intriga». In altre parole, Bretón si era attenuto a quelle forme ispirate da moralità e buon senso che costituivano l'essenza del romanticismo spagnolo.128

In effetti a chi non si lasci frastornare dalla precarietà terminologica delle battute ad effetto o dalle stesse proclamazioni di fede letteraria risulta evidente che in quegli anni Bretón stava scrivendo opere romantiche, di cui forse Muérete y ¡verás! è il paradigma più appariscente ma non certamente l'unico esemplare.

Nonostante le parodie, ché anzi queste furono, a modo loro, una scuola di romanticismo, nella quale Bretón non si limitò ad apprendere   —114→   -e a segnalare- ciò che si doveva evitare ma imparò anche la lezione opposta: quella di assorbire in una prospettiva diversa -«comica» nel senso che a questo termine diede la retorica medievale- le istanze fondamentali della nuova corrente letteraria.129

Alla parodia composta con l'intento di suscitare la risata, andava così accostando un'altra forma parodistica, più seria e più ingegnosa, antagonistica sì al dramma ma su di un uguale livello di dignità. In entrambi i casi, tuttavia, lo scrittore era animato da una medesima preoccupazione, tutta romantica senza dubbio, per i problemi della comunicazione. Se infatti nel caso delle più scoperte parodie, egli divertiva il suo pubblico (tutto il suo pubblico, anche il meno colto) rilevando soprattutto la vacuità dei formulismi romantici e il logorio semantico delle loro componenti, nel secondo caso, rivolgendosi alla parte più colta e quindi più smaliziata di spettatori, operava una sorta di risemantizzazione del codice linguistico-ideologico del romanticismo.

Nessuno meglio della borghesia spagnola di quegli anni era in grado di apprezzare questo processo di ricupero, che si verificava naturalmente in chiave di moralità, di tradizionalismo, di justo medio e che appariva pertanto come un non modesto contributo al superamento di quell'impasse fra romanticismo e casticismo che fu il rovello di Durán e dei suoi seguaci.

Con Muérete y ¡verás! (27 aprile 1837) Bretón realizzava il primo, brillante tentativo in questa direzione; tanto più significativo in quanto l'opera veniva rappresentata nel momento di piena fioritura dei drammi romantici e a non molta distanza da alcuni di grande successo, come El Trovador dell'anno precedente o Los Amantes de Teruel, rappresentato solo due mesi prima.

Il dramma di Hartzenbusch e, in generale, la leggenda che gli diede lo spunto sembrano anzi essere l'oggetto più immediato della parodia; meglio si dovrebbe dire, del rifacimento compiuto da Bretón. Le corrispondenze con Hartzenbusch, ma anche con i suoi predecessori, Tirso e Montalbán, sono così puntuali da far escludere che si tratti di coincidenza fortuita.

Almeno quattro fra i nuclei narrativi più caratterizzanti della commedia compaiono infatti anche nei tre drammi. Eccoli:

  —115→  

1) Gli innamorati sono separati dalla guerra;

2) l'antagonista approfitta della (creduta o inventata) morte del protagonista per ottenere la mano della sua donna;

3) il protagonista ritorna quando si stanno per celebrare le nozze della sua fidanzata e una serie di presagi accompagna il suo arrivo;

4) la comparsa del protagonista subito dopo la celebrazione delle nozze costituisce il culmine del dramma.

Vi si potrebbe aggiungere il motivo della rivalità amorosa fra le due sorelle che trova un antecedente in Montalbán, dove si tratta però di cugine.130

Mancava invece, nell'opera di Bretón, il tema del plazo che, nei vari drammi, era concesso a Marsilla al fine di arricchirsi; mancavano soprattutto -ed era certo l'assenza più intenzionale- il clima di disperazione e le morti finali. Il commediografo insomma prendeva dalla tradizione la leggenda degli amanti di Teruel e programmaticamente la svuotava dei toni esasperati e dei motivi inverosimili, la imborghesiva e l'attualizzava, mantenendo l'essenza dei motivi ispiratori.

Se Diego Marsilla correva l'avventura combattendo nelle armate di Carlo V o cadendo in mano ai mori del regno di Valencia, Pablo, l'eroe di Bretón, è invece un buon cittadino che compie il suo dovere lottando contro i carlisti. Per questo tanto più odioso è il comportamento di Jacinta che, alla notizia della sua morte, lo dimentica subito e non esita a offrire la sua mano a Matías e a recarsi a un ballo mentre le campane rintoccano a morto per l'antico fidanzato.

In questo momento di particolare tensione, Bretón introduce il ritorno di Pablo.

L'atmosfera che si crea è di stampo prettamente romantico. Un lungo rintoccare funebre accompagna l'arrivo del protagonista (così come altri rintocchi di campane accoglievano Marsilla nel dramma di Hartzenbusch); ad esso fa contrasto la musica dei violini che rallegrano   —116→   la festa da ballo cui partecipa Jacinta ormai prossima alle nozze, in un'opposizione amore-morte nel più caratteristico gusto del tempo.

La situazione offre al poeta lo spunto per battute che colpiscono per la presenza di espressioni intonate alla langue romantica e pronunziate dai personaggi con assoluta serietà. Pablo, al suo arrivo, prova un'inspiegabile angoscia per quel suono di campane:


Mas ¿qué campanas son éstas?
¡Tocan a muerto! Con malos
auspicios vuelvo a mi tierra.
No he temido en la campaña
a balas ni bayonetas,
y sin poder remediarlo
esas campanas me aterran.


(III, 4, p. 291 b)                


Poco più tardi, apprendendo che Jacinta sta danzando, esce in parole che, se non fosse per la situazione estremamente realistica e per un certo guizzo d'ironia, parrebbero preannunziare il macabro sdoppiamento dell'Estudiante de Salamanca:


(¡Ella baila, justo Dios,
y yo de cuerpo presente!)


(III, 5, p. 293 a)131                


Si deve aggiungere che in questo clima romantico ben s'inquadra la coincidenza dell'arrivo di Pablo, della messa funebre in suffragio suo e della mondanità festosa di Jacinta nell'imminenza delle sue nozze. Attraverso quest'accumulo di circostanze Bretón ricuperava quel sentimento angoscioso del tempo e della fatalità che le opere dei suoi predecessori avevano affidato soprattutto all'incalzare del plazo.

Quasi a completare il quadro di questo pur già patetico atto III, Bretón, con un sapiente colpo di scena, introduce il motivo dell'amore   —117→   purissimo, segreto e frustrato nel suo desiderio di comunicazione. Nella scena XII, Pablo, scorge, inginocchiata sulla soglia della chiesa in cui si è celebrato il rito funebre, Isabel, la sorella di Jacinta, la quale mormora, con accenti d'amore e di dolore, la sua pena per la morte di colui che amava segretamente:


Sombra que amo y reverencio,
perdóname si llorosa
interrumpo de tu losa
el venerable silencio.
..................................
Si de una triste mortal
desde el trono celestial
oyes benigno el acento,
no a Dios le pidas que yo
deje, sin dejar el mundo,
el dolor, veraz, profundo
que tu muerte me infundió.
......................................
Pídele sólo al Señor
que eterno sea el amor
con que el alma te rendí;
que nunca humana flaqueza
me conduzca a no quererte.
¡Antes un rayo de muerte
caiga sobre mi cabeza!


(III, 12, p. 297 b)                


Non so quale altro poeta romantico abbia avuto un'intuizione tanto felice; certo la figura di Isabel che, in ginocchio sulla gradinata di chiesa, dinanzi al portone chiuso, svela a un defunto il suo amore imperituro potrebbe essere a buon diritto assunta a emblema dell'amore romantico per eccellenza.

Logicamente una situazione così patetica non può durare a lungo e Bretón ha già largamente provveduto a scaricarne la tensione con scene comiche inframmezzate, con battute allegre e via dicendo. Ma, come esige lo spirito della commedia, spinge infine l'opera verso una soluzione a lieto fine, con lo scorno dei cattivi e la gioia dei buoni.

Per raggiungere questo scopo, ricorre tuttavia a un altro ingrediente tipico del repertorio romantico: il fantasma. Anche qui, naturalmente, l'autore interviene a ridimensionare nella direzione della credibilità, per cui il suo non è un fantasma autentico come quello   —118→   che compariva nell'Alfredo, ma una finzione cui ricorre Pablo per vendicarsi della troppo volubile Jacinta. Avvolto in un sudario, appare sul luogo del banchetto nuziale, seminando il panico fra invitati e testimoni, rimprovera chi l'ha troppo presto dimenticato e chiede la mano di Isabel.

L'espediente di tipo romantico è qui impiegato come veicolo di comicità; ma il riso, più che dall'allusione a certo gusto dell'epoca (che certo non poteva mancare di esercitarvi uno stimolo) nasce dal trucco in sé, che lo spettatore conosce e la maggioranza dei personaggi ignora. Per sé insomma, il fantasma non fa molto ridere se non in quanto si tratta di un travestimento, che è una sorgente perenne di riso132; non molto di più, almeno, dei finti fantasmi che Zorrilla introdurrà nel suo Zapatero y el Rey.

D'altra parte, se si tolgono questa mascherata e le immancabili battute (di Froilán che vede sfumare l'eredità, di Jacinta spaventata e pentita che riscopre la prestanza di Pablo, di Matías geloso ecc.), l'arrivo di Pablo non differisce sostanzialmente da tanti altri improvvisi ritorni, cui si assisteva nei drammi contemporanei, del personaggio che si era creduto morto: si pensi, oltre a Marsilla negli Amantes de Teruel, a Macías nell'opera di Larra, a Ricardo nell'Alfredo e via via in un lungo elenco che non è il caso di compilare133.

Le reazioni dei personaggi sono assai simili e la paura, l'angoscia, l'ira sarebbero le stesse se non provvedesse ad attenuarle e infine a dissiparle la sostanziale bonaria comprensione di Pablo, unita al clima disteso e civile di un interno borghese.

Molto diverse sono invece le reazioni del pubblico a causa di un sostanziale punto di divergenza nel sistema semiologico del dramma e della commedia. Il primo gioca infatti sulla sorpresa che colpisce contemporaneamente personaggio e spettatore dinanzi all'evento inatteso: per fare l'esempio più vicino, quello degli Amantes de Teruel, nessuno sa, fino all'ultimo istante, se Marsilla giungerà a tempo, se Margarita e Martín riusciranno a fermare la cerimonia, se infine Marsilla e Isabel si incontreranno.

In Muérete y ¡verás!, al contrario, il sistema comico impone che l'autore renda il pubblico edotto in anticipo dei movimenti che compirà Pablo e della beffa che sta per giocare ai fedifraghi. Così la   —119→   tensione si scarica e il pubblico assiste alla vicenda in quello stato di «insensibilità» che Bergson ritiene indispensabile perché la risata abbia luogo, dal momento che «il più grande nemico del riso è l'emozione». «Distaccatevi, assistete alla vita da spettatori indifferenti; molti drammi si trasformeranno in commedia», avverte il filosofo francese134. Bretón, senza la consapevolezza del filosofo ma con la sensibilità del commediografo, operava in termini consimili la trasformazione del dramma in commedia. E se è discutibile che la sorpresa in sé stessa, come sosteneva Kant135, sia fonte di riso, lo è molto spesso la sorpresa altrui; almeno, nella fattispecie, quella che, colpendo taluni personaggi, causa quell'«interruzione del comportamento» che determina comicità136.

Pertanto Pablo viene presentato mentre, nascosto, apprende l'amore di Isabel (sicché la richiesta della mano di lei, che sorprenderà tutti i personaggi, non sorprenderà lo spettatore), e mentre con Don Elías organizza la scena finale.

Così diviene oggetto di riso ciò che poteva essere fonte di pathos e la vicenda si conclude «classicamente» con il riconoscimento dei buoni e la vergogna dei cattivi.

Né manca la moraleja finale in cui si afferma che «para aprender a vivir / no hay cosa como morir. / Y resucitar después».

Ma, quasi avvertisse la necessità di salvare l'essenza romantica dell'opera, Bretón vi fa precedere una lunga effusione lirica di Pablo in cui non è difficile reperire i tratti caratterizzanti di una langue ispirata al romanticismo:


Mujer de un alma tan pura
cuya virtud sin igual
compite con su hermosura,
es un ser angelical;
no es humana criatura.
Mujer de tanta virtud,
mujer de amor tan profundo
que en su tierna juventud
se inmolaba... ¡a un ataúd!...
no pertenece a este mundo.
Yo, que su ventura anhelo,
yo no me juzgo habitante
—120→
de este miserable suelo;
que Isabel me mire amante,
y sus brazos son... ¡el cielo!


(III, últ., p. 307 b / 308 a)137                


2.- Il tema della comunicazione

Muérete y ¡verás! è dunque la prima, completa manifestazione dell'accoglimento, da parte di Bretón, di tematiche e sensibilità romantiche. Ma non è né il frutto di una conversione repentina né la trovata di un momento isolato nella storia del teatro bretoniano; è, al contrario, il punto di confluenza di un'adesione graduale alle correnti letterarie del tempo e di quella ricerca di una via personale che accompagnò il nostro commediografo fin dalle sue prime esperienze.

Certo, egli esordì moratiniano, come c'era da aspettarsi da un ventiduenne che scriveva la sua prima commedia nel 1818, A la vejez viruelas, che fu però rappresentata solo nel 1824, era un'intricata vicenda di matrimoni combinati in cui due vecchi, Doña Francisca e Don Braulio, aspirano rispettivamente alla mano dei giovani Enrique e Joaquina, i quali sono invece legati da reciproco amore; come se non bastasse, Don Braulio vorrebbe far sposare a un suo amico altrettanto maturo la propria figlia Luisa che a sua volta ama, corrisposta, il giovane Mariano. Su quest'impianto, l'autore elabora una serie di equivoci e di trucchi, finché la logica dell'amore ha il sopravvento: i quattro giovani si sposano, la vanità di Doña Francisca è umiliata e Don Braulio, emulo del moratiniano Don Diego, medita malinconicamente sulla felicità che sperava di incontrare al fianco di «una niña graciosa y amable» (III, 9, p. 82).

Se la commedia denunzia l'influenza dominante di Don Leandro, non stenta tuttavia a rivelare una frequentazione del teatro secentesco, ravvisabile soprattutto nella figura della vecchia che non ha rinunziato alle fantasie amorose, nei trucchi ingenui e picareschi   —121→   escogitati dai giovani e nella stessa complicazione dell'intrigo, così lontana dalla linearità moratiniana.

L'inserimento di motivi attinti al siglo de oro fu probabilmente dettato a Bretón dal desiderio di staccarsi in qualche maniera dal modello e di trovare una via originale. Tuttavia l'originalità doveva venirgli per altro cammino, forse a sua stessa insaputa. Al tema della comunicazione era riservato l'ufficio di far breccia sul moratinismo iniziale; un tema che, come si è visto, non ignoto a Moratín, si andava tuttavia diffondendo soprattutto in quegli anni e al quale Bretón fece ricorso fin da questa sua prima opera.

A tal fine sfrutta il classico espediente dell'equivoco ma lo elabora cercandone la spiegazione nel concatenarsi delle situazioni e nella psicologia dei personaggi. Così accade che Doña Francisca confidi a Don Braulio il suo interesse per Enrique; e che pertanto, quando quest'ultimo gli confida a sua volta il proprio amore per Joaquina, quello creda che gli parli di Francisca. Parimenti Doña Francisca è talmente presa dalla vanità che quando Mariano la prega di aiutarlo nella sua relazione con Luisa, ella crede che le stia facendo proposte d'amore e, pudica e sdegnata, lo scaccia. Sul finire dell'opera poi, quando è ormai evidente per tutti che Enrique e Joaquina si amano, ancora una volta la vanità le impedisce di accettare totalmente una verità poco gradevole.

In quest'epoca, probabilmente Bretón cercava solo di sfruttare un espediente di sicura comicità, ma involontariamente già creava un mondo particolare in cui la comunicazione appariva difficile a causa delle debolezze umane e degli stessi giochi della vita. Certo era appena un accenno, in questa prima commedia, ma era anche la premessa di notevoli sviluppi.

Il tema, in effetti, veniva subito ripreso nella commedia successiva, Los dos sobrinos, che venne rappresentata circa sette mesi dopo, il 30 maggio 1825. Era ancora una commedia moratiniana, specie nel suo impegno pedagogico (come sembra voler suggerire il sottotitolo La escuela de los parientes) che, sulla scia della Mojigata, sviluppava l'antico tema del contrasto fra il buono ingiustamente bistrattato e il cattivo che tutti invece stimano e accarezzano, finché la verità si fa strada e la bontà vera ottiene il giusto riconoscimento. Nella commedia in esame, Cándido (il «buono») non solo ottiene giustizia grazie al provvidenziale intervento di uno zio affettuoso ma ha anche la ventura di sposare la giovane e ricca vedova Doña Catalina, invano corteggiata dall'indegno cugino Joaquín.

  —122→  

Proprio all'inizio dell'opera veniva descritto il tormento di Cándido cui i parenti impediscono la più piccola manifestazione del proprio pensiero: gli sono rimproverati i silenzi, vietate le risposte, biasimati i mormorii: si arriva a imporgli l'assurdo di


Ni callar, ni replicar.


(I, 2, p. 4 a)                


Il tema della comunicazione scompare poi, sopraffatto da altri, ma le poche battute sono sufficienti per attestare come Bretón l'abbia affrontato in una nuova prospettiva, andando oltre l'ingenua formula degli equivoci per acquisirne un risvolto più serio e coglierne i riflessi sul mondo dei sentimenti.

Contemporaneamente, la commedia sembrava voler annunziare quella Weltanschauung liberale e borghese che avrebbe costituito il sottofondo ideologico di tutto il teatro bretoniano138. Di fronte al biasimevole Joaquín, ufficiale libertino, dedito al gioco e all'avventura, interprete cioè della vecchia concezione di vita propria della casta aristocratica e militare (di fronte a lui e a coloro che guardano con ammirazione una tale forma di esistenza) stanno i personaggi che godono della simpatia dell'autore: Cándido, Catalina e lo zio Don Bruno, amanti di una vita semplice e onesta. Che poi di questo tipo di vita l'agiatezza sia presentata come indispensabile complemento, dimostra che, anche sul piano sociologico, Bretón militava nelle file del justo medio.

All'inizio del 1828 mandava in scena il suo primo grande successo139, A Madrid me vuelvo, in cui affrontava -allegramente, s'intende, e con una visione non universale- il tema dell'insoddisfazione umana. Certo Bernardo, rifugiatosi in un paese della Sierra de Cameros per sfuggire alle molteplici molestie di Madrid, incontra tali e tanti inconvenienti nella vita rustica che ritorna precipitosamente in città.

  —123→  

La descrizione che Bernardo compie, dapprima delle miserie cittadine poi di quelle della campagna è estremamente seria, anche se non priva di note satiriche; il quadro che dipinge è sconfortante e raggiunge, in qualche passo, accenti wertheriani. Narra Bernardo in questi termini il suo desengaño madrileno:


La felicidad buscaba
con ansia por todas partes
.........................................
¡Baltasar! todo era en balde.
En cambio de algún placer
frívolo y poco durable
siempre estaba atormentado
de disgustos y pesares,
y en mi corazón sentía
un vacío perdurable....


(I, 4, pp. 30 b / 31 a)                


Se ritornerà a Madrid, questo avverrà non perché abbia scoperto che il suo giudizio era errato, ma solo come scelta di un male minore. Visto che in campagna dominano ugualmente l'invidia, la superbia, la sopraffazione, l'ignoranza, Bernardo conclude:


¡Qué horror! A Madrid me vuelvo;
que allí hay más comodidades
si los vicios no son menos.


(III, últ., p. 54 b)                


Sullo sfondo dunque abbastanza desolato di un paese gretto e rozzo, si svolge una vicenda d'amore in cui Bernardo viene a trovarsi indirettamente implicato. La nipote Carmen, per imposizione del dispotico padre, deve sposare un grezzo e ricco spaccone, Esteban, nonostante che ella ami un certo Felipe, giovane semplice e colto (è, diremmo oggi, laureato in giurisprudenza). L'intervento dello zio e una serie di eventi felici permettono naturalmente le nozze dei due innamorati.

Ma la vicenda, che di per sé non ha nulla di originale, acquista un particolare sapore perché nuovamente vi s'intesse il tema della comunicazione. Qui non solo ciascuno parla il suo linguaggio, sordo e insensibile alle parole altrui, ma in taluni casi l'impossibilità di dialogo diviene perfino paradigmatica.

  —124→  

Anche tralasciando situazioni abbastanza normali, come la reticenza di Carmen a confessare allo zio il suo amore per Felipe o l'insensibilità del padre di lei, Baltasar, cui basta strapparle a viva forza il consenso, non si può non sottolineare il singolare comportamento di tre personaggi che, chiusi nel loro circoscritto sistema ideologico ed espressivo, passano sulla scena immersi in una sorta di perenne monologo.

L'uno è Don Esteban, il cui rozzo linguaggio contrasta a tal punto con quello della promessa sposa da rendere impossibile ogni forma di colloquio fra i due: in effetti tale colloquio non ha mai luogo se non per interposta persona. Accade cioè che, se Esteban deve esprimere i suoi sentimenti e i suoi progetti nei confronti di Carmen, non si rivolga a lei, che pure è presente, ma dialoghi con un terzo personaggio cui incombe il compito di fungere da tramite fra i due; pertanto a quest'ultimo anche la fanciulla affida un'eventuale risposta.

Non solo, ma Esteban è così pieno di sé da essere fornito di una ridottissima capacità di ascolto; perciò anche i dialoghi che riesce a imbastire con altri personaggi tendono a risolversi in monologhi nei quali egli essenzialmente decanta le proprie supposte virtù. Le umane carenze del giovane campagnolo non potevano sicuramente essere meglio rilevate che da questa inettitudine a usare la parola come strumento di rapporto con i propri simili.

Altrettanto incapaci di comunicazione, ma in forma più ingenua e caricaturale, risultano Doña María, la madre di Esteban, e Don Abundio, segretario del locale concejo.

La prima attraversa la scena con un torrente di proteste, di espressioni risentite, di apostrofi, nel quale affoga tutti i presenti, proseguendo sino alla fine del suo discorso nella più completa noncuranza di interruzioni, risposte, tentativi qualsiasi di inserimento.

Il secondo parla un linguaggio artificioso, che è la caricatura del classicismo di maniera. Per fare un esempio, ecco come Bretón, che fra breve si farà beffe del romanticismo, si burla ora dei topici classicistici: Abundio si congeda da Baltasar in questi termini:


No tantas el turbio Reno,
no tantas el ancho Ganjes
arenas cría, ni tantos
cándidos sobre los Alpes
de frígida nieve copos
el torvo Aquilón abate;
—125→
como yo beatos días
a usted deseo. ¡Salve!


(I, 5, p. 33 a)                


È logico che Bernardo stupefatto domandi:

¿Se entiende aquí este lenguaje?


e che Baltasar gli risponda:

No por cierto.


(I, 6, p. 33 a)                


Matea e Abundio sono personaggi comici che non hanno altra funzione se non di far ridere; ma è interessante notare come Bretón, sia pure ai fini della comicità, abbia fatto ricorso ancora una volta al tema della comunicazione.

Non manca infine, in questa commedia, un'ulteriore presa di posizione a favore degli ideali borghesi che già aveva delineato nei Dos sobrinos. Se in quest'ultima opera il giovane borghese, educato e onesto, usciva trionfante dal confronto con l'aristocratico cugino, ora è la volta di un borghese colto (il laureato Felipe) che ha la meglio sul ricco, ma rozzo, proprietario terriero.

Dopo alcune altre commedie nelle quali Bretón andava sciorinando il suo credo ideologico ed etico (La falsa ilustración; Achaques a los vicios) oscillanti tra il farsesco e il moralistico, Bretón compose infine l'opera che, a detta dei critici, chiuderebbe il periodo moratiniano per dare inizio alla commedia propriamente bretoniana140: Marcela o ¿a cuál de los tres?, rappresentata al teatro del Príncìpe allo spirare del 1831.

Che Marcela dovesse essere un terminus a quo nella storia del rinnovamento del teatro bretoniano era opinione dello stesso autore che   —126→   più tardi scrisse, nella prefazione alla commedia stessa, le parole tante volte ripetute dalla critica:

Abrió el autor con esta comedia nuevo y más libre rumbo a su imaginación


(p. 54).                


Per il lettore odierno riesce tuttavia curioso apprendere, nelle righe seguenti, che la novità e la libertà di cui parla, e che sarebbero state il motivo principale del successo ottenuto, sono di natura esclusivamente metrica: Bretón insomma aveva composto questa commedia in una metrica assai più varia e aveva introdotto la rima in luogo dell'assonanza, abbandonando così, o limitandone l'uso, quel romance ottosillabo che aveva impiegato nelle opere precedenti,

por recomendarlo así autoridades muy respetables, y porque, en efecto, es el que más se adapta a la viveza y a la propiedad del diálogo.

Estudiando una y otra vez a Lope, Tirso, Calderón, Rojas, Moreto, Alarcón -asserisce ancora lo scrittore- envidiaba en este punto su feliz independencia tan fecunda en primores. Todos los poetas contemporáneos aflojaban, y algunos empezaban ya a sacudir del todo el yugo escolástico. Constante en su fe literaria, si bien no ciego sectario de una escuela exclusiva, logró preservarse de las alteraciones lastimosas en que otros incurrían; pero hubo de entrar en cuenta consigo mismo y tantear sus fuerzas para ver si era o no posible conciliar la pintura vigorosa de afectos y caracteres, la vis cómica del diálogo, la naturalidad del lenguaje con una versificación más artificiosa, más variada y más galana, aunque no tanto que pecase de lírica y pintoresca en demasía


(pp. 55-56).                


Ancora una volta il teatro del siglo de oro viene in aiuto al nostro autore per avviarlo verso una maggiore autonomia. Ma ora la strada imboccata è quella del romanticismo, di cui Bretón tace pudicamente il nome, ma al quale allude attraverso l'accenno alla liberazione dal giogo scolastico intrapresa dai poeti contemporanei, richiama indirettamente nel riferirsi alla posizione di justo medio da lui assunta e che è infine chiaramente individuabile in quella ricerca di metri più vari che fu propria del movimento romantico141.

Certo, la pagina di Bretón getta una luce insospettata su di una sensibilità teatrale notevolmente diversa da quella odierna: al nostro teatro come fatto di regia, l'Ottocento oppone una coscienza profondamente letteraria e «testuale» dello spettacolo. Presuppone inoltre,   —127→   la pagina bretoniana, un pubblico colto sino alla raffinatezza, se è in grado di apprezzare la polimetria e la rima e di decretare, in base ad esse, il successo di un'opera.

In definitiva, Bretón veniva a instaurare un nuovo tipo di rapporto comunicativo col pubblico, tanto sul piano formale quanto su quello contenutistico, visto che l'adozione di una metrica «más artificiosa, más variada y más galana» comportava, insieme a una maggior letterarietà, la liberazione, parziale s'intende, da quel moralismo e da quel pedagogismo che erano in certo modo legati a un dialogo prosastico o semiprosastico: la commedia tendeva ora a scostarsi dai lidi della filosofia e della sociologia e ad avviarsi verso zone più confinanti con la lirica.

Più poesia, più novella e meno pensiero (o, forse meglio, assorbimento del pensiero nel mondo della poesia e della novella) sembrano infatti i motivi nuovi che autorizzano a considerare Marcela l'inizio di una commedia diversa, anche se il totale disimpegno che vi si raggiunge non si ripeterà più se non in commedie di secondo piano.

Marcela non ha nulla da insegnare, nulla da rimproverare, nulla da dimostrare; non ha neppure una trama nella forma tradizionale: è una commedia libera da schemi letterari, come la sua protagonista lo è da schemi sociali, e per questo è fresca, spiritosa, vagamente fiabesca.

Le novità di essa sono dunque di prospettiva, di strutture, di interpretazione, non certo di contenuti; tant'è vero che poggiano curiosamente su di una trama abusatissima: quella della fanciulla (qui, più precisamente, una giovane vedova) che, assediata da tre pretendenti, è sollecitata a sceglierne uno per marito. La vicenda, in epoca abbastanza vicina, aveva costituito il nocciolo di quella Sociedad sin máscara che probabilmente fu il modello più immediato della pieza di Bretón; ma questo l'aveva immediatamente svuotata delle preoccupazioni morali che ne costituivano la struttura profonda.

Ma il tocco più originale, tanto nei confronti di Cagigal quanto nei confronti dei numerosi autori secenteschi che svolsero il tema, è ravvisabile nell'eliminazione di tutti i lances romanzeschi cui esso dava tradizionalmente adito e nella loro sostituzione con una sorta di confronto-opposizione fra linguaggi e, naturalmente, codici diversi.

I tre corteggiatori tentano, ciascuno nel proprio codice, ricco logicamente di aspetti peculiari, di stabilire una comunicazione con la piacente vedova. Stavolta Bretón è ben consapevole del tema che   —128→   affronta e provvede fin dall'inizio ad avvertirne lo spettatore. Si giova all'uopo della serva Juliana, la quale, in luogo di esporre, com'era tradizionale, gli antefatti della situazione, descrive a un'immaginaria dirimpettaia142 il carattere di ciascuno dei tre insistendo proprio sulle peculiarità del loro linguaggio.

L'uno è Don Amadeo, un poeta timido e avaro. Dice di lui Juliana:


Hay un poeta
que la mira de trasluz,
suspira, gime, se arroba,
y no pronuncia una Q.


Di Don Martín, un ufficiale dal discorso irruente, afferma:


Aquélla
no es boca, no, que es obús.


Infine, di Don Agapito, un vanesio effeminato, deride le chiacchiere inconsistenti su argomenti alla moda:


siempre meneando,
siempre cantando el Mai più;
siempre hablando de piruetas,
y del solo y de la pul
.....................................
Y dale con si el peinado
ha de llevar marabús...


(I, 3, p. 58 a)                


Perfino dello zio Timoteo -quello che un critico chiamerà «el viejo de los sinónimos»143- Juliana mette in luce le manie espressive:


Tan plomo para explicarse
que cuando dice según
si detrás no va el conforme
no está contento.


(ibidem)                


Solo della sua padrona non elenca peculiarità di linguaggio. Ma allora   —129→   ecco che la stessa Marcela viene introdotta a descrivere il suo ideale di comunicazione, che risiede, per uomini e donne, in un giusto mezzo fra la cortesia e il ritegno, ma che soprattutto deve evitare il conformismo di codici prefabbricati o della conversazione oziosa:


No me quiero parecer
...................................
a ésas que arañan a un hombre
cuando les dice una flor;
o bien fruncen el hocico,
y con zalamera voz,
clavando en tierra los ojos,
suelen responder: «favor
que usted me hace -¿Sí? ¿De veras?
¡Para que lo crea yo!.
¡Eh! No diga usted estas cosas,
que me cubro de rubor».
.............................................
Y nunca saben salir
de este mismo diapasón.


Analogamente:


El hombre fino
de mundo, de educación,
es galante con las damas,
y, siempre que su pudor
no ofende, si las requiebra
cumple con su obligación.
Porque eso de si el poplín
es más de moda que el gró;
si recibió más aplausos
el contralto que el tenor
........................................
son ripios insustanciales.


(I, 7, p. 61 b)                


L'atto I è dedicato quasi per intero a questa descrizione dei personaggi e alla conferma che essi stessi ne offrono comparendo, e parlando, sulla scena. L'atto II è invece occupato da tentativi di dichiarazione amorosa da parte dei tre corteggiatori. Comincia Don Agapito il quale fa consistere la sua allocuzione non tanto nel proclamare il suo sentimento quanto nel contestare a Marcela l'amore che ella certamente -dice- prova per lui, e nel rimproverarla perché non glielo abbia mai comunicato esplicitamente. Conclude:

  —130→  

Pretendo, pues, y ya es hora
que ese labio lisonjero
ponga fin con un te quiero
al ansia que me devora.


(II, 2, p. 66 a)                


Don Agapito lancia dunque un messaggio invertito che pertanto non viene neppure accolto da Marcela, anche grazie all'improvviso sopraggiungere di Don Amadeo.

Egrave; così la volta del poeta, il quale legge una lirica d'amore dedicata a un'immaginaria Laura. Ricorre dunque a un messaggio indiretto che Marcela tenta invano di fargli decodificare. Burlandosi della sua timidezza, ella gli domanda apertamente a chi intenda alludere con la Laura della lirica. A questo punto la facondia del poeta vien meno ed egli risponde solo a monosillabi che gradualmente vanno perdendo valore semantico.

MARCELA
¿Es amiga mía?
AMADEO
Sí.
MARCELA
¿Vive muy lejos de aquí?
AMADEO
No.
MARCELA
¿Quiere a otro?
AMADEO
No sé.
MARCELA
Hoy la habrá usted visto.
AMADEO
Ya.
MARCELA
¿Puso mala cara?
AMADEO
No.
MARCELA
¿Le ha dado usted celos?
AMADEO
¡Oh!
MARCELA
¿Le ha hecho a usted preguntas?
AMADEO
¡Ah!

E finirà in un comico

¡Ah! Si... Mi... La...


creato per offrire a Marcela la battuta:


¿Me enseña usted el solfeo?


(II, 4, pp. 67-68)                


Il messaggio di Don Martín pecca invece di ridondanza e dalla sua stessa ridondanza è frustrato. Quando infatti, dopo un torrente di   —131→   parole superflue, sta infine per formulare la sua dichiarazione, viene interrotto dall'annunzio che la gatta ha partorito.

Nel III atto ognuno dei tre affida a uno scritto quella dichiarazione che la viva voce non ha potuto o saputo esprimere. Don Agapito persiste nello stesso errore di giudicare Marcela innamorata di lui e pertanto anche questa volta il suo messaggio è respinto. Migliore accoglienza ricevono gli altri due biglietti: quello di Amadeo per la delicatezza dei sentimenti, quello di Martín per la schiettezza delle espressioni. Ma ora che la comunicazione si è avviata, Marcela teme che le parole non corrispondano alla realtà dei fatti: che insomma si verifichi quel disaccordo fra labio e corazón che già deprecava Aristipo Megareo.

Timore fondato, almeno per quanto concerne Amadeo; quando infatti ella gentilmente gli comunica che non intende accettare la sua proposta, il poeta, umile e remissivo fino a quel momento, dà in escandescenze e finisce per insultarla.

Le cose vanno un po' diversamente con Martín144, che Marcela dimostra di preferire. Ma anche a lui confessa di non sentirsi in grado di sposarlo ritenendolo immaturo per il matrimonio né di poter credere totalmente alla sua dichiarazione:


Palabras que como el humo
se disipan nada prueban.


(III, últ., p. 81 b)                


Respinti dunque anche gli ultimi messaggi, a Marcela non resta che rinunziare al matrimonio. Lo fa con un'allegria che richiama quella della Baronessa di Tal para cual:


Quiero pues mi juventud
libre y tranquila gozar;


(ibidem, p. 82 b)                


ma anche con un disincanto non privo di un velo d'amarezza:


Los humanos corazones
ya a mi costa conocí.
Pocos me querrán por mí;
—132→
cualquiera por mis doblones.
Celibatos camastrones,
buscad muchachas solteras,
que muchas hay casaderas.
Dejadme a mí con mi luto.
Paguen ellas su tributo:
yo ya lo pagué: y de veras.


(ibidem)                


Conclude il suo discorso e, con esso, la commedia, con un elenco dei vizi degli uomini:


Éste es necio; aquél celoso;
ávaro y altivo el uno;
otro infiel; otro importuno ecc.


(ibidem)                


Manca dunque il lieto fine; e così doveva essere in una commedia tutta intessuta sulla difficoltà di comunicare145 e che pertanto aveva presentato in ogni personaggio una diversa forma di solitudine. Per questo nessuno ha raggiunto nulla perché nessuno ha saputo uscire da sé stesso. La stessa Marcela, incapace o impossibilitata a recepire messaggi, risulta frustrata; la libertà di cui gode si esaurisce in sé medesima, perché ella non sceglie e non muta: dal principio alla fine fa pernio sulla sua persona.

Egrave; logico infine che, in un mondo siffatto, l'amore, che è comunicazione per eccellenza, termini sconfitto.

Non si può negare che la prima commedia «bretoniana», pur nella giocondità delle trovate, nasconda nel fondo una wistfulness tipicamente romantica.

La libertà assoluta di Marcela non ha un vero seguito nel teatro bretoniano. Di Marcela rimangono, questo sì, la vaga malinconia e il fondo pessimistico di una scarsa fiducia nell'uomo, ossia quanto l'illuminista Moratín aveva in genere superato. Rimane, in particolare, la tendenza a guardare più al personaggio che all'ambiente, più alle sue reazioni psicologiche e ai suoi problemi di «persona» che all'eventuale paradigma pedagogico e didattico che può incarnare.

  —133→  

Ma soprattutto perdurerà a lungo nel repertorio bretoniano il tema della comunicazione, anche se, dopo Marcela, subirà un certo periodo di attenuazione causato dal sopraggiungere di altri interessi.

Ricompare tuttavia già nel 1833, in Un tercero en discordia, dove, sulla scia dell'antica A la vejez viruelas, è presentato un personaggio, Saturio, il quale, chiuso nel suo tronfio egocentrismo, interpreta parole e fatti in chiave del tutto personale.

L'anno successivo, Un novio para la niña descrive il difficile dialogo fra due innamorati che, non osando dichiararsi, tergiversano, accennano a vaghi oscuri dolori e non riescono a esprimere l'unico concetto che vorrebbero.

Nel 35 viene deriso, in Todo es farsa en este mundo, un giovanotto che, analogamente, non osa dichiararsi e di cui si dice che «necesita de un intérprete».

Nel 38 Bretón mette in bocca al protagonista del Poeta y la benificiada una lirica tutta fondata sulla difficoltà di comunicare per cui il messaggio d'amore viene affidato agli occhi e al silenzio; a sua volta la protagonista parla per enigmi che naturalmente il destinatario non afferra. Nello stesso anno (El qué dirán y el qué se me da a mí) si fa beffe proprio di chi crede nel linguaggio degli occhi («Los ojos / no hablan en buen castellano»; II, 4, p. 165 b) o in quello del silenzio («Quien calla (...) no dice nada»; ibidem).

E ancora, nel già citato Hombre pacífico, si burla del linguaggio romantico che il buon Don Benigno, cui riesce incomprensibile, definisce algarabía e jerigonza.

Si tratta tuttavia di cenni fuggevoli che non incidono sull'azione e che possiedono in ogni modo scarso rilievo anche per sé stessi. Al contrario il tema ricomparirà in tutta la sua ampiezza nel Pelo de la dehesa, un altro importante punto d'arrivo del teatro bretoniano. Ma ad esso si accosterà quel tema politico-sociale che Bretón andò elaborando negli anni successivi al debutto di Marcela e che costituisce il pernio attorno al quale ruotano numerose delle opere composte in quegli anni.

3.- Società e mondo politico

Bretón dichiarò personalmente che la politica non fu uno dei temi predominanti del suo teatro ma che tuttavia alla politica si ispirò   —134→   in un certo numero di opere (ne cita nove) così da offrire un quadro anche di questa «interesante parte de las costumbres de la época»146.

In realtà una vena politica, meglio sarebbe dire etico-politica e socio-politica, circola in un numero ben più rilevante di opere.

Già in epoche di rigida censura Bretón si serviva del palcoscenico per manifestare più o meno apertamente certe sue concezioni sulle classi sociali che non è eccessivo definire politiche. Ma dopo la morte di Fernando l'intrusione di spunti di questo genere diviene più frequente e tende anzi a occupare uno spazio sempre più ampio.

Un tercero en discordia, che andò in scena il 26 dicembre 1833, a tre mesi dalla morte del monarca ed ebbe l'onore di una recensione favorevole di Larra147, pur fra vari altri motivi sembra voler porre il problema dell'identità della nazione spagnola: un problema accantonato durante il lungo dispotismo ma che ora, specie dopo l'apertura delle frontiere, non poteva essere ancora rinviato. In una serie di interrogativi, l'autore affronta non solo la questione degli influssi stranieri (topica, se vogliamo, nel teatro spagnolo) ma anche quella della gerarchia estamental del paese:


Sepámoslo de una vez:
¿qué somos en esta tierra?
¿Españoles o franceses?
¿Se come aquí o se merienda?
...............................................
¿En qué cátedra se aprende
la urbanidad verdadera?
¿Reside en la aristocracia,
o bien en la clase media?
¿Cuáles los límites son
entre esta clase y aquélla?


(I, 2, p. 11)                


Il discorso, apparentemente marginale, serve in realtà d'introduzione al motivo della satira antiaristocratica che percorre un po' tutta la commedia. In essa si narra la consueta vicenda della fanciulla contesa da tre pretendenti, fra i quali il padre esige che ella scelga il superbo Saturio, di cui esalta «la esclarecida sangre». Ma la figlia Luciana ribatte che si tratta di una concezione ampiamente sorpassata:

  —135→  

¿Iré a lucir en el Prado
los timbres de su linaje?
¡Hacer pruebas de nobleza
hoy día para casarse!
¿Qué tienen, pues, de común
en este siglo mercante
con el santo matrimonio
las órdenes rnilitares?
¿Qué importa que los abuelos
venciesen a los alarbes,
si él es un pobre demonio?


(III, 1, p. 66)                


La ragazza finirà ovviamente per sposare Rodrigo, un giovane borghese.

Una situazione quasi identica, pur nel variare delle circostanze, ricompare in Un novio para la niña; anche qui, fra i tre corteggiatori della giovane Concha, spicca un nobile spiantato, Fulgencio, che aspira alla mano della fanciulla per poter pagare i propri debiti e che un altro pretendente deride opponendo al culto della nobiltà l'importanza pratica del denaro.

Le questioni politiche del momento sono invece affrontate più direttamente da Todo es farsa en este mundo, dove godono di ampio spazio accanto alla satira antiromantica di cui già si è discorso.

Gli spunti di politica attuale si inseriscono sul più vasto tema dell'insoddisfazione per la propria epoca che già aveva fatto capolino in A Madrid me vuelvo; o, detto in altri termini, tale insoddisfazione trova larga conferma nelle vicende politiche oltre che nel quadro generale della società. Todo es farsa en este mundo vuole sì dimostrare che il mondo è un grande teatro, ma non nel senso calderoniano che ciascuno vi recita la sua effimera parte. Per Bretón il mondo è teatro perché tutti sono commedianti nel senso deteriore del termine: ipocriti, gli uomini giocano a ingannarsi l'un l'altro e a interpretare le parti che meglio giovano al raggiungimento dei loro egoistici fini.

Una di queste parti è quella della politica. La recitano, in questa commedia, Rufo ed Evaristo: il primo, padre di Pilar; il secondo, aspirante alla mano di lei.

Rufo sceglie il partito in base alla convenienza e a una certa ingenuità. Carlista in apertura di commedia (di lui dice la sorella Vicenta:

  —136→  

¡A pie juntillas
cree que en ambas Castillas
ha de reinar Carlos Quinto!
Es de esos hombres ilusos
que en no ver claro se empeñan,
y todas las noches sueñan
con austríacos y con rusos.


(I, 1, p. 127 b)),                


passa al partito filogovernativo, non appena crede di essere nominato caposezione e di ereditare un maggiorasco:


¡Mayorazgo! ¡Qué contento!
¡Jefe de sección! ¡Qué gozo!
¡Y en un día! ¡Qué alborozo!
¡Ah! ¡Cómo en el alma siento
el liberal ardimiento!
..............................................
Corriendo, aunque eche la hiel,
ahora voy, patriota fiel,
a alistarme en la milicia.
¡Viva la patria! ¡Oh delicia!
¡Viva la reina Isabel!


(II, 10, p. 145 a)                


Quando infine apprende che la notizia dell'avanzamento era falsa, non sa più che partito scegliere. Dapprima ritiene che ormai


España va a dar al traste;


oi protesta contro i governi liberali; infine alla moglie che gli propone di ritornare al carlismo, oppone:


Ya no quiero ser carlista,
ni liberal, ni erre, ni hache.
..........................................
Quiero
ser yo: ser Rufo.


(III, 6, p. 151 a).                


Che è, pur sulle labbra di un covachuelista modesto e un po' ridicolo, una suggestiva proclamazione di individualismo romantico.

Evaristo, al contrario, non ha ideali politici né segue un partito determinato; tuttavia si muove a suo agio nelle sfere del potere e   —137→   dell'alta finanza. Intraprendente, pieno di iniziative al limite del lecito, è il tipico rappresentante di quell'opportunismo politico-economico che Bretón biasimava non meno del carlismo. Esempio significativo di quest'atteggiamento è la sua intenzione di fondare un giornale di «un color... tornasolado» (II, 5, p. 140 b).

Con questi due personaggi, oltre che con altri accenni alla situazione politica sparsi qua e là (per esempio, II, 3 contiene un'esaltazione di Isabella e una perorazione anticarlista) e con il tema del romanticismo impersonato da Faustino, l'altro pretendente di Pilar, Bretón veniva a creare la sua prima commedia veramente impegnata. Ma politica, finanza, letteratura, nonché amore non sono che altrettante maschere le quali giovano a nascondere la vera molla di tante azioni umane: quella dell'interesse.

Per interesse Rufo passa da una bandiera all'altra, Evaristo corteggia Pilar e ancora per interesse, in questo imitato da Faustino, l'abbandona.

L'amore in lotta con l'interesse era motivo non nuovo in Bretón, che l'anno precedente, nell'Amigo mártir, aveva collaudato il modello semiologico, destinato a ritornare a varie riprese, del pretendente che si ritrae non appena apprende la notizia (per lo più diffusa ad arte) che la fanciulla non è ricca come credeva: un modello che, tra i vari antecedenti. contava anche, come esempio abbastanza vicino e in versione maschile, il Don Dieguito di Gorostiza.

Ed ecco allora che Evaristo lascia Pilar quando Vicenta gli fa credere che Rufo si trovi in cattive condizioni economiche; ritorna a lei alla notizia della promozione di Rufo; se ne allontana definitivamente quanto scopre che la notizia era infondata. D'altro canto l'amore, in questo mondo egoista e opportunista, forse non esiste neppure. Evaristo cerca in Pilar solo una ricca dote; Faustino crede di amarla ma la sua passione cede al primo miraggio di guadagno e di carriera; Pilar non ama né l'uno né l'altro ma è trascinata suo malgrado dalle decisioni che per lei assume Doña Vicenta. Il suo unico amore è l'illusione di un sogno: un giovane ufficiale sconosciuto che danzò con lei una sera lontana. Ma, l'ammonisce Vicenta, anche il tenentino, se mai dovesse ricomparire, anteporrebbe la carriera all'amore. Occorre convincersi


que el interés y el engaño
tienen al mundo perdido.


(III, últ., p. 157 b).                


  —138→  

La commedia prosegue dunque il cammino aperto da Marcela nella descrizione di un mondo in cui l'amore non riesce a trovare un suo spazio; senonché ora pare che molte, troppe forze congiurino per soffocarlo: in una parola, è la società stessa che vi si oppone. È il tema wertheriano, che in quello stesso anno veniva sviluppato dal Don Álvaro, dove tuttavia era proiettato su di uno sfondo lontano: Bretón, autore comico, lo cala nel presente, lo sfronda dell'alone di fatalità e, considerandolo come un aspetto proprio dell'umana debolezza, finisce per sorriderne pur con qualche malinconia.

Sul finire di quello stesso anno 1835, il 21 dicembre, si rappresentava al teatro della Cruz Me voy de Madrid: ancora romanticismo e politica sullo sfondo di una vicenda più tradizionale: Joaquín, un furfantello ricco di espedienti, corteggia la romantica vedova Manuela al solo scopo di sottrarle un ritratto incorniciato d'oro e di venderlo. Ma il suo inganno viene scoperto e, insieme con esso, viene a galla una serie di precedenti mariolerie per cui a Joaquín non resta che andarsene da Madrid, imprecando contro la città causa dei suoi mali.

Il romanticismo è anche qui una maschera che Joaquín indossa al fine di meglio sedurre l'ingenua Manuela, per la quale invece è una radicata mania.

La vita politica compare invece di riflesso attraverso le deprecazioni di Fructuoso, che rimpiange i tempi, per lui felici, in cui la volontà del re sostituiva ogni opinione personale e sente la libertà come un agguato teso al suo amore del quieto vivere e al suo spirito gregario:


navegar un hombre
en medio a tantos nublados
políticos y hallar siempre
una tabla en el naufragio,
¡ya es empresa! Ya se ve,
con este sistema o diablo
de cortes y libertades
y reformas... nunca estamos
seguros de ir con el viento...


(I, 2, p. 161 a)                


Il suo animo pavido e accomodante gli suggerisce l'opportunismo più sfacciato:

Mi sistema es estar bien
con todos. Hoy me deshago
—139→
en alabanzas y encomios
del gorro republicano,
y mañana el justo medio
con igual fervor aplaudo.
MANUELA
Como ensalzabas un día
el despotismo ilustrado.
FRUCTUOSO
Y antes el rey absoluto.

(I, 1, p. 160 a)                


Naturalmente neppure Joaquín possiede opinioni politiche ma professa tutte quelle che gli suggerisce la convenienza e protesta comicamente contro il misconoscimento di questa che egli giudica la sua principale virtù:


En política es aciago
el signo con que nací.
Si enemigo, me desprecian;
si adulo, me llaman ruin.
A un hombre sin opinión
le dan un mandón civil;
yo tengo treinta opiniones
¡y nada me dan a mí!


(III, 14, p. 188 a)                


Fra questi opportunisti, l'ingenua e sofisticata Manuela insegue il suo sogno di una passione romantica che per un momento crede di vedere incarnata in Joaquín. Il suo disinganno è comico, come si è visto, ma non impedisce di avvertire, ancora una volta, l'aspetto poco confortante di un mondo in cui l'amore non riesce a realizzarsi.

Si realizza invece, pur superando numerose difficoltà, ne La redacción de un periódico (5 luglio 1836), dove tuttavia la relazione fra il cronista Agustín e Paula, la figlia del proprietario del giornale, ha semplicemente la funzione di collegare fra loro i numerosi spunti costumbristici i quali costituiscono la vera essenza e la segreta motivazione dell'opera.

Poiché la vicenda è tutta ambientata nella redazione di un giornale, è scontato che i riferimenti alla vita contemporanea -costume e politica- siano pressoché continui. Il carlismo, la censura, i patteggiamenti col governo, le subornazioni, l'ostilità dei partiti contro l'indipendenza del giornale («Los partidos (...) / como a ninguno alabamos / y a todos los combatimos (...) / ¿dónde hemos de hallar amigos?», I, 2, p. 195 a) e, per converso, la disponibilità di questo   —140→   a vendersi al miglior offerente sono altrettanti aspetti della vita politica spicciola dell'epoca. Non manca neppure un'interessante rassegna documentaria dei vari periodici nati e morti negli ultimi tempi, né un'altrettanto interessante documentazione lessicale sugli appellativi in uso per denigrare gli avversari politici148.

Nuovamente, il quadro politico-sociale descritto da Bretón lascia adito a poche speranze. La società che si intravede di scorcio da questa redazione appare composta essenzialmente da gente astiosa, da esseri corrotti o corruttori, e governata da politici maneggioni.

Egrave; naturale che Bretón, moralista per vocazione e, in certo modo, per il suo stesso ufficio di commediografo, ponga in luce soprattutto i lati negativi del mondo in cui vive; ma è curioso che, in queste opere più strettamente legate alla situazione politica, non compaia quasi mai un qualche aspetto positivo e rassicurante.

Se si prescinde da quel sorriso che ovviamente illumina e rasserena, la satira della società presenta toni non molto lontani da quelli di Larra, anche se proprio quest'ultimo rimproverava a Bretón di prospettare una visione troppo pessimistica e di destar l'impressione, ingiustificata secondo il critico, che nel mondo giornalistico tutto sia corruzione e venalità149.

Il culmine di questo processo d'interpretazione pessimistica viene infine raggiunto nel 1838 con Flaquezas ministeriales. Bretón si rese certamente conto della gravità delle accuse che, in questa commedia, lanciava alla classe politica e perciò prudentemente collocò la vicenda in Portogallo: un paese diverso dal suo in modo da evitare le conseguenze di una satira diretta, ma così vicino e «iberico» da permettere che non andasse smarrita la trasparenza delle allusioni.

Ciò che egli satireggiava era tutto il costume politico: erano i giochi delle ambizioni personali che arrivavano ad abbattere i ministeri; era quel sottogoverno che affidava alle amicizie o al caso le nomine, gli avanzamenti e i collocamenti a riposo; era soprattutto   —141→   quella concezione della politica non come di un servizio reso al paese ma come di una lotta per la conservazione del potere.

Ma Bretón ne approfitta anche per mettere a confronto il mondo corrotto della politica, non a caso interpretato da un gruppo di nobili (un marchese, una contessa, un barone: sono rappresentati i principali gradini della scala aristocratica) con quello delle oneste famiglie borghesi, in cui si vive del proprio lavoro e si finisce per scontare amaramente i servigi resi alla patria.

Da una parte dunque, il Marchese, primo ministro di Portogallo, che, d'accordo col Barone, ministro di polizia, organizza una finta sommossa per rafforzare il suo governo; che destituisce un direttore generale per compiacere al puntiglio dell'amante; che rifiuta il memoriale presentatogli da Marta, vedova di un militare caduto in battaglia, perché la figlia di questa non ha ceduto ai suoi desideri; che infine adduce innumerevoli pretesti per non soddisfare le legittime richieste dei cittadini. Accanto a lui la contessa Violante, amante esigente e superba che si sdegna contro la suddetta Marta perché questa vuol farle pagare il conto degli abiti che le ha confezionato; che pretende, e ottiene, la destituzione di un funzionario perché la moglie di questo, incontrandola per strada, ha sputato per terra; che pretende pure un posto per un suo cugino fannullone. Da ultimo il Barone, il quale, dopo aver suggerito al Marchese l'idea della sommossa simulata, in realtà la organizza a proprio vantaggio, destituisce il Marchese e si insedia al suo posto.

Dall'altra, il piccolo mondo quotidiano di Marta e di tante altre donne, vedove di guerra come lei, che chiedono -e non ottengono a causa dell'eterna mancanza di fondi- la pensione che loro spetta. Marta rimedia all'indigenza lavorando di cucito e intanto cerca di accasare la figlia con un giovane serio e onesto, per il quale chiede a sua volta un posto al Marchese.

In questo modo le intenzioni delle due donne si scontrano; naturalmente il Marchese preferisce al futuro genero di Marta il perdigiorno raccomandatogli da Violante e prima di abbandonare il suo ministero impartisce disposizioni a favore di quest'ultimo. Uno scambio di documenti e l'onesta complicità del segretario invertono la situazione. E poiché il Barone conferma la nomina, grande è il giubilo di Marta che esalta il nuovo primo ministro ed esclama:


Y si programa nos da,
¡qué bueno será el programa!


  —142→  

Ma la voce dell'esperienza di un assiduo frequentatore di anticamere ministeriali, l'ammonisce:


¿Programa? Eso es lo de menos.
Todos dan, señoras mías,
programas y garantías.
Todos son buenos, muy buenos...
los primeros quince días.


(V, últ., p. 42 b)                


Grazie al barlume di sorriso che lampeggia in quest'ultima battuta, grazie forse anche al vecchio espediente dello scambio dei memoriali, la commedia non valica la soglia del dramma cui è notevolmente vicina. È un fatto che in Flaquezas ministeriales il panorama, più desolato che mai, non è mai rischiarato da quegli intermezzi comici o da quelle allegre trovate che in parte alleggerivano l'atmosfera nelle opere precedenti.

L'autore probabilmente avvertì il pericolo di scivolare in un genere lontano dai suoi interessi più caratteristici e forse ne ebbe qualche indiretto ammonimento dal pubblico, dal momento che la commedia non tenne cartello a lungo150. Forse influì anche su di lui un certo assestamento della politica spagnola: ci si stava avviando verso la conclusione della guerra carlista (la convenzione di Vergara sarebbe stata firmata nell'agosto del 1839); si era già verificato, col conte di Ofalia, un mutamento di governo in direzione moderata; si era realizzata una certa sistemazione della finanza pubblica. Bretón sentì probabilmente afflosciarsi il desiderio di lanciare satire politiche che forse nemmeno i suoi spettatori avrebbero gradito. Sta di fatto che nelle opere successive il tema politico occupa assai meno spazio e soprattutto viene impiegato al fine di mostrare quegli aspetti positivi della convivenza civica che prima erano assenti o in ombra. D'altro canto, nelle stesse Flaquezas ministeriales l'autore già aveva indicato nella borghesia la presenza di virtù civiche sconosciute alla classe aristocratica dominante; e qualche mese prima, nell'atto unico intitolato El hombre pacífico (di cui già si è toccato a varie riprese), aveva spezzato una lancia a favore del borghese tipico, amante della quiete e della vita casalinga, ma inflessibilmente ligio ai doveri del buon cittadino.

  —143→  

Si tratta di quel Don Benigno che abbiamo visto rifiutare il romanticismo manierato di una fanciulla fantasiosa. Ebbene, a lui che ama la tranquillità del focolare, che si annoia ai balli, che, pur di trovare la quiete, sarebbe disposto a indossare il saio del certosino, viene recapitato un precetto di servizio militare, per un errore di trascrizione (gli si attribuiscono trentadue anni in luogo dei cinquantadue che realmente conta). Quando, finalmente, chiarito l'equivoco, egli può rimanere tranquillamente a casa, prorompe in un'interessante professione di fede patriottico-borghese:


Yo puedo amar a mi patria
y a Cristina y a Isabel
sin dar que reir al pueblo
en la guardia, en el retén,
con mis remos de galápago
y mi panza de tonel.
Pago mis contribuciones,
que no lo hacen más de seis;
si comercio, abono siempre
los derechos de arancel;
respeto a la autoridad;
de nadie recibo prest;
voto según mi conciencia ecc.


(20, p. 116 a)                


Circa un mese dopo Flaquezas ministeriales riproponeva invece il contrasto fra nobiltà e ceto medio, questa volta però col pieno trionfo del secondo. El qué dirán y el qué se me da a mí indicava, nel titolo, i due opposti difetti di una famiglia aristocratica. Il capofamiglia, il Barone, si oppone alle nozze della propria figlia Camila col cugino Ignacio perché questi, quando, a causa della sua fede liberale, viveva in esilio a Gibilterra, vi vendeva stoffe e questo gli pare che possa offrire pretesto alle chiacchiere: vorrebbe invece che sposasse un nobile, il marchese di Pozo-frío. Per le stesse ragioni contrasta le nozze che la sorella Rosalía vorrebbe contrarre col maggiordomo Toribio. Rosalía, che professa l'indifferenza del qué se me da a mí, esce perfino in accenti di derisione per un eventuale sposo nobile (un «mono» senz'altro merito che i suoi titoli, un libertino frequentatore di clubs e di prostitute) ma si profonde in lodi dei marito borghese:


Yo prefiero, pues me adora,
—144→
a un hombre honrado y sencillo,
y si en la corte no brillo
seré en mi casa señora.


(II, 1, p. 164 b)                


Cerca inoltre di vincere le perplessità di Toribio, tacciando il fratello di sciocco conservatorismo:


Ni las leyes ni las cámaras
me lo pueden estorbar;
y así que te dé la mano
le hemos de cantar un trágala
al quijote de mi hermano.


(II, 1, p. 169 b)                


Ma il buon senso del maggiordomo non si lascia convincere così facilmente. Riflette: egli è povero e plebeo, ella ricca e nobile. Non può non commentare:


¡Haremos linda pareja!


(III, 2, p. 171 a)                


La conclusione sarà che Camila sposerà sì l'ex-venditore di stoffe (debitamente arricchitosi grazie a un'eredità) ma Toribio finirà per sposare la serva Lorenza. Le aperture sociali di Bretón gli concedevano di ammettere solo il justo medio delle nozze fra classi contigue.

4.- L'eroe comico romantico

Nel 1840, dopo alcune divagazioni nell'ambito del puro passatempo (Un día de campo, che presenta diversi tipi di rapporti amorosi e ¡Una vieja! tutta fondata sul piacere della beffa) e dopo una pieza storica, ai limiti fra dramma e commedia (No ganamos para sustos), Bretón raccoglie in certo modo le fila delle ultime esperienze nel celebre El pelo de la dehesa: un'opera che sembrava recuperare il gioioso disimpegno di Marcela ma che, in realtà, non faceva altro che assorbire i problemi precedenti in una superiore serenità151.

  —145→  

La guerra carlista, per esempio, appartiene ormai al passato al punto che si può sorriderne ma non viene dimenticata. Alla fine della commedia, quando il proprietario terriero e l'ufficiale si abbracciano, un personaggio infatti commenta:


¡Otra edición
del Abrazo de Vergara!152


(V, últ., p. 112 b)                


Ma più intenso è il richiamo di quella problematica politico-sociale che aveva offerto l'ossatura a diverse fra le ultime composizioni. A contrasto sono ancora una volta aristocrazia e borghesia, ma in versioni nuove, più ammorbidite e meno tipizzate.

Il mondo aristocratico costituisce l'ambiente in cui ha luogo la vicenda e pertanto è il più articolato. Vi compaiono una marchesa, madre interessata, un giovane ufficiale un po' vanesio ma capace di schietti sentimenti, un parassita accomodante e vigliacco, e infine la giovane protagonista, Elisa, che, pur avendo i difetti e le manie proprie della sua casta, è ricca di sensibilità e incline all'umana simpatia.

All'altro lato sta Don Frutos, unico e solo rappresentante del ceto borghese; questa volta si tratta di una borghesia rustica e ricca, quella stessa che, nel lontano A Madrid me vuelvo, era stata assunta come simbolo della rozza prepotenza del denaro.

Mutati i tempi, accentuatasi in Bretón la tendenza al conservatorismo, colui che era un volgare contadino arricchito è ora un onorevole rappresentante di quella provincia agricola che è il sostegno della nazione e racchiude in sé le antiche virtù castizas che i nobili sembrano aver smarrito nella dissipazione della vita madrilena.

Menosprecio de corte y alabanza de aldea, dunque, secondo un'antica tradizione, ma con un sottofondo economico ed etico-politico adeguato ai tempi nuovi. Don Frutos, giunto a Madrid dalla nativa Aragona per impalmare la nobile Elisa, commette una serie di gaffes dietro le quali sembra spesso celarsi, da parte dell'autore e del personaggio, un sorriso di disapprovazione per i costumi madrileni:   —146→   quelli che, nella prospettiva cittadina, sono gravi errori di comportamento, non sono tali infatti in quella provinciale e anzi possono rivelare certe storture della moda.

Che il giovane provinciale scambi la serva per la sua promessa sposa dipende dal lusso esorbitante e dall'eccessiva riservatezza formale delle madrilene cui si oppongono la sobrietà e la spontaneità dei sentimenti proprie della provincia; che egli voglia abbracciare Elisa scandalizza il cittadino formalista ma suona elogio della schiettezza dei sentimenti rustici; il suo rifiuto dei tormentosi abiti impostigli è una beffa della moda di Madrid e così via.

L'originalità di Don Frutos rispetto ai numerosi antecedenti di ingenui calati dalla provincia alla «corte» nasce proprio dalla simpatia e dal consenso che circondano ogni suo gesto, e ancor più dalla ponderata consapevolezza con cui egli infrange una ad una le regole del buen tono.

Spesso egli ha buon gioco a ritorcere sui suoi ospiti le accuse, aperte o velate, di grosería, puntando il dito sulla loro eccessiva acquiescenza a un'etichetta soffocante. Se la marchesa esclama scandalizzata: «¡Qué horror!» perché Don Frutos ha scambiato la serva per la padrona, egli non esita a esternare una sua pari delusione:


...la verdad, no esperé
que en tan feliz coyuntura
me esperase mi futura
sentada en el canapé.
Hallar pensaba a mi bella
-no sé si esto es excederme,-
con tanta gana de verme
como yo de verla a ella.


(I, 10, p. 85 b)                


Espressione di una classe sociale che identifica la vita col lavoro e con la semplicità dei costumi, non prova la minima considerazione per quella nobiltà che ormai era consuetudine considerare oziosa e inutile153. Esce pertanto in una lunga battuta che val la pena riportare quasi integralmente per il coraggioso, liberale sovvertimento dei valori tradizionali che essa contiene:

  —147→  

Quizá cuanto más antigua
con menos fe se atestigua
la pureza de una casta.
¿Quién será el santo varón
que diga con juramento:
¡Veinticinco abuelos cuento
y ninguno fue ladrón!


E, rivolto alla marchesa e a sua figlia, prosegue con una curiosa degnazione:


No pongo en este capítulo
a ustedes, ni me desdeño
de llamar mi dulce dueño
a la heredera de un título.
En su última enfermedad
mi padre me lo mandó,
y, aún difunto, quiero yo
que se haga su voluntad;
y cuando tan linda es
la que me hace tanto honor,
bien puedo yo, pecador,
resignarme a ser marqués.


(II, 3, p. 90 a)                


L'etichetta di Madrid lo fa sorridere con sufficienza ed egli se ne burla a costo di scandalizzare ancora una volta i suoi ospiti. Quando fa il suo ingresso vestito da lechuguino, esordisce salutando:


Señoras, beso
a ustedes los cuatro pies.


E, alle rimostranze della marchesa, replica sornione:


Me ha dicho este caballero
que es saludo muy grosero
el decir: Dios guarde a ustedes;
y que en Madrid a estas horas,
como pueblo más cortés,
se estila besar los pies
verbalmente a las señoras.
Para hacerlo con más gala,
yo al besar los he contado,
y más hubiera besado,
si más hubiera en la sala.


(II, 3, p. 89 b)                


  —148→  

Attraverso una ricca serie di battute consimili e, naturalmente, attraverso un comportamento adeguato, Bretón veniva così a delineare per la prima volta l'eroe comico romantico.

In forma meno «sublime» e irruente, ma con altrettanta intensità, Don Frutos è un essere indipendente ed eslege come i suoi fratelli dei drammi contemporanei: il suo rifiuto della società dominante e delle norme che la regolano è altrettanto integrale.

Come quelli, possiede una coscienza orgogliosa e inflessibile della propria individualità che gli impedisce di scendere a patti con usanze e interpretazioni esistenziali diverse dalla sua; pertanto gli fa replicare vivacemente alla marchesa che pensa di poterlo piegare agli usi madrileni:

MARQUESA
Cualquiera se acostumbra...
DON FRUTOS
¡Oh! Yo no soy cualquiera.

(IV, 5, p. 103 b)                


Per lo stesso motivo, quando capisce che il suo matrimonio con Elisa sarebbe uno sproposito, non vuol recedere personalmente dalla parola impegnata da suo padre ma esige che sia la marchesa a infrangere i patti. Lo esige con la potente arma che stringe fra le mani: il denaro. Quando infine la marchesa è stata costretta a piegarsi, egli straccia le carte attestanti il debito di lei, con le quali l'aveva ricattata. A chi ammira tanta generosità replica:


No tal. Pago mi rescate
y ¡viva la libertad!


(V, últ., p. 112 a)                


Era il grido che lanciavano i protagonisti dei drammi romantici dopo aver ingerito il veleno o pugnalato l'avversario. La sola differenza fra l'eroe comico e il tragico risiede nel fatto che il primo riesce a far prevalere il reale sull'ideale, mentre il secondo continua a rigirarsi nel suo sogno impossibile.

Sia chiaro che anche Frutos, da buon romantico, vive il suo momento di sogno: di un sogno d'amore per Elisa, la cui bellezza ha il potere di fargli esprimere i più delicati sentimenti e di fargli accettare, per un istante, le imposizioni dell'etichetta. Questo sogno d'amore raggiunge il suo culmine verso la fine del secondo atto: in questo momento Frutos ed Elisa sembrano a un passo dall'aprirsi a   —149→   una proficua comunicazione. Il giovane, non contento di alcuni complimenti che rivolge alla fidanzata e che la colgono di sorpresa per la delicatezza con cui sono formulati, compie il massimo tentativo di superare la barriera che li divide, ammettendo:


Es tosca mi educación
para aspirar a tal moza;
yo te hago esta confesión;
pero tengo un corazón
como de aquí a Zaragoza.
Él encontrará camino
de agradar a mi mujer.
Para amar con desatino
no creo que es menester
que uno sea lechuguino.
En lo que yo no esté ducho
corrige tú mis maneras,
verás qué dócil te escucho.
Tú harás de mí lo que quieras...
siempre que me quieras mucho.
Así con igual placer,
luego que al pie del altar
me digas: soy tu mujer,
tú me enseñarás a hablar;
yo te enseñaré a querer.


(II, 11, pp. 93 b - 94 a)                


Colpita da questa insospettata facondia amorosa, la marchesina compie a sua volta un gesto di avvicinamento: violando l'etichetta, si fa dare il braccio da Don Frutos e, come suggerisce la didascalia, «lo guarda con tenerezza».

Quel «Déme usted el otro brazo» è il primo messaggio inviato da Elisa, che finora si era limitata a poche parole di convenevoli, a un paio di enunciati sulla moda e a numerosi «a parte» che sottolineavano il suo sconcerto di fronte alle gaffes verbali e gestuali del suo promesso sposo.

A differenza di quanto accadeva in altre commedie, in cui ogni personaggio continuava imperterrito nel proprio idioletto o lanciava messaggi destinati a non essere recepiti, nel Pelo de la dehesa i due protagonisti, dopo lunghi momenti di incomunicabilità, sembrano trovare infine un codice comune; forse sarebbe più esatto dire che tentano di costruire insieme un codice nuovo che permetta una reciproca intesa: mediatore, l'amore.

  —150→  

Bretón stava dunque esponendo, nella Madrid del 1840, una tesi rivoluzionaria e propriamente romantica: che l'amore permette un'intesa fra le classi sociali e ne realizza in certo modo l'unificazione o il superamento.

Senonché, come illusorio è il breve sogno d'amore, altrettanto illusoria diviene l'utopia sociale che a quello è strettamente collegata. La realtà e il buon senso -questi due ingredienti della commedia- finiscono per avere il sopravvento e i due giovani capiscono che i rispettivi mondi sono vicendevolmente impermeabili.

Don Frutos non sa rinunziare né alla sua zimarra né ai suoi orari di campagnolo mattiniero. Elisa non può accettare l'idea di una vita trascorsa in campagna né può fare a meno delle sue abitudini di cittadina nottambula. Entrambi si rendono conto allora dell'esigenza di parlare un linguaggio ispirato alla più razionale chiarezza. Cosicché, se la fanciulla dichiara infine:


Hablar con usted quiero,


Frutos non può non risponderle, al solito un po' campechano:


Ya es justo que sin empacho
tengamos, Elisa, un cacho
de parlamento los dos.


E se Elisa ancora lo previene che


       voy
a hablar muy claro,


egli parimenti assicura:


mas también va a ser muy clara
mi lengua.


(IV, 8, p. 104 b)                


Finalmente ha luogo una comunicazione che non si affida più all'intuito dei personaggi o al gesto ricco di simboli; cessano nel medesimo tempo anche gli «a parte».

Messaggi di contenuto assai simile vengono emessi alternativamente dai due giovani. In certo modo Bretón rispolvera il vecchio espediente barocco delle battute alterne ma lo piega a esprimere non solo simultaneità -come negli antichi modelli- ma soprattutto   —151→   dialogo: ogni battuta è infatti risposta e sviluppo di quella dell'interlocutore finché viene raggiunta la pienezza di una vicendevole intesa.

Ma non sul piano dell'amore ha luogo l'incontro, bensì su quello della ragione che insorge per negarlo e reprimerlo. Pienamente concordi nel rinunziare a quel sentimento che stava per legarli, Elisa e Frutos sono ancora una volta i simboli di una frustrazione comunicativa. Le loro parole, questa volta chiaramente emesse e perfettamente recepite, sembrano infatti nascondere un inganno. Lo denunzia Elisa che, al momento di sposare il capitano, non può trattenere accenti di rimpianto per il giovane aragonese, che vengono affidati a un ultimo «a parte»:


(¡Qué necia he sido
en no casarme con él!)


(V, últ., p. 112 ab)                


La ragione ha prevalso sull'amore, la realtà sul sogno.

5.- Il tema del tempo

Poco spazio dedicò Bretón a un tema così tipicamente romantico. Né il ricordo, né l'ansia del futuro né il timore di una scadenza percorrono quasi mai il suo teatro. Tuttavia si direbbe che, nel 1840, abbia voluto colmare questa lacuna portando in scena Un cuarto de hora: una commedia di successo fondata sugli equivoci -che talvolta richiamano perfino il siglo de oro- ma brillante e certo più profonda di quanto non possa apparire a una veloce lettura.

L'argomento in sé non è particolarmente nuovo. Il timido maggiordomo Ortiz e il presuntuoso Marchena aspirano alla mano di Carolina che civetta con entrambi. Al terzetto si aggiungono la serva Petra e la zia Liboria, che si illudono di essere corteggiate a loro volta. Ortiz si decide a dichiararsi per mezzo di un disegno allegorico e infine anche apertis verbis ed è accolto come sposo da Carolina, con scorno degli altri tre personaggi.

A questa trama si intreccia il tema del tempo sentito, in chiave romantica, come fatalità incombente che ghermisce a sorpresa: appunto come accadeva nei più famosi drammi contemporanei.

Naturalmente è presentato in versione comica, non tuttavia parodistica.   —152→   Ogni donna, sostiene Marchena all'inizio dell'opera, ha il suo «quarto d'ora» nel quale sta per cedere a chi meglio la sappia sollecitare.

La frase pronunziata da Marchena viene continuamente ribadita e punteggia tutta la commedia come un continuo richiamo a questo allegro incombere del tempo dell'amore.

Nella terza scena dell'atto I, Marchena appunto esordisce affermando con una certa solennità:


Toda mujer viviente
tiene su cuartito de hora.


(I, 3, p. 172 b)                


Ne approfitta subito Petra per far capire a Ortiz la sua disponibilità:


Y ello..., al fin..., toda mujer
tiene su cuartito de hora.


(I, 4, p. 173 a)                


Ortiz non manca di rifletterci, sia pure in direzione opposta a quella voluta dalla serva, e pensa che forse potrà far capitolare Carolina alle spalle proprio di quel Marchena che aveva enunziato il principio:


Toda mujer -él lo ha dicho-
tiene su cuartito de hora.


(I, 5, p. 173 b)                


Cosicché, nel secondo atto, in un momento di euforia in cui è convinto di potersi assicurare l'amore di Carolina, le rivolge, fra sé, la scherzosa minaccia:


a todo correr
se acerca tu cuarto de ora.


(II, 12, p. 181 b)                


Ma più tardi, in un momento di sconforto, commenta deluso:


¡Ay infeliz,
que ya llegado creía
el cuarto de hora...!


(IV, 1, p. 189 a)                


  —153→  

Quando poi, nell'atto II, Marchena finge di aver abbandonato Carolina e, per ingelosirla, prende a corteggiare Petra, quest'ultima gli domanda:


¿Y el cuarto de hora?


volendo intendere che il corteggiatore non ha saputo approfittarne. Ma egli replica subito:


A propósito;
............................................
tendrás
tu cuarto de hora también.


(II, 5, p. 177 a)                


Il «quarto d'ora» diviene così la spiegazione ufficiale e accettata di qualsiasi cedimento amoroso. La serva spiega alla sua padrona che non deve stupirsi se l'anziana Liboria non rifiuta il corteggiamento di Marchena, dal momento che


Toda mujer, como él dijo,
tiene su cuartito de hora.


(V, 2, p. 196 a)                


La stessa Liboria, rinsavita sul finire della commedia, commenta:


¿quién se libra, hija mía,
de un cuarto de hora fatal?


anche se deve amaramente ammettere:


causa grima
que sueñe cuartitos de hora
la que ¡tantos! tiene encima.


(V, últ., p. 200 b)                


Ortiz infine avrà la meglio grazie al bozzetto disegnato sull'album di Carolina, in cui rappresenta, fra l'altro, un orologio che segna le nove e un quarto, esattamente l'ora (e soprattutto il quarto d'ora) in cui la fanciulla sta osservando il disegno.

Ha ben ragione dunque Ortiz di rinfacciare a Marchena, seccato per essere stato posposto:

  —154→  

Mas recuerde usted la arenga
que siempre está repitiendo.
............................................
No hay mujer que no tenga
su cuarto de hora.


(V, 7, p. 200 a)                


In questo gioco, la povera Petra invano si illude di poter competere con la sua padrona. Quando, convinta di avere l'amore di Ortiz, comincia a imbastire progetti per l'avvenire dinanzi allo stupefatto maggiordomo, un provvidenziale suono di campanello la richiama alla realtà del momento. Rimasto solo, Ortiz riflette:


¡Ea! Sonó el cuarto de hora
de esa pobre.


(IV, 3, p. 190 a)                


Poco più tardi, sarà la serva stessa, profondamente delusa, a commentare:


¡Ay! ¡También mi cuarto de hora
llegó, y con sal y pimienta!


(V, 8, p. 200 b)                


Questo martellamento che, mutatis mutandis, adempie a una funzione analoga a quella del «¿Tan largo me lo fiáis?» del Burlador (e il richiamo a Tirso non è fuor di luogo a proposito di una commedia che sembra per certi versi ricalcare il Vergonzoso en Palacio), riporta continuamente lo spettatore alla dimensione temporale in cui si dibatte l'opera.

Bretón ha infatti avuto l'accortezza di puntellare l'idea del «quarto d'ora» con una quantità rilevante di notazioni temporali che dissemina attraverso l'intera commedia trasformandola quasi in una gioconda allegoria della condizione umana.

Ciascuno degli attanti possiede una sua dimensione temporale più o meno marcata entro la quale si svolge la parte che gli è assegnata.

Forse la protagonista, Carolina, è la meno esposta all'aggressione del tempo: giovane, scanzonata, provvista di un vivo senso dell'umorismo, tende, come molte eroine bretoniane, come Marcela soprattutto, a collocarsi in uno spazio a sé, in cui raramente penetrano le molestie dell'esistenza. Ma mentre ella tende a rinchiudersi nell'impermeabilità   —155→   del suo mondo, altri tenta di riportarla alla comune temporalità umana. Da una parte Ortiz e Marchena agiscono al fine di far scoccare per lei il fatale cuartito de hora; dall'altra la zia Liboria, quando non ha ancora perduto la sua matura saggezza, cerca di trasmetterle quell'angoscia per l'incalzare del tempo che è sua e che la nipote assolutamente non possiede:


¿Por qué entre tantos amantes
no te decides por uno?
Tienes veinte navidades,
eres rica y no eres fea:
ya es hora de que te cases.


(II, 1, p. 173 b)                


Carolina si sottrae a queste richieste incalzanti, proprio con una sorta di «¿Tan largo me lo fiáis?»:


Para la mía [boda] es temprano.
¿Teme usted que se me pase
el tiempo?
........................................
Puede que le [a Marchena] llegue a amar
algún día y que me case
con él; -mas ¡sufra y espere!


Liboria le risponde negli stessi termini con cui i personaggi del Burlador ammonivano Don Giovanni (naturalmente senza il richiamo metafisico):


Quiera Dios
que algún día no lo pagues.


(II, 1, p. 174 a)                


Questa sua disposizione, per così dire, a giocare col tempo, bene intuisce Marchena che,


non senza la consueta presunzione, dichiara:
Y ella está muerta por mí:
...........................................
pero antes de confesarlo
querrá torearme un mes.


(II, 4, p. 176 a)                


Ma, a differenza di Marcela, Carolina è molto sensibile alle attenzioni   —156→   degli uomini e il corteggiamento serrato dei due pretendenti l'attrae gradualmente nella sfera della temporalità.

Nel secondo atto un todavía sottolinea questo suo inserimento nel tempo:


yo no le amo
todavía


(II, 9, p. 179 a)                


dirà di Marchena.

A metà del terzo, è costretta a contrapporre passato e presente:


Si ayer toleraba
su enfadoso galanteo,
hoy le odio con toda el alma.


(III, 7, p. 186 b)                


Nel quarto, detta a Ortiz una lettera in cui pone una precisa scadenza: ella è disposta a perdonare Marchena


«si luego que dé el reloj
las nueve.............................
...........................................
...........................viene usted
a pedirme absolución»


(IV, 4, p. 191 b)                


Nell'ultimo atto, è già afferrata dall'ansia esistenziale:


Venganza mía, ya tarda
tu ansiado triunfo halagüeño,


(V, 1, p. 195 a)                


e vigila sul trascorrer del tempo:


No tardará. Son las nueve.


(V, 2, p. 195 b)                


Di questo stato psicologico approfitterà Ortiz che la farà cadere nelle sue braccia mostrandole il disegno con i riferimenti allegorici alla scadenza del tempo.

A Carolina si contrappone, ma anche si affianca, la zia Liboria, la cui vicenda è tutta giocata su rapporti temporali. In apertura,   —157→   quando non è ancora caduta nella rete tesale da Marchena -che la corteggia per far ingelosire Carolina- tende a collocarsi in una sfera di serena atemporalità per ragioni opposte a quelle della fanciulla. Alle sue insistenze perché si sposi, Carolina ribatte che ella, Liboria, potrebbe invece pensare al matrimonio


a pesar de los diez lustros.


Ma la zia replica:


a mí me sobran años
............................ ......
a los quince años de viuda
¿había de ser tan frágil...?
No, pensemos en tu boda.
Para la mía..., ya es tarde.


(II, 1, p. 174 a)                


Liboria, donna realistica, possiede una chiara consapevolezza dei valori temporali che in effetti esprime nella concretezza delle cifre: i suoi quindici anni di vedovanza, i venti (veinte navidades) di Carolina. Quando Marchena comincia a corteggiarla, gli oppone subito i suoi cinquant'anni nella corposa entità di un mezzo secolo:


Pero ¿usted sabe
que peino ya la mitad
de un siglo?


provocando la risposta astutamente vacua del giovanotto:


Ese mismo medio siglo
¿no puede entrar en mi plan
filosófico?


(III, 4, pp. 183 b - 184 a)                


Senonché, quando la sua saggezza vien meno ed ella cede alle parole lusinghiere, le cifre cominciano a danzare dinanzi ai suoi occhi e ad assumere valori affatto relativi. Carolina, nel tentativo di farla rinsavire, sottolinea la differenza di età fra lei e Marchena:


Ajuste usted la cuenta.
De veintiocho a cincuenta...


  —158→  

Ma Liboria ottiene, dalla sottrazione, un risultato curioso:


Catorce.


E all'infuriato «¡Veintidós!» della nipote replica, con un'indifferenza totale al mondo dei numeri e, pertanto, dei rapporti cronologici:


Bien... Deja con su tema
sobrina, a cada loco.


(III, 6, p. 185 b)                


Ma i numeri non tardano a riprendere il sopravvento e le causano profonde perplessità che ella espone a Ortiz nell'atto IV. La sua domanda è:


¿Cree usted que una mujer
que frisa ya en los cincuenta
puede pensar sin escándalo
en dar que hacer a la iglesia
casando en segundas nupcias
con un prójimo de treinta?


E dopo aver ricordato «mi fecha y todo», mentre Ortiz subdolamente le insinua che ella possa essere preferibile a Carolina, sono ancora i numeri a rivendicare i loro diritti ed ella protesta:


¡Tiene veinte años!


(IV, 6, p. 193 a)                


Quando però l'infatuazione ha il sopravvento ed ella attende con ansia l'arrivo di Marchena («Noche, tu curso apresura») le cifre scompaiono per lasciare solo il posto alla coscienza -tra patetica e comica- di una solitudine incommensurabile:


¡Tantos años de viudez!..
¡Qué pesadez!


(IV, 7, p. 194 b)                


I due personaggi maschili costituiscono una definita coppia oppositiva: tanto lento e circospetto è Ortiz nell'afferrare l'attimo che fugge quanto frenetico nell'inseguirlo appare Marchena.

  —159→  

Ortiz compare fin dalla prima scena immerso in questo tempo lento che lo caratterizza, mentre si lamenta di aver impiegato


¡Tres días mortales
para hacer un mal soneto!


(I, 1, p. 168 a)                


Perfino la sua presenza in casa di Carolina è misurata sul medesimo ritmo. Dice di lui Petra:


aquí le tenemos....
................................
casi a todas horas.


(I, 3, p. 171 a)                


E su questo ritmo, naturalmente, egli gioca la sua partita: a Carolina che, dopo avergli confessato di non amare più Marchena, gli chiede consiglio, trova ovvio rispondere:


Entonces, no hay sino dar
tiempo al tiempo.


(II, 9, p. 179 a)                


Petra, che lo reputa innamorato di lei, lamenta la sua lentezza:


Mas ¡cuánto tarda
en declararse el doncel!


(II, 6, p. 177 b)                


o gli muove direttamente un rimprovero che, in ogni modo, colpisce nel segno:


Deja usted pasar los días
por un liviano temor.


(III, 10, p. 188 a)                


Ortiz rischia sempre di farsi sopravvanzare dal tempo; ogni qualvolta pare che sia giunto il «quarto d'ora» di Carolina, non ha il coraggio di dichiararsi; quando infine ricorre all'espediente del disegno, anche questo gli prende molto tempo; la descrizione del disegno stesso è lunga e circostanziata. Infine vince e, ottenuto l'abbraccio di Carolina, può finalmente dire d'essere giunto al termine del suo   —160→   lungo cammino attraverso il tempo. L'esclamazione in cui prorompe, per sé triviale, diviene qui significativa:


¡Oh delicioso momento!


(V, 5, p. 199 b)                


Al contrario, come si diceva, Marchena ha un ritmo velocissimo: passa, sia pure per finzione, da Carolina a Petra, da Petra a Liboria, da Liboria alla sconfitta; ieri e oggi si accavallano nella sua prospettiva in una fuga vertiginosa attraverso il tempo.

«Da quando ha un altro amore?» gli domanda Liboria stupefatta dinanzi all'improvvisa uscita di Marchena. Imperterrito risponde:


Desde hoy; pero días ha
que sentía yo los síntomas...


(III, 4, p. 183 a)                


A Carolina che si dice sicura dell'amore di lui, Petra dichiara:


No sé...
pero hace cuatro minutos
que afirmaba lo contrario.
.........................................
Ayer la amaba, me ha dicho,
mas hoy que tengo mi triunfo
asegurado....


(II, 7, p. 177 b)                


Ormai il ritmo veloce viene adottato da Marchena come una maschera; quando Carolina gli muove rimostranze, egli taglia corto:


Ocioso
es volver la vista atrás,
si usted me ha querido, bueno;
si no me ha querido, en paz.
Vida nueva, y de su capa
haga un sayo cada cual.


(III, 5, pp. 184 b - 185 a)                


Infine, per liberarsi di Liboria, ricorre per l'ultima volta al gioco dell'oggi e dello ieri:


Señora, fui cuerdo ayer;
hoy loco.


(V, 7, p. 200 a)                


  —161→  

E come era entrato in scena con fare frettoloso, gridando «¡Muchacha!» e andando diritto al suo scopo, con altrettanta rapidità se ne allontana. Carolina gli spiega che Ortiz ha avuto la meglio ed egli bruscamente si congeda:


Entiendo... y me largo. Adiós.


(ibidem)                


Ci si è soffermati sul tema del tempo in quanto prevale di gran lunga sugli altri e informa di sé l'intera commedia. Ma naturalmente sono presenti anche altri caratteristici motivi bretoniani.

Compare perfino un riflesso della satira letteraria di qualche anno prima ormai chiaramente ridotta a un ricordo sorridente senza più alcuna asperità. Sul finire Ortiz afferma che il dramma descritto nel disegno può avere due soluzioni; ironica, Carolina domanda:


¿Dos desenlaces?... Entiendo.
El adverso y el propicio;
el clásico y el romántico.


(V, 4, p. 198 b)                


Ma il tema più diffuso, dopo quello del tempo, è ancora una volta quello della comunicazione. Marchena si comporta come il presuntuoso Don Agapito di Marcela: sicuro di sé, sicuro di ispirare amore a Carolina, le contesta una dichiarazione d'amore che legge nei suoi occhi. La fanciulla respinge una così orgogliosa affermazione e gli domanda ironicamente:


¿Y en qué lo conoce usted?
¿En lo negro o en lo blanco?


e conclude affermando in modo reciso:


Mis ojos, señor Marchena,
no han dicho: esta boca es mía.


(II, 3, p. 175 a)                


Ortiz è assai meno fiducioso in sé stesso e piace proprio perché si comporta da «novizio»; ma la sua comunicazione è sempre estremamente difficoltosa. Le parole gli mancano o sono prive del tono giusto; messe in versi, non riescono assolutamente a esprimere il   —162→   suo pensiero. Ricorre allora al disegno e trova finalmente un mezzo attraverso cui mandare un messaggio, che viene facilmente decifrato dalla destinataria, sebbene ella esiga, alla fine, una dichiarazione anche verbale.

La trovata più geniale dell'autore sta nell'aver fatto comporre a Ortiz un quadretto in cui si mescolassero segni molteplici: della comunicazione, dell'amore, del tempo.

Col suo piglio disincantato, col suo sorriso ironico, col suo apparente disimpegno, Bretón lanciava ancora una volta un messaggio di forte pregnanza romantica.