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La prosa modernista

Luis Sáinz de Medrano Arce






José Enrique Rodó

Nonostante abbia rappresentato il punto di partenza del processo di formazione del movimento modernista, la prosa di questa tendenza non ha mai avuto la risonanza raggiunta invece dalla lirica. Sicuramente, la spettacolarità della produzione poetica ha oscurato la fama delle opere in prosa. Si tenga presente inoltre che queste non costituirono mai un baluardo contro le forme narrative «tradizionali» equiparabile, per forza e funzione, alla frontiera fissata dalla lirica rispetto al panorama letterario anteriore. È noto ad esempio che in talune circostanze naturalismo e modernismo strinsero facili alleanze. Con il tempo, la «prosa poetica» si costituì in un sottogenere apprezzato ma di importanza limitata, mentre le forme realistiche continuavano la loro avanzata.

Comunque sia, la traccia feconda della prosa modernista va individuata, nel lungo periodo, nel raffinamento della ricerca stilistica dei migliori narratori e saggisti. È vero che in alcuni casi questo processo può essere imputato all'influenza dell'avanguardia, tendenza che comincia ad avere ripecussioni sulla prosa a partire dalla terza decade del Novecento, ma occorre ricordare che anche nei tanti autori non influenzati da questa tendenza -si pensi a un José Eustasio Rivera, a un Rómulo Gallegos, a un Eduardo Mallea- possiamo rilevare un'elevata qualità sintattica e un'attenzione al lessico che evidenziano il substrato modernista.

Per quanto apparsa quando il movimento modernista era già da tempo avviato, è opportuno cominciare la nostra trattazione con Ariel (1900), dell'Uruguayano José Enrique Rodó (1872-1917), opera pubblicata al crocevia tra i due secoli, carica di valore emblematico. La predica spiritualista di Rodó esposta in questo ampio saggio dava un senso preciso a tutto il precedente sviluppo del modernismo. «Anch'io sono un modernista», aveva esclamato qualche tempo prima Rodó nel suo commento a Prosas profanas. E il suo saggio avrebbe dimostrato quanto quest'affermazione corrispondesse a realtà.

Ariel è inequivocabilmente un testo modernista, non solo per la sua dichiarazione di idealismo, un idealismo temperato da opportune dosi di pragmatismo, ma anche perché il suo modo di trattare il linguaggio e la sua macrostruttura corrispondono a una concezione marcatamente artistica del discorso.

Furono proprio alcuni epigoni di Rodó, promotori dell'«arielismo», come il colombiano Carlos Arturo Torres (1867-1911) o l'uruguayano Albert Nin Frías (1882-1937), coloro che in qualche modo contribuirono maggiormente a svalutarne alla lunga il messaggio, edulcorandolo al massimo e attirando così reazioni avverse. Ma la proposta di Ariel non nacque come mera effusione lirico-metafisica: fu soprattutto una reazione contro quel pensiero oscuro e scientifista (più che scientifico) che andava strutturandosi intorno alla América enferma nel programma dell'opera di scrittori di profonda filiazione positivista, quali Agustín Álvarez (Manual de patología política, 1899), César Zumeta (El continente enfermo, 1899) e altri. Fu inoltre un revulsivo sia contro il versante più specifico del pessimismo del '98 in America, conseguente al disastro cubano che aveva accresciuto la preoccupazione di molti iberoamericani per il crescente imperialismo statunitense, sia contro l'ammirazione a oltranza di determinati settori sociali per quel paese.

Riprendendo alcuni personaggi della Tempesta di Shakespeare, che godeva di una certa notorietà nella letteratura dell'epoca, Rodó ci presenta Prospero (Próspero) come un saggio maestro che impartisce l'ultima lezione del corso alla sua attenta e sensibile scolaresca, in una sala dominata significativamente dalla delicata statua di Ariele (Ariel), nume ispiratore del bene e della bellezza. «Ariele -dice Prospero- è l'impero della ragione e del sentimento sui bassi impulsi dell'irrazionalità, è l'entusiasmo generoso...».

In tale contesto spaziale e con tali destinatari, il messaggio di Prospero viene a situarsi in un processo di comunicazione fluida. Le riflessioni più elevate si susseguono intorno ai seguenti punti fondamentali: esaltazione della gioventù, la cui grande energia deve essere opportunamente orientata; valorizzazione del grande modello classico rappresentato da Atene e, successivamente, dal fugace momento di fusione tra l'eredità ellenica e il cristianesimo; proposta di una democrazia che non penalizzi i migliori con un egualitarismo fasullo; infine, di fronte all'utilitarismo nordamericano, scelta di una spiritualità non priva di pragmatismo.

Soltanto una parte del discorso, quella -peraltro importante- relativa agli Stati Uniti e alla contrapposizione tra la loro cultura e quella latina dei paesi del Sud, rientra in una tematica propriamente americana: il resto consiste nelle considerazioni generali di un umanista che si rivolge ad altri umanisti, carattere che dà al saggio un valore di universalità sul quale si è troppo poco insistito.

Nonostante alcune puntualizzazioni fatte da Rodó prima della pubblicazione di questo saggio e nonostante le prudenti sfumature elaborate all'interno del saggio stesso, Ariel diede presto spunto a una serie di reazioni conflittuali. Da un lato, si rimproverò a Rodó di non aver tenuto sufficientemente conto della specifica realtà iberoamericana, avendo egli proiettato su un mondo complesso e scosso da convulsioni un'impossibile ricetta spiritualista; dall'altro, la sua interpretazione della democrazia era guardata con sospetto, per non dire della dicotomia tra l'America utilitarista e l'America impregnata di ideali, ovvio oggetto di una pioggia di critiche. Una lettura attenta di Ariel mostrerà che nessuna di queste accuse può essere seriamente sostenuta. È vero che Rodó difese il diritto dei migliori a occupare i ruoli dirigenti della società, ma solo a partire da un sistema di giusta uguaglianza di opportunità, senza aver niente da spartire -inutile dirlo- né con le teorie nietzschiane del superuomo, né con la sfiducia nel popolo espressa da Ernest Renan, da lui peraltro ammirato. Non trascurò di arricchire il suo richiamo all'idealismo con ammonimenti pragmatici, poiché «senza la conquista di un certo grado di benessere materiale è impossibile, nelle società umane, il regno dello spirito». La sua riprovazione dell'utilitarismo degli Stati Uniti non gli impedì di riconoscere le virtù di un popolo nei cui confronti ammise di provare non certo amore ma ammirazione. Assai più duro con il paese nordamericano si dimostrò Darío, nel saggio Calibán e nell'Oda a Roosevelt contenuta in Cantos de vida y esperanza (1905).

Non è questa, sicuramente, l'unica attestazione dell'intelligente eclettismo di Rodó, sul quale ha richiamato l'attenzione un pregevole studio della spagnola Belén Castro1. Per lui il positivismo non fu tanto meritevole di disprezzo quanto invece degno di essere utilizzato ai fini del suo stesso superamento. Si rifece a modelli quali Tocqueville, Renan, Saint-Simon, Spencer, Guyau, il krausismo spagnolo ed altri ancora, senza mai farsi imprigionare da essi. Percepì con lucidità l'importanza delle nuove tendenze e seppe capire in anticipo e con misura che la proposta linguistica del modernismo ne era una componente necessaria, a prescindere da coloro che restavano aggrappati al fascino superficiale della parola. Nel linguaggio cercò la precisione, non disgiunta però dall'armonia. Il linguaggio di Ariel può talvolta apparire retorico, ma l'ipotassi della proposizione non concede spazio alcuno a ciò che è superfluo. D. W. Forster ha giustamente segnalato la capacità di Rodó di utilizzare opportuni contrassegni letterari per conferire letterarietà a un discorso altrimenti neutro2. Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte a proposito di molti altri suoi saggi di minor estensione, inquadrati da titoli come, tra gli altri, Liberalismo y jacobinismo (1906), Motivos de Proteo (1909), El mirador de Próspero (1913) e i postumi El camino de Paros (1918) e Los últimos motivos de Proteo (1932).

Pubblicista, pedagogo, occasionalmente politico, poco propenso ai viaggi -la morte lo colse in Italia, durante il suo unico viaggio in Europa -, questo montevideano che volle essere cittadino non solo di un'America sognata, ma anche del mondo, poteva a buon diritto vantarsi della sua ampia visione umanista della cultura, come quando affermava, nel succitato saggio sull'opera di Darío, «mi piace pilotare, ad esempio, la nave oraziana che porta Virgilio ad Atene, prima di imbarcarmi sul battello di Saint-Pol-Roux o sul raro panfilo di Mallarmé».




José Martí

Prima di Rodó, anche José Martí (1853-1895; per quest'autore si veda anche il cap. I, § 2 di questa stessa Parte) fu un sognatore di questa America «grande per le cose dello spirito», un sognatore che diede prova del suo pragmatismo nella lotta per l'indipendenza della patria cubana. Fu ben consapevole che, come avrebbe detto successivamente Unamuno, non ci può essere rivoluzione delle idee senza rivoluzione del linguaggio e in effetti, se non bastasse la sua straordinaria produzione poetica, la sua opera in prosa mette in mostra un campionario completo della nuova sensibilità modernista, sensibilità che proprio Martí contribuì a introdurre nell'America ispanica.

La prosa martiana -che è giusto e logico accostare a quella di Rodó, il quale nutrì grande stima per il pensatore cubano- esemplifica perfettamente come mai il modernismo non debba essere necessariamente associato a una ricercatezza esasperata, non essendo retto unicamente da una morale della bellezza avulsa dalla realtà. Nella lingua del cubano sono state rinvenute tracce evidenti di classici spagnoli come santa Teresa, Quevedo e Gracián. Martí riuscì a rendere compatibili queste predilezioni con la ricerca di linfa espressiva nei parnassiani e nei simbolisti francesi. Pur rifuggendo la retorica, non disdegnava l'appassionata nobiltà del discorso di Castelar e di altri suoi contemporanei.

L'eclettismo ebbe dunque una parte fondamentale anche nella sua opera; refrattario alle mode, seppe conferire ai suoi molteplici scritti un folgorante tono di perfezione e concisione, dando così forma a un corpus assolutamente unico per l'epoca.

Il suo impegno costante per la causa dell'indipendenza cubana ne fece un viaggiatore suo malgrado. Fu deportato due volte in Spagna, visse in Messico e in altri paesi ispanoamericani, trascorse lunghi anni a New York. Mai, nel corso di tutte queste sue vicissitudini, trascurò l'impegno letterario e i doveri assillanti dell'ideologo e dello stratega in cui dovette trasformarsi. Sfidò i sistemi dominanti, ma ebbe un profondo rispetto per i popoli con cui si trovò a convivere. Quanto alla sua concezione dell'essere americani, ebbe una visione unitaria, sentimentalmente e razionalmente. L'espressione «nuestra América», da lui coniata, è ancora valida e vitale.

Era evidentemente uno spirito «nuovo»; Darío lo incluse a giusto titolo tra i suoi raros, e in seguito gli dedicò uno studio più approfondito, nel quale, cogliendo il retrogusto tradizionale della sua costruzione di frase, affermava a ragione: «È noto a tutti che José Martí fu un grande poeta di prosa. La sua produzione oratoria e giornalistica potrebbe esser detta poetica, in quanto anche l'argomento più arido appariva rivestito dalla pompa di uno stile lirico»3. La facilità con cui usava il simbolo e il colore, sapientemente analizzata da Schulman4, conviveva con il presupposto, ricordato da Homero Castillo, che «deve essere cancellata dalla carta ogni frase che non racchiuda un pensiero degno di essere conservato, e ogni parola che non lo sostenga»5. La «Revista Venezolana», fondata da Martí a Caracas nel 1881, raccoglie alcuni dei suoi più pregnanti enunciati teorici, ma anche nelle sue numerose collaborazioni con la stampa delle due Americhe sono presenti estese riflessioni di questo tipo e, cosa ancora più importante, loro esemplificazioni pratiche.

Non vi è niente di ciò che ha scritto Martí che non sembri corrispondere a una profonda necessità. Da El presidio político en Cuba (1871), accorata arringa contro le violenze spagnole antiindipendentiste nell'isola, fino al Manifiesto de Montecristi, composto poco prima di guidare la spedizione in cui avrebbe trovato la morte, Martí lasciò una notevole quantità di scritti in prosa. Ricordiamo, tra gli altri, le lettere politiche, ad esempio quelle al generale Máximo Gómez, le lettere sentimentali e familiari, i discorsi, i saggi dottrinari (Nuestra América [1891], San Martín [1891], Bolívar [1893]), le cronache sociali o di costume, i saggi di critica letteraria o artistica: Goya [1879], Emerson [1882], El poema del Niágara [1883], El poeta Walt Whitman [1887], Heredia [1888], e infine il suo stesso Diario. Mai la pressione degli eventi soffocò il suo rispetto per la corretta eleganza della parola.

«Che la semplicità sia un requisito raccomandabile, non significa che il vestito debba essere privo di un ornamento elegante», aveva scritto Martí sulla già citata «Revista Venezolana». Se ci fu un'occasione in cui Martí diede briglia sciolta a questa inclinazione per l'omamente -al punto che lo stesso autore ne provò scrupolosi pudori- fu al momento di affrontare il genere romanzesco. Il risultato fu Lucía Jerez (inizialmente Amistad funesta), opera pubblicata nel 1885, che può addirittura essere considerata, secondo l'opinione di Manuel Pedro González6, il primo «romanzo artistico» in lingua spagnola.

Tutto cospirava perché l'opera non oltrepassasse le frontiere dell'epoca in cui apparve. Si trattava di un lavoro ordinato in tempi brevi e con molte limitazioni tematiche da parte del direttore della rivista «El latinoamericano» di New York, dove doveva essere pubblicato. Martí superò tutte le limitazioni riuscendo a dare verosimiglianza a una passione umana, la gelosia, a disegnare creature vive, da molte delle quali traspare la sua ideologia, e a esprimere tutto questo, infine, in un linguaggio di particolare brillantezza.

È soprattutto la parola -niente di meno!- il fattore determinante che obbliga a considerare questo romanzo un'opera modernista. Il suo personaggio centrale, Juan Jerez, può effettivamente apparire di taglio piuttosto romantico, lontano dal tipico eroe modernista; lo stesso vale per la protagonista femminile e anche per altri personaggi. Per altro verso, siamo di fronte a una storia di amore tragico: la passionale Lucia, divorata dal sospetto che Juan le preferisca la dolce Sol del Valle, in un impeto di furore uccide la presunta rivale. Abbiamo tutta una galleria di giovani personaggi femminili in qualche modo imparentate con Amalia e María, le eroine degli omonimi romanzi romantici letti da Sol e sicuramente conosciuti da tutte le protagoniste del romanzo di Martí. Manuelillo, il giovane ribelle, fa da complemento a Juan ed entrambi hanno qualcosa del generoso spirito di Martí, così lontano da quello del dandy di fine secolo. Ma l'uso del linguaggio ci pone davanti a una produzione che dobbiamo considerare assolutamente modernista: ricorso abbondante a immagini cromatiche, a sinestesie, riferimenti al sublime, splendide variazioni negli usi sintattici, aggettivazione perfetta e fluida, insomma tutto ciò che serve al volo dell'immaginazione. Lo spazio di Lucía Jerez, interno ed esterno, è sempre dominato da una luminosità intensa ed è popolato da begli oggetti che, lungi dall'essere sintomi di un estetismo decadente, si rivelano al contrario forme allusive o apertamente simboliche. Si pensi ad esempio alla «frondosa magnolia» che, all'inizio del libro, offre riparo all'entourage di Lucía Jerez, e ai molteplici oggetti della casa, spazio felice squarciato dall'improvvisa tragedia: ci sono splendidi libri come quelli sopra citati e come le opere di Poe, il Rubayat persiano, Les nuits di Musset e il Wilhelm Meister Lehrjahre di Goethe, strumenti musicali e musica suonata. Sol «era come una coppa di madreperla»; e, analogamente, abbiamo preziose reificazioni: «la conversazione con le gentildonne dev'essere d'argento fine, e lavorata in filigrana sottile, come la lavorano a Genova e a Città del Messico». La campagna, a differenza di quella dei racconti criollisti, appare secondo una maniera stilizzata che in alcune occasioni potremmo dire preraffaellita. Infine, domina in ogni parte la sensualità dell'immagine, della sensazione dell'ineffabile. Pur lontano dal suo barocchismo, oseremmo dire che questo romanzo tutto attraversato da riverberi luminosi, anticipa il mondo sfolgorante e poliedrico di Alejo Carpentier.




Manuel Gutiérrez Nájera

Il messicano Manuel Gutiérrez Nájera (1859-1895; per quest'autore si veda anche il cap. I, § 3 di questa stessa Parte), la cui opera poetica rientra solo parzialmente nel modernismo, per l'attaccamento a un certo sentimentalismo di chiara indole romantica rivelato da diversi suoi componimenti, fu invece nel campo della prosa un modernista ben definito. Il suo ruolo pionieristico all'interno del movimento, al fianco di Martí, al quale fu stretto da salda amicizia, appare oggi indiscutibile.

Pur convinto del vigore che l'America stava infondendo alla lingua comune, rispetto all'indifferenza della ex-metropoli, ritenne tuttavia sempre indispensabile, al di là della predilezione per i Goncourt e per Gautier, il contatto con i classici della lingua. Alacre giornalista, avido ricettore della modernità europea alla quale lasciò sempre aperte le pagine della «Revista Azul» da lui stesso fondata, Nájera fu un autentico animatore della vita culturale messicana in un'epoca in cui una potente borghesia stava imponendo al pubblico i propri gusti raffinati, all'ombra protettrice del porfiriato.

La prosa di Gutiérrez Nájera conta diversi titoli, tra i quali spiccano Cuentos frágiles (1883), Obras (1898), Cuentos (1916), Cuentos de color de humo (1920), Cuentos completos y otras narraciones (1958), tutti esemplari di una narrativa distribuita tra cronaca e racconto, generi le cui connessioni reciproche rendono difficili rigide delimitazioni.

In diverse occasioni la critica nazionalista messicana, che acquisì molta influenza a partire dalla rivoluzione del 1910, lo giudicò duramente, considerandolo un dissidente rispetto ai veri problemi del paese, rimprovero analogo a quello che sarebbe stato mosso in futuro al gruppo cosmopolita dei «Contemporáneos». I critici più attenti dell'intero continente -a cominciare dallo stesso Martí- si sarebbero presto resi conto che Nájera aveva compiuto una missione apparentemente diversa ma in realtà imprescindibile: risanare la lingua, divulgare la cultura, un compito la cui trascendenza sociale appare indiscutibile. Boyd G. Carter ricordò opportunamente che il messicano aveva difeso l'idea che, al di là di altre sue qualità, il bello è utile proprio in quanto bello7; senza dimenticare comunque che, nel corso della sua opera, Nájera, per il quale il dato realista costituì molte volte un importante punto di partenza, non smise mai di fare emergere, seppure incidentalmente, gli aspetti amari dell'esistenza che lo circondava.

Per il messicano, dunque, il racconto nella sua dimensione tradizionale, dove la componente fantastica ricorre frequentemente, aveva essenzialmente una sorta di funzione liberatoria, in quanto serviva a purificare i sentimenti e a liberarli dalla pesantezza della volgarità. Inoltre il nostro autore affiancò frequentemente a questo idealismo sagge risorse di opposto pragmatismo: ad esempio, il richiamo al lettore in tono familiare, l'uso dell'ironia e financo dell'umorismo, le espressioni colloquiali tal volta in netto contrasto con la generale raffinatezza del lessico, alcune disinvolte annotazioni soggettive...

In Cuentos frágiles troviamo un testo, Al amor de la lumbre, che illustra chiaramente l'indeterminatezza dei confini tra cronaca e racconto a cui prima abbiamo fatto allusione. Un commento relativo all'arrivo dell'inverno si trasforma in un notevole esperimento letterario che propone sorprendenti cambiamenti di focalizzazione, introduce tre microstorie allusive di tre diversi personaggi e riesce a illustrare il generale con il particolare: inverno / fine della vita; riparo / Fede.

La novela del tranvía (1882), la cui impostazione prefigura quella in futuro adottata da Ortega y Gasset per le sue divagazioni metafisiche in Estética en el tranvía (in El espectador), è un altro ammirevole esempio di racconto-cronaca, o viceversa. È il narratore stesso a descrivere le sue impressioni durante un tragitto in tram attraverso Città del Messico, mentre la sua mente ordisce trame immaginarie intorno a due altri passeggeri: un anziano di cui vengono immaginate le preoccupazioni di padre di famiglia, e una signora che magari tradisce il marito. La verosimiglianza delle fantasie sembra imporsi fino al punto di persuadere il fantasticatore a intervenire concretamente su quelle vite, per quanto tutto si concluda con la fine della corsa. Varrebbe la pena soffermarsi sugli scarti linguistici presenti in questo racconto, che preludono alla ancor lontana avanguardia: «gli ombrelli si aprono come rotonde ali di pipistrello», la pioggia trasforma il tram in un «pantano portatile», la città è una «enorme testuggine»...

In La odisea de Madame Theo (1883), Gutiérrez Nájera descrive la figura di questa cantante francese di operetta, uno dei personaggi del suo noto poema La duquesa Job, per raccontare l'agitazione prodotta dal suo arrivo prima nel Limbo e poi a Venere. Alla fine sarà mandata sulla terra. È qui degna di nota la felice commistione ditermini raffinati, talvolta addirittura culturalistici, con forme di discorso colloquiale.

La libertà tematica dei racconti di Nájera può veramente sbalordire. Un racconto del 1882, Los amores del cometa, elegge questo corpo celeste a personaggio principale, intorno al quale un narratore ironico e dotato di incredibile immaginazione può elocubrare le più svariate disquisizioni: «Credo che in uno dei suoi viaggi si sia imbattuta nella stella di neve, che mai è raggiunta dallo sguardo di Dio, e che i mistici chiamano inferno. Per questo ha i capelli ritti». Finge di essere in ansia per gli eventuali effetti disastrosi della cometa sul mondo e ne approfitta per ironizzare estesamente sulla prevedibile casistica messicana. Infine, con uno scarto che ricorda un certo gradevole cinismo modernista, il narratore allontana da sé ogni preoccupazione e si rifugia in un prototipico spazio sontuoso, dove bellezza e amore preservano da qualsiasi pericolo, compresa l'indecenza della povertà, in una situazione che avrebbe potuto tranquillamente servire da modello a Darío per la sua poesia Invernal di Azul.

Situazione analoga è quella presentata in Crónica de color de bitter (1882), dove un sisma che sconvolge la vita della capitale messicana permette al narratore di osservare con curiosità tutta una serie di convulsioni che si prestano all'utilizzo di abili risorse espressive: «Le facciate facevano smorfie da clown», le rotaie del tram si trasformano in «serpenti d'argento»... Anche qui, come osserva Aníbal González, «l'interiorità di Nájera è un luogo privilegiato per l'eros [...], è il rifugio dell'arte, dell'immaginazione, della visione»8.

Proseguendo la nostra carrellata di personaggi bizzarri, se in La novela del tranvía avevamo incontrato un «ombrello metafisico», in Memorias de un paraguas (1883), quest'oggetto assurge al ruolo di protagonista -con qualche probabile eco nella Historia de un sobretodo di Darío. In qualità di creatura intradiegetica presiede all'intera storia, ed è da lei che emana lo stesso discorso. Immobile all'inizio dentro un negozio, considera la propria condizione con disinvolto umorismo: «Sono d'anima dura e di braccia d'acciaio. È di seta la mia epidermide». Il favoloso repertorio di oggetti di svariato valore che lo circondano, alcuni anche lussuosi, gli dà una visione del mondo destinata, una volta acquistato da un cliente, a svanire. L'esperienza del quotidiano, che ha modo di osservare mentre viene portato in giro e saltuariamente scosso, lo mette di fronte a una realtà amara e sgradevole, gli fa capire quanto sia impura la società urbana, gli fa percepire la propria insignificanza di oggeto usato e messo in un angolo. Ma nel finale il narratore punta sulla speranza: l'amore di una coppia che ha trovato riparo sotto le sue ali si trasforma in un decisivo simbolo di vitalità. Nájera mette alla prova la sua capacità di cercare le valenze simboliche di esseri e avvenimenti. Il suo realismo esce inaspettatamente trasfigurato da questo procedimento in cui le immagini giocano una parte vistosa e importante, dimostrando infine come l'autore non sia legato al costumbrismo tradizionale, sebbene non lo disprezzi affatto.

Resta ancora da sottolineare la straordinaria capacità di Nájera di collocarsi negli scenari più diversi, da quelli strettamente messicani a quelli di un'Europa che conobbe solo dai libri, senza dimenticare le incursioni nell'utopia e nell'astrazione. Concludiamo con le parole di Max Henríquez Ureña: «La prosa del periodo del modernismo che potremmo chiamare parigino e che ha la sua rivelazione più eminente in Azul [...] è figlia di quella di Gutiérrez Nájera»9.




Rubén Darío

Sicuramente Rubén Darío (1867-1916; per quest'autore si veda anche il cap. II, § 1 di questa stessa Parte) conosceva già da tempo l'opera del messicano, così come quella di José Martí, quando pubblicò a Valparaiso, nel 1888, il libro appena citato, Azul. Ma poteva anche avvalersi delle ben assimilate ricette francesi -Mendès, Leconte de Lisle, Hugo, Goncourt, Daudet...-, oltre che, naturalmente, della sua eccezionale capacità di rielaborare reattivamente questi apporti esterni. A ragione il grande critico spagnolo Juan Valera, impressionato certamente più dai racconti di Azul che dalle poesie, poté scrivere le ben note parole: «lei ha rimescolato tutto; lo ha messo a bollire nell'alambicco del suo cervello e ne ha ricavato una rara quintessenza»10. Come prosatore, Darío aveva pubblicato prima di Azul, nel 1887, un affrettato romanzo melodrammatico, Emelina; ma è nei racconti raccolti in Azul che dà prova di una straordinaria maturazione.

Va detto innanzitutto che molti di questi racconti, anche senza contare El fardo, ancora di chiara ascendenza naturalista, rendono compatibile la lussuosa dilettazione linguistica con un sentimento sociale che denuncia la scarsa considerazione dell'artista da parte dei potenti. El rey burgués, ad esempio, è stato letto anche come un'invettiva contro il direttore di un quotidiano di Santiago dove Darío aveva lavorato. Il racconto, la cui ambientazione atemporale non impedisce al narratore di prendere le distanze da Ohnet, il famoso autore di romanzi convenzionali -atteggiamento questo non infrequente in Darío-, riprende la leggenda di un re che esercita il suo mecenatismo su determinati artisti e artigiani, godendo di ricercatezze che il narratore non rinuncia a comparare con quelle descritte in una delle sue fonti: «Poteva facilmente concedersi il piacere di un salone degno del gusto di un Goncourt [...]: chimere di bronzo dalle fauci aperte [...], lacche di Kioto [...], farfalle di rari ventagli...». Incapace di accettare i sermoni idealisti di un poeta, esemplare di una specie nuova della sua collezione, lo destina all'incarico di suonare il repertorio ristretto e conosciuto di un organetto a manovella. In questo caso il sontuoso spazio interno appare come una fortezza dei dominatori che celebrano in esso la loro festa, mentre il povero poeta muore di freddo all'esterno. In La canción del oro, un lacero mendicante, anch'egli fuori alle intemperie, immagina i saloni dell'opulenza -specchi veneziani, palissandri, cedri, oggetti di madreperla, pianoforti, lampade- e intona un inno sarcastico all'oro e alla sua onnipotenza, scomparendo alla fine nella «terribile oscurità». Anche in El sátiro sordo, Orfeo, che ha cercato rifugio in una selva dall'antico aspetto mitologico, è costretto ad abbandonarla dall'irritato satiro che presta ascolto all'opinione del suo più apprezzato consigliere aulico, l'asino, disdegnando il parere favorevole dell'allodola. Ancor più patetico è il caso del «povero Garcín» in El pájaro azul, che si vede costretto dal padre, commerciante normanno, sulla base di motivazioni ferree e pragmatiche, ad abbandonare la sua vita d'artista e i suoi sogni parigini e che, morta la sua musa e respinti i suoi versi dagli editori, pone fine alla propria vita con un colpo di pistola alla testa, che libererà l'uccello che dà il titolo al suo poema.

L'incompatibilità dell'artista con il regno di questo mondo resta sempre chiaramente al centro di questi e di altri racconti di Darío, il quale, da buon modernista, avrebbe dichiarato in Prosas profanas il proprio sdegno verso l'epoca in cui gli toccò nascere, ma da «uomo d'arte», come lui stesso si sarebbe definito tempo dopo, non poteva evitare di sentirsi profondamente attratto dal lusso, che non era solo qualcosa di letterario, descritto nelle pagine dei suoi modelli gallici, era anche qualcosa di assolutamente concreto, visibile nei salotti della borghesia cilena a cui aveva accesso.

Alla rivendicazione del poeta si affianca quella della stessa poesia. Gli artisti di El velo de la reina Mab ricevono, insieme con questo dono prezioso, la speranza e il diavoletto corroborante della vanità consolatrice. Il trionfo della fantasia nei racconti di Darío -e negli arguti ed eterogenei bozzetti di prosa lirica, contenuti anche in Azul- corrisponde alla fuga verso un mondo superiore, che solo con la fantasia può essere afferrato. I brevi bozzetti a cui abbiamo fatto riferimento sono ottimi esempi di poesia in prosa, alcuni (Acuarela, i due Paisajes, El ideal) su una falsariga molto vicina a quella di alcuni testi di Gutiérrez Nájera (La mañana de San Juan, El lago de Pázcuaro).

Infine, ricordiamo altri importanti racconti di Azul. In El rubí, proposta vagamente panteistica dietro alla quale, come documenta uno studio di Ricardo Llopesa11, è individuabile un vasto numero di fonti -tra cui anche Bécquer-, si narra della fantastica origine di questa pietra, in cui si cristallizzò il sangue di una donna, nel mondo sotterraneo degli gnomi. Palomas blancas y garzas morenas è una suggestiva ricostruzione delle esperienze adolescenziali dell'autore. In questa lieve storia, dietro la cugina Inés, «bionda come una tedesca», è percepibile il ricordo di un personaggio reale, la cugina Isabel, che affascinò il poeta quindicenne; sotto «Elena, la graziosa, l'allegra», traspare la dolce Rosario Murillo, prima che divenisse sua moglie e suo peso insopportabile. La rielaborazione letteraria non esclude l'apporto di dati reali: il Nicaragua, un aneddoto su dei colombi, il lago di Managua. È il Rubén che «aveva quindici anni; una stella nella mano», evocato nella poesia Momotombo, in El canto errante, tutto un percorso che ci permette di capire in che misura l'esperienza vissuta possa tramutarsi in finzione letteraria.

Sarebbe troppo lungo commentare l'intera produzione in prosa di Darío. Per quanto riguarda i racconti successivi, è utile tuttavia richiamare l'attenzione su una risorsa a cui non di rado attinge il suo procedimento espositivo. Mi riferisco allo «scientifismo», già notato in El rubí, e spesso utilizzato da Darío come sostegno alla narrazione fantastica, secondo un procedimento che almeno in parte può esser fatto risalire a Edgar Allan Poe. In Thanatopia, ad esempio, a proposito delle esperienze di un certo dottor John Leen, il narratore si dilunga in disquisizioni sull'ipnotismo e sul vampirismo; in Verónica (1896), la cui seconda versione è intitolata La extraña muerte de Fray Pedro (1913), un frate muore dopo aver messo in atto l'ossessivo proposito di fotografare un'ostia consacrata, e aver fatto comparire così sulla lastra l'immagine di Gesù Cristo.

Ma la versatilità tematica di Darío appare veramente inesauribile. Imita il dramma del racconto russo, in La matuschka (1889), fa una profonda incursione nel mondo biblico, in El árbol del rey David (1891), elegge a protagonista di un racconto il contemporaneo Castelar, trasformato in un impetuoso predicatore in Vaticano (Un sermón, 1892), dà prova di brillante umorismo con la vicenda del pragmatico negoziante catalano narrata in La admirable ocurrencia de Farrals (1910)... Insomma, sul terreno del racconto breve niente rimase al di fuori della sua esperienza.

Oltre a quello citato in precedenza, Darío lasciò altri due romanzi di maggior importanza, per quanto incompleti, El hombre de oro, del 1897, ricostruzione della Roma classica, e Oro de Mallorca, del 1913, ambientato nell'isola da lui tanto amata e con al centro un protagonista che potremmo definire un suo alter ego con tracce di Chopin.

Altri due versanti della prosa di Darío meriterebbero una trattazione dettagliata: la critica letteraria e la cronaca di vario tipo. Gli scritti di entrambi questi filoni furono raccolti successivamente in volumi, dove in qualche caso possono anche confondersi l'uno nell'altro. Per quanto riguarda la critica letteraria, il titolo più significativo è senza dubbio Los raros (1896), autentico campionario dei gusti di Darío e dei più insigni punti di riferimento del modernismo -Poe, Leconte de Lisle, Verlaine, Lautréamont, lo stesso Martí...-, dove l'autore mostra una delle sue costanti caratteristiche analitiche: privilegiare l'individualità del genio rispetto al concetto di scuola. Per quanto riguarda la simbiosi tra critica e cronaca, i titoli sono molti: Diario de Italia (1900), España contemporánea (1901), Peregrinaciones (1901), La caravana pasa (1902), Tierras solares (1904), Semblanzas (1912), Historia de mis libros (1913), Cabezas (1916). In questi e in altri ancora, Darío registrò le palpitazioni dell'epoca in cui visse. Come critico, si basò oltre che su una vasta cultura di lettore e su una grande intuizione, anche sull'orgogliosa rivendicazione del valore della nuova letteratura americana; come cronista, ebbe la capacità di puntare all'essenziale, mettendo in luce i caratteri particolari più significativi. Sapendo porre un limite alle sue stesse attitudini, riuscì a far convivere il grande stilista con il giornalista accessibile a un vasto ordine di lettori.




Leopoldo Lugones

Anche l'argentino Leopoldo Lugones (1874-1938; per quest'autore si veda anche il cap. II, § 3 di questa stessa Parte), amico e compagno di Darío nelle vicissitudini letterarie della Buenos Aires di fine Ottocento -tra le quali spicca la creazione della «Revista de América»- fu, oltre che poeta, uno straordinario prosatore, in campi molto diversi. Oltre ad opere narrative, di cui tratteremo qui di seguito, questo prodigioso autodidatta lasciò saggi di autentica erudizione, quali El imperio jesuítico (1904), La guerra gaucha (1905), El payador (1916) -uno dei migliori studi sulla letteratura gauchesca e sul Martín Fierro-, Historia de Sarmiento (1910), Estudios helénicos (1924) e altri lavori sulla cultura greca, splendida dimostrazione dell'intensità con cui i modernisti coltivarono la passione per la cultura.

Lugones fu uno dei cultori del racconto fantastico, sottogenere che in Argentina aveva avuto un notevole sviluppo prima grazie a Juana Manuela Gorriti (1818-1892), molto influenzata da Poe e da Hoffmann, e successivamente con Eduardo L. Holmberg (1852-1937), che si avvalse di strategie narrative apprese grazie alla sua esperienza di uomo di scienza. Qui, come ha giustamente rilevato Paul Verdevoye, possiamo vedere come «sotto l'influenza del positivismo, la letteratura guarda alla scienza chiedendole alibi su cui far poggiare le proprie invenzioni, mentre allo stesso tempo la scienza si diverte -o si riscatta delle sue insufficienze- con la letteratura»12.

I racconti di Lugones sono raccolti in Las fuerzas extrañas (1906), Lunario sentimental (1909) -opera contenente anche, e soprattutto, componimenti poetici e una sorta di lavoro teatrale-, Cuentos fatales (1924) e Cuentos desconocidos (1982). Inoltre, Lugones pubblicò anche un romanzo, El ángel de la sombra (1926).

Molto interessato alla teosofia, divulgata da Elena Blavatsky e ben conosciuta anche da Rubén Darío, Lugones la utilizza in alcuni suoi racconti come supporto al fantastico, cercando al tempo stesso appoggi «scientifici».

Così, tra i racconti della prima raccolta, La fuerza Omega ci mostra uno scienziato che, basandosi su propri esperimenti, ma anche sulle teorie di scienziati reali -Jean B. Fourier, John Tyndall e Rudolph Koenig-, inventa un apparecchio che sfrutta l'energia del suono per disintegrare qualsiasi materia. L'«alibi» delle speculazioni scientifiche, che in teoria potrebbe spingere verso una comprensione razionalista del fenomeno, serve in realtà a ipotizzare l'esistenza di cause misteriose. D'altro canto, il fatto che l'inventore, unica persona in grado di far funzionare il congegno, ne diventi la vittima, contribuisce a rafforzare questo clima di mistero, dal momento che il narratore, e il lettore assieme a lui, si riconosce incapace di spiegare sia gli esiti della vicenda sia il motivo per cui l'invenzione risulta inefficace in altre mani.

Qualcosa di analogo avviene in La metamúsica, contenuto nella stessa raccolta. Qui il protagonista si è proposto di cercare la musica che governa il ritmo dell'universo, musica che ha corrispondenze con i colori, ma dopo averla scoperta diventa cieco, poiché mai l'Assoluto potrà essere visto da occhi umani. Come avrebbe detto Rubén Darío, «la vita è mistero; la luce acceca» (Yo soy aquel, in Cantos de vida y esperanza). Viola Acherontia è un altro buon esempio di questo tipo di procedimento: qui il protagonista vuole ottenere dei fiori da cui ricavare un veleno inodore, e a questo scopo segue un procedimento pseudoscientifico che si risolve in una serie di atrocità. Anche in El psycon, il gioco tra scientifismo -con abbondanti citazioni di autorità- e invenzione fantastica risalta in modo particolare. Il protagonista, il dottor Paulín, è sicuramente lo stesso già apparso in El espejo negro, uno dei primi racconti di Lugones, dove il suddetto scienziato costruisce un disco di carbone che finisce per riflettere gli orrori del mondo come un terribile «aleph».

La critica è giunta progressivamente ad ammettere che, come scrive J. Velasco Moreno, «il modernismo, in determinati aspetti della sua prosa fantastica, più che contrapporsi alla scientificità [...], la assorbe»13. Le situazioni fin qui proposte costituiscono una prova, e non l'unica, della verità di questa affermazione.

Evidentemente, non si tratta dell'unico procedimento adottato da Lugones per creare schemi dominati dal fantastico. Un'incursione nel tempo eroico delle crociate gli permette di narrare la storia di un giovane guerriero germanico che, martirizzato dai saraceni di Gerusalemme, riesce a mantenere in vita la propria mano amputata e inchiodata a una croce e ad affidarle la propria vendetta (El milagro de san Wilfrido, in Las fuerzas extrañas). In questo caso, il passato remoto, avvolto in un alone di fede e violenza, e popolato al contempo di elementi apparentemente storici, favorisce una situazione prodigiosa, legata a un eroe dietro la cui impresa possiamo implicitamente indovinare il desiderio di espiazione per una grave colpa. Risalendo ancora nel tempo, eccoci a La estatua de sal (sempre in Las fuerzas extrañas), dove un asceta del deserto, nei pressi delle rovine di Sodoma e Gomorra, libera, istigato dal Maligno, la moglie di Lot dalla sua condizione minerale. Vinta dal peso dei secoli, questa si trasforma in uno spettro umano, mentre il monaco cade fulminato dopo aver ascoltato il segreto di quanto la donna vide prima della sua trasformazione in statua di sale. Il senso del mistero è qui dato dalla forza ambigua del sacro espressa con un linguaggio carico di opportune risonanze apocalittiche. In La lluvia de fuego (Las fuerzas extrañas), il punto di partenza è dato da un'ambientazione apparentemente contemporanea, una città che il lettore presume moderna. Ma il protagonista, uno stanco libertino curato dai suoi schiavi, l'allusione al deserto e l'esotica galleria di personaggi ci proiettano presto nello spazio di un indefinito oriente, che alcuni toponimi faranno immaginare vicino alle terre dell'Antico Testamento. L'apocalisse qui è ancora più incombente, e il narratore-protagonista può solo cercare nel veleno la via di fuga dall'orrore implacabile.

Questi pochi esempi dei racconti di Lugones -il romanzo è al riguardo meno significativo- bastano a mostrare la vitalità di un filone letterario, quello fantastico, antico quanto la stessa letteratura, ma che, almeno per quanto riguarda le opere scritte in spagnolo, trovò proprio nel modernismo uno dei suoi momenti di massimo splendore.




José María Vargas Vila

Diverso è il caso del colombiano José María Vargas Vila (1863-1933), che fece letteratura fantastica con la sua stessa vita, da molti ritenuta dissoluta, ma nella realtà sorprendentemente austera, a dispetto dell'universo trasgressivo rappresentato nella sua produzione. Nel suo diario, riscoperto in epoca attuale dal suo miglior critico, Consuelo Triviño, annotava non senza ragione: «Non trovo più pace se non nella creazione dei miei libri [...] L'esistenza fittizia che vivo in essi mi tiene lontano dal vero dolore della vita reale». Come ha scritto in proposito la Triviño, «Vargas Vila arrivò ad essere uno dei pochi scrittori che fece la propria fortuna insultando e scandalizzando i suoi contemporanei»14. In effetti, può veramente sbalordire il successo allora tributato alla sua opera in America e in Spagna, in contrasto con l'oblio -non del tutto ingiustificato- in cui sarebbe caduta negli anni a venire.

Oggi a richiamare il nostro interesse sulla figura di Vargas Vila è più che altro il fatto che la sua opera rappresenta forse la faccia più visibile del «decadentismo» modernista. Cosmopolita e viaggiatore, appassionato della cultura francese, conosceva l'opera degli enciclopedisti e dei «moderni», Leconte de Lisle, Verlaine, Rimbaud, Laforgue, Heredia... L'ideologia radicale di Vargas Vila si scontrò subito con l'ambiente fortemente conservatore del suo paese, e lo spinse molto presto a elaborare un tipo di creazione letteraria incentrato sull'attacco ai principi borghesi. Anticlericalismo ed erotismo dominano in molti dei suoi scritti, tutti retti da un linguaggio raffinato fino all'affettazione, ma anche energico e tuonante al momento di condannare ingiustizie e forme della morale convenzionale.

Siamo di fronte a una produzione di vastità considerevole. L'edizione delle Obras completas di Vargas Vila pubblicata a Barcellona nel 1921 comprende ventidue romanzi, tre raccolte di racconti, diverse altre di saggi su temi svariati e un dramma teatrale, patrimonio che successivamente venne ulteriormente arricchito. Nel gennaio del 1929, Vargas Vila affermava di avere scritto sessanta opere pubblicate, più diverse altre inedite.

Flor de fango (1895) narra la storia di una giovane popolana predestinata, per il suo infimo livello sociale, allo sfruttamento e al disprezzo da parte di coloro che occupano posizioni di potere. Da domestica, è importunata dal padrone; da maestra di campagna, da un libidinoso sacerdote. Tutti, compreso l'uomo che l'ama sinceramente, si trasformano in suoi implacabili persecutori. Offesa e indifesa, muore nelle più lacrimevoli circostanze. Non è il realismo del referente a far difetto al romanzo; il fallimento è dovuto al tono melodrammatico, al linguaggio convulso coniugato a un gusto eccessivamente effimero.

In seguito, alla difesa della donna maltrattata sarebbe spesso subentrata l'esecrazione delle rappresentanti del gentil sesso, viste come la causa delle disgrazie dell'uomo, come testimonia il prologo a Ibis (1899): «La Donna attraversa le intemperie di queste pagine allo stesso modo in cui sempre incrocia le esistenze degli uomini: incosciente e tragica. Fiore di Lascivia e Sventura».

Il romanzo -nella cui introduzione l'autore sviluppa con veemenza anche alcune riflessioni sulla sua qualità di «libro maledetto, [di] libro empio»- è un'arringa contro la passione divoratrice e distruttrice, e contro chi ne è causa, ma soprattutto è un'arringa contro l'amore, che impedisce di discernere il pericolo di questa trappola. Le peripezie spirituali di Teodoro, annientato da Adda, l'ipersensuale donna-serpente, sono narrate in uno stile convulso, dove lo strazio lascia a tratti spazio per descrizioni di ambienti sontuosi. Si veda ad esempio l'esordio della parte terza: «Sui grandi vasi cinesi, gialle rose agonizzavano come vergini sognanti, sfiorate dall'ala della morte, avvizzite dal bacio della tisi...». Seguono altri leggiadri contrassegni spaziali: «angoliere di lacca», «nardi d'Arabia in azzurri vasi trasparenti», «il pianoforte», mobili con «fulgori d'opale»... E si faccia caso all'uso molto decadentista dei temi della malattia e della morte, ai quali, in altre occasioni, si aggiunge l'utilizzazione morbosa della religiosità, comprensiva di quella che potremmo chiamare «estetica del peccato» e, più precisamente, della bestemmia.

In El alma de los lirios (1904), tre donne, Aureliana, Eleonora ed Erminia distruggono l'esistenza di un uomo, Flavio, che vive in un paradisiaco ambiente domestico. In Salomé (1920), l'eroina del titolo e sua madre, malvage femmine del Nuovo Testamento, tengono fede al loro ruolo di distruttrici dell'uomo. La manipolazione dell'elemento religioso segue qui una duplice strategia: da una parte, la scelta di un tono erotico, dall'altra, la distorsione della figura di Giovanni Battista, presentato come succube dell'ammaliamento fisico di Salomé.

Tra i tanti altri romanzi di Vargas Vila -Alba roja (1901), Los parias (1902), La ubre de la loba (1916)... - il secondo merita di essere segnalato per la buona resa dell'aspetto di protesta sociale, non perché questa non compaia anche negli altri, ma per il suo particolare peso nell'economia di questa storia di despoti, guerriglieri, dominatori e dominati.

Vargas Vila continuò fino alla fine a tenere alta la fiaccola di una poetica narrativa ormai inefficace. Va detto però che un'antologia dei suoi momenti più fortunati -necessaria per poter riscoprire questo autore- non potrebbe certo essere raccolta in un piccolo volume.




Enrique Gómez Carrillo

Nei confronti del guatemalteco Enrique Gómez Carrillo (1873-1927), Vargas Vila ebbe sempre parole gonfie di disprezzo. Sempre su di lui, l'argentino Manuel Ugarte ebbe a dire che «questo 'boulevardero' posticcio non sembrava neanche nato in America»15.

In effetti, tra i modernisti, nessuno come questo scrittore -anch'egli vittima, o ggi, di un lungo oblio- seppe offrire l'immagine di un dandy viaggiatore e francesizzato. Se, come abbiamo visto, fu disprezzato da alcuni, furono anche molti a tesserne le lodi. Compagno delle prime imprese giornalistiche di Darío in Guatemala, già allora era imbevuto degli scritti di Paul Bourget, Daudet, Maupassant e di altri maestri francesi. Al suo repertorio di letture aggiunse presto Mendès, Leconte de Lisle, Whitman e altri maggiormente filtrati dal già noto autore di Azul. Nacque così un valido cronista e un appassionato critico letterario.

Successivamente coltiverà anche il romanzo, ma la parte essenziale dell'opera di Gómez Carrillo sarà sempre costituita dai suoi testi giornalistici, attraverso i quali non si stancò mai di captare i segnali della sua epoca e del suo ambiente. Naturalmente era d'obbligo il trasferimento nella tanto ammirata Francia, e sia lì che in Spagna svolse un'enorme attività con la sua infaticabile penna, fino a diventare direttore dell'influente giornale madrileno «El liberal» e della rivista «Cosmópolis»... Tra i suoi romanzi va annoverata pure la sua stessa vita, ricca di formidabili peripezie e associata talvolta a quella di donne della fama di una Mata Hari.

Il viaggio, eterno tema letterario che assume particolare importanza tra i modernisti, sempre ansiosi di partire in cerca di impossibili Eldorado, è oggetto costante delle pagine dello scrittore guatemalteco. Gómez Carrillo aveva un'indiscutibile facilità di osservazione e disponeva di una buona dose di cultura, che sapeva riversare nei suoi testi senza appesantirli. Nel capitolo «La psicologia del viaggio» di El primer libro de las crónicas (1919), lasciò riflessioni estremamente perspicaci su questo argomento.

Tra i suoi libri di viaggi possiamo ricordare titoli come El alma encantadora de París (1902), El Japón heroico y galante (1912), La sonrisa de la esfinge (1903), El encanto de Buenos Aires (1914), Vistas de Europa (1919), La Grecia eterna (1920)... Alcune sue pagine meritano veramente ancora oggi la nostra ammirazione. Basti pensare a quelle di La sonrisa de la esfinge in cui descrive il variopinto ambiente del Cairo: bottegucce dove «i commercianti concertano operazioni fantastiche, calcolando le merci che devono arrivare con le prossime carovane provenienti da Bagdad o da Basora», spirali di fumo, «strane musiche di dárbukas lontane e di guzle invisibili», luci di harem, mormorii, salmodie, donne avvolte in finissimi zendadi... Inoltre, pagine su religione, cultura, arte e sociologia, caratterizzate da un rigore espositivo che fa ricorso a misurate dosi di erudizione che non stancano il lettore. Non è esatto perciò, almeno in linea di massima, il giudizio che egli stesso diede in Primeros estudios cosmopolitas (1923) sul suo modo di interpretare il ruolo di cronista di viaggi, che non cercava «l'anima dei paesi», bensì «qualcosa di più frivolo, di più sottile, di più positivo: la sensazione, la sensazione».

Fu invece accusato di superficialità nei suoi giudizi di critico letterario, ma non vi è dubbio che con il suo intuito non comune abbia saputo supplire ad altre mancanze, tra cui quella di analizzare gli scritti altrui da una posizione di presunta superiorità, che abbandonava soltanto di fronte agli autori più celebri. Nonostante tutto, libri come Esquisses (1892), antologia di ritratti letterari anticipatori di quelli di Los raros di Darío, Sensaciones de arte (1893), Literatura extranjera (1894), El modernismo (1905) e La nueva literatura francesa (1927), costituiscono contributi di autentico interesse.

Il suo desiderio di indagare i diversi aspetti del movimento modernista lo indusse, nel 1907, a promuovere un'inchiesta, nelle pagine della rivista «El Nuevo Mercurio» di Barcellona, sul significato del modernismo, dove richiedeva anche una valutazione sull'avvenire della letteratura in lingua spagnola.

In La nueva literatura francesa, lo stesso Gómez Carrillo aveva già avuto modo di analizzare questa nuova realtà. In questo studio, pur esprimendo la convinzione che le correnti d'avanguardia costituissero solo un momento di transizione verso forme non ancora elaborate, coglie tuttavia benissimo il senso di immanenza che la nuova poesia porta con sé, e comprende, meglio di quanto avesse fatto Darío, il significato del futurismo.

Un'analisi delle sue opere narrative obbliga a considerare Gómez Carrillo anche un decadente. Nel suo caso, non sembra esserci stata nessuna ricerca di catarsi nel presentarsi in questo modo, ma soltanto un anelito di piacere vitale di fronte al quale le convenzioni sociali perdevano ogni significato. Sotto questo aspetto, è un modernista più puro di Vargas Vila. Tra i suoi romanzi -Almas y cerebros, Del amor, del dolor y del vicio (entrambi del 1898), El Evangelio del amor (1920)-, l'ultimo spicca come esempio di liberissima ricostruzione di un tempo storico, quello della Bisanzio del Trecento, sfruttato dall'autore come ambientazione adeguata per accogliere la storia del conte Teófilo Constantino; detentore e propugnatore di un particolare misticismo che si confonde con l'amore sensuale, il conte finirà lapidato dagli asceti del Monte Athos. Più felice nelle descrizioni di paesaggi naturali e architettonici, come lo spettacolo del Bosforo o lo splendore di Santa Sofia, il romanzo è un buon esempio delle evanescenze a cui seppe pervenire la scrittura modernista.

Ovvi limiti di spazio rendono impossibile affrontare in questa sede opere importanti come, tra le altre, De sobremesa (1925), del colombiano José Asunción Silva (1865-1869), i racconti del cubano Julián del Casal (1863-1893), i testi narrativi del messicano Amado Nervo (1870-1919), i Cuentos de color e i romanzi -Ídolos rotos (1901), Sangre patricia (1902), Peregrina o el pozo encantado (1922)- del venezuelano Manuel Díaz Rodríguez (1871-1927), e il romanzo La gloria de don Ramiro (1908) dell'argentino Enrique Larreta (1873-1961). In molte di queste opere raffinate è possibile cogliere, in tutta la sua rilevanza, il dramma del fallimento degli ideali dell'eroe archetipico del modernismo, anche nel caso in cui, come avviene nel romanzo di Larreta, egli assuma le sembianze di un personaggio della Spagna del XVI secolo. Bastino dunque questi titoli a illustrare un genere che, nella specificità modernista, poté trovare un fecondo periodo d'oro.






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