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Le «Cartas críticas sobre la Italia» di José García de la Huerta

Rinaldo Froldi





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L'autore dell'opera che desidero oggi presentare è poco conosciuto. José García de la Huerta era fratello del più celebre Vicente, l'autore della Raquel, la tragedia che molti hanno considerato la migliore tragedia spagnola del Settecento.

José era un gesuita che, nel 1767, come tutti i confratelli, fu espulso dalla Spagna, in ossequio al decreto di Carlo III di Borbone che costringeva all'esilio i Gesuiti. Come molti correligionari egli emigrò in Italia.

Era nato a Madrid nel 1730 ed in Italia si stabilì a Bologna ove passò il resto della sua vita, per morirvi nel 1793. Non do altri particolari sulla sua vita: essa sarà ampiamente trattata da Livia Brunori in una nota preliminare alla edizione delle Cartas di cui mi sto occupando1.

Di quest'opera esistono due manoscritti, uno autografo conservato a Santander (ms. 353/98 della Biblioteca de Menéndez Pelayo), l'altro, copia, conservato a Madrid (ms. 64, 82-83 della Biblioteca Nacional), quest'ultimo di scrittura più accurata, opera di un amanuense.

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Una annotazione preliminare, probabilmente redatta da un bibliotecario madrilegno, attesta che il manoscritto fu mandato nel 1787 da José al fratello Vicente perché questi «le diese la última mano» e precisa che «la temprana muerte de este literato (Vicente morì in effetti nello stesso 1787) privó al público de esta satisfacción y al autor... de haber conseguido el fruto... de su tarea».

Si tratta di una raccolta di tredici lettere di varia lunghezza indirizzate tra il 1776 e il 1787 da diverse città italiane a un anonimo corrispondente sempre trattato di «Vuestra Merced» che appare come colui che sollecita dalla Spagna a José García de la Huerta informazioni e osservazioni critiche sull'Italia.

La lettera che a noi oggi interessa è la prima che tratta di tre viaggi compiuti dall'autore attraverso la penisola.

Le altre lettere sono anch'esse, evidentemente, frutto delle esperienze maturate attraverso i viaggi e i contatti con le diverse regioni e città italiane ma trattano, più specificamente, gli aspetti culturali: la letteratura italiana (letteratura nel significato settecentesco, ossia scrittura umanistica e scientifica), le arti figurative, i costumi, e forme di vita caratteristiche degli italiani con particolare attenzione alla nobiltà e al clero, il confronto fra le lingue romanze e altre osservazioni sulla vita economica e sociale italiana.

Passo dunque a dare notizia dei tre viaggi di José García de la Huerta descritti nella prima lettera, datata da Genova il 14 maggio 1776 il che ci autorizza a pensare che i tre viaggi attraverso l'Italia descritti nella lettera siano stati compiuti dall'autore negli anni precedenti questa data.

Il primo viaggio ha inizio a Genova e si svolge attraverso la penisola fino a Reggio Calabria. Lo stesso autore precisa di volere dar conto, al suo corrispondente, di questo viaggio in forma succinta: in effetti più che una vera e propria descrizione di viaggio si tratta di una presentazione delle principali regioni e città italiane, a dire il vero, alquanto sommaria.

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Tuttavia l'autore, a volte, non manca d'intervenire personalmente per sottolineare particolari ed aspetti che hanno maggiormente attirato la sua attenzione.

Così sottolinea la splendida apparizione della città di Genova per chi vi giunge dal mare: un solenne anfiteatro di «templos, palacios y públicos edificios», anche se poi egli, sceso a terra, trova incomoda la struttura interna della città per le sue strette strade, in continue salite e discese e mal lastricate. E se non tace che in Italia «corre en ella un proverbio no ventajoso» per i suoi abitanti, subito aggiunge lodi per la loro «aplicación al trabajo, al comercio» ma anche «a las letras y profesión de las armas».

Dopo Genova egli visita le riviere di Levante e di Ponente e poi si spinge all'interno: Borgo Taro, Piacenza, Fornovo, non senza amare considerazioni sullo stato delle strade e l'inospitalità delle locande. Attraversa tutta l'Emilia da Piacenza a Rimini ove trova strade migliori e coltivazioni fiorenti «de gran recreación a la vista» e che suggerisce evidenti segni di ricchezza. Quanto alle città osserva i principali monumenti di Parma, Reggio, Modena. Di Bologna ricorda le istituzioni culturali fra cui il collegio di S. Clemente fondato dal cardinale Albornoz ma anche cita le prospere attività manifatturiere favorite dalla rete dei canali, né trascura di sottolineare la «comodidad de andar casi siempre a cubierto debajo de sus pórticos». Piccole ma operose, con molta nobiltà e non prive di notevoli monumenti le città di Imola, Faenza, Forlì, Cesena e Rimini. Di qui José García de la Huerta si dirige al Sud lungo il mare Adriatico; attraversa poi le Marche e si spinge in Umbria, tocca Foligno, Orvieto e Viterbo «ciudad grande y hermosa y muy célebre por la esclarecida hija suya Santa Rosa» e raggiunge poi il Tirreno a Civitavecchia. Di qui passa alla «campaña romana» ove annota «el aire grueso y mal sano, su terreno poco cultivado, la escasez de la población, la pobreza del país».

Quanto a Roma l'autore se la cava con un elenco alquanto generico dei suoi monumenti, delle sue gallerie d'arte, non senza un ricordo della sua fastosa nobiltà.

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Scendendo verso Napoli annota che il clima è migliore, «sano, templado y delicioso a excepción de Pozzuoli». «Nápoles, capital de la provincia y de todo el reino es grandísima, muy poblada, de mucha riqueza y nobleza... la situación de la ciudad a la falda de una colina a la orilla del mar es de las más agradables y deliciosas», ma aggiunge: «sus calles por la mayor parte estrechas o torcidas la quitan mucha hermosura y la vecindad del Vesubio, distante sólo una legua, da mil sustos a sus moradores con sus frecuentes erupciones».

Assai sommaria è poi la descrizione del viaggio attraverso l'Abruzzo e la Puglia fino alla Calabria: si sottolinea «su bello temple y la amenidad y frutos de su campiña» e soprattutto la ricca produzione d'olio ma si aggiunge: «pasan los calabreses por los más toscos entre todos los napolitanos: en la realidad son por lo común inquietos, furiosos y mal criados».

Il secondo viaggio parte da Oneglia e si svolge attraverso l'Italia settentrionale. Da Oneglia a Torino attraverso «montañas, travesías, países miserables y caminos como los países». Torino gli appare «bella, hermosa de planta», con magnifici palazzi e una popolazione accogliente; tutto il Piemonte del resto è ricco di piccole ma «buenas poblaciones», il clima particolarmente freddo d'inverno ma buona è l'agricoltura e prospero l'allevamento del bestiame.

Nel Ducato di Milano egli ammira i Laghi di Lugano, Maggiore e Como, la grandezza e l'opulenza di Milano, la «hermosa» Pavia, celebre per la battaglia che si concluse con la prigionia di Francesco I di Francia e per «su docta Universidad, cada día más célebre a causa de los buenos profesores que en ella tiene bien estipiendados el Soberano». Ricorda poi anche Lodi per la sua produzione di formaggi e Cremona per la coltivazione e l'industria del lino.

Passa dunque al dominio veneto che José giudica «uno de los más respetables de Italia, por su abundancia de frutos... como por su gran extensión, tráfico, nuevas manifacturas» ed anche «por muchas y bellas ciudades, fortalezas y pueblos numerosos». Ecco come descrive Venezia: «compuesta de setenta y dos islas unidas por varios puentes, y   —89→   fabricada sobre empalizadas que sostienen mil soberbios edificios, palacios y templos, ofrece en medio de las aguas a la vista del extranjero un inmenso pueblo muy diferente de todos los otros pues sus calles son canales, sus carrozas góndolas, y sus campiñas las aguas del mar Adriático». Si sofferma sull'attività commerciale che dà a Venezia grandi ricchezze e, quanto ai veneziani, li giudica «alegres, graciosos y despejados»; infine ritiene «excelente el gobierno».

Il resto del Veneto lo interessa per la fiorente agricoltura e per le sue bellezze naturali e artistiche: il lago di Garda «es el más considerable de todos los de Italia», Verona e Vicenza vantano splendidi monumenti, mentre Rovigo si distingue «por la bondad y sinceridad de sus naturales». L'autore visita poi anche Parma, Guastalla, Ferrara e Ravenna.

II terzo viaggio, partendo da Bologna, si dirige alla Toscana «lo mejor del mundo, según un proverbio muy común entre los italianos». Aspro e difficile il cammino per giungere a Firenze ma la città e «sin disputa bellísima así por la simetría de sus edificios, buena posición de sus calles, como por la hermosura de sus templos y magnificencia de sus palacios», ma belle sono anche Pisa e Livorno, attivo porto franco. Meno bello ed interessante il resto della Toscana anche se monumenti pregevoli ci sono a Siena e a Prato mentre Pistoia è considerata «célebre por la pureza de su lenguaje toscano que se observa en sus naturales e Massa, illustre «por sus fines mármoles».

La lettera si conclude con uno sguardo d'assieme ai fiumi, laghi, porti e ricchezze minerarie d'Italia e con un rapido confronto con la Spagna che viene giudicata terra non inferiore per bellezza e ricchezza all'Italia.

Ebbene su questo motivo, il confronto tra Italia e Spagna, è centrato tutto il resto del manoscritto: le altre dodici Cartas infatti costituiscono, come già all'inizio ho osservato, un tentativo di sintesi della cultura italiana considerata sempre in parallelo con quella spagnola. Da una parte si constatano i pregi in vari campi dell'Italia, dall'altra si sottolineano difetti ma sullo sfondo c'è sempre un confronto ora tacito   —90→   ora esplicito con la propria patria, quella Spagna che alcuni letterati italiani come il Quadrio, il Bettinelli e il Tiraboschi avevano osato criticare e ai quali José oppone una vera e propria difesa della cultura spagnola.

Questa seconda parte, più critica e ideologicamente definita, costituisce il nucleo più esteso dell'opera e -credo- la parte più interessante della stessa ma non voglio trattarne oggi perché non ha un diretto riferimento al tema del viaggio. Dirò soltanto che, a parte la trascrizione odeporica della prima lettera, le altre dodici di José García de la Huerta vengono a costituire un episodio in più, di modesto significato senza dubbio, ma non privo di spunti interessanti, di quell'apologismo della tradizione spagnola che ebbe in Forner il suo maggiore rappresentante.





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