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Abajo

Re, dame e cavalieri rustici, santi e delinquenti

Studi sul teatro spagnolo e americano del Secolo Aureo

Giuseppe Bellini


Consiglio Nazionale delle Ricerche
Centro per lo studio delle letterature e delle culture delle aree emergenti

Portada



A Franco Meregalli sempre Maestro
con riconoscenza e affetto



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ArribaAbajoPremessa

Il teatro del Secolo Aureo è quanto di più rilevante abbia prodotto l'ingegno spagnolo. L'affermazione non ha bisogno di prove, tanti sono gli studi dedicati alla sua valorizzazione. Le radici affondano, come ben sappiamo, nella produzione drammatica dei secoli precedenti, soprattutto in quella di drammaturghi come Bartolomé de Torres Naharro, Juan del Encina, Lope de Rueda e Gil Vicente, ma certamente il momento più alto del teatro spagnolo si ha nel periodo che va dalla fine del secolo XVI a tutto il secolo XVII, in particolare in quest'ultimo, quando appaiono le grandi figure di Cervantes, di Lope de Vega, di Calderón, ma anche di Tirso, di Mira de Amescua e di altri autori numerosi, in genere considerati minori nel paragone con i massimi, ma pur sempre di notevole livello.

È anche il momento più esaltante della potenza spagnola, che ha inizio con i Re Cattolici e la scoperta dell'America, si accentua sotto Carlo V, si mantiene a fatica sotto il regno di Filippo II, per poi esaurirsi progressivamente nella debolezza dei successori, da Filippo III a Carlo II, con il quale ha termine, come è noto, la dinastia degli Asburgo, agli albori del Settecento.

Riflesso della società del suo tempo, il teatro permette di penetrarne le caratteristiche, positive o negative, di cogliere interventi critici o esaltanti, di pervenire alle complesse ragioni che determinano la storia intima di un popolo. Di qui il taglio del presente libro, nel quale l'attenzione e rivolta a testi drammatici   —12→   di autori rilevanti che si aprono alla visione profonda dei sentimenti e degli atteggiamenti, mostrando un mondo solo all'apparenza immobile, in realtà in dinamico movimento. Ciò nella Penisola come nelle Colonie americane, nelle quali pure il teatro assume una rilevanza preminente, anche se non sempre parto di grandi autori, ma in non pochi casi anche di drammaturghi di indubbio valore. Testi, comunque, che permettono di penetrare una società con caratteristiche e gusti propri, una propria evoluzione.

Ripartiti in tre settori, gli studi riuniti nel presente volume non intendono costituire una «storia» del teatro del Secolo d'Oro, almeno nella prima e nella seconda parte. Infatti, se i saggi del settore propriamente «ispanico» rispondono specificamente a quanto sopra esposto, nel secondo settore e trattato il tema della presenza, e dell'interpretazione, dell'America nel teatro peninsulare del periodo, specificamente in opere di Lope, di Tirso e di Calderón, mentre vengono tralasciati testi di drammaturghi di minore importanza, autori di drammi di modesto livello. Neppure Calderón, a dire il vero, ha dato sul tema testi eccezionali, ma il suo nome ne giustifica la trattazione.

Nel terzo settore, dedicato al teatro nella sua traiettoria americana, vengono presi in considerazione i due centri politico-culturali di maggior rilievo nei secoli XVI-XVII, la Nueva Espana e il vicereame del Perù, incidendo anche su una «storia» che ne illustra il sorgere e lo sviluppo, pur sottolineando l'opera di autori come suor Juana e Alarcón, per l'area novohispana, del «Lunarejo», di Caviedes e di Lorenzo de las Llamosas, per quella peruviana, non senza aver posto in rilievo il significato di una interessante produzione drammatica in «quechua».

Non sorprenderà l'inserimento di Alarcón nell'ambito del teatro della Nueva España; è un caso simile a quello di Ercilla, e già il Menéndez y Pelayo aveva dichiarato legittimo l'inserimento   —13→   del drammaturgo, come del poeta epico, sia nella letteratura peninsulare che in quella della Colonia.

Queste pagine confermano una vecchia passione, le cui origini affondano, come si è soliti dire, nella notte dei tempi. Tempi autobiografici, s'intende, cui diede nutrimento, in anni universitari, un vero Maestro, al quale dedico il libro.





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ArribaAbajoTeatro ispanico del secolo aureo


ArribaAbajo- 1 -

Il riscatto contadino nel teatro di Lope de Vega


Mentre le vicende della vita di Lope de Vega offrono una testimonianza particolarmente viva delle sue contraddizioni umane e l'opera poetica ne diviene spesso riflesso fedele, sia come testimonianza delle passioni e degli entusiasmi, sia come documento di pentimento e di religiosità, il teatro lopiano è specchio della società del tempo e assolve una funzione chiaramente politica1. Ciò nell'ambito di una fedele accettazione dell'assolutismo monarchico e di un nazionalismo che la storia ancora recente della Spagna poteva in gran parte giustificare, pur di fronte agli accentuati sintomi della progressiva   —18→   decadenza. Vissuto all'epoca di Filippo II (1556-1598), di Filippo III (1598-1621) e nei primi quattordici anni del regno di Filippo IV (1621-1665), Lope non dovette assistere all'umiliante tramonto della potenza spagnola, che si accentuò nei successivi anni di regno del quarto Filippo e precipitò in quelli di Carlo II, con il quale terminava la dinastia degli Asburgo.

Il grande poeta e drammaturgo vive, perciò, in un'epoca ancora relativamente felice, benché funestata dal fallimento dell'impresa navale contro l'Inghilterra, con la distruzione della flotta «invincibile» (1588), contro la quale più che il nemico si accanirono gli elementi. L'assassinio di Enrico IV re di Francia aveva finito anche per quietare l'eterna contesa con la nazione confinante e una serie di matrimoni incrociati sembrò suggellare una pace duratura. Ma la Spagna non rimase tranquilla e nel 1618 prese parte alla Guerra dei Trent'anni in aiuto alla casa d'Austria. Fu durante questa campagna che nel 1620 Ambrogio Spinola riportò la memorabile vittoria di Praga, con la quale pareva riaffermarsi durevole, con il prestigio dell'esercito spagnolo, la grandezza della nazione iberica.

Lope de Vega poteva, quindi, sentirsi legittimamente orgoglioso di appartenere a una nazione potente. La sua fede nella monarchia era piena. Molte delle sue opere lo attestano; con esse, d'altra parte, non faceva che interpretare lo spirito della nazione, dando al tempo stesso all'istituto monarchico un valido sostegno propagandistico. Non ne farò un elenco, bensí mi limiterò a una lettura di alcune di tali opere drammatiche, ben note e di particolare rilievo, quali Peribáñez y el comendador de Ocaña, Fuenteovejuna, El mejor alcalde, el rey, e El villano en su rincón, dove si afferma un tema: il riscatto dell'onore contadino.

  —19→  

È noto che Lope traeva ispirazione con frequenza dalla storia nazionale e dal Romancero. L'impatto sul vasto pubblico, che non si limitava a una sola classe sociale, come avverte il Díez Borque2, era per tal modo immediato. Per Peribáñez, opera composta tra il 1614 e il 1616, già il Menéndez y Pelayo aveva individuato la fonte in un «cantar» o «fragmento» di un romance3, quello dei versi seguenti:


Más quiero yo a Peribáñez
con su capa la pardilla
que no a vos, comendador,
con la vuesa guarnecida.



Altri studiosi pensano invece a un'invenzione originale, ma è fuor di dubbio che il drammaturgo cercava rispondenza nella memoria popolare, al fine di ottenere immediata adesione al suo testo. Infatti, non poteva a meno di destare interesse nella massa degli spettatori l'affermazione da parte della donna di un amore incurante della ricchezza e della potenza. Come nei versi del romance la protagonista del dramma disdegna il ricco e potente Comendador per un semplice contadino:



Más precio verle venir
en su yegua la tordilla,
la barba llena de escarcha
y de nieve la camisa,
la ballesta atravesada,
—20→
y del arzón de la silla
dos perdices o conejos,
y el podenco de trailla,
que ver al Comendador
con gorra de seda rica,
y cubiertos de diamantes
los brahones y capilla;
que más devoción me causa
la cruz de piedra en la ermita,
que la roja de Santiago
en su bordada ropilla.4



La vicenda, semplice in sé, immette nel particolare spirito dell'epoca: la Reconquista, l'affermazione della «limpieza de sangre» e della fede cattolica, avevano finito per dare una sorta di patente di nobiltà anche al ceto contadino e popolare, una nobiltà che si poneva sullo stesso livello di quella di sangue e che, proprio per le qualità richiamate, terminava per sentirsi superiore ad essa5. Il teatro di Lope finisce per affermare una sorta di superiorità del mondo contadino di fronte a quello dell'élite di potere, che nell'Età Media aveva spesso minacciato anche la monarchia; nell'attualità lopiana l'obiettivo era il «palazzo», il prepotere dei nobili nella corte che egli frequentava.

La laboriosità, la genuinità del vivere, il culto delle tradizioni, la religiosità, la purezza del sangue sono aspetti positivi   —21→   sui quali afferma l'«onorabilità» come virtù del «labriego», il quale per difendere il suo buon nome e il suo diritto ricorre anche alla violenza. Così facendo, nelle sue commedie il drammaturgo dava contributo a una politica intelligente inaugurata a suo tempo dai Re Cattolici, per la quale il sovrano era divenuto unico arbitro imparziale nel regno e il suo intervento sempre legittimo, al fine di imporre la giustizia e con essa l'ordine nello stato. Per tal modo tra popolo e monarchia aveva finito per stringersi un patto implicito, che spiega in Spagna il prolungato rispetto per l'istituto monarchico.

Nel teatro di Lope il re adempie chiaramente alla funzione di giustiziere. Egli rappresenta Dio sulla terra, ne fa le veci per quanto attiene al governo dei sudditi. Tutti devono sottostare alle sue decisioni; ribellarsi al re sarebbe come ribellarsi a Dio. Ma il re è alla fin fine un uomo e in qualche occasione può presentarsi non all'altezza del suo ruolo; Dio permette allora interventi che ristabiliscano l'equilibrio. Lope ne dà un esempio in Peribáñez, dove porta sulla scena re Enrico III in funzione di giustiziere. Se pensiamo che il sovrano che aveva dato origine alla dinastia, Enrico II, era giunto al trono attraverso un atto cruento, l'uccisione del re di Castiglia don Pedro «el Cruel», suo fratellastro, pare curioso veder esaltato un Trastamara nella funzione di giustiziere. Nella sua Crónica il Cancelliere del regno, Pero López de Ayala, ha fissato a tinte drammatiche la scena del corpo a corpo tra i due personaggi: essi si scagliano con le armi l'uno contro l'altro e caduti a terra Enrico colpisce di nuovo don Pedro con la daga fino a ucciderlo. Ma Enrico II eliminava un sovrano ritenuto malvagio, inviso al popolo, contribuendo così a rafforzare il mito positivo della monarchia quale restauratrice della giustizia. I suoi successori, perciò, erano re, più che legittimi, provvidenziali per la Castiglia.

  —22→  

Quando re Enrico III, succeduto al padre, Juan I, interviene nel dramma a punire il Comendador, Lope non discrimina; egli celebra l'istituto monarchico e chi occupa il trono. Per il drammaturgo la vera protagonista della storia è la fortuna, che volse le spalle al re don Pedro, valente cavaliere. Non che si colga rimpianto nell'affermazione, bensì solo rifiuto di intervenire criticamente in un «asunto» di re.

Nel secondo atto l'autore sviluppa i temi dell'onore e del patto tra signore e vassallo. Il rapporto tra i due si fonda sulla lealtà reciproca e per questo motivo l'offesa recata al vassallo fedele è grande. Infatti, se al signore è dovuta lealtà da parte di quest'ultimo, a maggior ragione il signore la deve a lui, grado inferiore nella gerarchia sociale, ma intatto nella sua integrità di «uomo» e nei suoi diritti. Nell'Alcalde de Zalamea Calderón dirà, per bocca di Pedro Crespo, «labrador viejo»:


Al Rey, la hacienda y la vida
se han de dar; pero el honor
es patrimonio del alma
y el alma sólo es de Dios.6



Il rapporto signore-vassallo è lo stesso che intercorre tra re e suddito. L'onore, quindi, è il vero e unico bene; perduto questo tutto crolla. Di qui la strenua difesa della sua integrità, ed è sufficiente il tentativo di insidiarlo perché vi sia offesa. In particolare, l'onore si perde attraverso la donna. Nella commedia è sufficiente che il Comendador tenti di insidiare la moglie di Peribáñez perché l'onore sia offeso. Dice il protagonista:

  —23→  

Basta que el comendador
a mi mujer solicita;
basta que el honor me quita,
debiéndome dar honor.
Soy vasallo, es mi señor,
vivo en su amparo y defensa:
si en quitarme el honor piensa,
quitaréle yo la vida,
que la ofensa acometida
ya tiene fuerza de ofensa.7



Incurante delle conseguenze, forte del suo diritto, il contadino pensa di opporsi con le armi al suo signore. Senonché il Comendador, teso al suo scopo, allontana Peribáñez affidandogli il comando, come capitano, di una compagnia di contadini, che invia in aiuto al sovrano, impegnato nella guerra di Reconquista. Rafforzerà in tal modo, senza volerlo, la dignità di colui al cui onore sta attentando: infatti, nominando Peribáñez capitano di gente armata lo eleva implicitamente alla condizione di cavaliere, rendendo legittimo il suo ricorso alle armi contro di lui per la difesa del proprio onore.

Nella scena sesta del secondo atto Lope insiste sull'eccellenza e sul valore dei contadini, che contrappone agli «hidalgos». La professione di soldato era particolarmente onorata, sappiamo, in una nazione che aveva visto sottomessa dalle proprie armi gran parte dell'Europa e conquistati i territori immensi dell'America. Il popolo, al quale apparteneva la massa armata, era certamente sensibile all'esaltazione del soldato e del suo valore. Un motivo sicuro, quindi, di successo   —24→   per il drammaturgo, che pure si vantava di essere stato soldato nella Invencible.

Ciò che più colpisce nella commedia di Lope de Vega è l'affermazione orgogliosa di una nobiltà che si fonda sulla «limpieza de sangre» e sulla religione. Nel finale del terzo atto Peribáñez lo dichiara apertamente al re:


Yo soy un hombre,
aunque de villana casta,
limpio de sangre, y jamás
de hebrea o mora manchada8.



Con tutto il rispetto dovuto al sovrano, il mondo contadino, fondandosi su tali qualità, non si considera inferiore ad alcun nobile, anzi nutre un evidente orgoglio di superiorità. Infatti, nei tempi passati, se «macchie» vi erano state nel sangue ispanico esse si rinvenivano piuttosto tra i discendenti di talune famiglie nobili, che non avevano disdegnato di unirsi ad arabi o a ebrei, come attesta la storia. Di qui la fierezza del contadino, «cristiano viejo».

In punto di morte lo stesso Comendador riconosce la propria colpa e perdona Peribáñez, affermando che lo ha «muerto con razón» e che essendo ormai «cavaliere», «no ha empleado mal su acero»9. Re e regina non solo perdonano l'uccisore, ma ricoprono di regali e di onori la coppia fedele.

Lope assolve, così, egregiamente al suo compito: ha esaltato l'onore, la virtù, la nobiltà dei sentimenti, la professione delle armi, la religione, la giustizia del re, la bontà della regina. Al suo pubblico ha dato gioia, in uno spettacolo solare, rallegrato dalla musica e dal canto, ha rafforzato la fiducia   —25→   nella giustizia e nella funzione equilibratrice della monarchia, il suo legame con il popolo. Ciò in un dramma di grande agilità e concisione, privo di truculenze, poiché, come Casilda afferma di fronte all'uccisione del Comendador da parte del marito, «No hay sangre donde hay honor»10.

Uno dei maggiori drammi di Lope de Vega, Fuenteovejuna, è stato interpretato all'estero, in tempi non lontani, all'epoca del franchismo, come un implicito messaggio democratico. Nulla di più errato. Non era certo questa l'intenzione dell'autore, bensì quella di celebrare, con la condanna dell'arbitrio, una volta ancora la funzione equilibratrice della monarchia.

In particolare Lope difendeva la legittimità dell'ascesa al trono di Castiglia, dopo la morte dell'erede, il principe don Alfonso (1468), della di lui sorella, Isabella, «la Cattolica», di fronte alla rivale, la sorellastra Juana, detta «la Beltraneja», che si mormorava fosse figlia di amori peccaminosi della regina, una portoghese, con il suo favorito, don Beltràn de la Cueva.

Morto Enrico IV, «el Impotente» (1454-1474), la contesa dinastica vede il Portogallo sostenere senza successo i diritti di Juana e la guerra civile nel regno. Isabella sale al trono nel 1474 e realizza, attraverso il matrimonio segreto con Fernando II d'Aragona, l'unità politica della penisola, che sarà compiuta più tardi con la conquista del regno arabo di Granada, inaugurando un nuovo periodo storico particolarmente gratificante per la Spagna.

Da un episodio della lotta dinastica tra Isabella e «la Beltraneja» prende avvío Fuenteovejuna, dramma che risale al periodo 1612-1614. Si tratta della conquista di Ciudad Real da   —26→   parte dei sostenitori della pretendente illegittima e della successiva riconquista da parte delle truppe fedeli ai Re Cattolici. Storia e leggenda si confondono nel dramma. Il Menéndez y Pelavo indicò a suo tempo le fonti cui il drammaturgo s'era rifatto: la Crónica de las tres Órdenes y Caballerías de Santiago, Calatrava y Alcántara, di frate Francisco de Rades y Andrada, del 157211. Nulla vi è di certo nella storia assunta liberamente da Lope e molti particolari appartengono alla leggenda, una delle tante fiorite intorno ai sovrani, trionfatori nella Reconquista, abbondantemente celebrati12.

Diversamente da quanto avviene in Peribáñez, dove la storia entra solo come sfondo, in Fuenteovejuna essa è ben presente: Fernán Gómez de Guzmán, Comendador dell'Ordine di Calatrava, signore di Fuenteovejuna, è un personaggio che, con il suo peso politico, la coscienza dei diritti propri e dei riguardi dovuti al suo rango, domina la commedia, sulla cui vicenda proietta la sua pesante ombra di prepotente e di predatore di donne. Un personaggio a tutto tondo negativo, come diversamente non poteva essere, per gli spagnoli, un partigiano dei portoghesi e della «Beltraneja». Lope interpreta fedelmente i sentimenti del suo pubblico, non certo favorevole ai vicini lusitani per ragioni di radicata rivalità storica. È da supporre che il modo di agire del Comendador,   —27→   nella commedia, fosse accolto dagli spettatori del tempo con immediata riprovazione, quindi con un'adesione spontanea al dramma lopiano.

Diversi sono i temi che Lope de Vega affronta in Fuenteovejuna, finalizzati alla costruzione di un dramma che esalti la fierezza e l'onorabilità popolari, vale a dire l'intera nazione spagnola, e l'operato del re, restauratore della giustizia, colui che come rappresentante di Dio sulla terra pone rimedio ai torti, distribuisce la pena o dà il premio.

Nel primo atto si assiste a una interessante discussione sulla «cortesía», definita «llave para abrir la voluntad». Il dibattito prende avvio dalle parole di Frondoso, il quale chiama «hermosas damas» le contadine Laurenciana e Pascuala. Il motivo sotteso è la celebrazione della campagna, tema ricorrente ormai in gran parte della letteratura spagnola a partire dal Rinascimento, da Boscán a Garcilaso, a fra Luis de León, cui si aggiunge il Guevara del Menosprecio de corte y alabanza de aldea.

Nella campagna di Lope le contadine sono «dame» per l'onestà dei costumi, per virtù. Da parte del drammaturgo è un intelligente e scaltro omaggio captatorio nei confronti del pubblico, di estrazione popolare, in tempi in cui la campagna penetrava ben addentro nella città.

La filosofia dei contadini che discutono d'amore è semplice; essi rifuggono dalla pedanteria e dalla retorica dei ceti colti. Lope rappresenta nella commedia un mondo felice prima della tempesta. Scrive un critico che Fuenteovejuna è una «isla idílica de primitivismo en la cual los valores de la edad de oro todavía están milagrosamente intactos»13 . La discussione   —28→   sul tema cortese appare pienamente legittima e tale da avvincere lo spettatore di ieri come il lettore di oggi. Di fronte sta un mondo al tramonto, quello medievale, ma che si prolunga nell'attualità, costituito da una nobiltà boriosa e prevaricatrice. Il mondo contadino è bellezza, paesaggio solare, lo rallegrano il canto e la musica; il mondo che gli si oppone è quello del sopruso, della violenza, della passione illecita, un mondo tenebroso, fatto di persecuzione e di tormenti.

L'amore è elemento equilibratore, armonia del mondo: «Armonía es puro amor, / porque el amor es concierto», dice Barrildo14. Alla domanda «¿Qué es amor?», Laurenciana risponde: «Es un deseo / de hermosura»15. Definizione di grande finezza: l'amore è, quindi, desiderio di bellezza, fonte di armonia nella corrispondenza. L'attrazione dei sensi è elemento scatenante del disordine.

Il Comendador, preso d'amore per Laurenciana, provocherà, infatti, nel secondo atto del dramma, la catastrofe. Di ritorno dalla guerra, al momento vittoriosa per il suo bando, quello portoghese, il nobile scatenerà la persecuzione, calpestando ogni regola dell'onore. Il personaggio si meraviglierà, anzi, che il «villanaje» pretenda di possedere un onore. Gli risponde Jacinta, affermando di avere un padre onorato, che se non lo eguaglia per nobiltà di nascita, lo vince «en las costumbres»16. La virtù è fonte legittima dell'onore.

Accenti arditi per una nobiltà spocchiosa e violenta che non si è ancora resa conto dell'avvicinarsi di tempi nuovi, rappresentati, appunto, dall'avvento dei Re Cattolici. La celebrazione   —29→   dei quali nella commedia già inizia con discrezione alla fine del secondo atto, dove sono presentati come restauratori della legalità. Ricorda Esteban, padre della fanciulla pretesa, con tono minaccioso al Comendador:


... reyes hay en Castilla,
que nuevas órdenes hacen,
con que desórdenes quitan.
Y harán mal, cuando descansen
de las guerras, en sufrir
en sus villas y lugares
a hombres tan poderosos
que traen cruces tan grandes:
póngaselas el rey al pecho
que para pechos reales
es esa insignia, y no más.17



L'allusione è alla politica messa in atto da Isabella e da Fernando, i quali avocarono a sé il «Maestrazgo» di tutti gli ordini cavalleresco-militari, pericolosi per la monarchia e per la tranquillità del regno.

Sul dramma lopiano la minaccia del Comendador diffonde un clima funebre: «Volvióse en luto la boda», commenta una donna, e al povero Esteban, al quale è stata rapita la «novia», non resta che sperare nel cielo: «Justicia del cielo baje»18. Numerose spie nella commedia fanno prevedere, tuttavia, che si avrà l'immancabile trionfo della giustizia. Le prepotenze degli sgherri del Comendador provocano, infatti, la rivolta popolare e l'uccisione del nobile. Intervengono gli ufficiali dei re -ora vittoriosi sui portoghesi e sui partigiani della «Beltraneja»-   —30→   e svolgono severe indagini, confortate da duri tormenti, al fine di individuare il colpevole del grave delitto. Ma la solidarietà dell'intero paese, impavido di fronte alla violenza della giustizia, impedisce, è noto, ogni chiarimento.

L'uccisione di un nobile è ancora un fatto gravissimo, e tuttavia nel caso specifico esiste una giustificazione: il sopruso e la disubbidienza al sovrano. Fuenteovejuna compie la sua giustizia gridando alta la fedeltà al re, che riconosce unico signore legittimo. Nella seconda scena del terzo atto Esteban dice: «El rey sólo es señor, después del Cielo / y no bárbaros hombres inhumanos». Era questo il fine cui aveva teso la politica dei Re Cattolici: scalzare i nobili facendo perno sull'elemento popolare, sulle città e sui villaggi ansiosi di scuotere il giogo della nobiltà. Ma l'uccisione di un nobile restava comunque un fatto grave, un attentato a quell'ordine cui apparteneva anche la monarchia. Il perdono in Fuenteovejuna è, tuttavia, scontato, in primo luogo per l'impossibilità di pervenire al colpevole, ma anche perchè conveniva alla politica regia. Dice il re:


Pues no puede averiguarse
el suceso por escrito,
aunque fue grave el delito,
por fuerza ha de perdonarse.
Y la villa es bien se quede
en mí, pues de mí se vale,
hasta ver si acaso sale
comendador que la herede.19



La rivolta di Fuenteovejuna, con i suoi fatti tragici, era pur sempre una ribellione contro l'autorità costituita e pericolosa   —31→   era, da parte di Lope, la sua apologia. Il drammaturgo appare pienamente cosciente di questo ed evita ogni esaltazione del fatto, anzi elimina il premio. Solo dà spazio all'esaltazione dei sovrani, dei quali celebra l'impegno di giustizia, recando un ulteriore apporto alla mitizzazione dell'istituto monarchico. Ma non manca di sottolineare la dignità e il coraggio di un popolo fiero, quello contadino, semplice e onesto, con un alto concetto del proprio onore e della giustizia, parte determinante nella storia della nazione20.

Nella commedia famosa El mejor alcalde, el rey, Lope de Vega, nella «plenitud» del suo talento21, torna, in forma originale, agli stessi temi fondamentali, portando sulla scena la figura del re Alfonso VII di Castiglia.

Anche qui un Comendador s'innamora di un'avvenente contadina che sta per andare sposa al «labriego» Sancho. Il dramma è uno dei più riusciti artisticamente del repertorio di Lope. In esso l'autore cura particolarmente la versificazione, ricorre a una pluralità di metri, raggiunge un raffinato lirismo, impiega sottili barocchismi e metafore luminose, manifesta una sensibilità particolare per il paesaggio. La solarità lopiana si afferma ancora una volta sia nella descrizione della natura che nell'esaltazione della purezza del sentimento. Per poi immergere in modo convincente lo spettatore nel   —32→   dramma, ricorrendo allo spettacolo del prepotere e della passione.

Nel terzo atto il drammaturgo fa l'apoteosi della giustizia reale, ma prima Sancho coinvolge nella sua lamentazione tutto il creato. Con sensibilità finissima Lope sembra echeggiare i lamenti di Salicio e di Nemoroso nell'Egloga nota di Garcilaso. Si tratta, ne El mejor alcalde, el rey, di uno dei passaggi più poetici, e più significativi per le sottese implicazioni. Sancho si rivolge al Comendador con dignitosa fierezza cercando di renderlo partecipe del suo dramma personale, afferma la sua dignità di uomo onorato, la sua fierezza, senza nascondergli possibili reazioni alla sua arroganza:


me robaron, señor, mi prenda amada,
y allí me pareció que alguna fuente
lloró también y murmuró turbada.
Llevaba yo, ¡cuán lejos de valiente!,
con rota vaina una mohosa espada;
llegué al árbol más alto, y a reveses
y tajos le igualé a las bajas mieses.
No porque el árbol me robase a Elvira,
mas porque fue tan alto y arrogante
que a los demás como a pequeños mira:
tal es la fuerza de un feroz gigante.22



Al di là della nota lirica si affermano in questi versi alcuni concetti rilevanti: anzitutto la dignità del contadino, che non si stima inferiore al suo signore quanto a onorabilità, quindi il richiamo a una palese ingiustizia, all'indegnità della condotta del nobile, quando avrebbe dovuto aver cura   —33→   della sua onorabilità. Con la violenza don Tello si libererà dell'ardito contadino, lo farà cacciare a bastonate dal suo palazzo, come si conviene a un inferiore. Ma subito segue il riscatto, rappresentato dall'accoglienza del re, il quale compare nella scena decima del secondo atto e domina poi con la sua presenza il resto della commedia.

Lope insiste sull'immagine del re difensore del debole, e se le sue disposizioni scritte non sono ubbidite dal prepotente signorotto, delitto gravissimo, lui stesso si recherà di persona a far giustizia. Nel terzo atto, infatti, allorché il sovrano riceve per la seconda volta Sancho, che gli riferisce dell'esito negativo della missiva reale che ha consegnato a don Tello, decide di raggiungere in incognito, accompagnato da due dignitari di corte, la residenza del nobile, il quale intanto ha consumato il delitto. Motivo per il quale il re lo condanna a morte e dopo aver unito a lui in matrimonio la sventurata fanciulla, fa sí che la sentenza venga eseguita. Ormai vedova, la donna può sposare legalmente il suo innamorato, al quale reca in dote la metà dei beni del giustiziato.

Da rilevare nel dramma il dialogo drammatico tra il re e don Tello. Forse mai in altre occasioni Lope de Vega ha saputo rendere così vigorosamente la maestà e la potenza sovrana. Di fronte ai tentativi dei presenti di muoverlo a pietà, il re rimane inflessibile: benché stimi, onori e consideri come un padre il nobile che fa appello alla sua misericordia verso il colpevole, gli ricorda che anche lui è tenuto a ubbidirgli e quindi non deve «replicar». Giustiziere inflessibile, il sovrano pone la giustizia al disopra di tutto, né la pietà può redimere la colpa. Afferma:


Cuando pierde de su punto
la justicia, no se acierta
en admitir la piedad.
—34→
Divinas y humanas letras
dan ejemplos: es traidor
todo hombre que no respeta
a su rey, y que habla mal
de su persona en ausencia.23



Per questo modo di condursi, quale interprete rigoroso della giustizia, il re è il miglior giustiziere. Nei tre drammi presi in esame si assiste a una valorizzazione singolare dell'elemento contadino. La nazione gli doveva molto e con il suo apporto aveva costruito la sua grande storia, e molto gli doveva la monarchia. Lope ne era cosciente, ma era anche cosciente che l'attenzione che prestava al ceto rurale costituiva un mezzo sicuro per comunicare in modo immediato con il suo pubblico e per averne il plauso, cosa che per un autore non era insignificante.

E tuttavia, il «labriego», pur esaltato e oggetto di restaurata giustizia, o implicitamente perdonato anche quando osa posare la sua mano sulla nobiltà, se offeso, non è mai tratto dalla sua condizione, sia pure agiata, per un salto decisivo nella scala sociale. Ciò avviene invece in un singolare dramma, El villano en su rincón, opera che il Sainz de Robles stinia del periodo 1614-1616 e che qualifica come precorritrice di atteggiamenti romantici24. Non starò a discutere questo argomento, ma, per quanto attiene al tema da me assunto, la commedia citata ha una sua importanza e pone una serie di problemi, ai quali non è agevole dare risposta.

L'azione de El villano en su rincón si svolge non in Spagna, ma in Francia, protagonisti il contadino agiato Juan Labrador   —35→   e un re francese non precisato, ma che tutto ha del re spagnolo e che, con ogni probabilità, allude a Filippo III. Ben sappiamo come la monarchia di Francia mantenesse le distanze di fronte agli abitanti della campagna, mentre quella di Spagna aveva con essi un rapporto più diretto, per le ragioni strategiche già dette. È perciò singolare che Lope abbia preso a soggetto un re del paese vicino, non eccessivamente amico, per svolgere un tema che potremmo definire nettamente «castigliano». Ma forse nella corte spagnola, per quanto alla mano superficialmente con il «villanaje», sarebbe stato difficile far rientrare un fatto tanto singolare come l'innalzamento di categoria sociale di Juan Labrador, promosso «mayordomo del rey», mentre il figlio è fatto cavaliere e la figlia viene riccamente dotata e se ne promettono nozze qualificate.

L'ambientazione della commedia doveva stupire il pubblico, tenuto conto delle poco amichevoli relazioni con i francesi -nonostante i vari matrimoni principeschi-, e la scarsa stima per la loro generosità; ma la condotta di Juan Labrador rientrava appieno nella linea che Lope aveva contribuito ad affermare: fedeltà e sottomissione alla monarchia, ubbidienza cieca al sovrano, dedizione assoluta a lui come a signore naturale dal quale tutto ha origine, compresa la propria situazione economica. Infatti, Juan, che celebra la sua condizione di contadino ricco, con grande disponibilità di terre, di animali e di lavoratori, non accampa diritti orgogliosi. La sua dedizione al re, che non ambisce di vedere, per cui, piccato e curioso, è lo stesso sovrano che va da lui sotto mentite spoglie, è più che confermata al non conosciuto personaggio. Alla domanda se sarebbe disposto a prestare danaro al sovrano, qualora richiesto, Juan Labrador risponde:


Cuanto tengo, aunque primero,
tres mil afrentas me hiciese;
—36→
que del señor soberano
es todo lo que tenemos.
Porque a nuestro rey debemos
la defensa de su mano.
El nos guarda y tiene en paz.25



È ribadita qui concretamente la relazione medievale suddito-signore. Non vi è trasgressione, ma è volontà solo di colui che tutto può che l'ordine venga mutato con la promozione sociale, ricompensa che solo un grande re può decidere, dopo che il suddito ha dimostrato di sapere rinunciare a tutto per il suo signore, ricchezza e figli, dando un grande esempio di fedeltà, anche se in qualche modo umanamente sofferto.

Non v'è dubbio, l'idilliaca atmosfera che domina la prima parte della commedia è rivoluzionata dalla comparsa e dalle richieste del re. La semplice felicità in cui viveva Juan Labrador è improvvisamente distrutta. L'intervento sovrano è pur sempre un intervento temibile, come tutto ciò che viene dalla società dominante, allorché entra in contatto con il mondo contadino. Se El villano en su rincón, ispirato certamente al Beatus ille oraziano e a fra Luis de Leon, ma anche a tutta una lunga tradizione ispanica rinascimentale, celebra la tranquillità, la bellezza, la positiva semplicità della vita rurale, il carattere e l'onestà del «labriego», il quale, come afferma Juan, si sente re nel suo spazio e non propenso a correre avventure pericolose, pone anche in rilievo   —37→   una sorta di situazione di rigetto della campagna per la corte. La filosofìa che domina i due mondi è fondamentalmente diversa: tesa alla conquista di ricchezza e di onori quella della corte, contenta di ciò che Dio, il re, le ha dato, quella del contadino. Juan ripudia l'avventura e la condanna, aderendo allo spirito della vita tranquilla a contatto con la natura:


Ríome del soldado,
que, como si tuviese
mil piernas y mil brazos, va a perdellos;
y el otro desdichado
que, como si no hubiese
bastante tierra, asiendo los cabellos
a la fortuna, y dellos
colgado el pensamiento,
los libres mares ara,
y aun en el mar no para,
que presume también beber el viento.
¡Ay Dios! ¡Qué gran locura,
buscar el hombre incierta sepultura!26



Fra Luis de León traspare chiaramente da questi versi27, si potrebbe dire carichi di presagio, se Lope doveva perdere il figlio, Carlos Félix, nel 1612, proprio in un naufragio sulle coste del Venezuela28.

  —38→  

El villano en su rincón, con l'eccezionale riscatto del ceto rurale, è soprattutto celebrazione della monarchia assoluta. In questa commedia veramente Lope de Vega se ne fa propagandista, arricchendo la sua esaltazione di simboli che dovevano sembrare magici allo spettatore, recati come erano da personaggi mascherati: uno scettro, una spada, uno specchio. Il re ne spiega il significato a Juan: lo scettro rappresenta il potere dato al re «para que a su imperio / esté sujeto el vasallo»; lo specchio è il re, «en que el reino se compone / para salir bien compuesto», avvertendo che il vassallo «que no se mira / en el rey», «sin concierto ha vivido» e «vive descompuesto»: il re è sole che arriva in ogni luogo; la spada è la giustizia che si esercita contro i cattivi. I musici danno voce alla celebrazione coinvolgendo il pubblico:


Como se alegra el suelo
cuando sale de rayos matizado
el sol en rojo velo,
así, viendo a su rey, está obligado
el vasallo obediente
adorando los rayos de su frente.29



E qui non è possibile, almeno per questa commedia, non dar ragione a Maravall quando afferma:

Sospecho que tan gran desarrollo del tema rural se produce en el teatro más que por motivos de interés hacia la economía agraria, por causas sociales de apoyo a la sociedad monárquico-señorial. [...] lo que se busca es incorporar al campesino [...] a la defensa del orden social vigente, haciendo comprender a todos, y,   —39→   por tanto, también a él mismo, el interés general que en ello existe y la fuerza de contención del sistema que el campesinado puede aportar. [...].30



Ma è anche fuor di dubbio che Lope aveva una chiara finalità di riscatto per il mondo contadino, dato dal suo amore per la solarità della natura e dalla saturazione del vivere a corte.



  —[40]→     —41→  

ArribaAbajo- 2 -

Donne nel teatro lopiano


Aubrun ha sostenuto che il teatro è una sorta di scuola per la gioventù, «l'initiation des jeunes gens au sortir de la puberté»31. Ciò spiegherebbe, allora, il grande successo dello spettacolo teatrale nella Spagna del Siglo de Oro e certamente appare interessante rilevare taluni aspetti più che mai «llamativos» in questo senso, come la presenza e il ruolo della figura femminile nel teatro lopiano, specchio di un mondo lontano nel tempo e di una condizione che oggi si può definire «arcaica»32. La lettura che mi propongo si limita a un piccolo   —42→   campione tra le molte commedie del grande drammaturgo nelle quali la donna è parte.

Lope, come si è visto, è considerato, ed è, il celebratore e propagandista della monarchia. In generale i sovrani che compaiono nelle sue commedie sono personaggi esemplari, restauratori dell'ordine e della giustizia, e tuttavia, almeno in un caso, proprio per l'attrazione del sesso, il personaggio esemplare finisce per contraddire il programma celebrativo, si presenta indegno della sua missione, quando la passione lo domina. E quanto avviene ne La estrella de Sevilla, uno dei drammi di maggior interesse e tensione del repertorio di Lope de Vega -sempre che il testo sia suo33-, centrato su un complicato gioco che coinvolge l'onore, la fonte stessa da cui promana la legittimità del sovrano, «Faccia di Dio», che irradia luce sui sudditi, del cui onore è difesa e conservazione.

Nel dramma famoso, invece, è proprio il re che insidia l'onore dei sudditi: preda dei sensi, egli si avvale del potere per raggiungere i suoi poco nobili fini, irradiando da sé un disonore che offende la sua stessa figura.

L'opera presenta momenti di grande interesse nell'ambito dei rapporti suddito-sovrano. Sorpreso nottetempo, mascherato, nella casa della donna che desidera -vi si è introdotto corrompendo col danaro una schiava-, e riconosciuto dal fratello di essa, il re si sente offeso per le dure allusioni al comportamento e ai doveri propri di un sovrano, se veramente egli fosse tale, come dichiara per trarsi dal pericolo. Una volta in salvo decide di vendicarsi di chi lo ha umiliato,   —43→   facendolo eliminare fisicamente. Diabolico nel suo disegno dispone che don Sancho, amico dell'incriminato, e innamorato corrisposto della sorella, Estrella, sia l'uccisore. Diviso tra l'amicizia, l'amore e l'ubbidienza dovuta al re, l'infelice sfida pretestuosamente a duello don Bustos e porta a compimento suo malgrado la missione.

Conflitto d'onore-amore-amicizia complicato, scatenato da un re traditore del ruolo che gli è proprio, dominato dalla passione e male consigliato. Il personaggio è don Sancho «el Bravo», sovrano di Castiglia34, che entrato in Siviglia è osannato dal popolo e dai nobili; egli passa in trionfo per le vie della città ed è improvvisamente colpito da una straordinaria bellezza, Estrella, detta per la sua avvenenza la «stella» di Siviglia.

A Lope, frequentatore della corte, non dovevano mancare esempi interessanti nelle vicende d'amore. Viaggiatori e memorialisti hanno diffuso particolari piccanti sui sovrani spagnoli dell'epoca. L'abate Bartaud nel Journal d'un voyage d'Espagne (1659) offre notizie curiose intorno alle avventure di Filippo IV, in un'occasione anche bastonato, con il conte-duca suo favorito, nel palazzo della duchessa di Veraguas, dove si era introdotto camuffato35. Particolare, confermato dalla contessa d'Aulnoy nella Relation du voyage d'Espagne, la quale afferma, però, che il re dimenticò presto la disavventura   —44→   e la duchessa, anzi fece «del duro lance objeto de risa»36. Suor María doveva certo avere un compito non facile, dal monastero della Purísima Concepción di Agreda, nel «reconvenir» il suo impenitente e illustre devoto, del quale era divenuta, come si suol dire, «paño de lágrimas».

Trama complicata quella de La estrella de Sevilla, opera di grande bellezza, di drammaticità in crescendo, fino al delitto, con un inevitabile, ma problematico, riscatto finale del sovrano, di fronte alla condotta di don Sancho, deciso a morire, pur di non rivelare il mandante del delitto. Profondamente scosso, il re confessa la sua colpa e chiede per sé la pena: «Sevilla, / matadme a mí que fui causa / desta muerte»37. Il che è sufficiente per don Sancho, il cui onore è salvo:


Sólo
ese descargo aguardaba
mi honor. El rey me mandó
matarle; que yo hazaña
tan fiera no cometiera
si el Rey no me lo mandase.38



Come rimedio al male causato, il sovrano pensa di unire in matrimonio i due alti esempi di virtù: la sorella dell'assassinato e l'assassino per obbedienza di vassallo. Finale sconcertante che Lope prospetta su un piano di tesa drammaticità, di strazio d'amore. Benché si amino, infatti, i due   —45→   si restituiscono la parola data. La donna dà, da parte sua, una severa lezione al sovrano:


Señor, no ha de ser mi esposo
hombre que a mi hermano mata,
aunque le quiero y le adoro.39



La grandezza morale dei personaggi colpisce il re e gli fa cogliere la dimensione della sua indegnità: «Toda esta gente me espanta»40. L'elogio della gente sivigliana è di rito; lo fa don Pedro: «Tiene esta gente Sevilla»41.

Il sovrano pensa che, comunque, sposerà i due convenientemente: il matrimonio è solida istituzione nella commedia lopiana. Ma la tragedia si è consumata: il potere ha creato infelicità. Una donna ha mostrato dignità nella sofferenza. Il dramma ha dato modo a Lope di scandagliare nel profondo l'animo umano e di denunciare, al disopra della tirannia dell'onore, l'infelicità della condizione femminile e al tempo stesso la grandezza del personaggio ritenuto debole per eccellenza.

Di fronte alla vicenda il pubblico doveva provare sentimenti grandemente contrastanti. Davanti ai suoi occhi cadeva un idolo, il re, ma se ne affermava un altro, la donna, entità alla quale già Cervantes nella Numancia aveva dato categoria eroica. Né rimaneva al di sotto Lope, allorché presentava le fiere donne di Fuenteovejuna. Ma qui i sovrani, nella fattispecie i Re Cattolici, erano coloro che «nuevas órdenes hacen» e «desórdenes quitan».

  —46→  

Di una vera e propria tragedia si deve parlare a proposito di un altro dramma, El castigo sin venganza, che pone tutta una serie di interrogativi. Lope lo terminò il primo agosto 1631 e solo il nove maggio 1632 ebbe licenza di rappresentarlo a Madrid. Nella «suelta» del 1634 il drammaturgo scrive che la tragedia fu rappresentata nella città solo un giorno, per ragioni sulle quali intende ostentatamente sorvolare: «por causas que a V. M. le importan poco». Egli afferma che proprio la brevità del periodo di programmazione «Dejó entonces tantos deseos de verla, que los he querido satisfacer con imprimirla»42.

Il ritardo nell'approvazione e il riferimento citato dell'autore, insieme al soggetto del dramma, hanno dato spazio a varie interpretazioni. L'amore del figlio del duca di Ferrara per la matrigna e l'uccisione di entrambi era un argomento che implicava, evidentemente, non pochi rischi, probabilmente perché, al di là del fatto morale in sé, richiamava fantasie nelle quali la monarchia era coinvolta. Dal fondo della memoria popolare vicende, vere o false, sulle quali si era esercitata l'immaginazione, dovevano riemergere: la morte del principe don Carlos, erede di Filippo II, la cui disgrazia, secondo voci, era stata causata dall'affetto, o amore?, per la giovane moglie del padre, Isabella di Valois; o forse vi erano stati fatti più recenti, dei quali non ci è giunta notizia; o potevano essere ravvisate allusioni alla condotta del pio-libertino re Filippo IV. Nulla di sicuro si può affermare; resta il mistero dell'immediata scomparsa del dramma dalla scena.

La narrativa italiana, sappiamo, è la fonte del dramma: si tratta della novella prima del Bandelle nella quale si racconta   —47→   di come Il marchese Niccolò terzo d'Este, trovato il figliuolo con la matrigna in adulterio, a tutti dui in un medesimo giorno fa tagliar il capo in Ferrara43. Pure di riferimento è l'episodio biblico del re Davide, offeso incestuosamente dal proprio figlio Amon, che viene ucciso dal fratello Assalonne, il quale a sua volta è ucciso da Toab per aver usato disonestamente delle concubine del padre44.

Su questi dati d'avvio Lope costruisce un dramma originale, di grande forza tragica. Vi sono iniziali scusanti e accuse finali; il duca di Ferrara è presentato nel primo atto come uomo di condotta libertina; egli sfrutta la condizione dominante per soddisfare nottetempo le sue passioni, incurante della dignità e dei doveri che incombono a un principe, il quale deve essere d'esempio per i sudditi. Il duca gode, infatti, di pessima fama, se la voce popolare, in questo caso rappresentata da una donna, denuncia pubblicamente le sue molte ribalderie, denunce che il personaggio ode, poiché si aggira di notte per la città onde perseguire i suoi bassi scopi.

Nel dramma Lope dipinge un quadro totalmente negativo del potente, peccatore impenitente anche nel momento in cui sta per sposare Casandra, per ottenere da lei un erede che eviti, alla sua morte, una successione bastarda nella persona del conte Federico -suo figlio, che pure ama- e che sconvolga l'ordine nel ducato. Mosso da contrastanti sentimenti, timoroso di perdere l'eredità dello stato, Federico va incontro alla sposa e matrigna con animo non certo sereno.

  —48→  

Ma presto, preso dalla sua bellezza e dalla sua grazia, se ne innamora perdutamente, dimenticando la cugina Aurora, sua promessa sposa, che corrisponde al suo amore. Il marchese di Mantova, che accompagna la sposa al duca, s'innamora a sua volta, senza successo, di Aurora e rimane figura secondaria nel dramma.

Le complicazioni amorose sono molte nell'opera: chi ama, come al solito non è corrisposto o è abbandonato, mentre chi non ama è amato. Lope ha abituato il suo pubblico a questi intrighi che danno vita alla scena. L'interesse maggiore di El castigo sin venganza sta nel dramma di Federico e di Casandra, la quale alla fine cede al corteggiamento del giovane. La partenza del duca per porsi alla guida delle armate della Chiesa contro i nemici del papa favorisce lo sviluppo della passione, che da parte della duchessa è anche reazione alla condotta libertina dello sposo, implicita giustificazione per la sua caduta.

Durante l'assenza del duca da Ferrara i due amanti vivono la loro stagione felice-infelice. Casandra, infatti, si sente colpevole di fronte a Dio e al marito, anche se cerca una giustificazione nella forza irresistibile dell'amore.

Nell'atto finale è la catastrofe: amore e morte. Tornato il duca dalla campagna vittoriosa, deciso ora a condurre - non si sa perché, forse per aver salvato la propria vita - un'esistenza da virtuoso e innamorato sposo, una denuncia anonima lo avverte della tresca tra la moglie e il figlio. La decisione è immediata: punirà duramente entrambi i colpevoli, ma senza che la vendetta divenga palese. Non è opportuno, infatti, che il potere soffra pubblica macchia; anche i consiglieri del principe sono di questo avviso. Perciò l'eliminazione dei colpevoli avviene con astuzia machiavellica. Il duca, approfittando dello svenimento della moglie la imbavaglia e la lega su di una sedia coprendola con un lenzuolo, poi fa credere a Federico   —49→   che sotto si celi un nobile venuto per ucciderlo e lo induce a eliminarlo.

La resistenza di Federico è subito vinta e il padre crudele assite al compiersi del delitto-castigo: la donna amata uccisa dal suo stesso amante. Dopo di che il duca chiama le guardie perché uccidano l'assassino. Alla domanda angosciata di Federico «¡Oh padre!, «¿Por qué me matan?», il duca non vacilla nell'appellarsi al tribunale di Dio. Il detentore del potere ha fatto giustizia senza sporcarsi le mani, ma la perfidia del suo disegno supera di gran lunga la colpa degli amanti. Lo spietato giustiziere è convinto di aver agito rettamente, a difesa del proprio onore, dello stato e a punizione del peccato. Non è, a suo parere, vendetta sul figlio, perché


No es tomarla
el castigar la justicia.
Valor sobra, y llanto falta.
Pagó la maldad que hizo
por heredarme.45



Finale truculento che nulla ha da invidiare ai drammi dell'onore di Calderón, ma che lascia perplessi. Tutti escono sconfitti e non v'è dubbio che gli spettatori dovevano rimanere scioccati. Lope presenta il fatto cruento come un castigo esemplare; lo richiede la ragion di stato, che, evidentemente, egli difende, come si coglie dal finale:


Aquí acaba,
senado, aquella tragedia
de El castigo sin venganza,
—50→
que, siendo en Italia asombro,
hoy es ejemplo en España.46



La donna è, nella tragedia, più che il conte, punto di riferimento. Ancora una volta la bellezza, la gentilezza, la nobiltà, la forza dell'amore si impongono all'attenzione del pubblico, e soprattutto la fatalità di un destino che della donna fa una vittima, dandole per la sua stessa sorte tragica un'aureola di poetica innocenza, malgrado tutto, di fronte alla «mostruosità della giustizia»47.

Di segno meno drammatico, come è noto, sono altre commedie di Lope nelle quali protagoniste di spicco sono le donne, tra esse La dama boba, El perro del hortelano, El acero de Madrid, La vengadora de las mujeres, Los melindres de Belisa, commedie nelle quali, per usare le parole del Ruiz Ramon,

asistimos, conducidos por los caminos más diversos, al triunfo del amor, que vence todos los obstáculos, salta todas las barreras, burla todas las normas, invalida todas las reglas, libera todas las potencias del individuo -inteligencia, voluntad, instinto, ingenio, fantasía-, exalta la totalidad del vivir personal. [...] un mundo donde todo acaba bien, porque tal es la voluntad de su creador. Voluntad puesta al servicio de la ilusión, que, sin evadirse de la esencia problemática del vivir del hombre, captado en su inmediatez, mediante el reflejo estético de la realidad cotidiana, descubre todas las salidas que el ser humano, apresado en su tiempo, tiene hacia el reino de la felicidad.48



  —51→  

Al di là della pura vicenda, se si prendono in esame le commedie citate, troviamo in esse costanti che immettono direttamente nelle strutture della società dell'epoca e nelle sue regole. Colpisce, anzitutto, nel teatro di Lope, la scarsa presenza della figura della madre. Relegata a un posto di grande rispetto, ma secondario nella vita pubblica, essa non è quasi mai protagonista, compare raramente, e quando compare, come nella commedia Los melindres de Belisa, non è un grande personaggio. Non va dimenticata la natura pronunciatamente maschilista della società spagnola, e non solo spagnola, dell'epoca.

Ma le donne sono importanti nel teatro lopiano, come lo sono nella vita, e agitano la scena con la loro gioventù e grazia, i loro intrighi nell'età di marito. Accasatesi, cessano di avere rilevanza e la riacquistano solo quando infrangono la norma, danno luogo alla trasgressione, o allorché, rimaste vedove, avvenenti e ricche, sono preda appetibile, in genere da parte di gentiluomini alla caccia di dote.

Le commedie del «Fénix» risuonano di dialoghi femminili, di appassionato argomentare d'amore. Le giovani in attesa di marito si agitano vivaci, ordiscono mille intrighi, mostrano furbizia e sono sempre bellissime. Predestinate dal padre, unico capo visibile e dispotico della famiglia, a un matrimonio di convenienza -scarico di responsabilità per il genitore-, senza amore, si ingegnano per fare che ciò non avvenga e alla fine trionfi tra i pretendenti la scelta personale.

Nelle infinite vicende, nei complicati «lances», il genitore, normalmente vecchio, non fa mai una bella figura. Dovrebbe rappresentare la saggezza, custodendo il buon nome della famiglia, l'onorabilità delle figlie, ma è costantemente raggirato, si mostra ingenuo, non ha dimensione, non conosce minimamente l'animo femminile, si disorienta di fronte ad accadimenti dei quali non coglie il senso, a pretendenti ora   —52→   in grazia, ora in disgrazia. E questi ultimi appaiono talvolta intelligenti, spesso ottusi, vincitori, quando lo sono, nella battaglia d'amore, non per merito proprio, il più delle volte burlati dalla furbizia delle donne. L'amore, infatti, sembra affermare Lope, se risveglia l'acume femminile ed è capace persino di far diventare intelligente una ritardata, come avviene ne La dama boba, istupidisce l'uomo, che diviene un fantoccio in balia di giovani bellezze scoppiettanti.

Svegli sono i servi, taluni con funzione di contrappunto umoristico, il noto gracioso, che alleggerisce la commedia con le sue trovate, spesso prestandosi a travestimenti che suscitano ilarità nel pubblico, camuffandosi da dottore astruso latinoparlante, come in El acero de Madrid, o talvolta da donna. Un personaggio non fine, anzi spesso rozzo, ma dotato di intelligenza sveglia, di molta furbizia, un tipo che capisce al volo le situazioni e interviene in modo deciso e abile nelle vicende di cuore del padrone per condurle al fine desiderato49.

Dalla parte delle donne stanno le cameriere, compagne inseparabili delle giovani, che aiutano a superare le difficoltà in perfetta armonia, come se raggirare gli uomini fosse un esercizio nel quale si esalta la loro femminilità. Di contro sta uno spauracchio, la dueña, non di rado una zia nubile e beghina, tutta chiesa e formalismi, «cancerbero» costantemente inutile, perché la donna innamorata riesce a burlare ogni sorveglianza, a spezzare ogni catena.

  —53→  

Nel teatro lopiano la dueña costituisce una sorta di macchia nera e tragica: un vade retro spaventoso: fratescamente vestita, abbondante di scapolari, impermeabilizzata fino al collo nell'abito cupo, scostante anche per carattere. Il suo destino è quello della sconfìtta, della beffa non di rado crudele da parte dei corteggiatori delle giovani bellezze, i quali trovano amici compiacenti che si prestano a far vacillare tali monumenti di virtù, non insensibili, alla fin fine, all'amore, ma destinati alla frustrazione.

Da tutto ciò viene, nelle commedie di Lope, un quadro curioso e interessante della vita della donna, dove tutto si svolge nell'ambito dell'istinto, anche se non è infrequente imbattersi in giovani colte, amanti del discorso sottile, dotate di un'istruzione eccezionale, per l'epoca, anche tra le classi alte, quasi sempre poste in caricatura dal drammaturgo, pur celebratore nella sua poesia di intelligenze femminili, come la nota e tuttora misteriosa Amarilis peruviana. Nel suo teatro, tuttavia, se eccettuiamo la dueña, Lope rifugge da tipi di donna che, forse per reazione, abbonderanno in seguito: personaggi femminili dal carattere duro, che la Bravo-Villasante definisce «damas ariscas y de fuerte condición, marimachos intratables, rebeldes y con vocación guerrera», le quali, «nacidas bajo el recuerdo de las amazonas y las creaciones italianas, sobrepasan en crueldad y salvajismo a sus modelos»50.

La concezione della donna era legata in Lope de Vega ad esperienze di ben altro segno, a una costante attrazione di bellezza e d'intelligenza. Per tal modo il suo teatro è una galleria viva di attraenti personaggi femminili, nei quali non ci si stanca   —54→   di ammirare l'agilità inventiva. In El acero de Madrid questa categoria si esalta, e non senza giustificazione Molière si ispirò, com'è noto, alla commedia lopiana per L'école des femmes e Le médicin malgré lui. Il gioco degli innamorati per burlare la sorveglianza della dueña è ordito, nella commedia di Lope, da un servo sveglio, che si fìnge medico, con esiti umoristici notevolissimi. Di fronte sta una donna, Belisa, non solo giovane e bella, ma intelligente e attiva, che supera ogni ostacolo: si finge malata, sviene per farsi abbracciare dallo spasimante, si prende gioco della sua sorvegliante, condotta crudelmente da un amico compiacente del pretendente sulla via impervia dell'amore per burla.

Passione e gelosia si alleano in El acero de Madrid -opera, sembra, risalente al 161051- e danno alla commedia vita intensa. Il vecchio padre della fanciulla, Prudencio, più ottuso e «prudente» non potrebbe essere, e più scornato, anche se alla fine raggiunge dignitosamente il suo scopo: quello di liberarsi della figlia accasandola, ma secondo il piacere di questa. Ciò che più spicca nell'opera è la grazia «pizpireta» di Belisa, «chorro» inesauribile di freschezza.

Lope esalta in questo modo l'amore, un amore onesto, fatto di sentimenti puri, ma non asettico, anzi ben attento a quanto di concreto rappresenta il corpo. Una commedia che ha conservato vitalità e grazia attraverso il tempo, come del resto viva e dinamica è La dama boba, -risale al 161352- grazie all'intraprendenza di Finea, la dama «sciocca», che l'amore trasforma in assennata e intelligente, che bella lo era.

  —55→  

L'autore fonda il dramma sulla diversità di due sorelle, Finea e Nise, ritardata l'una, singolarmente intelligente e colta l'altra, una sorta di «preziosa», ma non «ridicola», anche se poco simpatica e certamente poco caritatevole verso la consanguinea «boba».

Anche in questa commedia il matrimonio appare come uno scarico di responsabilità per il genitore, sistemazione onesta per la donna, e per i pretendenti in genere cosa corrente, spesso resa interessante più che dalla bellezza della ragazza dalla dote che l'accompagna. La fanciulla «sciocca», in questo caso è riccamente dotata, proprio per la sua condizione naturale, che ne svilisce la bellezza e mette in fuga gli uomini. Nise ha minori sostanze, poiché, oltre a essere bella, è ricca intellettualmente. Ma i casi della vita sono spesso strani e avviene che il promesso sposo della «ritardata», dopo una continua altalena, dovuta alle finzioni della fanciulla, ora risanata, ora ricaduta, finisca per orientare la sua attenzione su Nise, mentre il promesso sposo di questa, che mira a riconquistare una posizione economica perduta, si rivolge alla «boba» che, nel frattempo, sotto l'effetto dell'amore è divenuta saggia e tanto che con abile gioco abbindola tutti, compreso il padre, per sposare l'uomo che ama.

Dopo una serie di qui pro quo, di fatti intricati, di situazioni umoristiche e di finti drammi, la soluzione è come sempre il matrimonio. Con il che il padre delle due giovani trova pace, posta al sicuro sotto la responsabilità dei consorti la condotta delle due figlie, ipocritamente convinto che «virtud y honestidad» siano «partes perfetas» di una sposa, la cui massima realizzazione consisterebbe


en amar y servir a su marido,
en vivir recogida y recatada,
honesta en el hablar y en el vestido;
—56→
en ser de la familia respetada,
en retirar la vista y el oído,
en enseñar los hijos cuidadosa,
preciada más de limpia que de hermosa.53



Ritratto efficace della «perfecta casada», come avrebbe voluto fra Luis de León. Sposata, la donna non può essere protagonista altro che di virtù domestiche, mentre l'uomo continuerà ad agitarsi sul palcoscenico della vita, ad essere attivo nel gran teatro del mondo. Una breve stagione, quella riservata alla gioventù femminile, e una lunga epoca di «virtú» per la donna sposata, allietata solo dalla maternità.

In un caso, come detto, la donna già sposa torna da protagonista nel mondo: quando vedova, senza figli, padrona di un nome risonante e di ricche sostanze. Di nuovo diviene allora motivo d'attrazione per l'altro sesso, preda appetibile, ma più complicata da raggiungere, perché ha acquisito un'altra maturità, ha dismesso i panni dell'ingenua fanciulla. Lo si vede ne El perro del hortelano, commedia risalente al periodo 1613-161654, condotta su un tema semplice, anche se le complicazioni secondarie sono molte e tali da mantenere sempre desta l'attenzione dello spettatore.

La protagonista, Diana, contessa di Belfior, è donna di rara bellezza e vedova ricchissima, corteggiata da due pretendenti di rango, anch'essi ricchi, il conte Federico e il marchese Ricardo. Ma la capricciosa dama, appreso che il suo segretario, Teodoro, un bel giovanotto, se l'intende con la sua camerista, Marcela, se ne innamora e lo vuole per sé. Senonché, non essendo egli nobile, unirsi a lui con il vincolo matrimoniale   —57→   non è possibile, perché infamerebbe il nome della dama. Alla fine, comunque, tutto si sistema per merito del servo del giovanotto, il quale diffonde la voce che il suo padrone è il figlio del conte Ludovico, finalmente ritrovato dopo che i turchi lo avevano rapito bambino. Una situazione dubbia, diffìcile da provare, ma che conviene alla donna innamorata, la quale può fare di Teodoro il suo sposo.

Burlati restano questa volta i due pretendenti titolati, brave persone, si sarebbe tentati di dire, se non avessero cercato persino di far uccidere il rivale, che ora, scoperta la sua presunta origine nobile, sono presti ad accettare offrendogli i loro servigi. In realtà la vera vittima, se si vuole, è la povera Marcela, la cameriera, sballottata tra i va e vieni dell'amore e del disamore di Teodoro, a seconda della mutevole corrispondenza della contessa, innamorata combattuta e capricciosa. Alla fine anche Marcela si consola con facilità e sposa Fabio. Ma cos'è questo amore, verrebbe da chiedersi. Come sempre tutto finisce in gloria. Dalle pene amorose ci si consola presto e lo scambio di partners è rapido, poiché ciò che importa è il matrimonio.

Il valore de El perro del hortelano non sta solo nella vivacità della trama, ma nel fatto che ancora una volta Lope de Vega sottolinea il dramma della differenza di classe nella società in cui vive55. Scavalcare le barriere sociali verso il basso era più che un delitto: significava la perdita di ogni rispettabilità, del buon nome e quindi l'emarginazione, soprattutto per una dama. L'amore non poteva trovare legittimità che entro la classe di appartenenza; la trasgressione era negata, a meno che si trattasse, per i maschi, di avventure passeggere, ma le donne, neppure in teatro potevano permettersele.   —58→   Lope sapeva bene, tuttavia, che l'amore non rispetta barriere. D'altra parte egli viveva in una società rigida56, né poteva sottrarsi alle sue regole: di qui l'escamotage al quale ho fatto riferimento e che del resto accentua l'interesse della commedia, inserendola nel clima dell'inatteso. Domina, in ogni caso, la figura di Diana, donna vivace e «coqueta», dalla sua condizione privilegiata padrona assoluta di sé, ma non quando si tratta dell'amore, che qui nasce prima dal capriccio, per divenire poi passione esclusiva che, se impossibile da soddisfare, non ammette che altri ne fruisca.

Delude invece il giovanotto conteso; Teodoro è un tipo piuttosto incolore -ma nel teatro lopiano quasi tutti gli uomini lo sono-, mutevole nei sentimenti, presto a innamorarsi della donna di alta condizione, vale a dire di un allettante «imposible». Tutta l'attenzione nella commedia, oltre che da Diana, è richiamata dall'azione del servo, il quale con «picardía» e acume riporta ordine nel disordine, badando inoltre -i servi appaiono sempre famelici nel teatro- a trarre concreto profitto da ogni occasione, escludendo tuttavia dall'operazione utilitaristica il padrone, cui va da parte del servo-confidente fedeltà, affetto e protezione.

Ancora un particolare sottolinea la rigidità della divisione di classe e la diversa condizione tra uomo e donna nel dramma lopiano: quando Teodoro entra nella categoria del nobile per nascita aderisce immediatamente alla norma. Infatti, di fronte alle insinuazioni di Diana circa le sue relazioni con la cameriera, risponde altezzoso: «No nos solemos bajar / los señores a querer / a las criadas»57. E alla bella dama ormai   —59→   sua dichiara dispotico: «Está ya el juego trocado, / y soy yo el señor agora»58, con tutto ciò che questa rivendicazione di ruolo significa nel matrimonio. La ricca e bella contessa di Belfior corona per tal modo il suo sogno d'amore, ma cessa di essere protagonista della propria vita. In fondo lo era stata solo per una breve parentesi, da vedova; ora, nuovamente sposata, ritornerà nell'ombra. La movimentata commedia di cui era stata motore primo si acquieta nella monotonia del rapporto domestico59.

Conoscitore profondo dell'animo e della condizione femminile, Lope non esita a denunciare, con estrema abilità, le storture di una società retta dal pregiudizio e dal privilegio, ma quanto al suo «femminismo», esso si concreta piuttosto nell'ammirazione per il sesso gentile, per la bellezza della donna. Lo dimostra chiaramente nella commedia La vengadora de las mujeres, opera probabilmente scritta tra il 1617 e il 162060, che egli stesso raccoglie nel 1621 nella Parte XV dei suoi drammi e che il Sainz de Robles giudica «lindísima comedia de costumbres, llena de gracia, de picardía, de sentimiento, de interés humano», perfetta per struttura, con caratteri «desenvueltos con pericia de gran psicólogo»61.

Non v'è dubbio, commedia interessante, anche se l'entusiasmo del critico spagnolo pare eccessivo. E tuttavia, l'opera è significativa proprio per cogliere la posizione di Lope di fronte al problema femminile principe, quello del matrimonio.

  —60→  

Già nella dedica alla «señora Fenisa Camila» l'intendimento del drammaturgo è manifesto e sta, nella sostanza, nell'incitamento alla dama a non disprezzare tanto gli ammiratori del momento, «Porque V. M. podría aguardar a tiempo que los mismos de quien ahora se burla se burlasen de ella»62. Nella commedia la protagonista, Laura, una principessa intellettuale, resiste alle insistenze del fratello perché si sposi, decisa a vendicarsi degli uomini, che a suo parere si sono impossessati di tutto, lasciando un ruolo insignificante alla donna:


Desde el principio del mundo
se han hecho tiranos grandes
de nuestro honor y albedrío,
quitándonos las ciudades,
la plata, el oro, el dinero,
el gobierno, sin que baste
razón, justicia ni ley
propuesta de nuestra parte;
ellos estudian y tienen
en las Universidades
lauros y grados; en fin,
estudian todas las artes.63



Con tale predominio appare giustificata, secondo Laura, la rivolta delle donne e quindi, come dichiara al fratello, la sua decisione di vendicarle:


Pues ¿de qué se queja el hombre
de que la mujer le engañe?
Si otra ciencia no le queda,
—61→
en todas las que ella sabe,
la mujer es imposible
que adquiera, tenga ni guarde
hacienda abogando pleitos
ni curando enfermedades.
Pues en algo está mujer,
si está ociosa, ha de ocuparse.
Dirán que en hacer labor;
no es ocupación bastante,
porque el libre entendimiento
vuela por todas las partes,
y no es el hacer vainillas
en holandas ni cambrayes
oscura filosofía;
ni el almohadilla lugares
de Platón ni de Porfirio;
ni son las randas y encajes
los párrafos de las leyes.
En fin, para no cansarte,
yo quiero vengar, si puedo,
agravios, de aquí adelante,
de mujeres, pues lo soy,
y que este nombre me llamen.64



Con meno nobili e sofferti accenti, sembrerebbe un discorso rivendicativo della donna alla libertà dell'accesso alla cultura precursore di quello di suor Juana nella Respuesta a Sor Filotea de la Cruz. Ma il fine della vendetta rende meno nobile la rivolta, che poi si riduce, con argomentazioni filosofiche complicate -chissà come le avrà accolte il pubblico- a indurre le amiche-allieve a rifiutare l'amore. Lope, tuttavia, ha come finalità reale della sua commedia di rappresentare la   —62→   vittoria proprio dell'amore. Da Laura alle altre protagoniste l'amore alla fine le vince ed esse sono felici. Dichiara in chiusura di dramma la «vendicatrice» sconfìtta dall'amore:


Yo me he rendido, Senado;
y pues vivir no es posible
sin los hombres, yo me caso;
no pierde La vengadora
de las mujeres, pues tanto
como aborrecerlos quise,
tanto los estimo y amo.65



Da commedia «femminista» La vengadora de las mujeres si rivela celebrativa della imprescindibilità dell'uomo per la donna. La resa della vengadora è senza condizioni, poiché nessuna femmina, per Lope, resiste all'attrattiva del sesso. Lo ribadisce anche nella finissima commedia Los melindres de Belisa, dramma anteriore al 1617, anno in cui Lope lo include nella Parte LX delle sue opere teatrali.

Belisa è una creazione straordinaria, una giovane donna dominata da infinite fissazioni, efficacemente «smorfiosa» senza perdere attrazione, ricca e nobile. Essa vive in una casa dove nessuno comanda, con un fratello scioperato e una madre, danarosa di suo, che non ne può più dei «melindres» della figlia e delle imprese del figlio, superficiale, spendaccione e donnaiolo.

La non più giovane vedova intrawede improvvisamente una possibile evasione alla sua pesante situazione nell'amore per un presunto e gagliardo schiavo, arrivato in casa insieme a una finta schiava mora, la fidanzata, in seguito a una riscossione legale di crediti. Ma del finto schiavo, che fugge dalla giustizia   —63→   per aver ferito, ritiene a morte, un gentiluomo, s'innamora anche Belisa, mentre il fratello, don Juan, va pazzo per la schiava. Una complicazione notevole di fatti, un intreccio di situazioni in più di un caso irreali, ma ciò sulla scena contava poco. Ed è qui dove la madre viene posta impietosamente dalla figlia gelosa davanti alla realtà della sua condizione fisica; nella ventiduesima scena del terzo atto, la poco caritatevole fanciulla le rinfaccia il ridicolo della vecchiaia nelle cose d'amore: se l'amato è vecchio «juntaréis allí / dos sierras heladas», e se giovane «Haránle su Adonis / diosas de Madrid».

Come sempre nel teatro lopiano la commedia conclude sbrigativamente: Belisa sposa il vecchio pretendente e i due fìnti schiavi si uniscono. Finale scontato, ma tutta la commedia è un vero divertimento, e Lope ancora una volta si presenta custode dei buoni costumi, negando, proprio lui, la possibilità di innaturali fioriture d'amore per chi ha perduto il verdore della giovinezza.

Altri esempi numerosi possono essere tratti dal «maremagnum» della commedia lopiana, ma quanto illustrato è già prova efficace della rilevanza che la donna ha nel teatro di Lope e delle idee che intorno ad essa aveva il grande drammaturgo66.



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