—[64]→ —65→
A lungo Lope de Vega con il suo teatro esercita influenza sui drammaturghi contemporanei, spesso di grande livello. Durante il suo esilio a Valencia, dove fu accolto con entusiasmo, egli fu venerato come un maestro da personaggi come Guillén de Castro. Il suo modo di far commedia si impose, e così si imposero le sue tematiche, ma i nuovi drammaturghi ne affrontarono altre non di rado di maggior spessore, rese attuali dalla Controriforma.
Una serie di drammi, infatti, sviluppa il tema del libero arbitrio, della colpa e della salvezza attraverso la fede e la volontà, si sofferma sull'opera negativa del demonio e sul potere redentore del pentimento. Lo si vede in El esclavo del demonio, di Mira de Amescua, e in El condenado por desconfiado, di Tirso de Molina, ma anche ne El burlador de Sevilla, dello stesso Tirso, opere che interpretano nel profondo l'anima ispanica e diffondono la fede nel riscatto finale o quando meno nell'immancabilità della punizione divina.
Mira de Amescua (1574?-1644), sappiamo, fu cappellano a Granada, poi segui in Italia il conte di Lemos. Egli trattò il tema storico, in commedie come La desgraciada Raquel, centrata sugli amori di Alfonso VIII e di un'ebrea di Toledo, di costume, come in Galán, valiente y discreto, e fu inoltre autore di vari autos sacramentales, annunciando in essi procedimenti che poi avrebbe sviluppato originalmente Calderón —66→ de la Barca. Versificatore straordinario, padrone della scena, ancor oggi i suoi drammi esercitano attrazione sul lettore.
El esclavo del demonio
-l'opera fu pubblicata a Barcellona nel 1612, nella Tercera parte de las comedias de Lope
de Vega y otros autores67-
presenta eccezionale dinamismo. Le passioni si sviluppano in
crescendo, dando al dramma una tensione che si manifesta attraverso
un linguaggio di grande vigore espressivo, si direbbe sanguigno,
carico come di un interno furore, forse dovuto, come avanza il
Valbuena Prat, al carattere stesso dell'autore, personaggio
impulsivo68.
Si tratta, come riconosce il critico citato, di una delle «más desgarradas comedias de la
rebeldía»
, dove «queda planteada la gran lucha entre dos fuerzas en el
Siglo de Oro»
69,
quella demoniaca e quella divina.
Nel dramma rivive la leggenda di don Gil de Portugal, che da penitente si fa bandito e infine diviene santo. Diverse sono nell'opera di Mira de Amescua le incogruenze, ma occorre attendere dettagliatamente alla trama per comprendere il successo dell'opera, più volte imitata. Lo spettatore, evidentemente, non coglieva le incongruenze, o non gli importavano, affascinato dalla vicenda, dall'azione tumultuosa del protagonista, divenuto peccatore senza scrupoli e che, dopo aver agitato il suo spirito, finiva per salvarsi. Passava sopra anche al fatto che la salvezza fosse un fatto scontato, se si trattava di un santo: comunque andassero le cose tutto sarebbe finito per il meglio. La lotta del demonio con Dio era destinata alla sconfitta del primo. L'interesse principale del —67→ dramma stava, perciò, nella vicenda criminale, nelle scelleratezze compiute dal personaggio, un convertito alla rovescia, che firma un patto con il demonio.
Lo spettatore era attratto sicuramente da personaggi di vigorosa personalità inedita, nel bene e nel male, maschili e femminili. Una donna decisa a peccare come Lisarda, offesa nei sentimenti -il suo violentatore affermava falsamente che il suo stesso innamorato l'aveva indotto a sostituirsi a lui-, non s'era vista prima sulla scena spagnola. La povera Melibea della Celestina -cui vien fatto subito di pensare per la somiglianza della scena in cui l'amante si accinge a raggiungere il suo balcone- è solo un pallido riferimento.
Nel dramma la passione ribolle con forza singolare. Mira de Amescua è un interprete eccezionale degli istinti più violenti e don Gil un malvagio compiuto. La sua trasformazione è repentina; tentato dall'occasione che gli si offre, preso dalla bellezza della giovane, si getta a capofitto nel peccato, pregustando appagamenti concreti:
|
Ma si sa, sulla via della santità molte sono le tentazioni. Il pubblico non doveva avere difficoltà ad ammetterlo. Inoltre, nel castigato conformismo ispanico i suggerimenti peccaminosi non dovevano dispiacere.
—68→Una volta messosi sulla via del peccato, il singolare personaggio, prima consigliere morale, diverrà bandito, ruberà, ucciderà e violenterà. Stretto un patto con il demonio egli diviene un perfetto malfattore, un uomo perduto. A lui si unisce, suo malgrado, l'offesa Lizarda, per compiere criminali imprese. La donna è qui interpretata secondo il radicato cliché della tentatrice, responsabile del peccato. Nella scena decima del primo atto don Gil le dà concretamente colpa della sua caduta e come per punirla la trattiene presso di sé, immettendola a forza nel suo programma di violenza. Dichiara:
|
Liberata in tal modo la propria coscienza, il personaggio fa professione addirittura furiosa di peccato:
|
Come dire che il virtuoso, quando lascia la retta via è peggio del malvagio. Nel passo citato si afferma, inoltre -e fa parte del «sermone» di rito-, la sfiducia nel pentimento e nel perdono divino.
Quanto a Lisarda è un personaggio tormentato e tutto si volge contro di lei. La sua tendenza non la porta a essere malvagia, ma le circostanze, e soprattutto il risentimento e l'esempio di don Gil, la influenzano. In realtà è una vittima delle circostanze e della lussuria degli uomini; non intraprende la sua «carriera» di peccatrice con la decisione dissennata dell'ex penitente, ma trascinata suo malgrado e sente profondo il rimpianto per il mondo di purezza e di affetti che abbandona:
|
Accenti toccanti, alquanto sminuiti dalla considerazione finale, ma sempre di sicuro richiamo. Di fronte a questi rimpianti don Gil ribadisce l'irrimediabilità della dannazione:
—70→
|
Convinto della colpa, sfiduciato in Dio, si direbbe a questo punto che il peccato sia ormai una sorta di travolgente sfogo per don Gil. Lizarda, per quante dichiarazioni bellicose faccia non perde un certo ritegno, proprio della donna, così come non perde il rispetto per la divinità. Se anche lei è disposta a stringere un patto con il demonio, pur di uccidere l'ex innamorato, che ritiene traditore, e di vendicarsi del par dre, che stima ingiusto, si rifiuta, tuttavia, di coinvolgere il rispetto per la Vergine. La grande devozione mariana che nella Spagna ha una radicata tradizione e tanto che il culto per Maria varca l'oceano con la conquista dell'America -si veda anche la toponomastica americana-, non ammetteva offesa. Ausiliatrice costante, la Vergine continua a essere per Lisarda rifugio ultimo ed è questo suo atteggiamento che fa della «facinerosa» un essere delicato pur nel delitto. La giovane, infatti, continua a sentirsi coinvolta suo malgrado nell'atmosfera violenta, alla quale pure dà il suo contributo.
Dimensione tenera del personaggio e drammatica, che prepara lo spettatore all'improvviso riscatto, quando Lisarda ha di fronte Lísida, nel cui destino vede riflessa la propria sventura, e la miseria di Arsindo, per aiutare il quale gli si offre come schiava, sfigurato il volto, affinché la possa vendere per i fatidici trenta denari, somma del tradimento di Giuda, giusto —71→ riscatto per la peccatrice. E Arsindo, benché contro voglia, la venderà proprio al padre della giovane, e nella sua casa sarà maltrattata dai servi e troverà santa morte.
Anche don Gil finisce, tuttavia, per pentirsi: quando il demonio, al quale ha venduto l'anima pur di venire in possesso di Leonor, sorella di Lisarda, gli consegna una fìnta sembianza femminile, che spogliata del mantello che la ricopre si rivela uno scheletro, la morte. E questo il momento in cui il diavolo riacquista il suo vero aspetto, tra scoppio di razzi e spari d'archibugio; momento in cui don Gil rinsavisce e si pente, ritrovando quella fiducia in Dio che aveva perduta, ma sentendosi indegno di implorarlo si affida all'«Ángel de la guarda» perché interceda per lui.
Recita il detto popolare che ogni istrione ha la sua devozione. Anche don Gil aveva la sua: pur ripudiando Dio non aveva mai ripudiato l'angelo protettore e ora può rivolgersi a lui con fiducia. In una scena ricorrente nella tradizione cristiana, e ispanica -si pensi ai Milagros de Nuestra Señora, di Berceo75-, angeli lottano in cielo contro i demoni e la vittoria non può essere che dei primi, così che il riscatto del peccatore è cosa fatta. Naturalmente il pentimento sarà totale, pieno.
Chiude il terzo atto un monologo di don Gil ragionevolmente lungo, dove tutto viene chiarito: la colpa del protagonista, l'innocenza del povero don Diego, amante di Lisarda, quella stessa di costei, vittima che la morte rende santa. Nella scena ventesima dell'atto finale, infatti, Lisarda è presentata, quasi preannuncio di atmosfere romantiche, «con música, —72→ muerta, de rodillas, con un Cristo y una calavera, en el jardín». Come potesse stare in quella posizione la donna, morta e in ginocchio, reggendo al tempo stesso un crocifìsso e un teschio, sono situazioni che solo nella sbrigatività del teatro edificante trovano posto. E difficile da spiegare è anche che il pentito don Gil non riceva pena alcuna ed esca dalla scena come si suol dire «sin mayores consecuencias». Ma il pubblico, preso dal contenuto, non doveva farsi troppi problemi. Il Ruiz Ramón ha criticato duramente il dramma e sottolineato in esso le incongruenze e soprattutto la qualità granguignolesca dei personaggi76, per concludere che la soluzione della vicenda non potrebbe essere più ingenua dal punto di vista drammatico. Egli scrive:
Más que nunca queda manifiesta la condición ancilar de la categoría estrictamente dramática. Mira de Amescua ha escrito una fábula teológica ejemplar, rica como tal fábula, pero no ha conseguido, o no se ha propuesto, convertirla en drama, valioso no por su contenido teológico, sino por su esencial «dramaticidad».77 |
Si deve convenire con il critico, ma, a distanza di secoli, è proprio il contenuto che mantiene intatto il suo incanto, reso dalla musicalità del dettato lirico, né dispiacciono alla fine, al lettore moderno, neppure le ingenuità presenti nell'opera, come non dovevano dispiacere allo spettatore dell'epoca. El esclavo del demonio è comunque specchio di una mentalità, di una società nella quale il problema dibattuto era sentito.
Attento al
contenuto, Valbuena Prat, uno dei più attenti studiosi del
dramma, ha dato un giudizio completamente diverso
—73→
da quello del Ruiz Ramón. Egli ha sostenuto che don
Gil non è solamente un pretesto per la teoria molinista
della grazia78,
o un eco della leggenda desunta dagli storici sacri, ma «un tipo lleno de vida,
de pasiones, de humanidad»
, e Angelio, il
suo Mefìstofele, è una delle prime rappresentazioni
del demonio nel teatro spagnolo. Lisarda, poi, è «un carácter
femenino de primer orden; alma impetuosa y ardiente hasta la locura
y el heroismo»
, mentre la sorella Leonor
rappresenta la psicologia di «cierta
gazmoñería y frivolidad coqueta, bajo su aparente
virtud»
79.
Lo studioso segnala poi quali punti di rilevante bellezza la scena
in cui si scopre il carattere ribelle di Lisarda, la tentazione e
la caduta di don Gil, i dialoghi di Angelio con il protagonista, il
pentimento della stessa Lisarda e la sua abnegazione, la delusione
di don Gil davanti alla morte..., per concludere:
La emoción que rebosa todo el drama, la aguda intuición psicológica del autor, que produce, de un lado, las vigorosas personalidades de don Gil y Lisarda, él egocéntrico, ella pletórica de pasión y humanidad; sus analizadas situaciones en que se resuelven los hechos a simple vista contradictorios, de sus vidas extraordinarias, y de otro todos los tipos, hasta los más episódicos, que poseen una inconfundible vitalidad; la versificación —74→ vibrante y sonora, y la acumulada y compleja originalidad de la acción -en el momento en que fue ideada- explican su éxito y su influencia. Creó la obra un tipo de «comedia de santos» que, salvo algunos ejemplos de Lope, por otra parte diversos, superaba el drama sacro existente. Por esto una extensa zona de teatro religioso guarda relación más o menos destacada con El esclavo del demonio.80 |
L'entusiasmo del Valbuena è forse eccessivo, ma non si può disconoscere il valore del dramma. Un gran scenario funebre lo conclude; la scena diciannovesima dell'atto finale presenta infatti don Gil «con un saco de penitencia, una soga a la garganta», teso a denunciare se stesso e a discolpare gli innocenti. Di fronte al futuro re del Portogallo egli dichiara:
La confusione dei presenti è grande. Il principe cerca invano di trattenere don Gil, che si avvia a riprendere la sua vita di penitenza, interrotta dalla lunga parentesi di forsennato —76→ peccatore. Pone fine al dramma, come s'è detto, nella ventesima scena, la visione di Lisarda morta. Il suo cadavere viene coperto e portato via «en hombros». La colpa è stata redenta dalla fede ritrovata.
Il tema che Tirso de Molina tratta nel dramma El condenado por desconfiado è quello della predestinazione, del libero arbitrio, ma, come ha riconosciuto il Menéndez Pidal, il testo ha un grande significato morale81. Il Menéndez y Pelavo aveva sottolineato nell'opera, con la preparazione teologica dell'autore -prova convincente della paternità di Tirso-, la singolarità dell'ispirazione:
Sólo de la conjunción de un gran teólogo y un gran poeta en la misma persona pudo nacer este drama único, en que ni la libertad poética empece a la severa precisión dramática, ni el rigor de la doctrina produce arideces y corta alas a la inspiración, sino que el concepto dramático y el concepto trascendental parece que se funden en uno solo, de tal modo que no queda nada en la doctrina que no se transforme en poesía ni queda nada en la poesía que no esté orgánicamente informado por la doctrina.82 |
Non si conosce l'anno esatto della composizione del dramma che, come leggenda devota, rientra nel genere delle commedie religiose. Si può tuttavia ritenere, secondo alcuni studiosi, che El condenado por desconfiado sia stato scritto verso la metà del 1620, nel periodo in cui Tirso risiedeva a Salamanca, dove ancora continuava la disputa intorno —77→ alla dottrina di Molina. La prima edizione della commedia apparve a Madrid nel 1635, per le cure di un presunto nipote del drammaturgo.
Alla base del dramma stanno due pie leggende incluse nella Vita dei Padri del deserto, di Bellarmino83, fonte che l'autore stesso denuncia alla fine dell'opera, ma che assume in modo originale. Tirso segue la teoria molinista della grazia sufficiente. I due protagonisti, Paulo ed Enrico, il primo penitente, il secondo malfattore e violento, ricevono in egual misura la grazia, ma i loro destini saranno diversi, poiché Paulo resistendo ad essa si dannerà ed Enrico collaborando raggiungerà la salvezza.
Il dramma è di grande bellezza e tensione, non solamente, come sosteneva Vossler, «animado y vivificado, por el más espontáneo, íntimo y serio fervor religioso»84. Tirso oltre che abile drammaturgo è uno straordinario poeta. Il suo verso scorre privo di asperità, adeguato sempre ai grandi momenti della tesa vicenda. Senza trascurare la nota lirica, sostenuta da una lunga tradizione di poesia, pastorale o in cui trasparentemente riverbera la nota acquea che, attraverso Góngora risale a fra Luis de Leon, a San Juan de la Cruz, a Garcilaso e alla poesia italianista. Paesaggi teneri che convengono —78→ alla celebrazione della «Vida retirada» e che al penitente Paulo richiamano misticamente la bontà di Dio:
|
—79→
Nei tre atti della commedia ha inizio e conclusione il duplice dramma della dannazione e della salvezza. Interventi «meravigliosi» trasferiscono il tema dal piano della vicenda umana a quello soprannaturale. L'attenzione dello spettatore -oggi del lettore, se sa immergersi senza prevenzioni nel clima-, è continuamente sollecitata dalla novità degli eventi, dalla natura inattesa delle soluzioni.
Il motivo teologico viene perfettamente drammatizzato e conclude naturalmente con il trionfo della fede, ma soprattutto con quello di una morale che, sebbene a prima vista sembri fare a pugni con la ragione, diviene logica e comprensibile, se si pensa al ruolo che nel dramma e nella vita di Paulo assume l'orgoglio, il peccato di superbia. Perché il personaggio, dedicatosi a una vita di penitenza, fa professione orgogliosa di tale vita, dimentica l'umiltà e arriva a interrogare con insistenza Dio intorno al proprio destino, pretendendo non solo di penetrare i suoi segreti, bensì con l'atteggiamento di chi si ritiene in diritto di ricevere una ricompensa per la propria condotta virtuosa. Ma la virtù trova in se stessa il premio, non conosce superbia e quando questa esiste svanisce, poiché l'umiltà è la qualità prima della virtù.
Dio mette a dura
prova, quindi, il superbo Paulo; egli autorizza, infatti, il
demonio a tentare il singolare «virtuoso», ad apparirgli
nelle sembianze di un angelo e a predirgli che la sua sorte
sarà la stessa di un tale Enrico, figlio di un uomo nobile e
stimato, Anacleto, che risiede a Napoli. Dalle sue parole, dalle
sue azioni potrà intendere quale sorte Dio ha riservato
anche a lui. Il diavolo, perciò, esercita tutto il suo
potere tentatore sul personaggio, già più suo che di
Dio per il peccato di superbia. Il nome di Dio si spreca nei
discorsi tormentosi, quasi vaneggiamenti di superbia, di Paulo, il
quale, certo del suo diritto alla salvezza eterna, già pensa
Enrico —80→
un uomo esemplare: «¡Gran santo debe de
ser!»
86.
Sarà grande, invece, la sua delusione, quando
constaterà che il giovane napoletano è uno
scellerato, «el peor
hombre / que en Nápoles ha
nacido»
87.
Nella nona scena
del primo atto la presenza violenta di Enrico domina: egli è
davvero uno snaturato e tanto che nell'undicesima scena celebra
apertamente, in un crescendo di scelleratezze, le proprie imprese;
egli è ladro, dilapidatore delle sostanze paterne,
sfruttatore di donne -come sempre innamoratissime del delinquente,
che le maltratta-, assassino -ha ucciso trenta persone
gratuitamente o su commissione a poco prezzo-, stupratore -non
manca di umorismo la denuncia dell'avaria della società:
«Seis doncellas he
forzado: / dichoso llamarme puedo, / pues seis he podido hallar /
en este felice tiempo»
88-,
insidiatore dell'onore, distruttore di persone e di beni altrui,
incendiario, impenitente, irrispettoso di Dio e della chiesa, dei
poveri e della giustizia. Una somma tale di negatività e di
peccato da far perdere a Paulo ogni speranza di salvarsi, se il suo
destino finale dev'essere uguale a quello di Enrico. Di qui la
decisione di porre fine a una vita virtuosa del tutto inutile e di
divenire anche lui bandito, delinquente efferato:
|
E rivolto a Dio gli rimprovera l'ingiustizia, disconoscendone l'infinita misericordia, segnando con ciò la propria condanna in quanto «desconfiado»:
|
—82→
Virtù del tutto falsa, appiccicaticela, utilitaristica, quella di Paulo. Egli non crede nella bontà di una vita retta e afferma sfiducia assoluta in Dio, al quale richiama i propri meriti accumulati e lo riprende, facendo risalire a lui ogni colpa:
|
Octavio Paz si è chiesto:
¿Cuál es el delito de Paulo? Para Tirso, el teólogo, la desconfianza, la duda. Y más hondamente, la soberbia: Paulo jamás se abandona a Dios. Su desconfianza frente a la divinidad se transforma en un exceso de confianza en sí mismo: en el demonio. Paulo es culpable de no saber oír. Sólo que Dios se expresa como silencio; el demonio como voz. La entrega libera a Enrico del peso del pecado y le da la eterna libertad; la afirmación de sí mismo pierde a Paulo. La libertad es un misterio, —83→ porque es una gracia divina y la voluntad de Dios es inescrutable.92 |
Per quanto malvagio, Enrico non è superbo; pur nella malvagità egli conserva angoli misteriosi e insospettabili di sentimento: l'amore per il vecchio padre, da lui ridotto all'indigenza, ma che soccorre amorevolmente e al quale si preoccupa di tenere nascosta la sua vita scellerata. Gli accenti con cui si rivolge al genitore sono teneri, toccanti, di grande efficacia nel contrasto e danno dimensione interiore alla sua figura. Si percepisce che il peccatore non ha preclusa una via verso il riscatto, la salvezza eterna. Solamente Paulo, ottuso nello spirito per superbia, non lo percepisce e si allea, per vendetta verso Dio, con Enrico per commettere criminose imprese.
Il secondo atto presenta dapprima i tentativi di Paulo per indurre Enrico a rinunciare alla sua vita e a confessarsi; se riuscirà a ottenere questo è convinto che salverà anche se stesso. Per convincere il bandito gli rivela il suo segreto, vale a dire come la sua salvezza dipenda da quella di lui e infine, sfiduciato, decide di seguirlo nella vita scellerata. Dal criminale ha tuttavia un richiamo profondo, impensabile in un delinquente come lui. È, infatti, lo stesso Enrico a sottolineare i misteri della volontà divina, a rimproverare a Paulo lo spirito di vendetta che lo anima, e ad affermare fiducia nella misericordia di Dio:
|
Malgrado questo discorso Paulo rimane ostinatamente sordo, convinto che per un uomo che ha offeso Dio non sia possibile il perdono. Non varranno neppure interventi meravigliosi, e simbolici, quali si verificano nell'atto terzo: l'apparire di un giovane pastore che va cercando la pecorella smarrita, manifestando il suo dolore; addirittura il volo di due angeli che portano in cielo l'anima di Enrico, il quale, fatto prigioniero, è stato giustiziato, ma prima, per intervento dell'amato genitore, si è pentito.
Ferito a morte anche Paulo, il suo corpo viene nascosto dal servo in un cespuglio, ma all'arrivo della giustizia costui è costretto a rivelare il luogo. Si offre allora agli astanti una visione spaventosa: il dannato «rodeado de llamas». Come non poteva essere diversamente, è ora il peccatore a rendere pubblica la propria colpa, rivolgendosi al pubblico dall'orrore tradizionale dell'inferno:
|
Dopo di che, recita la didascalia, il personaggio «húndese y sale fuego de la tierra».
In entrambi i protagonisti del dramma di Tirso è presente una sorta di «fervor sombrío», come l'ha definito il Paz, il quale avverte:
Inútil buscar razones a este fervor sombrío. Libremente, pero también empujados, arrastrados por un abismo que los llama, en un instante que es todos los instantes, se despeñan. Aunque sus actos son el fruto de una decisión al mismo tiempo instantánea e irrevocable, el poeta nos la presenta habitada por otras —87→ fuerzas, desaforados, salidos de madre. Están poseídos: son «otros». Y este ser otros consiste en un despeñarse en ellos mismos. Han dado un salto, como Enrico y Paulo. Saltos, actos que nos arrancan de este mundo y nos hacen penetrar en la otra orilla sin que sepamos a ciencia cierta si somos nosotros o lo sobrenatural quien nos lanza. [...] Los héroes de Tirso y de Mira de Amescua no tropiezan en ninguna resistencia: se hunden o se elevan verticalmente, sin que nada los detenga. Al mismo tiempo, se trastorna la figura del mundo: lo de arriba está abajo; lo de abajo, arriba. El salto es al vacío o al pleno ser. Bien y mal son nociones que adquieren otro sentido apenas ingresamos en la esfera de lo sagrado. Los criminales se salvan, los justos se pierden. Los actos humanos resultan ambiguos. Practicamos el mal, oímos al demonio cuando creemos proceder con rectitud y a la inversa. La moral es ajena a lo sagrado. Estamos en un mundo que es, efectivamente, otro mundo.95 |
Siamo di fronte, nella sostanza, alla legittima dottrina della chiesa, aperta al perdono quando vi sia pentimento. Il drammaturgo ha interpretato con aderenza, vigore e poesia, in El condenado por desconfiado questa dottrina, né come religioso poteva fare altrimenti. Il suo pubblico doveva approvare questa interpretazione, che certamente lo sosteneva nelle diffìcili vicende della vita.
Con El burlador de Sevilla Tirso96 abbandona l'ambito sacro —88→ per trattare di un «delinquente d'amore», don Juan, ma ancora siamo entro il tema della giustizia divina. Non si discute nel dramma il problema della grazia, ma solo una condotta scellerata che grida vendetta a Dio.
Scritta probabilmente verso il 1625, la commedia El burlador de Sevilla y convidado de piedra appare alle stampe nel 1630, prima incarnazione, secondo il Ruiz Ramón, di uno dei grandi miti moderni, «de inagotable fecundidad» nella storia della letteratura occidentale97, dove finirà per confondersi con quello del Faust, incidendo nel patto con il demonio, punito con la dannazione. Nella Spagna il tema era destinato ad avere singolare sviluppo, fino a incarnarsi, nell'epoca romantica, nel Don Juan Tenorio di Zorrilla, opera che finì per assumere un significato altamente simbolico e rituale. Nel Tenorio, tuttavia, l'amore riscatta dalla colpa, mentre nel Burlador vi è solo trasgressione e violenza, quindi punizione.
Le origini della figura del don Juan sono state investigate da vari studiosi, tra essi Said Annesto, Menéndez y Pelayo e Blanca de los Ríos. Fiumi di inchiostro, come si suol dire, sono stati versati a proposito del personaggio e del tema. La bibliografìa è immensa, ma nella sostanza è fuor di dubbio che Tirso conoscesse, attraverso il Romancero, il tema del fantasma che invita a pranzo un teschio, e inoltre El infamador, di Juan de la Cueva, La comedia pródiga, di Luis de Miranda, El rufián dichoso, di Cervantes, ma una più immediata suggestione doveva averla esercitata su di lui proprio El esclavo del demonio, di Mira de Amescua, la cui vicenda, come si è visto, si originava da una passione d'amore.
—89→Naturalmente il grande artista che era Tirso non scade nell'imitazione. Nella sua opera il tema assurge a originalità e grandezza assolute, tali da imporsi come modello ad autori successivi, da Corneille a Molière, da Goldoni a Mozart, a Puskin, a Byron, che tuttavia espulsero dalle loro opere il profondo senso religioso proprio del dramma spagnolo, coltivato invece dagli autori dell'ambito ispanico, da Antonio de Zamora a Zorrilla.
Scriveva nel 1894 il Menéndez y Pelayo su «La España Moderna» che il don Juan di Tirso era il personaggio più «teatrale» mai visto sulla scena e che riempiva il mondo «con el estruendo de sus aventuras y con su innumerable progenie»98. Secondo il critico la sua figura in mano agli stranieri, come Molière, perdeva molto del suo carattere di fondo:
Perdió en manos de Molière mucho de su trágica grandeza, de su libertad nativa, de su arrogancia caballeresca, rebajándose hasta el vergonzoso papel de hipócrita, de hermano menor de Tartufo. [...] Pero ya era imposible tocar el tipo creado por el glorioso fraile de la Merced sin que algo del fuego intenso que le anima pasase a la obra del imitador. [...] Realmente, después de Shakespeare, en el teatro moderno, no hay creador de caracteres tan poderoso y enérgico como Tirso.99 |
Nel Burlador de Sevilla è drammatizzata, come noto, la vicenda di un impenitente «Dongiovanni», di un giovane -un impostore, un «señorito» lo definisce Francisco Rico100- freneticamente preso, si direbbe, più che dal desiderio amoroso —90→ nel senso più materiale del termine, da una sorta di smania frettolosa di conquista, quasi dominato dalla tirannia del tempo101. E precisamente il tempo è il suo persecutore, il suo assillo non denunciato ma reale, un tempo che lo spinge veloce, implacabile, verso la morte. Con essa don Juan sembra avere un appuntamento urgente, e lo ha con la giustizia divina.
Il verbo «gozar» torna con insistenza ossessiva nel programma del personaggio ed è prodotto della brevità del tempo a disposizione. Lo interessano soprattutto le fanciulle impegnate, le donne prossime alle nozze, perché la sua ansia di conquista è in realtà desiderio di offesa. Per il «Burlador» la donna diviene appetibile se la sua conquista reca danno a qualcuno, non solo alla vittima diretta. E una sorta di malattia, ma don Juan si vanta della sua mania peccaminosa. Nel secondo atto afferma:
|
—91→
Bisogna anche ammettere che le donne insidiate dal personaggio sono spesso facili a cadere, altolocate o no. E il caso della duchessa Isabella, che ci viene incontro all'inizio del dramma, paga delle promesse menzognere di «cumplir el dulce sí» che le fa il giovane, subito dimentica del promesso sposo, il duca Octavio103. Ma è pure il caso delle bella pescatrice Tisbea che, ignara del pericolo cui presto andrà incontro, canta la sua libertà dal giogo d'amore:
|
Passaggio delizioso, fine per cromatismi primaverili di chiaro segno barocco. Tirso prosegue accentuando nel clima —92→ marino la condizione di libertà e di serenità della fanciulla, per poi far precipitare gli avvenimenti con l'arrivo del naufrago don Juan e del suo servo Catalinón, che a nuoto hanno raggiunto la riva. Nella grazia serena del paesaggio -ennesimo elogio che implica il ripudio della città-, Tisbea fa professione orgogliosa di saper difendere il proprio onore, di saper tenere a bada i giovani innamorati che le ronzano intorno, tra essi Anfriso, del quale pure ammira la grazia. Crudele, prova piacere nel ferire chi l'ama, senza prevedere che presto verrà il giorno del suo castigo:
|
Tutto è
destinato a mutare con l'arrivo dell'assatanato don Juan; non
appena egli tocca stremato la spiaggia, la fiera fanciulla lo
accoglie, si dà da fare per farlo rinvenire ed è
subito colpita da quello che definisce «mancebo excelente, /
—93→
gallardo, noble y
galán»
106.
Appena riapre gli occhi, il naufrago intraprende la sua impresa di
conquista, dichiarandosi alla già trafitta fanciulla:
«Vivo en vos, si en el
mar muero»
107.
Raccontatale brevemente la sua avventura, immediato è
l'elogio della belleza della pescatrice: «siendo de nieve
abrasáis»
108.
Al gioco di parole Tisbea risponde:
|
Amori a prima
vista, fulmini a ciel sereno, fortezze che subito si arrendono, ma
anche una notevole facilità di costumi, una moralità
che nell'amore non va tanto per il sottile. La rapidità con
cui nel Burlador le donne si concedono all'amante
intraprendente sorprende. Basta una promessa di matrimonio per
vincere ogni resistenza, se pure vi è. Con il matrimonio,
infatti, ogni colpa è cancellata. Nota il Valbuena che nel
dramma le donne «Iban
de pícara a pícaro, aun cuando él lo era
más»
110.
Certamente Tirso non doveva avere un gran concetto della donna,
forse dovuto all'esperienza del confessionale o alla radicata
sfiducia degli uomini, per cui non pare ingiustificata
l'interpretazione del critico citato, secondo cui don Juan
finirebbe per essere una difesa del suo sesso, il
«vengador de los
hombres»111.
Certo si è che la donna rimane burlata dal precipitoso amante. Tisbea è destinata a una dura esperienza e la delusione per la fuga del suo ingannatore la porta alla disperazione e al tentativo di uccidersi. Essa corre infatti verso gli scogli per gettarsi in mare, ma è salvata in tempo dai pescatori e dall'innamorato e timido Anfriso.
Bisogna
riconoscere che nella commedia di Tirso gli uomini non sono
granché attivi. Anfriso si fa da parte, pur soffrendo, di
fronte a don Juan, intimidito probabilmente dalla differenza di
condizione sociale; e il contadino Batricio, fresco sposo di
Aminta, si lascia addirittura ridurre in un angolo quando don Juan
gli corteggia la moglie finendo per occupare nel talamo il suo
posto, dopo aver convinto senza troppa fatica la corteggiata che,
una volta sciolto il vincolo matrimoniale per mancata consumazione,
la sposerà. Ogni residua resistenza di Aminta cessa, anzi
con ardore dichiara: «Tuya
es el alma y la vida»
112.
Non c'è che dire: le donne e i contadini di Lope de Vega erano ben diversi; la loro reazione era decisa e nei casi dell'onore e dell'amore non subivano condizionamenti di casta.
Nel teatro di
Tirso de Molina vi sono anche donne che resistono all'assalto
maschile o che comunque invocano un castigo divino sul traditore.
È il caso anche di Tisbea che, tradita, si dispera, ma
prima, al momento dell'avventura, davanti alle promesse di don Juan
aveva invocato su di lui il castigo di Dio se non le avesse
mantenute: «Esa voluntad
te obligue, / y si no, Dios te
castigue»
113.
Furbescamente lo stracciafemmine mormora, «aparte»,
«¡Qué largo me lo
fiáis!114,
—95→
sfidando così la giustizia divina. Il medesimo
castigo invoca Aminta.
Donna decisa è certamente doña Ana, figlia di don Gonzalo, il Comendador. Con essa l'inganno non ha luogo, poiché riconosce sotto il mantello dell'innamorato, marchese della Mota, don Juan e lo respinge. Interverrà il vecchio padre; nel trambusto il «Burlador» lo uccide, mettendo così in movimento il meccanismo che lo perderà, malgrado la colpa sembri ricadere sull'innocente marchese.
In questa occasione, ce ne rendiamo conto, il dramma sale di tono; ciò che prima sembrava un fatto curioso diviene ora tragico. Le precedenti trasgressioni del donnaiolo frenetico costituiscono una sorta di introduzione alla tragedia. E da notare che finché era la donna la vittima di don Juan, e di riflesso l'innamorato o il marito, sempre uomini giovani, la riprovazione aveva un senso corrente, non assumeva il rilievo drammatico dato dalla morte, e nella figura del Comendador dell'offesa al padre, anziano rispettabile. Le debolezze di donne e di uomini spariscono e il clima torna a essere quello degli inizi del dramma; si ristabilisce l'equilibrio sociale, poiché i personaggi, maschili e femminili, appartengono alla nobiltà, ossia all'unico «stato» che conta, e può quindi aver luogo la tragedia. Su tutto domina il Comendador, personaggio doppiamente significativo: come padre, cui corre l'obbligo di difendere l'onore della figlia e della famiglia, e come offeso nella propria vita.
Con questa tragicommedia, è il caso di definirla, Tirso innalza un monumento di valore permanente all'intangibilità dell'onore, differenziandosi in modo sostanziale da Lope de Vega e dai suoi seguaci. Nel grande drammaturgo, padre del teatro ispanico nella sua età più fiorente, l'onore è quasi sempre difeso da amanti, da fratelli e da mariti. I vecchi appaiono generalmente deboli, disposti al compromesso.
—96→Nel dramma di Tirso, al contrario, il padre di doña Ana è figura cardine della famiglia, pilastro su cui si regge l'ordine familiare, colui che nell'opporsi all'offesa trova la sua più alta affermazione come «mano di Dio». L'attentato all'onore della figlia, l'assassinio commesso nella sua persona, si proiettano in maniera diversa, ma complementare, sulla schiatta e sulla società. Solo il sangue può lavare la macchia inferta all'onore e alla vita o la giustizia di Dio.
Nel Burlador de Sevilla le figure femminili appaiono scialbe, servono più che altro da contorno. Neppure gli uomini hanno in genere molta dimensione. Lo stesso don Juan è un essere superficiale, amante dello scandalo per lo scandalo, un esibizionista più che altro. Un insoddisfatto, si è detto, ma anche carente di virilità. Maranón ha sostenuto quest'ultima tesi115. Incapace d'amore è anche incapace di godimento; le donne che conquista, con l'inganno o con il prestigio della classe sociale e dell'aspetto gradevole, se di rango inferiore sono sempre prede facili. Quando il «Burlador» affronta una donna che gli resiste davvero, come dona Aria, non valgono attrattive né ardore.
Il dramma si esalta nel lugubrismo accentuato della morte, quando il bellimbusto, tirata per dileggio la barba alla statua del Comendador, lo invita a cena e a sua volta è invitato dal defunto a un banchetto nella chiesa dove è situato il sepolcro. Una sorta di leit motiv finisce per dominare, rappresentato dalle parole del servo, che adempie alla funzione di gracioso, ma con un umorismo che diviene tragico nell'impegno di trattenere il padrone dal percorrere una via che lo precipiterà nella rovina.
—97→La giovinezza di
don Juan sembra essere la fonte prima della sua incoscienza; egli
non crede nella punizióne, come non pensa alla
possibilità della morte. Tutto gli appare così
lontano che non coglie il pericolo; la risposta ricorrente del
donnaiolo a ogni richiamo è l'ossessivo «¡Qué largo
me lo fiáis!»
.
Tirso crea in don Juan un'immagine convincente dell'incredulo nella potenza di Dio, nel suo intervento di restauratore della giustizia. L'età rende incosciente il personaggio, gli fa ritenere eterno il breve momento vitale. Nel suo dramma l'autore intende richiamare gli spettatori alla vanità di una sicurezza frutto d'immaturità e fissare bene nella loro mente che nessun oltraggio può rimanere impunito. Se si riesce a sfuggire alla giustizia degli uomini, non si sfugge alla giustizia divina, che si verifica nel momento meno pensato.
Per la sua incapacità di pentimento, di riscatto da una vita spavalda e peccaminosa, don Juan è votato irrimediabilmente alla fine che le scene ultime del terzo atto illustrano. Non solo ha ucciso il Comendador, ma ancora si fa beffe di lui; lo ha offeso da vivo e lo offende da morto, nella chiesa, come dire sotto gli occhi di Dio, temerarietà inaudita. La baldanza di don Juan è pazzia, incoscienza criminale autolesiva, propria di una gioventù male intesa e peggio impiegata, così che la pena non può che essere terribile.
Invitato a cena dal giovane, il Comendador vi si reca. Tirso rende efficacemente il terrore del servo, Catalinón, allorché vede apparire sulla porta di casa la statua del defunto; balbettando, in preda al panico, egli annuncia il fatto inaudito al suo signore con parole sconclusionate che si accavallano:
|
Quando finalmente la statua compare tutti i servi si mettono a tremare, ma non don Juan che, rinchiusosi a pranzo col defunto, accetta da costui a sua volta l'invito per lui mortale. E tuttavia il terrore finisce per comunicarsi suo malgrado anche al «Burlador»:
|
Ciò nonostante il giovane si reca all'appuntamento nella chiesa e la cena è funebre, raccapricciante, a base di scorpioni e di vipere, con fiele in luogo del vino. Un canto «agorero» fa da sottofondo richiamando la potenza di Dio:
|
Il Comendador stringerà la mano di don Juan in una morsa di fuoco e lo trascinerà nel suo sepolcro, quindi all'inferno. Un pentimento di ultima ora non varrà a sospendere il castigo. Dio ha stabilito così con giustizia; don Gonzalo lo afferma solennemente:
|
Viva per drammaticità è la scena finale. Solo Catalinón riesce a salvarsi, trascinandosi per terra mentre il sepolcro sprofonda con gran rumore. Ancora sconvolto porterà a corte la notizia del terribile evento ribadendo a sua volta, terrorizzato, l'inevitabilità del castigo divino:
|
Eliminato con la morte il «pericolo del mondo», tutto riprende il suo corso. Il re ribadisce che quanto accaduto è stato un giusto castigo del cielo e come di consueto fa sposare tutti. Finale scontato, che tuttavia non incide sulla grandiosità drammatica dell'esempio. Nella sensibilità dello spettatore, e del lettore, permane operante lo scenario terrorifico. Se il premio ha sempre luogo in atmosfere serene, il castigo si realizza nelle tenebre, luogo della colpa.
Scrive il Valbuena:
Don Juan es a la vez una inmensa aventura humana y uno de los dos grandes símbolos dramáticos del momento crucial entre el Renacimiento y el Barroco. El amor sin medida, la rebeldía de la carne; y la ambición demoniaca, la insatisfecha hambre de sabiduría rodando por la torre de Babel de la ambición, —101→ tenían que ser los dos mitos del Hombre de la aurora del Barroco. [...].121 |
Il don Juan di Tirso rappresenta il primo, Faust rappresenterà il secondo.
Gli esempi grandiosi della fede e della sfiducia, della grazia e del castigo dominano il teatro spagnolo dell'inizio del Seicento, epoca inquieta, funestata da guerre, carestie e pestilenze, segnata da una coscienza sociale di crisi, come si è espresso Maravall, che si manifesta in una visione del mondo in cui «halla expresión el desorden íntimo bajo el que las mientes de esa época se sienten anegadas122.