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Guerra, amori e pene nella trilogia pizarrista di Tirso


I riferimenti americani sono numerosi nelle commedie di Tirso de Molina. Lo hanno posto in rilievo, tra altri, Alfonso Urtiaga introducendo il tema dell'«indiano248» e specificamente Angela Dellepiane249. Al tema americano il frate mercedario, che per qualche anno era stato a Santo Domingo, dove il suo Ordine lo aveva inviato nel 1615, dedica addirittura una trilogia centrata sulle gesta dei Pizarro. Compongono la trilogia le commedie: Todo es dar en una cosa, Las Amazonas en las Indias, La lealtad contra la envidia. Esse furono composte nel periodo 1626-1629, o, secondo Blanca de los Ríos, tra il 1626 e il 1632250.

Il fatto che le vicende dei Pizarro abbiano interessato cosí vivamente Tirso, da indurlo a comporre addirittura una trilogia   —188→   sul tema, non appare strano, se consideriamo la vincolatone che egli dovette avere con la famiglia nel periodo 1626-1629, quando risiedeva a Trujillo come «Comendador» del suo ordine, e il particolare momento in cui essa si trovava, vale a dire in piena campagna rivendicativa, da parte di Juan Hernando Pizarro, dell'onorabilità della casata e con essa del titolo di marchese e dei relativi privilegi economici pattuiti con la corona dal conquistatore don Francisco251.

Conosciamo i fatti che portarono a una prigionia ventennale Hernando Pizarro, per l'uccisione di Diego Almagro il vecchio, e il fratello Gonzalo all'impiccagione come traditore, per aver messo sossopra il vicereame del Perú capitanando le schiere degli «encomenderos», avversi all'abolizione dell'encomienda decisa da Carlo V su pressione del padre Las Casas. Bisognava, quindi, rimontare la china, ristabilire la perfetta legittimità dell'operato dei due, che avevano, all'apparenza, infamato la casata, determinando la decadenza dai titoli e l'annullamento delle prebende. Un pronipote di Francisco Pizarro, conquistatore del Perú e primo marchese della Conquista, aveva provveduto a dare una versione favorevole dei fatti nella cronaca intitolata Varones Ilustres del Nuevo Mundo. L'opera, ultimata nel 1625, ottenne la licenza per la pubblicazione nel 1631, ma apparve alle stampe solo nel 1639. Tuttavia, già nel 1631 Juan Hernando Pizarro aveva ottenuto la riabilitazione e la conferma del titolo di marchese.

È fuor di dubbio che all'amico, frate influente e drammaturgo famoso, Tirso de Molina, i Pizarro abbiano commissionato, se non una trilogia, un'opera drammatica che   —189→   contribuisse a sostenere le tesi della famiglia. Probabilmente per ragioni d'ordine affettivo, o forse per la disponibilità generosa a compensare il lavoro, il drammaturgo progettò e realizzò una trilogia.

La prima commedia della trilogia, Todo es dar en una cosa, si configura nettamente come una «commedia genealogica». Tratta, infatti, delle origini del futuro conquistatore dell'impero incaico, Francisco Pizarro, immedesimandosi chiaramente con lui per fatto personale. Anche Tirso era un «bastardo» ed egli sente profondamente questa situazione, che riflette nel suo personaggio, e al tempo stesso prova un evidente orgoglio, proprio di chi, nonostante la macchia di cui è innocente, è arrivato a compiere cose egregie: Francisco conquistando addirittura un ricchissimo impero; lui, Tirso, assurgendo alla fama di celebrato artista, ma anche a cariche importanti nel suo Ordine. E questo l'«intratexto» che attira, più del testo, e a ragione, il Ruiz Ramón, il quale afferma che, in realtà, tutto il teatro classico spagnolo «está esperando esas varias y posibles lecturas de su otro texto»252.

Circa le origini di Francisco Pizarro non si dimentica facilmente, più che la condizione di figlio illegittimo, l'umiltà in cui si dice fu lasciato crescere. Il maggior responsabile di ciò è il cronista López de Gómara, il quale, forse per accentuare il contrasto con il suo padrone, Hernán Cortés, denuncia con la «bastardía» dell'innocente, che afferma abbandonato sulla porta di una chiesa e che «Mamó una puerca ciertos días, no se hallando quien le quisiese dar leche», la bassa incombenza che, dopo il riconoscimento, il padre gli affidò: «traíalo a guardar los puercos, y así no supo leer. Diole un día mosca a sus puercos, y perdiolos. No osó tornar   —190→   a casa de miedo y fuese a Sevilla con unos caminantes, y de allí a las Indias»253.

Di ciò non v'è traccia, com'è naturale, nel dramma di Tirso de Molina. Francisco vi compare come figlio illegittimo, sí, ma di padre e di madre perfettamente in regola con i quarti di nobiltà; e se è illegittimo, lo è per i soliti equivoci che nel teatro spagnolo del Siglo de Oro allontanano e fanno infelici gli amanti clandestini. Accolto come frutto della colpa di una non identificata nobile fanciulla da colui che in realtà è il nonno legittimo, il piccolo cresce in famiglia nobile e ricca, affidato alle cure amorose di una figlia del vecchio, in realtà sua madre, sviluppando una personalità spiccata, un senso alto dell'onore, nella coscienza della sua condizione, con una dignità che gli permette persino di respingere il padre, al quale, tuttavia, al momento opportuno salverà anche la vita.

Significativo è che egli sia stato deposto nel cavo di una quercia: sarà un uomo forte e deciso. Quando apprende dalla lingua vendicativa dell'irato maestro, con il quale si mostra svagato e indomabile, la sua origine, decide che solo la virtù dovrà essere il suo bene, ed è ben fermo nell'affermare alla madre -che prima di andare sposa ad un altro gli rivela la sua storia- che sarà solo figlio delle proprie opere:


Yo, que repudiado he sido
de ti, cuyo honor no quiere
que me intitule tu hijo;
yo, que del ser que me han dado
los empeños desobligo,
pues, avariento, mi padre
—191→
ha injuriado este apellido,
hijo de ninguno soy;
no tengo padres, no admito
ascendientes que me agravien;
en mis obras legitimo
el nuevo ser que restauro,
las hazañas a que aspiro:
deudor de mí mismo soy,
hijo seré de mí mismo.
Yo malograré mis años,
¡viven los cielos propicios!,
si a pesar de inconvenientes
medio mundo no conquisto.
No tendré nombre hasta entonces:
no sabrán de qué principios
procedo, no temeré
ejércitos de enemigos,
montes de dificultades,
naufragios jamás creídos,
desiertos nunca pisados,
arduos hasta el cielo riscos.254



Ora appare anche chiaro al giovane il significato del fatto che la palla di legno che lui e Cortés nel gioco si erano contesi si sia spaccata in due metà esatte:


La media esfera que gozo
es medio mundo: así explico
el pronóstico, que en ella
todo un orbe ha dividido.
—192→
Yo he de dar desde hoy en esto,
o morir o conseguirlo:
todo es dar en una cosa,
donde hay valor no hay peligro.255



Più avanti Francisco, ormai uomo fatto ed esercitato nelle armi, rimproverando il padre per l'abbandono, predirà a se stesso i successi americani futuri. L'impegno di chi è stato abbandonato nell'anonimato è di uscire da esso con le proprie forze. Così Pizarro parla al padre:


Yo, ingrato padre, a pesar
de vuestro poco cuidado,
tanta agua pienso pasar
que en ella mi honor manchado
pueda mi esfuerzo lavar.
Yo malogré mis años,
y huyendo vuestros engaños
vencedor de un medio mundo,
lince del polo segundo
pisaré climas extraños.
Yo, si llegare a tener
hermanos, con más valor
de ellos he de pretender
que me veneren señor,
llegándome a obedecer.
Suplirá la fortaleza
faltas de naturaleza
y de vos desobligado
seré, por mí reengendrado,
el fénix de mi nobleza.
Juzgareisme, claro está,
—193→
por loco, mas mi animosa
inclinación mostrará
que en dando yo en una cosa
salgo con ella.256



Facile profezia, naturalmente, dato che tutto da tempo si era verificato nella realtà, per gli spettatori, e Francisco aveva avuto realmente la sottomissione dei fratelli, una volta conquistato il Perù. Ma il padre non può reprimere qui un'esclamazione ammirata: «¡Oh hijo! ¡César segundo!»

La terza Jornada è ricca di «lances». Una nota di simpatia finisce per avvolgere anche il padre di Francisco Pizarro -come poteva essere altrimenti?-, vittima di «malos mestureros», diremmo, e dell'invidia del «Pagador general», che sempre interviene subdolamente per impedire il riconoscimento delle valorose imprese del Capitano Gonzalo Pizarro e il suo prosperare presso i sovrani. I quali immancabilmente compaiono a sistemare, secondo l'affermato cliché, le cose: Francisco Pizarro e il padre, uccisori del loro assalitore, perdonati, staranno tra le guardie della regina Isabella, presso di lei, quasi a tenerli in serbo per le prossime, mirabolanti imprese. Che del resto apertamente promettono entrambi, il Capitano riferendosi a Granada e alla sua conquista, il figlio al Nuovo Mondo, se Colombo lo scorpe davvero, incitando anche Cortés a eroiche imprese americane. Dice Francisco rivolto alla regina:


Si otro orbe Colón descubre
en vuestras minas hermosas
os hago pleito homenaje
de no volver a las costas
—194→
de España mientras no os diere
más oro y plata, más joyas
que, cuando dueño del mundo,
triunfó de sus partes Roma.
Cumplid, Hernando Cortés,
presagios con que os pregonan
los cielos por igual mío;
haced vuestra fama heroica,
que si parece imposible
a la envidia que proponga
locuras en la apariencia
y de escucharlas se asombra,
en la comedia segunda
saldrá la verdad piadosa,
que donde hay valor y dicha,
todo es dar en una cosa.257



Pizarro che sprona Cortés e che pone il conquistatore del Messico al proprio livello, ma con preminenza su di lui! Cosa avrebbe mai detto Gómara? Tirso de Molina riscatta appieno il suo personaggio, dandogli la dignità di un eroe romano, e in lui riscatta la casata, fin dalla prima commedia, illustrando la figura del futuro conquistatore con qualità eroiche, che risaltano ancor più sulla dimensione profonda di infelicità data dalla nascita infamante e dalla mancanza di confortanti riferimenti affettivi.

La commedia rimane aperta all'annunciata continuazione. Non si tratta, comunque, di un dramma leggero; la sua struttura, infatti, si presenta con frequenza faticosa, per gli eccessivi monologhi, di una lunghezza poco sopportabile. Numerose sono anche le incongruenze, alle quali il pubblico certamente   —195→   faceva poco caso, tra esse la passività con cui Beatriz si accinge ad andare sposa ad un pretendente qualsiasi, e l'innaturale confronto polemico in cui la madre pone figlio contro genitore, nella scena IV del primo atto. Ma ancora: il giovinetto Francisco parla come un adulto, e questo non ha senso, come non ha senso l'operato negativo del maestro. Insopportabile è pure la prolissità del discorso di Beatriz al figlio, recriminatorio nei confronti del padre, che ciò nonostante incita ad imitare nel valore. Aggiungerò ancora la difficile comprensione delle alambiccate «ragioni d'amore» nelle scene iniziali del primo atto. Curiosa è anche, almeno per noi lettori odierni, la celebrazione dell'Inquisizione, pur se è comprensibile da parte di un religioso quale era Tirso.

E tuttavia, nonostante queste osservazioni, depurata dei vizi denunciati e superate le prolissità, la commedia raggiunge il suo scopo, dandoci nella figura di Francisco Pizarro quella di un personaggio fuori del comune, destinato a grandi imprese, superando di gran lunga in umanità e decoro l'immagine, mai eccessivamente brillante, sempre un po' grigia, se la confrontiamo con quella splendida di Cortés, che di lui ci hanno trasmesso le cronache, come già aveva riconosciuto il Cotarelo258.

Il finale di Todo es dar en una cosa rendeva sicuramente curioso lo spettatore, ansioso di assistere ai futuri sviluppi della vicenda, e rende curioso oggi il lettore. La continuazione si ha nel dramma Las Amazonas en las Indias, opera edita nella Parte cuarta delle commedie di Tirso, a Madrid, nel 1635, quindi dopo che la famiglia Pizarro aveva visto riconosciute   —196→   da parte della corona le sue ragioni e pretese e riottenuto il marchesato. Naturalmente l'opera era stata composta e rappresentata anni prima e di certo aveva avuto successo. L'entusiasmo del Cotarelo qualifica anche questa commedia, con la precedente e quella che segue, come «una de las joyas del teatro de Tirso» e addirittura parla di «grandeza épica de estos tres poemas dramáticos», di cui loda la grandiosità del tema, le situazioni tese, la versificazione «abundante, armoniosa y magnífica», le «riquezas poéticas de todo género» presenti259.

Il nostro giudizio è più guardingo circa la prima commedia della trilogia, come si è visto, ma non v'è dubbio che muta radicalmente allorché si tratta de Las Amazonas en las Indias, per quanto attiene al valore drammatico e al clima di straordinaria poesia che introduce la commedia, determinando un felice contrasto. Nel primo atto, infatti, il dramma suggerisce un paesaggio esotico, che certamente l'allestimento doveva fare concreto e con particolare efficacia per lo spettatore; in esso appaiono due amazzoni, Martesia e Menalipe, armate di asce e bastoni, «y todas ellas con arcos y aljabas de flechas a las espaldas», intente a lottare contro due «españoles bizarros», Gonzalo Pizarro e Francisco de Carvajal, suo «maestre de campo». Suoni di guerra accompagnano la comparsa dei personaggi in lotta: Gonzalo ha lo scudo coperto di frecce e, «retirando a Menalipe, sin sacar la espada, van peleando, entrando y saliendo», finchè i due restano soli in scena. Li raggiungono presto Martesia e Carvajal, pure intenti a combattersi.

Un inizio vivace, anzi rumoroso, come è frequente nel teatro classico spagnolo, e di sicuro tale da attirare immediatamente   —197→   l'interesse del pubblico, tanto più se consideriamo che di certo le amazzoni -ma la didascalia non lo dice- dovevano presentarsi in qualche modo poco vestite. L'improvviso corpo a corpo tra Gonzalo, deciso a non usare armi contro una donna, e la regina Menalipe, dà luogo a un solleticante contatto tra sessi diversi, facendo sì che l'eroico spagnolo si renda conto dell'efficacia degli occhi della donna che, «apacibles homicidas, / abrasando, quitan vidas, / victoriosos, quitan manos»260, ma per il pubblico anche di qualcos'altro, della «diversità», cioè, della bella nemica, provvista di indubbie grazie261.

Una duplice situazione ripetuta in parallelo -Carvajal e Martesia-, ribadisce il potere dell'amore e in esso l'irresistibile seduzione che lo spagnolo esercita sul mondo indigeno, se entrambe le donne, la regina e la sorella, nonostante la loro natura bellicosa, si innamorano immediatamente dei due uomini, cui promettono meraviglie qualora accettino di unirsi a loro, e persino di mutare radicalmente i crudeli costumi del loro popolo femminile. Dice, infatti, Martesia, che ha funzione di vidente, a Carvajal:


Quédate aquí, serás mi esposo y dueño;
haré por causa tuya,
que la ley rigurosa se destruya
de esta región, y su infecundo empeño.
Gozarán, por mi amor, las amazonas
—198→
el tálamo, hasta agora aborrecido;
sepultará crueldades el olvido.
El cuello rendirán las amazonas
al apacible imperio
de amor que hasta aquí fue su vituperio.
Todo esto cesará, si satisfaces
los castos deseos míos;
eterna paz tendrás, si estimas paces;
si guerra anhelan tus bizarros bríos
canoas y piraguas
te cubrirán las fugitivas aguas
de ese jayán monarca de los ríos;
conquistarante en ellas
provincias comarcanas,
ejércitos armados de doncellas,
tan exentas de amor cuanto inhumanas.262



L'armonia del verso, la sua scorrevolezza, in tutto il dialogo delle donne con i due spagnoli, dà luogo a un clima delicato, che volutamente sottolinea la castità dell'offerta femminile, ma anche la sua passionalità. In esso la nota mitologica si umanizza. La schermaglia d'amore diviene attraente, mentre il testo sottolinea la diversità dei due uomini: Gonzalo, personaggio raffinato, cavalleresco, ma incorruttibile; Carvajal, furbo e disincantato, propenso a farsi beffe delle persone e delle situazioni, come si mostrerà in tutto il dramma, in accordo con il cliché tramandatoci dalle cronache, ma qui senza sottolineare la crudeltà del terribile «Demonio de los Andes».

Per la parte storica, non pare dubbio, il drammaturgo si rifà alla Historia del descubrimiento y conquista de las Provincias del Perù,   —199→   di Agustin de Zárate, e alla Historia general del Perú, dell'Inca Garcilaso de la Vega, oltre che al testo di Fernando Pizarro y Orellana, Varones ilustres del Nuevo Mundo. Il suo impegno principale è quello di riscattare da ogni macchia di tradimento e di ribellione Gonzalo Pizarro, finito sul patibolo dopo la sconfìtta di Xaquixaguana. L'amazzone Martesia predice a Gonzalo e a Carvajal triste destino se continueranno a muoversi nell'ambito ispanico, mali che eviterebbero se si stabilissero con le donne guerriere.

Alla fine del primo atto è dato risalto da Tirso al furore omicida di Diego Alamagro, il Giovane, che nel sangue del marchese Francisco Pizarro vendica il padre, giustiziato da Fernando Pizarro, proprio per questo motivo prigioniero in Spagna. Ogni cosa negativa ha inizio dalla sconsiderata azione di don Diego, deciso a coronarsi «monarca de los Andes», ad essere, nella sua sete vendicativa e megalomane, «¡O César, o nada!»263.

Con poche allusioni alla fine di Francisco Pizarro, la figura del conquistatore è liquidata, ma il suo prestigio si proietta sul fratello Gonzalo: «el marqués resucita / en don Gonzalo Pizarro», proclama Vaca de Castro264. Ciò che interessa Tirso è non tanto di celebrare il marchese, quanto di riscattare da ogni colpa Gonzalo, la cui onorabilità e fedeltà al sovrano è più volte ribadita dalle sue stesse parole. Gli storici sono ormai concordi nel considerare che il conquistatore fu trascinato suo malgrado nella lotta, prima con regolare investitura; anzi, il Sànchez-Barba sostiene che fu Francisco de Carvajal a forzare la situazione radicalizzandola, mentre all'inizio la posizione   —200→   di Gonzalo Pizarro era semplicemente quella di un uomo che aveva ricevuto il comando dal «Cabildo» del Cuzco «para defender un derecho democrático y para impedir la ruptura del sistema básico de la vida indiana»265.

Tirso de Molina insiste proprio su questo motivo. Egli ci presenta l'eroe, un eroe infelice e leale che, ritiratosi a Las Charcas, attende le decisioni dell'imperatore circa la sua successione al fratello assassinato nel governo del Perù. Nel volontario isolamento il guerriero intesse un elogio alla «vida retirada», manifesta disprezzo per la ricchezza, temi che dovevano essere cari al frate autore della commedia. Ciò avviene nel terzo atto, ma nel secondo il convincente e arguto racconto dell'avventura della «Canela» da parte di Carvajal -racconto nel quale intervengono elementi di controllato umorismo-, impone al pubblico un Gonzalo di carattere eccezionale, coraggioso, e proprio in questo senso lo stesso Vaca de Castro lo sottolinea:


Crió el cielo en España
al señor don Gonzalo
para acciones al crédito imposibles;
y mostró en esta hazaña
que para él los peligros son regalo,
más deseados, cuanto más horribles.
Si Carlos a su lado le tuviera
temblara Argel y Solimán huyera.266



Un precedente discorrere tra Vaca de Castro e Carvajal sulla morte di Francisco Pizarro aveva portato alla conclusione   —201→   che «Para el cielo no hay más fama / que el bien morir»267. Una sorta di preludio alla tragica fine di Gonzalo Pizarro, condannato e giustiziato, ma innocente dei delitti di cui fu incolpato. Almeno per i suoi estimatori, come l'Inca Garcilaso, che lamenta apertamente non avesse accettato la corona reale del Perù268, e certamente in modo programmatico per Tirso de Molina. E un finale che, con molta abilità, senza portarlo sulla scena materialmente, il drammaturgo prepara con appropriate considerazioni anche intorno alla morte, richiamando Manrique e i suoi fiumi, le vite, «que van a dar a la mar / que es el morir»269. Infatti, cercando di consolare la nipote doña Francisca -che intende sposare, al fine di dare continuità al titolo- per la morte del padre, Gonzalo si mostra disincantato circa i valori correnti della vita, teso invece a dare un'interpretazione tutta cristiana all'esistere:


Llevose el cielo al marqués,
padre vuestro, hermano mío;
la vida, sobrina, es río
que corriendo al mar sin pies
en su golfo viene a hallar
imperio más dilatado,
pues con sus olas mezclado,
muere río y vive mar.
Haced el discurso mismo
con vuestro padre y mi dueño,
pues si murió río pequeño,
ya es, con Dios, inmenso abismo,
—202→
y poned, Francisca, en él
toda vuestra confianza.270



Di fronte all'arguto Carvajal, capace anche di caricare di parodico concettismo, alla moda del tempo, la sua pittoresca, oltre che drammatica, relazione dell'impresa della «Canela» -dove denuncia, con il tradimento del «falso pariente» Francisco de Orellana, il quale su un brigantino di fortuna abbandona Gonzalo e la sua gente, laceri e malati, seguendo il Maranón e quindi il rio delle Amazzoni, per poi raggiungere la Spagna, il difficile incontro con le donne guerriere-, sta un uomo integro, in ogni momento rispettoso della legge e fedele al sovrano, che solo si pone a capo di coloro che protestano per evitare mali maggiori al vicereame: il ritorno degli indios, nella confusione di poteri, all'idolatria, il riscatto della nipote offensivamente imprigionata dal viceré Blasco Nunez Vela e posta nella pericolosa custodia dei soldati, il danno al tesoro reale per mano dello stesso rappresentante regio, suo mortale nemico.

Ma con tutto questo, l'eroe non colpirebbe che superficialmente la sensibilità del pubblico per le sue imprese. Al fine di penetrare in profondità nell'animo dello spettatore occorre che l'eroe sia anche infelice, che abbia una fine tragica, degna di compassione. È quanto si verifica per Gonzalo, nonostante che le due innamorate amazzoni, Menalipe e Martesia, tentino in extremis di salvarlo, quest'ultima intervenendo con arti magiche per raggiungere lui e Carvajal. Ora il ruolo del gracioso passa alla guardia Trigueros, che invano si oppone alle due donne. Una scena divertente, questa, in cui il poveretto si stupisce di trovarsi di fronte a due «tapadas de   —203→   medio ojo, a lo español». Sapidi giochi di parole condiscono la rappresentazione, in cui le «medias ojerías», «Dami-mudas» forzano l'ingresso per raggiungere gli uomini che amano e che vogliono salvare271.

Davanti al precipitare della situazione e alla defezione dei sostenitori di Gonzalo Pizarro all'arrivo del Presidente La Gasca, il secondo atto si chiude su un fantastico volo per l'aria, attraverso tutto il palcoscenico, delle due amazzoni e di Trigueno, sostenuto da Martesia per un orecchio. Carvajal per un momento riprende il ruolo di gracioso, ma Martesia predice «en breves / tiempos tragedias que lloren / los siglos que nos suceden»272. Un ultimo tentativo è fatto dalle due donne per impedire il verificarsi dei tragici eventi. La regina Menalipe arriva addirittura a proporre a Gonzalo un governo indipendente dalla Spagna:


¡Cuánto es mejor que mi amante
pacíficamente impere,
sin dependencia de España,
que no entre la envidia y muerte
gobernar ingratitudes,
que, al paso que más se premien,
más sus fortunas envidien,
más sus hazañas condenen!273



Ogni uomo, tuttavia, è attore del proprio destino. Lo stesso Carvajal, con argomenti più rozzi e convincenti, incita anch'egli Gonzalo a proclamarsi re. Tirso insiste sull'argomento, per meglio far risplendere la fedeltà di Pizarro al legittimo   —204→   sovrano. Abbandonato da coloro che più lo avevano spinto all'azione, come già l'Inca Garcilaso aveva denunciato274, Gonzalo commenta:


Sepa mi rey, sepa España
que muero por no ofenderla,
que pierdo por no agraviarla,
una corona ofrecida,
tan fácil de conservarla,
cuanto infame en poseerla.
Diga que pude la fama
ser monarca y que no quise;
que todos me desamparan
por fiel, por leal, por noble;
será feliz mi desgracia.275



E un'aperta accusa all'ingiustizia regia:


Muera a manos de un verdugo
quien tanta fe a su rey guarda,
que va a perder la cabeza
por no querer coronarla.276



Sarà proprio questo il commento di Alonso de Alvarado: perché mai le leggi del re giustiziano coloro che maggior gloria hanno dato alla patria? E le sconfìtte e desolate amazzoni innamorate dichiarano che occulteranno i loro domini agli spagnoli e daranno morte a coloro che tenteranno di conquistarli, da Pedro de Ursua al traditore Lope de Aguirre, a   —205→   Orellana, quindi scompaiono nella selva. Tra voci misteriose disperanti don Alonso chiude il dramma commentando:


¿Qué voces, ¡cielos!, son estas
que asombrosas nos espantan,
y sin ver los que las forman
con presagios amenazan?
Mas los elementos mismos
en la muerte desdichada
del español más valiente
solemnizan sus desgracias.
Este fue el fin lastimoso
de don Gonzalo; la fama
de lo contrario ha mentido.
La malicia, ¿qué no engaña?277



Infine un richiamo alla serietà della documentazione storica e una astuta richiesta di indulgenza per l'autore del dramma:


Lea historias el discreto
que ellas su inocencia amparan,
y supla en esta tragedia,
quien lo fuere, nuestras faltas.278



Tirso de Molina è maestro nei finali grandiosi, ricchi di drammaticità, senza ricorrere a giochi volgari, a spettacoli truculenti, facendo presa diretta sulla sensibilità dello spettatore. Il suo è un grande dramma umano, in cui gli accusati sono i sentimenti perversi dell'uomo, l'invidia soprattutto, male inestinguibile e fonte prima di disastri e di morte. Un   —206→   velo di profonda tristezza si stende su questo finale, dove un innocente è votato alla morte, dove un mondo, quello ispano-peruviano, è vittima di tragici sconvolgimenti, conseguenza della conquista, e quello indigeno, sia pure delle misteriose regioni amazzoniche, sembra ancora albergare l'illusione di potersi conservare indipendente.

Las Amazonas en las Indias è un dramma convincente, misurato e plausibile negli atteggiamenti, nelle azioni e nei sentimenti. La mescolanza tra elementi mitici e fatti storici, o comunque possibili, tra il meraviglioso e il reale, costruisce un clima magico nel quale si rafforza l'effetto drammatico. L'America si presenta, nel dramma, come un giardino dell'Eden in parte calpestato e distrutto per colpa degli europei, ma dove zone incontaminate permangono ad esercitare tutto il loro fascino. Non se ne rendono conto gli spagnoli, presi dalle loro contese, ma le amazzoni sono ben consce della straordinarietà e della ricchezza del loro mondo, che utilizzano come accattivante calamita, ma senza successo, verso gli uomini che amano. Al disopra degli avvenimenti, o meglio, dando ad essi, per contrasto, maggior rilievo, permane nello spettatore, oggi nel lettore, la visione della meraviglia americana: estensioni sterminate di verde, abbondanza di fiumi che dalle Ande corrono all'Oceano, miniere d'argento e d'oro così ricche da permettere a chi le possiede di conquistare «a Europa, al Africa, al mundo / postrando a sus plantas reyes»279.

Il discorso relativamente all'ultimo dramma della trilogia richiede alcuni chiarimenti. La lealtad contra la envidia non corrisponde cronologicamente a quanto lo spettatore avrebbe potuto aspettarsi, poiché tratta della prigionia di Fernando   —207→   Pizarro in Spagna, dopo che egli in Perù ha vinto e giustiziato il traditore Diego Almagro, il Vecchio. Il drammaturgo è costretto, quindi, a ricostruire fatti storici che già aveva dato per avvenuti nella commedia precedente, ripetizioni indigeste per chi intendesse la trilogia come una successione regolata dalla cronologia. Con ogni probabilità Tirso non aveva questa intenzione e forse l'ultimo dramma fu pensato e scritto indipendentemente dai primi due.

Ciò che colpisce negativamente, almeno chi è a conoscenza della storia peruviana della conquista e delle guerre civili, è l'adesione piatta alle notizie fornite dai cronisti, in particolare ancora una volta a Zárate, alla cui versione dei fatti corrisponde fedelmente quanto riassume al suo pubblico il drammaturgo. Ma questi fatti già li conosciamo, poiché ad essi si è riferito l'autore in Las Amazonas en las Indias. Si tratta, perciò, di una pesante ripetizione.

E tuttavia, il dramma ha momenti di grande efficacia, pur nella ripetizione e nella discontinuità, rivelatori di un artista straordinario, frettoloso, certo, poco attento all'armonia dell'insieme, ma capace di momenti di vera perizia. E il caso dell'inizio del primo atto, che coinvolge immediatamente il pubblico, tra suoni e grida appropriati, nella presentazione di una corrida, che si svolge fuori scena, oltre le quinte, ma di cui giunge potente l'eco, e dei successivi «accidenti»: una tribuna che sprofonda, con grande rumore, grida di dolore e richieste d'aiuto, quindi una casa che s'incendia, donne prese dal panico che si gettano dalle finestre ferendosi, mentre il valoroso cavaliere don Fernando Pizarro, montato su un brioso cavallo bianco, non solo ha «rejoneado» il toro con successo, da par suo, ma interviene sollecito a salvare dalla furia dell'animale e dall'incendio Isabel, la dama di cui è innamorato.

Lo spettatore assiste a questi fatti non con la vista, ma con l'udito -e forse, per quanto riguarda l'incendio, anche con   —208→   l'olfatto, non è azzardato supporlo-; tutto si realizza fuori della scena, nello spazio misterioso dove tutto è possibile. Personaggi e animali sono suggeriti efficacemente dalle esclamazioni e dal racconto di Obregón e di Cañizares, che dal palcoscenico seguono, volti verso il fondo, quanto il pubblico non vede -ma che è suggerito dai rumori e dai suoni: «Tocan dentro chirimías y trompetas, como en la plaza cuando hay toros; silbos y gritas [...]»280- e lo illustrano e commentano, con tale efficacia da dare concretezza di reale all'immaginario. La comparsa di Fernando Pizarro, «como que se apea de dar el rejón, y con hábito de Santiago»281, rafforza la credibiltà di quanto descritto dalle parole dei due personaggi e così pure il secondo momento, che chiameremo della disgrazia: l'incendio della casa, se ora l'eroico cavaliere compare reggendo «desmayada, en brazos, a doña Isabel»282. Siamo alla terza scena della prima Jornada e la commedia ha posto ben fermi i pilastri sui quali si reggerà.

Ora, tutto il primo atto svolge il tema dell'innamoramento, complicando abilmente le cose: don Fernando è innamorato di Isabel, ma lo è anche don Gonzalo de Vivero. Senonché nella casa dei nobili Mercado due sono le donne da marito, Isabel e Francisca, ed entrambe guardano all'eroico personaggio che ha salvato la più vecchia, si fa per dire, delle due, e nessuna, amore o non amore, intende rinunciare a lui. Il povero don Gonzalo si dispera; vuol sapere a quale delle due donne mira don Fernando, che offeso non glielo rivela. Ma don Gonzalo, con un sotterfugio riesce a chiarirsi le cose. Con nobiltà di cavaliere, don Fernando, credendo di essere stato legittimamente   —209→   preceduto nel cuore di Isabel, dichiara di farsi da parte, ma don Gonzalo, altrettanto nobilmente, gli rivela il suo stratagemma e che nessuna precedenza può vantare. Pone fine alla gara esemplare l'affermarsi di una grande amicizia e don Gonzalo chiede di essere accettato dal Pizarro tra i suoi uomini, ora che, per comando del re, si accinge a far ritorno in Perù, dove il fratello don Francisco è in difficoltà.

Mentre la complicata schermaglia si svolge, Tirso ha modo, attraverso i vari personaggi, uomini e donne, di ricostruire la storia della Spagna imperiale, della quale celebra le imprese -tra esse quella di Pavia, dove fu fatto prigioniero Francesco I re di Francia-, tesse le lodi del marchese del Vasto, esalta il valore, l'onorabilità e anche la pazienza dei Pizarro, in particolare di don Fernando, e proprio, in questo caso, a far più convincenti le argomentazioni, attraverso le parole di don Gonzalo, per il momento ancora nemico geloso, ma che, partito con lo scherno, non può concludere che con una involontaria ammirazione.

Non parliamo poi delle donne! doña Francisca lo definisce un «Alejandro segundo», e per di più altruista se «conquistando un nuevo mundo / se le dio a su emperador»283. Il rapido riassunto non permette di rilevare le molte bellezze dell'arte, la raffinatezza barocca delle metafore, la dolcezza dei versi, quando il tema è l'amore.

Nella prima Jornada l'America è sullo sfondo, ma nella seconda essa assume il ruolo che le compete in un dramma «americano». E subito è uno scenario di battaglia: «Tocan a guerra cajas y clarines; batalla dentro y fuera, entre indios y españoles»284. Ed ecco l'eroe: «Sale don Fernando, con rodela   —210→   y espada desnuda»285, incitando, con un richiamo patriottico -di sicuro effetto sul pubblico-, la sua gente a combattere e a vincere contro un nemico sproporzionatamente più numeroso:


¡Ea, valor de España;
asombro de la envidia,
esta es, sin ejemplar, única hazaña,
más gloria ha de ganar quien con más lidia!
Trescientos mil y más son los contrarios,
menos somos nosotros de trescientos,
ya están, en ordinarios
asaltos semejantes, los alientos
de vuestro esfuerzo heroico acostumbrados
a ejércitos vencer desbaratados.286



Siamo al Cuzco, assediato da uno stuolo di indios dell'Inca Manco, deciso a riconquistare il potere, approfittando delle discordie tra Pizarro e Almagro. Con insistenza Tirso tratta qui il tema della fama, sottolineando la nobiltà d'animo dei Pizarro. Mentre Francisco è a Lima, i tre fratelli, Gonzalo, Fernando e Juan, combattono al Cuzco, avendo radicata la convinzione che si tratta di una «justa guerra», nella quale i loro nomi saranno immortalati, e alla base della loro azione un solo imperativo: «morir por la honra y por la fe primero», come dichiara Fernando287.

Nell'impari lotta intervengono fatti miracolosi e subito la scena si esalta nel magico cristiano. D'improvviso compare l'apostolo Santiago, come nella battaglia di Clavijo contro i   —211→   mori, scendendo da una nube, a cavallo e armato «como le pintan»; un «Viracocha del cielo», lo interpreta l'Inca, che «con milagrosas señales / llega atropellando nubes / sobre un bruto que, de nieve, / es rayo en lo airoso y leve»288, e mette in fuga gli indios. Il povero sovrano lo interroga angosciato:


¡Oh, tú que bajas y subes
y vestido de metal
que cual plata resplandece
y España en minas ofrece
para nuestro fin fatal!
¿Quién eres que, todo luz,
tan pasmoso estrago has hecho?
¿Quién eres tú cuyo pecho
rubí y grana honra la cruz?
¿Quién eres tú, que estoy ciego
y absorto de ver tu estrago?289



Da «dentro» tutti gridano: «El Apóstol Santiago / nos da favor»290.

Ma le apparizioni miracolose non sono finite, ed ecco la Vergine apparire a spegnere il fuoco sulla città incendiata: «Nuestra Señora, con una limeta de agua -recita la didascalia-, se aparece rociando las llamas y volando por encima de los muros»291. Il palcoscenico doveva essere ampio per permettere tali mirabolanti interventi. L'effetto scenico era senza dubbio grandioso. L'Inca è colpito dalla meravigliosa bellezza e dalla luce che diffonde la straordinaria creatura, «Aurora viva», e Fernando   —212→   Pizarro, ossia Tirso, coglie l'occasione per ribadire la missione redentrice della Spagna in America e in essa il diritto ispanico al suo possesso:


No habrá duda
desde hoy, contra envidia tanta,
de que esta conquista es santa,
pues Dios nuestra empresa ayuda;
que para que quede muda
la lengua del que se atreve
a decir, torpe y aleve,
que injustamente poseemos
este imperio, ya tenemos
fe que lo contrario pruebe.
No ayuda a la tiranía
Dios, que a la inocencia ampara;
luego nuestra acción es clara,
pues su Madre nos la envía.292



Con sapiente alternanza di toni, alla felicità della vittoria e del constatato aiuto divino succede la nota del dolore per la morte del giovane Juan Pizarro, «[...] el más gallardo mozo / de la primavera humana»293. Ferito precedentemente alla testa, egli non aveva voluto allontanarsi dalla battaglia. Sono le vicende della vita: «[...] ¡oh vana / esperanza de los hombres!»294, richiama efficacemente don Gonzalo de Vivero; ma tutto è interpretato come disegno di Dio, a sua maggior gloria e ad esaltazione, al contempo, dei Pizarro. Infatti, don Fernando supera il dolore per la perdita del fratello interpretando il triste evento come un segno dell'alto, impegnato   —213→   ad accrescere in dimensione celeste la fama della famiglia, che ora, attraverso Juan, nuovo martire della fede, conquista addirittura il cielo.

La scena conclude con la sepoltura del giovane Pizarro e la successiva, la VII, si apre su personaggi e temi atti a ridare respiro al pubblico con toni «leggeri», il personaggio Castillo, un soldato, è alle prese con l'india Guaica, che lo supplica piangendo di risparmiare l'innamorato; dopo vari giochi di parole, insistenti sulla illibatezza o meno della giovane e inevitabilmente umoristici, ma di un umorismo grossolano e corrente, come si conviene al personaggio, tale da avere effetto immediato sugli spettatori, l'india riesce ad avere ragione del soldato, e anzi, alla ricerca di un promesso tesoro nascosto nel pozzo, riesce a farvelo cadere. Altri soldati, predatori e disonesti persino con il quinto reale, ricercano nel pozzo il loro bottino, ma Chacón, che vi si è fatto calare, è afferrato alle gambe da Castillo che, ritenuto il diavolo, provoca in lui panico; fattosi tirar su dal pozzo in tutta fretta, l'urlante Chacón e i suoi compagni si danno alla fuga, lasciando Castillo felice padrone del tesoro e ammaestrato ormai circa la fiducia che si può dare al pianto delle donne.

La pausa vale egregiamente a riproporre considerazioni più serie, quelle di don Fernando Pizarro che, riflettendo sulla sorte del fratello defunto, costruisce, o meglio conferma, la propria dimensione umana, una filosofia della vita come esperienza negativa, annuncio di quello che sarà il suo ingiusto destino. Tirso non dimentica di essere frate e, mentre costruisce il personaggio, diffonde la sua dottrina religiosa, che afferma sfiducia nel mondo, nel Palazzo e nelle istituzioni, una sfiducia radicata nella letteratura castigliana, a partire dal Cantar de Mío Cid e dal Rimado de Palacio, ma che pure aveva direttamente esperimentato. Per il fratello, Juan ha raggiunto ormai un regno privilegiato, ben diverso da quello di   —214→   questa terra, dove ancora don Fernando si aggira, si direbbe già conscio di quanto sta per accadergli. Egli stesso celebra la felice sorte del defunto:


Allí privilegiado
de envidias y parciales,
ni competencias ni mentiras teme;
no idolatra al privado,
no adula tribunales
donde la ingrata dilación blasfeme;
que porque el gozo sin pensión le asista
lo mismo le corona que conquista.
¡Qué triunfos inmortales
no le ofrecen diademas,
que adquirió por sus hechos, por su fama,
cívicas y morales!
Las sienes le guarnecen ya supremas
de encina y oro, de laurel y grana.
¡Mil veces venturosa valentía
que a Dios el premio, no a los hombres, fía!295



Sarà la contesa con Diego de Almagro, il Vecchio, congiurato con Finca per divenire re delle Indie, la prigionia e il riscatto, la successiva sconfitta, giudizio e morte di Almagro, che la storia ci tramanda, e quindi la protesta con cui si apre la terza Jornada del dramma, dove troviamo don Fernando in Spagna, prigioniero nel castello della Mota, di cui è Alcaide don Alonso de Mercado, il padre di Isabel. Ed è proprio Isabel che sottolinea, all'inizio della Jornada, l'ingiustizia:


¡Que pueda tanto el exceso
de la envidia y sus engaños!
—215→
¡A cabo de tantos años
en este castillo preso
quien dio a España, al rey y a Dios,
un mundo!296



In realtà Francisco Pizarro era stato il vero conquistatore del Perù, ma Tirso qui lo elimina di proposito, per far ricadere tutta la gloria sul vittorioso rivendicatore della dignità marchionale. La nobile figura di don Fernando, se prima aveva avuto risalto, non solo per il valore dimostrato, ma per il contrasto insistito con l'indegnità, anche di nascita, del traditore Diego de Almagro, definito «hijo de la piedra», «mercader», uomo «de bajo nacimiento»297, acquista una luce intensa di martirio. Egli è la vittima prima dell'invidia, male dell'umanità, che non sopporta chi si distingue. Se ne lamentava, tra i molti, nell'ambito americano, anche suor Juana, e con ragione, nella sua Respuesta a Sor Filotea. E chi del pubblico non aveva, o riteneva di avere, la sua personale esperienza?

La Jornada finale è densa di avvenimenti e di notizie che giungono dall'«altro mondo», non più presenza mitica ed esaltante, ma territorio oscuro e infido. L'America è qui una realtà lontana, che si fa viva solo per la disgrazia; infatti da essa giungono a don Fernando solo echi negativi, oltre al ricordo di imprese valorose, che tuttavia gli fruttarono solo la prigionia. Tirso pone in rilievo che i tempi sono cambiati anche in Spagna: al César Carlo V è successo un re guardingo, Filippo II, che nulla sembra sapere dei Pizarro, e che con calma -una calma esasperante, se si prolunga per anni- assume informazioni circa i fatti addebitati a don Fernando. Nel frattempo   —216→   il prode conquistatore è vittima dei partigiani di Aimagro e di infidi cortigiani. Ad essi si oppone il fedele don Gonzalo Vivero, con eroica prova di amicizia.

Dall'America giunge la notizia non solo dell'assassinio del marchese don Francisco da parte dei partigiani di Diego Aimagro, il Giovane, ma della ribellione e successiva sconfitta e morte sul patibolo di don Gonzalo Pizarro. Ribellione al re che don Fernando sente disperatamente come macchia infamante per la sua casa. A lungo Tirso insiste sulla lamentazione dell'eroe e sulla condanna che egli fa del fratello ribelle. Ma notizie più attendibili acquietano la sua disperazione: il drammaturgo torna a legittimare l'operato di don Gonzalo e ribadisce l'esistenza di una «cédula» dell'imperatore, nella quale si stabiliva che nel governo del Perù doveva essere proprio don Gonzalo il successore del fratello assassinato.

Nella movimentata realtà storica viene anche ripresa la vicenda d'amore, riallacciando cosí il terzo al primo atto: doña Francisca è sempre innamorata di don Fernando, ma costui s'è unito in segreto con doña Isabel, che anzi attende un bambino, cosa che gli rivela sul punto di ritirarsi in convento, per non assistere all'ultimo atto della prevedibile tragedia. Sarà una bambina, e toglierà ogni disturbo alla successione; se la terrà felice il nonno castellano, che anzi, ormai assolto don Fernando, e morta quasi provvidenzialmente doña Isabel, lo incoraggia a sposare la nipote, doña Francisca, giunta dal Perù, dando cosí felice inizio alla nuova discendenza.

E la povera sorella di Isabel? Non sia mai che venga abbandonata: il generoso don Fernando propone, infatti, che essa sia premio per l'amico fedele don Gonzalo Vivero, il quale ben felice accetta, e felice sembra anche lei, poiché, in sostanza, l'importante è trovare marito.

  —217→  

Tutto finisce bene, quindi, e si dimostra, secondo le parole del castellano, come la lealtà vinca sempre l'invidia:


[...] aprenda el prudente, cuando
envidiosos le persiguen,
en Don Fernando, pues vence
la lealtad siempre a la envidia.298



Ha termine così la trilogia dei Pizarro, che corona compiutamente il proposito dell'autore, assolvendo in pieno alla committenza. Ma certamente Tirso doveva essere attratto dal destino singolare dei quattro conquistatori della famiglia, tre dei quali periti tragicamente nelle Indie favolose, dove avevano acquistato fama e ricchezza, mentre l'ultimo era stato sul punto di avere la stessa sorte e di por fine a una schiatta di eroi, come indubbiamente doveva considerarli il frate mercedario per l'eccezionalità delle imprese, vantaggiose non solo per la Spagna, ma. soprattutto, secondo le sue convinzioni, per la fede cristiana. In essi egli vedeva, inoltre, la profonda lezione dell'instabilità della fortuna, l'opera perniciosa dell'invidia, e trovava la conferma, una volta ancora, di come la vita dell'uomo sia legata al filo, che non le Parche, ma Dio tiene nelle sue mani299.



  —[218]→     —219→  

ArribaAbajo- 3 -

Evangelizzazione e portenti in La aurora en Copacabana di Calderón


Nonostante la grande fortuna del teatro di Calderón de la Barca nel Perù del secolo XVII, soprattutto dei suoi autos sacramentales300, l'America sembra avere destato scarso interesse nel grande drammaturgo spagnolo. Christopher F. Laferl sostiene che la ridotta presenza dell'America nelle lettere spagnole del Siglo de Oro è dovuta probabilmente anche al fatto che la maggioranza dei contemporanei non si rese ben conto di che cosa significasse la scoperta del Nuovo Mondo, più interessati agli avvenimenti europei in quanto ad essi più vicini301. Ciò, del resto, era avvenuto anche in Italia, almeno per quella del Sud, di fronte alla scoperta colombiana, ed era per l'epoca giustificabile. Ma per la Spagna, in tempi piuttosto brevi, l'atteggiamento cambiò, dominato prima dall'immaginario fantastico, poi dal meraviglioso reale delle enormi ricchezze minerarie, prima del Messico, poi del Perù.

  —220→  

Tuttavia, per quanto attiene al teatro, se consideriamo lo sterminato numero di testi, colpisce il fatto che ben pochi di essi siano ambientati in America, o trattino temi americani, ed è certo, per quanto riguarda Calderón, che la sua attenzione sfociò nel solo dramma de La aurora en Copacabana, del 1661, pubblicato nella Parte Cuarta delle sue commedie nel 1672, non certo una delle realizzazioni migliori del suo vasto repertorio. Che cosa spingesse il drammaturgo a scrivere l'opera in questione non sappiamo; forse l'impegno di apostolato, come suggerisce il Valbuena Briones, il quale vede nel dramma, proprio per questo, una forte unità, un «vigoroso conjunto»302, al quale dà il significato di un valido «auto mariano», quale è senza dubbio per il tema303.

L'argomento non era nuovo: lo aveva trattato Tirso de Molina, come s'è visto, in uno dei drammi della trilogia pizarrista, La lealtad contra la envidia, e le fonti di riferimento sono le stesse: le cronache delle Indias relative al Perù, in particolare la seconda parte dei Comentarios Reales dell'Inca Garcilaso304. Questo per quanto riguarda l'apparizione e l'intervento della Vergine in favore degli spagnoli assediati dagli indigeni nel Cuzco in fiamme.

La aurora en Copacabana presenta scenari e tempi diversi della conquista spagnola del Perù e della diffusione del culto della Vergine di Copacabana, santuario presso il lago Titicaca, già tempio del Sole. Quanto alla conquista, Calderón   —221→   sposa appieno la tesi della prowidenzialità della stessa, ai fini della salvezza dei pagani. Pizarro, Almagro e Candía fanno la loro prima comparsa di esplorazione (1526) promettendo già il riscatto in questo senso delle popolazioni immerse nell'idolatria. Appena affacciatisi al mondo peruviano se ne vanno, non senza aver prima raccolto «algunas señas, bien como / frutas, árboles o hierbas»» che, «allá», nell'Europa, non esistevano, lasciando però chiari segni della loro venuta, «de que aquí / llegamos», promessa di un prossimo ritorno; si tratta di una rozza croce che innalza sulla terra «barbara» Candía, cui appartiene l'idea, premessa di un programma futuro:


Pues nadie habrá que la vea
que no diga: «Aquí llegaron
españoles; que esta es muestra
del celo que los anima
y la fe que los alienta».305



La posizione di Calderón è chiara, come chiara è la sua mancanza di simpatia, o se vogliamo, di sensibilità nei confronti del mondo indigeno, diversamente da Lope, forse altrettanto indifferente di fronte al suo destino tragico, ma meglio disposto spiritualmente e incline anche ad una sdrammatizzante nota umoristica quale si coglie nel Nuevo Mundo descubierto por Cristóbal Colón. Ne La aurora en Copacabana, invece, Calderón raggiunge scarsi risultati anche nello humor. La funzione di gracioso riservata a Teucapel, e a Glauca, non riesce nello scopo: si tratta sempre di un umorismo forzato, o comunque poco efficace. La presentazione, poi, del mondo   —222→   indigeno è superficiale e mantenuta nell'ambito di un fofe clore appiccicaticcio, di maniera: canti e danze in onore deli l'Inca Guàscar, già in lotta col fratello Atabalipa.

In sostanza, gli indigeni sono presentati come esseri inferiori rispetto agli spagnoli e di tutto si stupiscono, con ragione della nave che appare presso la costa -«un escollo que navega», un «aborto de mar y viento», «gran pez cuando nada, / y pájaro cuando vuela»-, del colpo di cannone, ma anche -eppure mare e fiumi li avevano, e sapevano navigare- della scialuppa, vista come parto del mostro-nave -«de su vientre arroja otro menor»-, sulla quale Candía si reca a terra per piantare la croce. Che invece si stupiscano degli uomini, bianchi di pelle e con barba, non fa meraviglia, ma nessuno di questi elementi è così efficace da dare un particolare risultato artistico a questa ennesima dimostrazione del potere della croce, se non quando improvvisamente interviene il fantastico sacro.

La croce, infatti, compie il miracolo di ammansire le fiere che gli indigeni hanno aizzato contro gli stranieri, in realtà solo il povero Candía, unico sbarcato per assolvere al suo compito. Lo spagnolo rimane impressionato, e favorevolmente, s'intende, per la mansuetudine inconsueta delle belve, dopo aver visto con terrore che «mil feroces animales / toda la marina pueblan». Più limitatamente, recita la didascalia, «Salen un leóny un tigre»; essi vanno prostrando ai piedi del terrorizzato conquistatore «las nunca domadas testas». Miracolo di Dio, cui il conquistatore corrisponde innalzando la croce:


Señor, pues este favor
tan anticipado premia
el deseo de arbolar
vuestra militar bandera
entre estos bábaros, donde
—223→
vuestra fe plantada crezca,
en vuestro nombre, subiendo
a este risco, en su eminencia
la fijaré.



E, infatti, «Sube a lo alto del monte». Il miracolo della croce è segno del favore di Dio, della sua benedizione all'opera ispanica di conquista in nome della fede.

Di fronte a tanto potere del Dio cristiano reagisce l'Idolatria, minacciando finca di rivelare l'imbroglio con cui il remoto antenato, da lei favorito, ha fatto credere che il proprio figlio, cresciuto in segreto, fosse figlio del Sole, dando origine alla presunta schiatta divina. In questo si vorrebbe vedere un possibile preannuncio del Cristo, tra popoli a suo tempo ritenuti, con molta fantasia, oggetto della predicazione dell'apostolo Tommaso.

Gli indigeni rimangono stupiti davanti al portento della croce, in particolare il nobile Yupanguí, al quale, improvvisamente come paralizzato, cade di mano l'arco, effetto di quel «Tronco» che emette raggi e «a puras luces» lo accieca, per cui «más es que tronco».

L'intervento del portentoso sacro dà vita al dramma, nel quale interviene anche un combattuto amore, di Yupanguí e dello stesso Inca, per la bella sacerdotessa Guacolda, vergine destinata a essere sacrificata al dio Sole. Ma la storia sentimentale, in sé sfuocata, che dovrebbe finire con il sacrificio della giovane, vale soprattutto a evidenziare la diversità crudele del dio indigeno di fronte alla bontà del Dio cristiano, il quale si è sacrificato per salvare gli uomini, mentre il Sole esige sacrifici cruenti. Guacolda, trovatasi ad espiare una colpa non sua -la vendetta del padre, seguace di Atahualpa, contro Yupanguí, rimasto con Guàscar-, reagisce drammaticamente al suo destino e pone un fondamentale problema all'innamorato:

  —224→  

[...] ¿Es ley, di,
que un dios no muera por mí,
y que yo muera por él?



Il predominio vittorioso della croce è già evidente. Il mondo indigeno non può che arrendersi davanti alla bontà del Dio cristiano. La conseguenza immediata è che Yupanguí decide di disubbidire sia allinea che al Sole. Si chiude così la prima Jornada del dramma. Ma vale ancora la pena di sottolineare positivamente -già lo ha fatto Kathleen N. March306- la soluzione felice del problema della comunicazione tra spagnoli e indigeni: nel loro incontro Candía e Yupanguí parlano ognuno, in castigliano, un proprio linguaggio, reciprocamente incomprensibile, ma non al pubblico, che tuttavia può apprezzare le difficoltà con cui si realizzò la comunicazione tra due mondi così diversi. Merito non indifferente di Calderón per alcuni critici, ma non v'è dubbio che la presenza di qualche vocabolo americano ormai entrato anche alla lingua dei dominatori, avrebbe reso in modo più convincente l'ambito in cui la vicenda si svolge. Il confronto con El Nuevo Mundo di Lope, lo rende evidente.

La seconda Jornada ha per scenario il Cuzco. Siamo nel 1536, la conquista è ormai un fatto concreto, e con essa l'evangelizzazione. Gli spagnoli, vinta la resistenza degli indigeni, entrano in Cuzo, ex capitale dell'impero incaico, ma le truppe di Guàscar giunte di rinforzo riescono a porre in situazione disperata i conquistatori assediati, appiccando il fuoco   —225→   con frecce incendiarie ai tetti delle case. Nella terribile situazione gli spagnoli invocano la protezione della Vergine, che li soccorre, spegne il fuoco «lloviendo copos de nieve / y rocío», e accieca gli assediami con «un suave polvo / de menuda arena blanca». Ne viene disorientamento e stupore nel campo nemico; lo stesso Inca è toccato nel profondo.

In sintesi, questo è ciò che presenta il secondo atto del dramma, ma qui occorre sottolineare l'affermarsi di una straordinaria atmosfera poetica, che di colpo riscatta tutto il dramma, al segno del meraviglioso divino. Che già si annuncia nel destino di Pizarro, quando caduto da un'alta scala ne esce illeso. Si tratta, in realtà, di un falso storico, poiché fu invece il fratello minore, Juan, ad essere ferito e a morire. Ma la verità storica non ha rilevanza in un'opera di fantasia, dove domina incontrastata la libertà dell'artista.

Ciò che invece va sottolineato nella seconda Jornada de La aurora en Copacabana è la nota ispirata di religiosità con cui Calderón celebra la Vergine. Egli non si accontenta di presentarne il miracoloso intervento, ma nelle invocazioni degli spagnoli che si vedono perduti rappresenta la tensione di una fede ardente, per la quale Maria è celebrata non solo come vergine immacolata, ma come misericordiosa ausiliatrice, secondo la tradizione, di profonde radici nella religiosità ispanica. Di Maria il drammaturgo fa la protettrice della conquista, come si esprime Pizarro, che la vede già presente nell'assoggettamento della Nueva España, anche se, secondo Bernal Díaz del Castillo, era piuttosto Dio stesso a intervenire in favore degli spagnoli307.

  —226→  

Ribadito da parte di Almagro che la conquista del Perù avviene per la propagazione della fede e l'onore di Maria, appare naturale l'intervento della Vergine. In musicale concerto si diffonde il canto degli angeli:


El que pone en María
las esperanzas,
de mayores incendios
no sólo salva
riesgos de la vida,
pero del alma.



La rappresentazione è di un fine barocchismo e richiama affermate allegorie pittoriche. Recita la didascalia:

Suenan chirimías, y baja de lo alto una nube en forma de trono, con varios SERAFINES Y DOS ÁNGELES que traen la imagen de Nuestra Señora de Copacabana, con el Niño en las manos; y al tiempo que empieza a descubrirse, y todo lo que dura el paso hasta desaparecerse, estará nevando la nube.



Ciò che maggiormente rende il meraviglioso sacro è il commento della parte contraria, quella indigena pagana. L'Inca, profondamente colpito dall'evento, sottolinea gli effetti improvvisi dell'intervento mariano, che spegne l'incendio con neve e rugiada, ma il nobile Yupanguí descrive con efficace senso pittorico e raffinato cromatismo, ispirato più che «pasmado», la singolare e misteriosa apparizione:


[...] veo que la nube, basa
(guarnecida a listas de oro
y tornasoles de nácar)
es de una hermosa mujer,
que de estrellas coronada
—227→
trae el sol sobre los hombros,
y trae la luna a sus plantas.
Hermoso niño en sus brazos
trae también. ¿Quién vio que nazca
mejor sol a media noche,
a quien con voces más claras
hijo de mejor aurora
mejores pájaros cantan?



Non si tratta solo di desrizione pittorica, bensì di movimento. Eattenzione dello spettatore è attratta dall'apparizione, dalle figure, dai colori e dai simboli, ma in particolare da un movimento dinamico d'insieme. Chiarisce la didascalia:

Va pasando la nube con la imagen y los ÁNGELES, y salen oyendo las voces como elevados, PIZARRO, ALMAGRO, CANDÍA Y ESPAÑOLES.



Una complicata macchinarla doveva permettere questo singolare movimento elevatorio, rendendo visibile e «tangibile» il miracolo, che certamente contribuiva in modo eccellente ad acquietare gli scrupoli degli spettatori, quando mai li avessero avuti, nei confronti della conquista, se gli angeli spronavano alla stessa come avvio di tempi nuovi per l'America, quelli della fede cattolica. Un angelo, infatti, richiama l'attenzione degli assediati sull'evento; un altro li sprona:


Vivid y venced, pues ya
es tiempo que a estas montañas
amanezca mejor sol
en brazos de mejor alba.



La coppia angelica unita prosegue, accompagnata dalla musica:

  —228→  


Y América sepa
con la fe de España

Que el que pone en María
las esperanzas,
de mayores incendios,
no sólo salva
riesgos de la vida,
pero del alma.



Calderón si avvaleva spesso, nelle sue opere, dell'accompagnamento musicale per dar respiro e grazia alla rappresentazione. L'effetto scenografico è esaltato, nel dramma, dal canto e dalla musica, con un risultato emotivo che doveva propagarsi direttamente agli spettatori, mentre ancora rapiti assistevano all'improvvisa scomparsa dalla scena, per «elevazione» miracolosa, dei personaggi parte del quadro. Grande abilità di Calderón, padrone di un «mestiere» nel quale era indiscutibilmente maestro.

Il clima finisce per essere tutto diverso, come invaso dal miracoloso e penetrato da una forza ormai invincibile: quella della fede trionfante. Calderón non si limita, ne La aurora en Copacabana, a svolgere il tema mariano, ma riprende anche i miracoli della croce, ricollegandosi al primo atto, attraverso la vicenda di Guacolda e di Yupanguí. L'Inca è scosso dal portentoso evento e in un estremo tentativo di placare il Sole decide di sacrificare sia Guacolda che Yupanguí che lo ha tradito; ma l'una si abbraccia alla croce, l'altro al platano, simbolo di Maria, e nessuno riesce a saccarli, né a ucciderli. Guáscar constata così l'impotenza del suo dio, mentre l'Idolatria vede la sua prossima, definitiva sconfitta constatando che «mejor sol en brazos / de mejor aurora nace», e irata minaccia apocalittiche distruzioni.

  —229→  

Si chiude così la seconda «Jornada», la più interessante e valida di tutto il dramma. La terza non presenta che scarso interesse. Nuovamente Calderón compie un salto temporale: la scena è posta, infatti, in un Perù ormai convertito, ai tempi del viceré don Jerónimo de Mendoza, conte di La Coruña. I personaggi attivi nei due atti precedenti, Guacolda e Yupanguí, ora sposi, hanno assunto nomi cristiani e sono entrati in un clima diverso, scadendo dalla loro primitiva condizione. Sono infatti due normali villici, mentre prima, nel mondo indigeno, appartenevano a una categoria di rilievo, la nobiltà. La conquista, è noto, livellò verso il basso le antiche dignità del mondo indigeno. Ricordiamo, per quanto concerne la Nueva España, la denuncia scandalizzata di fra Toribio de Benavente, di fronte a gente ispanica di bassa origine, per la maggioranza «labradores», che «hanse enseñoreado de esta tierra y mandan a los señores principales naturales de ella como si fuesen sus esclavos»308.

Guacolda, in particolare, prima fanciulla attraente, aureolata oltre che dalla nobiltà delle origini, dalla condizione di sacerdotessa del Sole e dalla situazione di vittima sacrificale, è ora una semplice contadina e Yupanguí un capo di confraternita, impegnato a scolpire una statua della Vergine con bambino, quale apparve, a lui e a tutti, in occasione dell'incendio del Cuzco. Senza arte né parte, è naturale che il prodotto sia rozzo e quindi inaccettabile per il santuario di Copacabana; ma egli insiste, disposto a impiegare i suoi pochi averi -la conquista ha impoverito il mondo indigeno e anche a servire gratuitamente per un anno, se necessario,   —230→   il doratore di La Paz, pur di abbellire la sua povera opera. La Vergine lo premierà con un intervento miracoloso; infatti angeli abbelliranno la statua, suscitando l'ammirazione di tutti e dello stesso viceré, che si era impegnato a fornire le due corone. Senonché la corona posta sulla testa del bambinello occulta la vista del volto della madre e tutti se ne rammaricano; ma la Vergine sposta il braccio, tra l'ammirazione di tutti, ed elimina l'inconveniente.

Storia più assurda Calderón non poteva inventare309, ma certo gli spettatori, devoti ardenti si suppone, dovevano essere entusiasti, come se ne mostrano gli attori, specie i due sposi, passati attraverso tante avventure, ora felici nella fede di un Dio che, ribadisce Guacolda, «primero que yo muera / por él, ha muerto por mí». Poco ci manca che si assista alla conversione della stessa Idolatria, tanto è ormai scoraggiata constatando quanto le radici della fede sono penetrate nel mondo indigeno. Sulla fine della terza «Jornada» il dramma torna a riscattarsi, come era avvenuto nel secondo atto, con il trionfo di Maria. L'apparizione della statua che gli angeli affinano, come esperti pittori, proietta luce e colori sulla scena, mentre risuonano canti angelici, accompagnati dalla musica. Suggerisce l'autore:

Tocan chirimías, córrese la cortina, y vese en un altar adornado de luces y flores la imagen dorada, y al mismo tiempo en dos apariencias, que llaman sacabuches, bajan DOS ÁNGELES, con paletas, colores y pinceles en las manos; y mientras ellos cantan y toda la MÚSICA responde dentro, van tocando LOS ÁNGELES la imagen, y ella se va convirtiendo, como mejor pueda ejecutarse, en una   —231→   imagen de nuestra Señora con el Niño Jesús en los brazos; la más hermosa, adornada y vestida que se pueda, que será aquella misma que se vio en la apariencia del incendio y de la nieve.



Calderón realizza a sua volta un miracolo, rendendo magistralmente, in una fusione di parola, canto, musica e movimento, il lavoro degli angeli pittori, fino al risultato finale e all'invito:


Corred, volad, venid,
veréis cuánto mejoran
en nuestra Emperatriz
aciertos del pincel
errores del buril.
Corred, volad, venid.



Nasce così, per la fede, con «mejor sol / la aurora en Copacabana». La data in cui l'immagine delle Vergine fu posta nel santuario era il 2 febbraio 1583. All'arte il dramma calderoniano, che termina con una processione rischiarata dalle candele dei devoti, non apporta che limitati contributi, anche se corrisponde perfettamente allo spirito con cui l'autore interpretava il riscatto alla religione cattolica del mondo americano310.





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