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«Quod scripsi, scripsi»: un curioso incontro con Arturo Uslar Pietri, nonagenario

Patrizia Spinato Bruschi





Sono stata a lungo incerta sull'opportunità di trascrivere questa breve intervista, gentilmente rilasciatami a Caracas da Arturo Uslar Pietri nel giugno del 1996, direi quasi inaspettatamente, ma la recente scomparsa dello scrittore la configura quale un doveroso omaggio alla sua memoria, nonché come un modesto contributo per la ricostruzione di una personalità che tanta parte ha avuto nella formazione dell'identità nazionale.

Gli amici venezuelani mi avevano messa in guardia sulla difficoltà dell'impresa, per via dell'avanzata età dello scrittore e della serie di impegni che l'avrebbero oberato in quel periodo; ciononostante, ho osato instaurare un contatto diretto via fax, e, alla mia richiesta di appuntamento, ha fatto rapido seguito una cortese risposta affermativa che portava la sua firma. Grande emozione mi ha suscitato anche la sola possibilità di conoscerlo e di parlargli, sebbene non avessi alcuna certezza riguardo all'effettiva realizzazione del progetto. Comunque, appena giunta nella capitale venezuelana, ho preso contatto con la sua segretaria, Oly Guerrero, che mi ha prontamente fissato un appuntamento per la settimana successiva.

Lunedì 24 giugno ho avuto modo di intravederlo per la prima volta all'inaugurazione del XXXI Congreso Internacional de Literatura Iberoamericana, e martedì 25, alle ore diciassette, mi sono diretta al quartiere de La Florida per conoscerlo personalmente. Uslar Pietri risiede in una villa signorile d'impronta coloniale in un bel quartiere residenziale della capitale, probabilmente meno elegante di quanto non dovesse essere tempo addietro, prima che le sfarzose tenute di stampo statunitense del Country Club stravolgessero i canoni estetici dell'urbanistica cittadina. Un domestico mi ha accolta alla porta di casa e mi ha fatta accomodare in una gradevole veranda sul retro della casa; dopo pochi minuti di attesa, lo scrittore ha fatto la sua apparizione: ci siamo presentati e l'ho seguito all'interno. Mi ha ricevuta in una delle due spaziose sale che compongono la sua rinomata biblioteca, sempre al pian terreno dell'edificio. Li, dopo dei brevi convenevoli ed il reciproco omaggio di volumi che lo riguardavano1, ha avuto inizio il nostro la durata di circa venti minuti. Senza alcuna velleità «eskenaziana», a quanto pare sommo paradigma del genere2, il criterio del breve questionario -peraltro preparato con la collaborazione di Aldo Albònico- era quello di lasciare ampio spazio e libertà di pensiero e parola allo scrittore, che in alcun modo avrebbe dovuto avere la sensazione di sentirsi assediato e trascinato dalle tracce tematiche, data l'occasionalità del nostro incontro. L'idea portante non era certamente quella di estorcergli improbabili rivelazioni dell'ultima ora, bensì quella di tornare a sottoporre alla sua attenzione domande e problematiche a lui care, al fine di verificare l'omogeneità delle sue posizioni nel corso della sua lunga ed operosa carriera. Memore dello spirito che aveva animato le squisite conversazioni intrattenute con personalità quali Germán Arciniegas e Otto de Greiff in Colombia3, avevo l'illusione che far leva sull'esperienza di una così lunga esistenza potesse condurre, al di là di inutili schemi, ad una visione d'insieme completa e serena della propria vita, del proprio lavoro, del proprio mondo. Avendo Uslar Pietri tanto vissuto, tanto scritto e tanto pubblicato, ed essendosi sistematicamente analizzato a livello critico la maggior parte del suo operato, almeno inizialmente non ho ritenuto opportuno indulgere in particolari e sfumature magari volutamente da lui tralasciati, per dare invece risalto all'unicità dell'esperienza umana: in un contesto apparentemente banale, un questionario generico dà infatti modo di apprezzare la carica culturale dell'uomo, consente di soppesare, tra le linee di un tema già eviscerato, la scelta dei vocaboli, l'intonazione, l'enfasi che caratterizzano la focalizzazione di un problema che ci si aspetta possa essersi evoluta, o se non altro modificata, in novant'anni di carriera.

Ebbene, la mia scelta non si è rivelata felice o forse le contingenze non mi hanno particolarmente favorita. Uslar Pietri mi ha senza indugio concesso un appuntamento, ma all'interno di una settimana per lui estremamente intensa e faticosa. Per quanto mi riguarda, ho avuto modo di vederlo e di sentirlo parlare per ben quattro volte: lunedì pomeriggio, quando ha inaugurato il Congreso, mercoledì pomeriggio, per la celebrazione dei suoi novant'anni presso l'Academia Nacional de la Historia e sabato mattina, all'atto di chiusura del Convegno. Va da sé che il nostro appuntamento del martedì pomeriggio non era che l'ennesima interruzione della sua tuttora alacre attività lavorativa.

Manifestamente frettoloso, egli mi è sembrato voler interpretare la griglia quale una ripetizione pedissequa di argomenti universalmente noti, ai quali ha risposto in modo, oserei dire, ormai stereotipato ed impersonale, dal momento che vengono da lui sempre più frequentemente riproposte le medesime tematiche con le medesime strutture linguistiche, come ho verificato anche nel corso della settimana a lui dedicata. I suoi interventi pubblici, in effetti, hanno fatto continuo riferimento al periodo parigino, alle amicizie del soggiorno europeo, al futuro del Venezuela, senza aggiungere alcunché di originale a quanto più volte ribadito nei suoi scritti4.

Propendo comunque per interpretare la sua scarsa disponibilità alla luce dei numerosi impegni della settimana, in particolare considerando l'età allora già avanzata di Uslar Pietri. In quanto al questionario, ritengo fosse spesso fin troppo ben canalizzato: ciò è evidente nel corso dell'intervista quando le pause e le ripetizioni servono diplomaticamente ad evitare argomenti spinosi o difficilmente esauribili nel lasso di tempo che mi aveva concesso; con grande abilità, in più di un'occasione egli distorce la domanda o la volge a suo favore aggirando gli ostacoli5. E direi che sia proprio questo leggere fra le righe che permette invece di valutare positivamente quanto all'inizio mi era parso di scarso valore scientifico: sono certa che le frequenti omissioni e le lacunose interpretazioni non siano frutto di una memoria affievolita, bensì di un sempre vigile controllo razionale nella piena consapevolezza del potere dell'atto comunicativo. È un peccato, per certi versi, che il lettore non possa restituire le immagini acustiche del dialogo, in quanto i mutamenti di tono, gli schiarimenti di voce, le pause permettono di apprezzare le piccole strategie di un comunicatore consumato, conscio del proprio ruolo e delle proprie potenzialità retoriche.

PATRIZIA SPINATO: ¿Cuál es su visión de conjunto de la historia y de la literatura venezolana?

ARTURO USLAR PIETRI: La historia... la visión de conjunto: bueno, yo creo que la literatura de un país, si es una literatura valiosa y significativa, está estrechamente ligada con la historia del país; no puede haber un divorcio entre la literatura y la historia. A veces la literatura es una actitud crítica frente al país, pero es lo mismo que ocuparse del país, de modo que la relación es estrechísima: yo no concebiría una literatura que no tuviera que ver con lo que la produce y tampoco concebiría un país que no tuviera una literatura que lo reflejara, de modo que se establece una relación que viene desde la más remota antigüedad hasta nuestros días.

P. S.: ¿Y el desarrollo, en particular de la cultura y de la literatura de este país?

A. U. P.: Pero el caso latinoamericano es también muy importante por lo siguiente, porque debido a la forma en que se produjo la independencia latinoamericana, que no se produjo por una revolución, sino se produjo por una ruptura, por una ruptura violenta y grande y de inmensas consecuencias, probablemente de una manera prematura -no fue por una evolución de maduración, como ocurrió en los Estados Unidos, con el Canadá- entonces eso ha traído que los hombres de pensamiento de la América Latina, de una manera mucho mayor que lo que pasa normalmente, por ejemplo, en Europa, hayan tenido una preocupación nacional muy grande, que no es el caso en Europa, no [...]6. La literatura latinoamericana ha sido muy participativa en la historia de los países y los escritores latinoamericanos en una o en otra forma han estado envueltos en la vida histórica y política de los países.

P. S.: Y entonces, ¿qué opina acerca de la mezcla de literatura y política? O sea, ¿cómo tiene que actuar un escritor preocupado por el futuro de su país y el presente de su pueblo?

A. U. P.: ... Es que aquí no hay manera de distinguir literatura y política. En Europa posiblemente es posible hacer esa distinción; yo me imagino que en Italia no debe ser difícil y en Francia tampoco, incluso en España tampoco, pero es que nacionalidad y literatura en Hispanoamérica están juntas. Tomar conciencia de que éramos una nación, tomar conciencia de que teníamos un destino distinto, tomar conciencia de que teníamos que construir una nueva ocasión histórica es un fenómeno puramente latinoamericano por la circunstancia en que se produjo la independencia. Entonces todos los escritores latinoamericanos en grado variable desde la independencia para acá, han tenido como tema opinar sobre lo que está pasando, sobre lo que debe pasar, sobre lo que no debe pasar; han sido actores históricos en muchas formas, desde Bello y Sarmiento y hasta hoy.

P. S.: Entonces, es importante que siempre haya una...

A. U. P.: ... En América Latina es inseparable.

P. S.: ¿Y cómo ve entonces la literatura fantástica?

A. U. P.: ... Ah, bueno, hay literatura fantástica, claro, de todos modos, eso no significa nada... se hace literatura amatoria[l] pero lo que caracteriza la América Latina no es la literatura fantástica, es todo lo contrario: es la búsqueda de una identidad, la definición de una situación histórica lo que la caracteriza.

P. S.: Entonces el papel más importante es el del escritor que participa activamente, es decir, del que no se olvida de la realidad...

A. U. P.: ... Y que no puede olvidarse porque nace de esa situación, vive en esa situación y participa en ella.

P. S.: ¿Cuáles son para usted los episodios de la historia venezolana que han marcado mayormente el país?

A. U. P.: Ah, bueno, la independencia fundamentalmente, que en Venezuela tuvo el proceso de independencia más temprano, más largo, más destructivo y más costoso de toda la América Latina. Hubo países latinoamericanos cuyo proceso de independencia duró seis meses. En Venezuela duró veinte años, pereció la tercera parte de la población. Todo lo que venía del régimen colonial se alteró radicalmente, de modo que la independencia de Venezuela fue un cataclismo realmente, ¿no?, que alteró toda la vida nacional y que explica el siglo XIX venezolano después, qué se podía hacer en un país que se había deshecho, que había perdido la tercera parte de su población en la guerra y en la emigración, que se había arruinado, que había perdido todas sus instituciones, o que eso explica en gran parte también la preocupación de los hombres de pensamiento por lo que pasaba y lo que podía pasar. Luego, el otro hecho muy importante que ocurre en nuestra época es la aparición de la riqueza petrolera en Venezuela. Venezuela era un país de modestas proporciones económicas y sociales en América Latina, a pesar del gran papel que hizo la independencia, desmesurado y que le costó muy caro. Y de repente en ese país que no tenía unas perspectivas mayores que las que podía tener por ejemplo el Ecuador, aparece una inmensa riqueza petrolera, gigantesca, que modifica toda la vida nacional y que altera todas las relaciones sociales del país y que lo hace desembocar en una situación completamente inesperada de una nación que vive del estado, en lugar de un estado que viva de la nación, y de un estado inmensamente rico, que lo subsidia todo, lo penetra todo y lo patrocina todo. De modo que de esa situación estamos saliendo porque eso no ha sido posible sostenerlo, porque evidentemente la renta petrolera, por inmensa que haya sido, no puede subsidiar un país entero todo el tiempo y en todas sus actividades. [...]

P. S.: ¿Cuál es su juicio acerca de los diferentes períodos de la historia de Venezuela?

A. U. P.: Bueno, es que yo no distingo así diferentes períodos; se pueden distinguir, claro, hasta por el carácter de los presidentes que han sido. La historia de Venezuela es una independencia prematura e inmensamente costosa y ruinosa que destruyó todo lo que venía del pasado, cosa que no ocurrió en otro país hispanoamericano y que desembocó en un siglo XIX de anarquía y caudillismo, muy inestable y muy pobre y muy asustado por la guerra y desde la independencia hasta 1903 en Venezuela hubo más de cien alzamientos y guerras civiles, en un siglo. De modo que era un país anarquizado completamente; eso no pasó en otros países hispanoamericanos. De modo, pues, que, y encima de eso, en ese país que con mucha dificultad logró unificarse a costa de grandes sacrificios y de dictaduras muy duras brota de pronto la inmensa riqueza petrolera, con la cual se ha[bría] podido hacer el país modelo de la América Latina y no se hizo sino ese desastre inmenso en que estamos actualmente.

P. S.: ¿Y su posición ha sido siempre la misma o ha cambiado a lo largo de los años?

A. U. P.: No, no ha cambiado: es lo que voy diciendo desde hace cincuenta años por lo menos.

P. S.: ¿Adónde va América? ¿Y Venezuela?

A. U. P.: Bueno, América y Venezuela son dos casos distintos, Venezuela es un país atípico, Venezuela es el país más rico de la América Latina y sigue siéndolo. Si usted se pone a pensar en términos puramente de petróleo y olvidarse de todo los demás que Venezuela tiene, Venezuela tiene en este momento sesenta mil millones de barriles de petróleo de reservas probadas, reservas de gas ilimitadas... y reservas de petróleo pesado prácticamente fabulosas. Pero si nos atenemos al petróleo convencional de reservas probadas de sesenta mil millones y usted pone el barril de petróleo a diez bolívares, a diez dólares7, Venezuela tiene en este momento en el subsuelo, explotables, utilizables, comercializables, seiscientos mil millones de dólares en petróleo de yacimiento, un país de veinte millones de habitantes. De modo que es un país inmensamente rico, desgraciadamente...

P. S.: ¿Y cuál es el futuro?

A. U. P.: ¿Eh? Ah, bueno... [...]: yo vengo denunciando a este desastre en que estamos, lo vengo denunciando desde hace cuarenta años, por lo menos, diciendo que para ahí íbamos, que no íbamos a hacer una nación, que íbamos a terminar en un desastre; todo esto lo vengo diciendo desde hace por lo menos cuarenta años.

P. S.: ¿Va a lograr una identidad Venezuela y toda América Latina?

A. U. P. Es que el caso de Venezuela es distinto al del resto de la América Latina, por eso, porque Venezuela tiene la especificidad, la peculiaridad de tener una inmensa riqueza petrolera que no es el caso de ningún otro país latinoamericano, y eso la distingue de lo que puede pasar en Argentina, en Chile, o en el Ecuador o en Colombia.

P. S.: Pero, puesto que la preocupación de lograr esa identidad es más o menos común en todos los países...

A. U. P.: ... Como digo, es que las situaciones son distintas. No hay una América Latina... homogénea, hay varias Américas Latinas que tienen en común cosas fundamentales como son la lengua, como son la religión, como son las instituciones tradicionales históricas; pero entre un país como México y un país como el Uruguay hay más diferencias que entre un país como Italia y un país como Suecia. De modo que eso de hablar de América Latina como una unidad es, como dicen los ingleses, misleading: es una invitación al error. [...] Se tiende a hablar de América Latina en conjunto. Hay muchas Américas Latinas: hay una América Latina andina, hay una América Latina donde predomina el elemento indígena, hay una América Latina donde predomina el negro, hay una América Latina donde predomina lo europeo. Bueno, no son iguales; no se puede juzgar eso como un todo homogéneo.

P. S.: ¿Se puede hablar de «venezolanidad», en paralelo con los conceptos de la «argentinidad» de Ricardo Rojas, la «cubanidad» de Fernando Ortiz o la «mexicanidad» de Octavio Paz?

A. U. P.: ... Bueno, claro se puede hablar porque Venezuela fue un país que tuvo una gran vocación histórica. Si usted se pone a pensar que Venezuela en 1810, un país con setecientos mil habitantes, muy pobre y muy limitado, y que ese país prácticamente hizo la independencia de América del Sur, porque fueron un jefe venezolano y tropas venezolanas los que llegaron hasta la frontera de la Argentina e hicieron la independencia de la actual Colombia, del Ecuador, del Perú y la creación de Bolivia, es una cosa desmesurada... una cosa verdaderamente... costosísima, que arruinó por un siglo el país y luego con consecuencias inmensas de toda especie.

P. S.: ¿Y hay, en su opinión, algún rasgo, algún estereotipo que caracteriza al venezolano?

A. U. P.: Bueno, lo caracterizan muchas cosas; yo no creo que hay un prototipo venezolano porque no somos exactamente iguales [...]. Venezuela es un país que tiene tres escenarios geográficos distintos, que no es el caso de ningún otro país latinoamericano; tenemos un escenario andino, [...] de modo pues que tenemos una parte del territorio que vive una condición geográfica andina y evidentemente cultural y social. Tenemos una extensión inmensa de llanuras, que no se da el caso igual sino en la Argentina; bueno, en Colombia también como en otras partes de países, pero en Perú no existe ese caso de la llanura, en Chile no existe eso, en México no existe eso. Y tenemos la selva amazónica, en lo cual no participamos sino unos cuantos países latinoamericanos [como] el Brasil y las vertientes orientales de la cordillera andina que desembocan en la selva amazónica. De modo pues que es un país que tiene una tipicidad muy compleja del punto de vista geográfico.

P. S.: ¿Existen elementos que en literatura permiten identificar al venezolano?

A. U. P.: ... Es que hay muchas maneras distintas de ser venezolanos, hay muchos tipos de venezolanos: Bolívar era venezolano, evidentemente Simón Rodríguez era venezolano, Andrés Bello era venezolano, pero muchos caudillos salvajes eran venezolanos también y no es lo mismo [que] el hombre de los Andes venezolano; toma un hombre hoy, hoy, de una aldea de los Andes venezolanos, y lo pones y lo trasladas a una aldea de la costa oriental de Venezuela, son dos áreas enteramente distintas, con dos mentalidades enteramente distintas. No existe un venezolano típico fundamental.

P. S.: ¿Cuál es su opinión sobre los grandes nombres del pensamiento hispanoamericano, como Vasconcelos, Zea, Paz...?

A. U. P.: Bueno, han sido los hombres explícitamente que han reflejado ese hecho: la preocupación por explicar qué somos, por qué hemos vivido como hemos vivido, por qué hemos tenido la historia que hemos tenido. Es una gran preocupación: la preocupación empieza con Andrés Bello, con Sarmiento y sigue y llega hasta nuestros días. Todo el pensamiento latinoamericano es un pensamiento de explicar la situación, de analizar por qué hemos llegado donde estamos y qué podemos hacer de aquí en adelante.

P. S.: Y entre ellos, por ejemplo entre los historiadores, los ensayistas y los novelistas venezolanos, ¿quién ha entendido su mensaje?

A. U. P.: ¿El mío?

P. S.: Sí.

A. U. P.: Bueno, mucha gente, mucha gente... como motivo de haber alcanzado esta avanzada edad me han hecho homenajes en todas las instituciones de Venezuela, de modo que debe significar que por lo menos hay un acuerdo tácito de que yo he dicho cosas significativas e importantes que tienen que ser reflexionadas por los venezolanos.

P. S.: ¿Pero a nivel literario?

A. U. P.: A nivel literario, a nivel político y a nivel nacional.

P. S.: ¿Un escritor que podría ser su continuador, por ejemplo?

A. U. P.: Ah, no sé, no sé... hay mucha gente y no sé, y a eso no me atrevo, a señalar algún discípulo... no tengo, no, continuador directo, no tengo.

P. S.: Cambiando de asunto, ¿qué opina de los diferentes -ismos, de todas las tendencias de la vanguardia?

A. U. P.: Ah bueno, eso en general fueron unas modas europeas que llegaron a América; todas ellas fueron modas europeas, sobre todo en este siglo, en principio de este siglo, que empezaron a llegar sobre todo el dadaísmo, el cubismo, el surrealismo y todo eso influyó en la literatura española y en la literatura hispanoamericana. Nosotros pertenecemos al mundo occidental, es muy importante verlo, nosotros no somos África, nosotros no somos Asia, pertenecemos al mundo occidental, estamos incorporados [...] como parte de él, hablamos una lengua occidental, tenemos una religión occidental, tenemos una cultura básicamente occidental.

P. S.: ¿Qué significado tuvo la experiencia parisina para usted y para la literatura hispanoamericana en general?

A. U. P.: Para mí muy grande porque imagínese usted, yo llegué muy joven a París en el año 1929: tuve la suerte de encontrarme allí con dos jóvenes escritores hispanoamericanos con los que establecí una amistad fraternal de toda la vida, que fueron Miguel Ángel Asturias y Alejo Carpentier, y los tres juntos tratamos de entender aquel momento tan grande de renovación literaria que había en Europa a raíz del surrealismo, toda la renovación del pensamiento político europeo a raíz de la afirmación de la Unión Soviética, y entonces a explicar qué podíamos hacer los hispanoamericanos para expresar nuestra condición en ese mundo diferente y frente a todas las nuevas maneras de expresión que estaban surgiendo. [...]

P. S.: Pero, ¿hubo efectivos contactos con todos los autores que se reunían allí: los franceses, los italianos...?

A. U. P.: ... Bueno, nosotros tres nos reuníamos prácticamente diariamente, vivíamos en la mayor intimidad... hay en ese libro que le acabo de dar, señora, precisamente, hay un libro, hay un ensayo que le recomiendo que se lea, que se llama El reino de Cervantes, en que hablo de la amistad con Carpentier y con...

P. S.: ... con Asturias.

A. U. P.: ... con Asturias, y de lo qué significó toda esa renovación para nosotros.

P. S.: Pero, ¿los contactos con los franceses, por ejemplo?

A. U. P.: Bueno, había contactos con los franceses, claro, vivimos unos años en París y nos hicimos amistades con escritores franceses, y estábamos sumergidos en la cultura francesa, en la vida francesa que nos llegaba por todos lados y en la vida europea que se estaba jugando en aquel momento, entre las dos guerras.

P. S.: ¿Y en cuanto a colaboraciones efectivas, círculos en que se discutía todos juntos?

A. U. P.: Bueno, yo tuve la suerte de que mi primera novela, Las lanzas coloradas, tuvo mucho éxito inmediato y la tradujo al francés un año después de ser publicada uno de los más grandes hispanistas de Francia que era Jean Cassou, y fue la primera novela de un latinoamericano que publicó Gallimard.

P. S.: Me podría contar algo de esta experiencia parisina, algunos episodios...

A. U. P.: ... No, no me gusta, no, no me gusta, no: eso abunda. [...]

P. S.: El tango llegó más o menos en esa época a París. ¿Qué opina usted, que establecía efectivamente una conexión entre Europa y América Latina o era sólo una moda formal, algo exótico que fue importado?

A. U. P.: Es que la presencia de Europa en América Latina es constante, si hablamos una lengua europea, tenemos una religión europea, tenemos una cultura europea; es que no tenemos otra, es que por eso asimilar la América Latina a eso que llaman tercer mundo es absurdo, porque el tercer mundo es África, que culturalmente no tiene nada que ver con Europa, y es Asia, que culturalmente no tiene nada que ver con Europa, pero nosotros somos parte de occidente, allí es que está el problema, y es lo que la gente simplista no ve, nos embarca en eso que llaman tercer mundo. [...] Siempre hubo interés por la América Latina en Europa, no es el tango: hacia el año de 1825-30 se puso de moda en París un sombrero de hombre que se llamaba el chapeau Bolívar, [...] y no había tango. De modo que ha habido un interés inmenso por la América Latina. Y uno de los hombres que hizo uno de los trabajos más grandes de América Latina fue un europeo, fue el libro de Humboldt, sobre el Viaje a las regiones equinocciales, que fue una revelación de un segundo y completo descubrimiento de América, y que lo leyeron los europeos con avidez8 [...]. Había interés, había curiosidad [...]. Muchos bailes venían de España, muchos bailes venían, vinieron de Europa a América Latina, por ejemplo eso que llamaban [la chaconne] en Francia en el siglo XVII: es un baile español, de origen latinoamericano y otra cosa que es muy curiosa, que es ...Usted conoce la ópera Carmen seguramente...

P. S.: ... de Bizet...

A. U. P.: ... Y conoce la famosa canción de L'amour est un [oiseau rebelle]: bueno, eso es un ritmo cubano que penetró en España y que llegó a Francia y que lo utilizó un compositor francés en su ópera; eso es muy viejo, eso es un contacto muy grande y muy viejo. [...]

P. S.: ¿Qué libros han cambiado su vida?

A. U. P.: Ninguno. No, mi vida no la ha cambiado ningún libro. Mi vida la he hecho yo viviendo: han influido muchas lecturas, pero yo no he sido nunca el hombre de un libro, ni de una lectura, ni de una influencia.

P. S.: Y en general, ¿cuáles han sido las lecturas más importantes...?

A. U. P.: Bueno, de la literatura española, la literatura francesa, la literatura inglesa, yo he sido un lector universal voraz, ¿no?

P. S.: ¿Quiénes fueron los maestros de la literatura europea que tuvieron mayor influencia en su formación literaria y en su formación artística?

A. U. P.: Bueno, yo no puedo señalar así modelos porque no los tuve; yo tuve mucha curiosidad por la revolución surrealista, yo tuve mucha curiosidad por toda la renovación de la literatura francesa en los primeros veinticinco años de este siglo. De modo, pues, que [llegó] la influencia de Francia, de España, de Estados Unidos, de muchas partes, leí con mucho entusiasmo a William Faulkner, por ejemplo.

P. S.: ¿Y sus lecturas de ahora?

A. U. P.: Ahora leo muy poco, ahora leo muy poco en realidad porque yo escribo setenta y cuatro artículos por año que se están publicando en treinta diarios en todo el mundo de lengua española, y eso ya es un trabajo completo, de modo que casi, casi mis lecturas son utilitarias, leo lo que necesito para lo que estoy haciendo.

P. S.: ¿Cuáles son los aspectos de su producción literaria que han sido estudiados menos por la crítica?

A. U. P.: Yo no sé, se han estudiado muchas cosas, verdad; [...] hay curiosidad en muchas partes.

P. S.: Entonces, ¿ le parece que más o menos han sido valorizados todos los aspectos de su obra?

A. U. P.: Bueno, sí claro, una cosa más que otra... me imagino que más éxito ha tenido mi novela Las lanzas coloradas, que mucha gente me conoce por los cuentos, más que por los ensayos, pienso que una parte muy importante de mi obra de escritor está en los ensayos, he hecho teatro y he hecho poesía y pienso que todo eso forma parte del conjunto de todo lo que he hecho.

P. S.: ¿Y cuál es la obra que más prefiere usted?

A. U. P.: Ninguna, porque cada una representa un momento, una época, una posición; yo no puedo preferir una época en mi vida, a menos que fuera un insensato: ojalá tuviera veinte años... sería horrible que tuviera veinte años en este momento. De modo que eso no tiene sentido: cada hora representó un momento de mi vida, y yo no tengo un momento de mi vida privilegiado.

P. S.: Pero acaso escribió algo que le dio más gusto...

A. U. P.: ... No, unas cosas han tenido más éxito que otras, evidentemente.

P. S.: Pero no se trata del éxito de público...

A. U. P.: Por eso, pero no sé, todo lo que yo he escrito creo que es importante si no no lo hubiera escrito [...] esto ha sido igual en toda mi obra. Ahora eso puede depender de los momentos, del gusto, de la gente, de las modas literarias, etcétera. ... Bueno, mucho placer. Yo creo que este libro... le pueda ser muy útil.

P. S.: Sí, sí, seguramente. Muchas gracias.





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