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Riflessioni su «No hay cosa como callar» e sulla sua appartenenza di genere

Fausta Antonucci


Università di Roma III



1. Il punto di partenza per queste riflessioni me lo ha offerto un'affermazione di Ignacio Arellano in un suo fondamentale articolo del 1988 su «Convenciones y rasgos genéricos en la comedia de capa y espada»1. Arellano discute le interpretazioni di quei critici che, come Wardropper, vedono nella commedia de capa y espada un genere sostanzialmente serio, in cui i personaggi sono continuamente minacciati da un rischio tragico evitato solo grazie alla conclusione matrimoniale; conclusione che invece è negata ai protagonisti delle cosiddette tragedie dell'onore, già sposati. Secondo Wardropper la commedia de capa y espada costituirebbe dunque una sorta di premessa della tragedia d'onore; al contrario, Arellano insiste sulla soluzione di continuità che separa radicalmente i due generi. La commedia de capa y espada secondo Arellano, offre una visione sostanzialmente ludica e critica nei confronti del codice d'onore; e, non secondariamente, presenta tutta una serie di caratteristiche che la differenziano dalla tragedia, come la tendenza all'unità di tempo, il codice onomastico radicato nella quotidianità contemporanea, la concentrazione spaziale, l'importanza dell'intreccio, e quella che Arellano chiama generalizzazione dell'agente comico: il galán o la dama che si sostituiscono al gracioso come motore dell'intreccio, o che mutuano dal gracioso atteggiamenti comici o comportamenti «bassi» (cosa che capita al galán più che alla dama). A conclusione di questa lucida disamina delle caratteristiche di genere della commedia de capa y espada, Arellano afferma:2

En No hay cosa como callar, que a menudo se aduce como prueba de la seriedad de la comedia de capa y espada, la perspectiva global (no cómica), el nivel de implicaciones, la ausencia de risa y de personajes cómicos generalizados, el manejo del tiempo, la técnica de la premonición (característica de la tragedia calderoniana), la ausencia de enredo y los efectos que produce en el auditorio la frustración definitiva de la vida de Leonor, violada y casada contra su voluntad con el cínico don Juan... llevan a una conclusión que me parece razonable: No hay cosa como callar no demuestra la tragicidad del género de capa y espada; simplemente no pertenece a él.



Nonostante si inserisca in un discorso globalmente convincente, quest'affermazione non mi ha mai convinto del tutto. Credo che sarebbe meglio, invece di rimuovere quest'opera senz'altro particolare relegandola tra i drammi, accettare la sfida che essa propone. Perché di una sfida si tratta, nel senso che ci obbliga a interrogarci ancora più a fondo sulle caratteristiche del genere cui da sempre viene ascritta e a mio parere -come cercherò di dimostrare- correttamente. Non si tratta quindi di una vacua preoccupazione classificatoria, tutt'altro: il discorso sulla collocazione di genere di No hay cosa como callar ci porta ancora una volta a un discorso sulle motivazioni ideologiche più profonde della commedia de capa y espada.

2. Ma adesso, prima di andare avanti, è necessario un breve riassunto della trama di No hay cosa como callar, che aiuti chi non la ricorda a seguire il mio discorso. La protagonista Leonor de Silva è fidanzata in segreto con don Luis, amico di suo fratello don Diego. Di lei si innamora anche don Juan de Mendoza, ma solo di vista, senza sapere chi lei sia. Come rivela il suo servo Barzoque, questa è solo l'ennesima infatuazione di don Juan. L'unico punto fermo nel suo libertinaggio è Marcela, «dama fissa» che don Juan non si fa scrupolo di ingannare e maltrattare. Una sequela di coincidenze fa sì che l'infatuazione di don Juan per Leonor passi dal vagheggiamento astratto alla violenza fisica. Un incendio costringe infatti Leonor a cercare rifugio una notte in casa del padre di don Juan e suo vicino, don Pedro de Mendoza. Don Pedro le offre la stanza lasciata libera da suo figlio, che quella notte stessa è partito da Madrid per partecipare alla difesa di Fuenterrabía dai francesi. Don Juan però fa ritorno a casa nel cuore della notte per prendere alcune carte che vi aveva dimenticato, e, trovando nella sua stanza Leonor addormentata, non ci mette che un attimo a passare dall'amor platonico alla violenza: poi fugge.

Passano due mesi: Leonor ha taciuto l'affronto, chiudendosi in un silenzio malinconico, con l'unico obiettivo di rintracciare il suo aggressore. L'unico indizio su cui può contare è una croce che gli ha strappato dal collo mentre cercava di trattenerlo, e nella quale c'è un ritratto di donna. Chi sia questa donna, Leonor lo scopre all'inizio del secondo atto: è Marcela, che viene portata svenuta in casa di Diego e Leonor dopo che la sua carrozza si è rovesciata in un incidente. A partire da questo momento l'intreccio si complica: per cercare di sapere chi sia il proprietario della croce, Leonor si spinge fino a recarsi velata in casa di Marcela. Qui però si vede costretta a restituire il gioiello, per non essere obbligata a scoprirsi, e a farsi riconoscere quindi dal fratello che sopraggiunge per far visita a Marcela di cui si è innamorato. L'ansia di Marcela per recuperare il gioiello fa però ingelosire don Diego, che se ne va subito dopo Leonor; e veder uscire da casa di Marcela un uomo fa ingelosire don Juan, che proprio allora torna dalla guerra e va a far visita alla sua «dama fissa» sicuro di trovarla in paziente attesa. Invece trova una donna ben decisa a rinfacciargli l'offesa di aver regalato il suo ritratto a un'altra. Per la prima volta, don Juan si confonde e non sa più che scusa inventare.

Insieme a don Juan è tornato anche don Luis, suo compagno d'armi, cui don Juan ha raccontato l'avventura di quella notte di due mesi prima in casa sua; ovviamente, non sapendo don Juan il nome della sua vittima, neanche don Luis può sapere che si tratta proprio della sua Leonor. Così è sconcertato e disperato quando Leonor, invece di accoglierlo a braccia aperte, gli comunica che non lo vuol più rivedere, proprio per l'amore che ancora gli porta: enigma questo che don Luis non riesce a sciogliere. Subito dopo questa penosa scena, Leonor riesce a recuperare il gioiello: glielo porta in casa Marcela stessa, che lo regala a don Diego come prova del suo amore. In realtà, il suo intento è quello di far ingelosire don Juan: e don Juan ci casca come uno sciocco, fino a seguirla sotto casa e ingaggiare un duello con don Diego che vi si trovava nella parte di amante favorito. Avendo ferito a morte il servo di don Diego, don Juan fugge a rifugiarsi proprio in casa di quest'ultimo. Leonor capisce di avere finalmente davanti a sé il suo offensore; gli chiede conto del suo onore ma, nel bel mezzo della discussione, sopraggiungono don Diego e don Luis. Insospettiti dalle parole che hanno sentito, don Diego e don Luis sfidano a duello don Juan; il servo di questi corre allora a chiamare in soccorso don Pedro, padre di don Juan. Ma, al suo arrivo, Leonor gli ricorda la promessa fattale quella notte di due mesi fa di intervenire in difesa del suo onore; prima che lei possa dire di più, e prima che anche il padre si schieri contro di lui, don Juan capisce di aver perso la partita e offre la sua mano di sposo a Leonor. L'unico a comprendere fino in fondo il perché di questo scioglimento, misterioso per tutti gli altri, è don Luis, che ricorda il racconto fattogli da don Juan, e accetta in silenzio quella che è l'unica soluzione possibile per il suo onore e per quello di Leonor.

3. Torniamo dunque, aiutati da questo riassunto, sugli elementi che secondo Arellano impedirebbero di classificare quest'opera fra le commedie de capa y espada. Innanzitutto, il trattamento del tempo: l'intreccio di No hay cosa como callar si sviluppa infatti su un arco di due mesi. Al contrario, fa notare Arellano, le commedie de capa y espada tendono al rispetto dell'unità di tempo. La concentrazione temporale dell'intreccio, secondo Arellano, persegue «un efecto de inverosimilitud ingeniosa y sorprendente», che rende impossibile un disegno psicologico «in evoluzione» dei personaggi3. In No hay cosa como callar, al contrario, la lunga durata dell'intreccio permetterebbe di mostrare -cito sempre Arellano- «la gradación psicologica de la protagonista que debe comunicar al espectador la melancolía y angustia de su situación [...] y necesita un tiempo mas amplio»4.

Dunque, se interpreto bene l'argomentazione di Arellano, il trattamento del tempo in No hay cosa como callar obbedirebbe a un'esigenza di verosimiglianza che non informa, nel complesso, il genere de capa y espada. Io credo però che il discorso sulla verosimiglianza/inverosimiglianza andrebbe riproposto in termini diversi. A me pare infatti che la grande sfida della commedia capa y espada, soprattutto a partire da Calderón, sia proprio quella di combinare, se mi si passa il gioco di parole, la verosimiglianza con l'inverosimiglianza; o, per dirla meglio, quella di aumentare il tasso di ingegnosità e complicazione dell'intreccio, nonché la concentrazione temporale e spaziale, senza violare mai realmente i canoni della verosimiglianza. Ecco quindi che, laddove il rispetto di questi canoni esige una maggior durata dell'azione, il drammaturgo non esita a far trascorrere un certo lasso di tempo fra un atto e l'altro, senza rinunciare però alla concentrazione temporale nell'ambito di ciascun atto. È quello che succede in No hay cosa como callar: se tra il primo e il secondo atto passano due mesi, l'azione di ciascun atto si svolge però in un giorno e una notte (primo atto), e in un giorno (secondo e terzo atto).

E non è poi No hay cosa como callar l'unica fra le commedie calderoniane de capa y espada a presentare una frattura temporale fra un atto e l'altro: anche ne La desdicha de la voz, tra il primo e il secondo atto, passa quasi un mese5. Anche qui, la frattura temporale consegue a una disgrazia che chiude il primo atto. In questo caso si tratta di un duello al buio che vede affrontarsi tre uomini: il fratello, l'amante ricambiato e l'amante respinto di Beatriz, e che si conclude col ferimento di quest'ultimo. Beatriz, fuggita da casa alle prime avvisaglie di pericolo, crede però che il duello si sia concluso con la morte dell'amante; e, ritenendosi ormai priva di onore, ripara a Siviglia in casa di un amico del padre pronta a iniziare una nuova vita con un altro nome e un altro stato sociale (accetta infatti di fare la dama di compagnia di una giovane nobile). Infine, e se allarghiamo lo sguardo a comprendere anche le commedie palaciegas, colpisce constatare ancora una volta la coincidenza tra frattura temporale e frattura argomentale. Si prenda El galán fantasma: fra il primo e il secondo atto trascorrono un numero imprecisato di giorni, che separano un «prima» (l'amore corrisposto di Julia e Astolfo, insidiato dalle pretese amorose del Duca di Sassonia) e un «dopo» (il dolore inconsolabile di Julia per la presunta morte del suo amante, in realtà soltanto ferito dal più potente rivale). Il discorso che fa Arellano per No hay cosa como callar si potrebbe dunque estendere a queste altre due commedie: la frattura temporale obbedisce all'esigenza di dare verosimiglianza al mutamento psicologico della protagonista. Ed è certo vero che in tutti e tre questi casi ci troviamo davanti, in apertura del secondo atto, una protagonista in una situazione animica ben diversa da quella manifestata nel primo atto: afflitta cioè da un evento irrimediabile e che rende impossibile la felicità amorosa da lei vagheggiata nel primo atto. Ma non per questo qualcuno ha mai pensato di espungere dal novero delle commedie né La desdicha de la vozEl galán fantasma. Il fatto è che, nonostante la conclusione «tragica» del primo atto, il dolore della protagonista in queste due commedie si tramuta presto in gioia, nel ritrovare l'amante creduto morto; gioia che trova il suo coronamento nello scontato finale matrimoniale. La Leonor di No hay cosa como callar abbandona invece il suo amante e sposa il suo offensore. È questo finale, che si stenta a leggere come «felice», la ragione ultima e vera della difficoltà ad accettare lo statuto di commedia di quest'opera. E infatti Arellano lo ritiene «un final trágico de matrimonio no deseado»6; curiosamente concorde, in questa interpretazione, con Wardropper7.

Avviciniamoci alla discussione di questo punto cruciale attraverso la disamina degli altri elementi che negherebbero a No hay cosa como callar lo statuto di commedia. Credo che basti ricordare il riassunto della trama fatto poc'anzi per smentire una presunta assenza di enredo in quest'opera. Al contrario, i meccanismi che reggono l'enredo sono quelli tipici della commedia de capa y espada: doppia coppia galán-dama (don Juan-Marcela; Leonor-don Luis) più galán suelto (don Diego), come schema di partenza; complicazioni successive dello schema, con i rapporti che si stabiliscono tra don Juan e Leonor e don Diego e Marcela; duelli, dame velate, oggetti che scompaiono e riappaiono, amicizie maschili, schermaglie di gelosia, casualità e coincidenze a non finire...8

Non da ultimo, troviamo due motivi che sono caratteristici proprio delle più comiche tra le commedie di questo genere. Il primo di questi motivi è l'indecisione del protagonista maschile tra due donne diverse. Ricordiamo a questo proposito che quasi tutti i galanes delle commedie calderoniane ci vengono presentati al loro secondo amore: si allude cioè a un precedente impegno sentimentale del galán, che serve per lo più a creare equivoci e gelosie nella dama di turno, e quindi complicazioni nell'intreccio. In alcune commedie però l'«altra dama» non è un semplice fantasma del passato, bensì una presenza effettiva che crea un dualismo nell'ambito dei personaggi femminili. Nel caso di No hay cosa como callar è evidente che l'antinomia tra Leonor e Marcela si pone sul piano dei costumi e dei comportamenti. Basti pensare a tre differenze chiave: la prima vive nella casa di famiglia, la seconda vive sola come una cortigiana; la prima sa tacere e parlare a tempo debito, la seconda non misura mai il tono di voce e mette letteralmente in piazza i suoi affari di cuore; la prima è leale e costante in amore, la seconda usa i sentimenti altrui come armi per le sue schermaglie amorose. In altre commedie, la polarità fra due donne si può invece attuare sull'asse ricchezza/povertà: è il caso di Hombre pobre todo es trazas, o di Mañana será otro día, dove troviamo un galán che corteggia una donna per interesse e l'altra per la sua bellezza. Oppure la polarità si può realizzare sull'asse dell'appartenenza di classe: vedremo allora il galán che, mentre corteggia tepidamente la dama, non disdegna di tentare approcci più concreti con la criada. È il caso di No hay burlas con el amor, o di Mañanas de abril y mayo.

È evidente che in nessuno di questi casi il galán «incerto» può aspirare a presentarsi come un modello di innamorato nobile; ma forse potremmo dir meglio che in tutti questi casi la figura del galán incerto pare costruita proprio con l'intento di creare un anti-modello, rovesciamento e parodia del perfetto galán. Anzi, proprio le ultime due fra le commedie citate vengono incluse da Arellano tra quelle che contribuiscono a forgiare un nuovo tipo teatrale, antinomico appunto rispetto al perfetto galán: il tipo dell'«amante al uso»9. Il riferimento, ovvio, è al titolo della commedia di Solís El amor al uso: «al uso» è il galán che ha abbandonato ormai, come vecchi e inutili, i codici e i topici dell'amore nobile e sublime, e non si fa scrupolo di dichiarare la sua volubilità, la sua comodoneria volte anche le sue mire ben poco disincarnate10.

Curiosamente, fra i tanti nomi di «amantes al uso» citati da Arellano, ritroviamo quello del don Juan di No hay cosa como callar, che invece, a mio avviso, rientra a pieno diritto nella categoria. Si rilegga il dialogo del secondo atto don Juan e don Luis, dove si oppongono due diversi modi di concepire l'amore e il rapporto tra i sessi: non è un caso che don Juan esclami, di fronte alla costezza amorosa di don Luis,

«¡Oh, cuánto estáis / templado a lo antiguo!»

(vv. 474-475)                


11. È ovvio che don Juan è un caso-limite di «amante al uso», in quanto la spregiudicatezza si spinge fino a quella negazione estrema dell'amore nobile è lo stupro. Per il resto, nulla lo differenzia dai suoi confratelli teatrali: alla dorme più bella preferisce il suo comodo letto, mente senza scrupoli, ama sopra a tutte le cose la sua libertà, ha una visione esclusivamente sessuale dell'amore e riduce a una banale dinamica di desiderio e sazietà...12

Proprio Arellano, nel suo articolo già più volte citato, fa notare che quelle caratteristiche sarebbero tradizionalmente proprie del gracioso, cioè del personaggio subalterno portatore per definizione di un registro «basso» e comico che quindi la categoria degli «amantes al uso» introduce una rottura del decoro è fra i tratti distintivi più caratteristici della commedia de capa y espada. Vorrei far notare che questa rottura del decoro, in No hay cosa como callar, è evidenziata per così dire nel suo farsi. Nel primo atto vediamo infatti don Juan passare dal comportamento topico del perfetto galán a quello del più spregiudicato «amante al uso»: dall'innamoramento a prima vista raccontato con tutti i toppi del neoplatonismo e del petrarchismo, e dall'intervento in duello per aiutare l'uomo in difficoltà13, alle baruffe in strada con la disprezzata dama «fissa» e quasi gli fanno dimenticare il suo dovere di soldato, per finire con lo stupro ai danni della bellezza per la quale pareva professare un amore tanto elevato14.

Ma la rottura del decoro tipica, secondo Arellano, delle commedie de capa y espada, non si manifesta soltanto in questo capovolgimento dei valori di riferimento del galán. Essa si esprime anche in quella che Arellano chiama la generalizzazione dell'agente comico15: cioè nell'iniziativa sempre maggiore che galanes e dame assumono nel portare avanti l'intreccio; iniziativa cui corrisponde una crescente passività dei graciosos, testimoni più che motori della trama. Anche questa definizione mi pare che si attagli perfettamente a No hay cosa como callar. La passività dei graciosos è evidentissima in Barzoque e Juana, servi rispettivamente di don Juan e di Leonor: il loro intervento nella trama è infatti limitatissimo. Ben più cospicuo è il grado di iniziativa che mostrano, tra gli altri personaggi, soprattutto le dame: al di là del caso, sapientemente manovrato dal drammaturgo, sono Leonor e Marcela i veri motori dell'intreccio.

4. Non credo di andare troppo lontana dal vero se estendo questa affermazione a tutte le commedie de capa y espada, soprattutto quelle calderoniane: la dama (le dame, amiche o rivali che siano) sono quasi sempre i principali motori dell'intreccio. A questo primato nella gestione dell'intreccio corrisponde la capacità della dama (e preciso: dama-dama, non dama-cortigiana) di raggiungere l'obiettivo desiderato. Al contrario, non sempre questo è dato al galán, che può sperimentare due generi opposti di frustrazione: quella tipica del galán suelto, che non riesce a coronare le sue aspettative sentimentali e matrimoniali, e quella tipica dell'«amante al uso», che viene ricondotto, controvoglia, al matrimonio. Non è forse questo che succede in No hay cosa como callar? L'obiettivo di Leonor, a partire dalla violenza subita, è il matrimonio con il suo offensore; obiettivo regolarmente raggiunto alla fine dell'opera. L'obiettivo di don Juan, mantenere a tutti i costi la sua libertà, è invece frustrato: un cumulo di circostanze sfavorevoli lo costringe alla fine a dare la mano di sposo a Leonor.

Come molti critici non hanno mancato di sottolineare, il secondo e il terzo atto non sono che un susseguirsi di disfatte per don Juan: il cinico profittatore delle donne, che si vantava di saperle manovrare a suo piacimento, si ritrova in un brevissimo lasso di tempo a sperimentare tutti gli scorni del contrappasso. Le sue menzogne vengono immediatamente sbugiardate, la sua indifferenza è costretta a trasformarsi in gelosia, la sua fuga dalle responsabilità sentimentali termina proprio in quell'assunzione di responsabilità per eccellenza che è il matrimonio... A me pare che la ratio ultima di questo capovolgimento così puntuale e puntiglioso sia più di tipo comico che non esemplare. È per questo che non mi convince l'interpretazione di quei critici che, come Sloane, vedono nell'intreccio di No hay cosa como callar un percorso «esemplare» di crescita, dall'immaturità alla maturità affettiva, incarnato dal personaggio di don Juan16. E non è un caso che, pur difendendo l'appartenenza di No hay cosa como callar al genere comico, Sloane concluda la sua lettura sostenendo che, se il finale della commedia è positivo per don Juan, è tragico per Leonor, che sacrifica l'amore all'onore17. Il fatto è che questa lettura, come d'altronde quella di tutti coloro per i quali il finale di No hay cosa como callar è sostanzialmente tragico, parte da presupposti che sono in gran parte estranei all'universo ideologico-sentimentale della commedia calderoniana. Presupposti che potremmo condensare nella convinzione, illuminista e poi romantica, che il culmine della realizzazione dell'individuo si raggiunga nell'amore, e che quindi il vincolo del matrimonio, che impegna tutta la vita dell'individuo, deve essere fondato necessariamente sull'amore. Una convinzione certo molto più vicina alla moderna «morale» borghese che non a quella aristocratica cui fa riferimento Calderón.

Con questo non voglio certo dire che l'amore non sia importante nelle commedie calderoniane de capa y espada, e che non sia importante, anzi centrale in quest'universo teatrale, il tentativo di conciliare amore e onore. Anzi, è proprio questa la scommessa su cui puntano le protagoniste delle commedie de capa y espada, come bene ha mostrato in suo lavoro recente Stefano Arata18. Ma è anche vero che, come fa notare Marc Vitse, la caratteristica dell'universo drammatico di Calderón, rispetto a quello di Lope, è proprio il dare la priorità all'onore, qualora le due istanze entrino in conflitto19. È ciò che fa la Leonor di No hay cosa como callar: non potendo più conciliare amore ed onore, persegue esclusivamente l'onore. E il recupero dell'onore, nel suo caso, si ottiene soltanto grazie al matrimonio con il suo offensore. È fuor di luogo quindi parlare di matrimonio «indeseado», «contra su voluntad»: anzi, è un matrimonio desiderato, e cercato con tutta la volontà della protagonista. Ovviamente, non di desiderio amoroso si tratta, non di soddisfazione del «yo sentimental», per esprimermi con parole già usate da Marc Vitse, ma di soddisfazione del «yo fundamental» che si riconosce nella legge dell'onore20.

E non perché l'onore prevale sull'amore si può negare a No hay cosa como callar lo status di commedia. È vero come dice Arellano che spesso nella commedia si mette alla berlina l'ottusità di coloro cui spetta il ruolo scomodo di guardiani dell'onore femminile. Questo però non vuol dire mettere alla berlina l'onore in se stesso, quanto piuttosto l'arcaismo, e l'inefficacia, del volerlo imporre; tanto è vero che nelle commedie non si mette mai in discussione l'assunzione autonoma, da parte del personaggio femminile, dell'onore come principio costitutivo del proprio essere sociale e individuale. Piuttosto che parlare di dramma, credo quindi che faremmo bene a pensare a No hay cosa como callar come a una sorta di esplorazione dei confini cui può spingersi la formula comica21. Un esperimento che accumula una quantità di casi-limite: una dama costretta a scegliere fra amore ed onore, un «amante al uso» che si spinge fino allo stupro, una conclusione matrimoniale che lascia «spaiati» ben tre personaggi...

Ma un altro elemento mi spinge a dire che No hay cosa como callar appartiene di diritto al genere comico: la vittoria di Leonor su don Juan. Questa affermazione scandalizzerà chi vede in Leonor la vittima, ruolo incollatole addosso dopo quello stupro che le ruba insieme onore e amore22. Ma siamo ancora una volta a una percezione indebitamente attualizzata delle dinamiche dell'opera. La vittima piange e si arrende; Leonor, invece, piange sì, ma non si arrende affatto. La sua è una scelta obbligata, è vero, ma portata avanti con lucidità estrema. Non è una resa, è una battaglia, condotta con strategia perfetta e finalmente vinta. Solo in un genere ludico come la commedia poteva trovare cittadinanza questa vittoria della donna. Una vittoria che nelle tragedie non è mai possibile23. Si pensi, per fare un primo esempio, alla Serafina de El pintor de su deshonra, che, al contrario di Leonor, fallisce -non per sua colpa- nel fermo proposito di difendere l'onore laddove l'amore non è più possibile24. Si pensi, per fare un secondo esempio, alla Isabel de El alcalde de Zalamea, cui non è concesso, come a Leonor, di restaurare col matrimonio l'onore violato, e cui rimane come unica scelta possibile la strada del convento25. Parrebbe davvero che, nelle tragedie, prevalga, a piegare le protagoniste, la debolezza del loro sesso; mentre nelle commedie viene alla luce, trionfante, l'altro aspetto, antitetico, del loro essere donne: la forza.





 
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