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Abajo

Criteri d'edizione di antiche liriche «popolari»: Il caso Spagna1

Patrizia Botta



Ad Aurelio Roncaglia





L'editore di testi classificati come «popolari» ha problemi ovviamente in comune con l'editore di testi «colti». Ed è facile vedere quali. In primo luogo il reperimento della tradizione e in secondo luogo l'interpretazione dei testi. Ma le differenze sono notevoli, fino al punto di poter concludere che i due casi si avvalgono di metodologie ecdotiche diverse.

Tutto dipende, in ultima analisi, da ciò che intendiamo per «popolari». Immagino che a tutti siano note le discussioni -spesso vivaci- che si sono svolte su questo problema, e che hanno opposto (o variamente contaminato) la tesi secondo cui «popolare» denota il tono «non complesso» di una creazione poetica, sia essa d'autore noto o no, con l'altra secondo cui «popolare» è invece una qualifica che caratterizza la «trasmissione orale» di un pezzo artistico. Possiamo ricordare anche le discussioni attorno alle teorie tradizionaliste di Menéndez Pidal dedotte dalle sue ampie ricerche sull'epica medievale e sul campo vastissimo del Romancero. Il suo concetto di «tradizionale» anziché «popolare» valorizza, come si sa, il testo di varie generazioni di dicitori orali scaglionati nel tempo. Menéndez Pidal ci ha mostrato cómo vive un romance, cioè come, nascendo d'autore, viva poi nella tradizione e sia passibile di trasformazioni tutte ugualmente valide. Non credo sia necessario soffermarci sui dati o sugli estremi di queste discussioni. Li ho ricordati solo per premettere che spesso i criteri editoriali dipendono dal modo di intendere queste nozioni.

Si può dire, grosso modo, che mentre i criteri lachmanniani o neolachmanniani sono difendibili per editare un testo colto, sono meno felici per i testi considerati «popolari», con una presumibile tradizione orale nella fase antica della trasmissione. In questi casi anche il metodo bédieriano non soddisfa pienamente, perché spesso un testo «popolare» presenta varianti tali da rendere difficile la scelta del bon texte.

Ora, in quest'occasione mi voglio occupare non tanto dell'aspetto teorico della poesia popolare, né tanto meno del concetto stesso, bensì del problema della raccolta dei testi e dei metodi di presentarli in un'antologia. Mi limiterò exclusivamente alla Spagna (tradizione castigliana) e a comparare alcune antologie moderne che vanno per la maggiore. Ma prima di entrare in argumento, devo, ancora, fare alcune premesse un po' dettagliate.

I testi di cui mi occuperò sono quelli di tradizione castigliana antica: sono escluse quindi le jarchas e le cantigas de amigo, che pure sono state accostate per affinità di temi e di stile. Mi limiterò ai cosiddetti villancicos, testi cantati e pervenuti a noi fundamentalmente attraverso Cancioneros, le raccolte allestite nel Quattro e Cinquecento che possono essere poetiche, musicali, individuali, collettive, manoscritte, a stampa, di vaste proporzioni e anche di minore entità come i pliegos sueltos. Oltre ai Cancioneros, i villancicos sono stati trasmessi, in forma spesso frammentaria, attraverso opere d'altro genere, come raccolte di proverbi, trattati vari (di grammatica, di poesia), e anche da autori di teatro che li hanno ripresi come citazioni o ne hanno tratto spunto per costruirvi una commedia intera.

Come si vede, siamo di fronte a una tradizione sostanzialmente scritta, e colta, alla quale, però, gli editori di cui parleremo si son rivolti come se fosse tradizione orale, non trattandola cioè con fedeltà documentarìa, ma come un anello in più della catena, o del continuum della trasmissione, attingendovi il villancico come testo «orale» in costante evoluzione, e come testo «popolare» accolto casualmente dai canali colti. Non c'è dubbio che in raccolte come i Cancioneros vengano incorporati elementi «popolari». Ma la loro individuazione non è una cosa facile. Storicamente in Spagna i testi di registro «basso» (o di tono «non complesso») hanno rappresentato un filone parallelo e alternativo, vitalissimo anche quando convive con la produzione colta (Scilla e Cariddí nella poesia spagnola, come le ha definite Dámaso Alonso). Poesia spesso «senza titoli», «anonima», «femminile» (nel sonso di canti di donna), e alla quale la scuola pidaliana ha rivolto particolare attenzione intendendola come «preesistente», «d'antica data» e riconducibile a un un filone unico in tutta la Penisola, articolato in lingue diverse e tempi consecutivi: dalle jarchas mozarabiche al villancicos castigliani e al cosautes catalani. Filone sporadicamente raccolto anche per iscritto, ma vissuto comunque «alto stato latente» e «orale» dal Medioevo a tutto il Secolo d'Oro, e oltre.

A questo tipo di testi «anonimi» individuati come «popolari» si affianca, però, un'altra tendenza, la moda imitativa di chi scrive «a modo di», la moda cioè «popolareggiante» d'autore noto che comprende, accanto alle cantigas d'amigo galego-portoghesi, nomi del calibro di Berceo, Juan Ruiz, Santillana, Encina, Gil Vicente, Castillejo, Sá de Miranda, Andrade Carninha, Montemayor, Camões, Santa Teresa, San Juan de la Cruz, Cervantes, Góngora, Lope de Vega, Tirso de Molina, Vélez de Guevara, Calderón e così via, fino al Novecento (con poeti come Alberti e Lorca).

Dunque, distinguere esattamente tra il tono «popolare» e quello «popolareggiante» non è facile nella tradizione antica, perchè non basta a distinguerli l'anonimato, come si vedrà. Comunque, con tutte queste cautele, vediamo come questo elemento «popolare» dei Cancioneros arriva a noi oggi. Dicevo che disponiamo di antologie recenti, dagli anni Cinquanta in qua. Mi limiterò a esaminare solo quelle specifiche, e che vogliono essere divulgative e rivolgersi al lettore comune (ometto quindi quelle monumentali come Cejador in 10 volumi, e quelle come Poesía Medieval o Antología de poetas líricos, più ampie e non exclusive).

Gli antologisti di cui parleremo sono in tutto sei, uno italiano, che in un caso servirà da raffronto, e gli altri appartenenti alla scuola filologica spagnola, oggetto specifico del nostro interesse d'oggi: nell'ordine2, Aurelio Roncaglia (1953), Dámaso Alonso e José Manuel Blecua (1956 e 2.ª ed. 1964), Margit Frenk (con due raccolte, una breve del 1966 e una molto più ampia, monumentale, frutto di quarant'anni di lavoro, il Corpus del 1987, di cui è uscito un Suplemento nel 1992), poi José María Alín (anch'egli con due antologie, una del 1968 e l'altra del 1991), Antonio Sánchez Romeralo (1969), e infine Vicente Beltrán (con una prima raccolta del 1976 e una seconda del 1990)3.

Di tutte queste, in particolare la seconda di Margit Frenk, il Corpus del 1987, ha avuto numerosissime recensioni, e soprattutto ha suscitato una vivace reazione da parte di Daniel Devoto, il quale in due lunghe recensioni di quasi 150 pagine ha mosso osservazioni su questioni di principio e di dettaglio. E' seguita poi una polemica cui hanno preso parte, oltre a Margit Frenk che rispondeva, altri studiosi ancora, come José Manuel Pedrosa, a difesa della recensita, e ultimamente, a quanto pare, le acque si son calmate. E ora siamo qui noi, ad agitarle ancora. Ma come si vedrà, gli elementi di disaccordo che esporrò riguardano anche altre raccolte della scuola spagnola, e non soltanto il Corpus della Frenk, che per molti versi è opera degna di grande rispetto. Alcune delle cose che dirò, quindi, sono già state dette dai vari recensori, specie da Daniel Devoto e da Margherita Morreale, autrice di una recensione piuttosto puntuale all'ultima antologia di Beltrán4.

Premesso ciò, vediamo come sono fatte queste Antologie della scuola filologica spagnola. In primo luogo, che tipo di testi accolgono: si è detto il villancico, che è un testo musicale la cui struttura formale può esser molto varia. In genere è composto di tre parti, come si vede nell'esempio seguente che trascrivo da Beltrán n. 67, ove le tre parti si apprezzano grazie al gioco dei tondi e dei corsivi:



No querades, fija,
marido tomar
para sospirar.

Fuese mi marido
a la frontera;
sola me dexaba
en tierr'agena.
No querades, fija,
marido tomar
para sospirar.



vale a dire, un breve tema iniziale, una strofa di commento o glossatrice, e la ripresa del tema o ritornello. La terminologia per indicare ciascuna parte è varia: la prima può ricevere il nome di cabeza («testa»), o refrán, o mote, o anch'essa da sola quello di villancico; la seconda si chiama glosa, o mudanza, «variazione», o più semplicemente copla; la terza infine, represa, vuelta, o ritorno del tema iniziale, in genere addossato al corpo strofico della glossa, come nell'esempio riportato. Ma le possibilità di realizzazione metrica sono piuttosto varie, e si spazia da forme dotate di tema iniziale, o testa, e corredate da glosse di tipo zagialesco, parallelistico o semplici quartine, a forme sprovviste di tema iniziale e dove si susseguono strofette sciolte, con o senza l'intercalare del ritornello.

In secundo luogo, quanti testi accolgono: si va dalla più selettiva «crestomazia» (come quella di Roncaglia che raccoglie 70 testi), alle Antologie brevi degli spagnoli di circa 400 testi, fino a quelle più ampie che passano dai 500-600 testi dei più ai quasi 1200 di Alín, fino ad arrivare poi non più a un'Antologia ma a un Corpus di circa 2400 testi5. Ma come si vedrà più avanti, anche sulle cifre si possono fare delle riflessioni.

In terzo luogo, come ordinano il materiale accolto: i testi non sono disposti mal per generi o forme metriche, ad esempio tutte riunite le forme zagialesche o quelle parallelistiche6, o tutte le seguidillas, tutte le quartine, e così via. A volte si ordinano per paternità e si dividono fra anonimi e d'autore (con un ordine interno cronologico)7. Altre sono organizzate per lingua, e si hanno zone mozarabiche, galego-portoghesi, catalane e appendici giudeo-spagnole8. Altre ancora si dispongono per fonti, secondo l'ordine cronologico di queste ultime, come fa Sánchez Romeralo -e in tal caso l'Antologia cede il passo a un'inclusione sistematica e indiscriminata, dal momento che, molte volte nelle fonti i testi si ripetono e l'editore, anziché scartare questi casi, li accoglie nuovamente, dando un nuovo numero, il che comporta ripetizioni testuali e cifre false. Altro criterio di ordinamento è quello tematico, come fa Margit Frenk, raggruppando i testi per affinità di motivi, esplicitamente dichiarati o non dichiarati in epigrafe9, ed è anche un criterio discutibile, perché più soggettivo, e perché accosta testi tra loro distanti nel tempo e per contesti.

In quarto luego, come si presenta, già a culpo d'occhio, il materiale una volta raccolto, antologizzato e sistemato. Fin dal primo approccio, infatti, si resta colpiti da certe caratteristiche delle Antologie spagnole: anzitutto l'estrema brevità dei testi, che davvero richiama l'attenzione del lettore: intere Antologie di frammenti brevissimi, sistemati uno dopo l'altro. Dopo di che, colpisce la «forma» di questi testi, lo strofismo così curioso e inconsueto per chi è abituato a leggere poesia colta e metricamente regulare. Inoltre, sorprende la dispersione e la frammentazione di questo materiale: il lettore fa ben presto a percepire che un testo è ripetuto più di una volta, oppure che uno stesso testo viene smembrato e diviso in unità distinte. E poi colpisce, ma già a un esame comparativo, la disparità fra le varie Antologie e la diversità di soluzioni per uno stesso testo, tratto dalla stessa fonte.

Ma veniamo agli esempi concreti, che fornisco in facsimile in Appendice10, per toccare da vicino ognuna di queste questioni, e procediamo per punti. Il primo è il taglio che si dà al materiale, che nelle fonti antiche appare diverso da come ce lo offrono gli antologisti, a cominciare dal piano della quantità, o dell'entità stessa del componimento, vale a dire il numero complessivo delle strofe. Dunque la brevità non è nell'originale, ma nell'Antologia. Infatti, sono pochi gli editori che rispettano l'interezza del testo, così come si trova nelle fonti, e sono quelli riconducibili alle posizioni «individualistiche» e «storicistiche», a cominciare ovviamente da Roncaglia, per passare poi, fra gli spagnoli, ad Alonso/Blecua, Beltrán e Alín (ma con posizioni che oscillano tra un maggiore e minore rispetto degli originali). Gli altri, come Sánchez Romeralo e Margit Frenk, vale a dire i più convinti seguaci della scuola di Menéndez Pidal e i più tenaci difensori delle teorie oralistiche e popolaristiche, i cosiddetti neo-tradizionalisti, operano sulle fonti scelte precise, ben diverse, che implicano spesso l'intervento anche drastico sul documento antico.

Mi spiego con qualche esempio. Il primo (Appendice A) è un testo della metà dei Quattrocento attribuito al Marchese di Santillana, il noto Villancico in cui il poeta narra l'incontro con tre dame (le figlie, come sappiamo dalla rubrica), e celebre esempio di canzone a citazioni, composta di quattro strofe che incorporano ognuna «canzoncine femminili» di tema amoroso, proferite direttamente dalle tre donne (la quarta e ultima citazione è cantata da tutte insieme). Come si vede, una struttura a incastro, uno schema narrativo più ampio che funge da cornice, da filo conduttore che accoglie, in posizione finale, strofette di varia misura (distici e tristici). Forma, questa, che nella Penisola iberica ha numerosi paralleli con altre modalità di canzone a citazioni, a cominciare dalle jarchas e da qualche esempio nella lirica galego-portoghese, por continuare poi con la poesia cortese castigliana del Quattrocento (specie nel genere dell'Inferno degli Innamorati, di derivazione dantesca, dove a ogni personaggio è fatto proferire un canto), e, per finire, più tardi ancora, con il genere questa volta burlesco della Ensalada o centone poetico-musicale, molto in voga dall'epoca dei Re Cattolici a tutto il Cinquecento, quando conosce la massima fortuna.

Nel nostro esempio, varrà la pena notare, fin da ora, che il componimento, nella sua versione integrale, è stato disposto in modo tipograficamente diverso da un editore all'altro che l'accoglie: Sánchez Romeralo n. 1.5 (Appendice A.a) sceglie la disposizione in quattro blocchi unici, uno per ogni strofa, come nelle fonti antiche (cosa che puro fanno Alonso/Blecua n. 333, ma con rientranza per la citazione), mentre Roncaglia n. 21 (A.b), vista anche la non attinenza rimica delle citazioni con le rispettive strofe portanti, opta per rientrati e spazi bianchi, isolanti la citazione, por di più virgolettata. Ma sulla presentazione grafica dei testi torneremo dopo, più ampiamente.

Ora, quel che mi preme rilevare è che queste stesse «citazioni», di poesia «femminile», da altri antologisti vengono riconosciute come «preesistenti», proprio perchè citate, e inoltre «di registro basso», «popolare», o quanto meno di un registro «diverso» dal contesto («alto») che le accoglie, e quindi anche «tratte dalla tradizione orale» dove sarebbero vissute fin'allora sotterraneamente, «allo stato latente». E il principio, come si vedrà, detta l'operazione: nelle Antologie che essi curano (volte a «ricostruire» i testi orali e folklorici «originari» e a «isolare» questi frammenti perchè meglio se ne apprezzi tono e lingua), cominciano con un taglio di quanto è ritenuto «estraneo» alla «tradizione»: in altre parole, il taglio d'ogni contesto colto che l'accoglie.

Così, nella fattispecie, il nostro Santillana si vede tagliato dal suo componimento, che nasce unitario nella sua ideazione, e unitario resta in tutta la tradizione che ce lo tramanda11 tranne modernamente, quando viene smembrato alla ricerca delle sole citazioni ritenute autenticamente «popolari». Queste, una volta «ritagliate», si dispongono, nel migliore dei casi, tutte e quattro insieme, e tutte di seguito, ricevendo ciascuna un numero, ed essendo quindi trattate come vere e proprie entità separate, autonome: ed è la scelta che fanno Sánchez Romeralo, che le sistema dal n. l al n. 4 (A.c)12, e poi anche Alín (nn. 9-12).

Ma questo è solo un primo passo: in altre raccolte questi frammenti di Santillana si dimezzano, ed è il caso di Beltrán (A.d) che, dato che antologizza e sceglie (anche su basi di valore estetico), decide di accoglierne soltanto due, che numera 9 e 10 e offre consecutive.

Un terzo grado dell'avventura editoriale moderna cui è sottoposto il leggiadro Villancico del Marchese in questo raccolte è quello che vede questa volta divise persino le quattro brevi citazioni, sempre in nome della loro supposta «vita indipendente». Si tratta infatti di un ulteriore passo che smista i quattro brandelli in quattro punti diversi dell'Antologia, perché l'ordinamento dei testi nella medesima è questa volta tematico, quindi, il primo frammento finisce nel motivo delle guardie o sorveglianti, il secondo in quello dell'insonnia, il terzo nell'inimicizia e il quarto fra gli amori sfortunati, ciascuno ad arricchire il ventaglio dei singoli motivi. Si tratta della scelta di Margit Frenk, che applica due volte, sia nella prima antologia del 1966, l'agile Lírica española de tipo popular, sia in quella più recente del Corpus del 1987, di ben più vaste proporzioni. Basterá citare i numeri che questi frammenti hanno nelle due raccolte perché il lettore capisca come e dove son finiti: nella raccolta breve, le quattro citazioni sono smistate, nell'ordine, al n. 237, poi, indietreggiando, al n. 105, poi andando avanti al n. 266, e, indietreggiando ancora, al n. 227. Anche nel Corpus si procede al loro smembramento, rispettivamente ai nn. 153, 167, 680, e tornando indietro, al n. 627.

Insomma, Santillana è depennato prima e polverizzato dopo: la struttura originaria del suo Villancico, colta da un vento che non poteva prevedere (se mi si consente l'immagine), viene franta, smontata e spezzettata in singole unità che non sopo più quelle che Santillana ha scritto, o, come vogliono cert'altri, «accolto» (e in ogni caso «integrato», con mirabile gioco di equilibri, in un insieme di cui non v'è più traccia), ma sono unità nuove, spoglie ormai dei «fronzoli» cortesi e restituite a una loro presunta (e dogmatica) «alterità», e quindi riconosciute come «indipendenti», come «tessere sciolte» aventi vita autonoma. E lo stesso vento (continuo con l'immagine) che abbatte e smembra la costruzione originaria (che pur pareva solida) trasporta poi e lancia lontano ogni frammento, ogni minimo suo granello, che finisce depositato -dopo tanta bufera- nei settori tematici corrispondenti, e ove lo si affianca, per affinità di motivi, a testi magari seicenteschi, d'altra forma e di tutt'altra lingua -lingua poetica naturalmente. Così ad esempio il primo, Aguardan, nella raccolta breve (Lir. n. 237) è accanto a un testo tematicamente affine ma t ratto dal canzoniere seicentesco di Torino, oppure il quarto, Sospirando (Lir. n. 227) è vicino a un brano tratto dall'Arte di Correas, dei primi del Seicento, mentre nel Corpus (n. 627) è accanto a un componimento di Fernández de Heredia, autore del Cinquecento, comunque di gran lunga posteriore e d'altro tono.

Il caso di Santillana è certo emblematico di un atteggiamento: questi editori, in nome di un «popolarismo» che ritengono originario e suppongono restaurabile, non esitano a intervenire neppure su un autore del calibro del Marchese. Né si può dire, a difesa, che queste strofette avessero un'accertata vita orale coeva o preexistente che autorizzasse in gualche modo l'operazione del loro isolamento in singoli frammenti, dal momento che, nei quattro casi, non si ha traccia di attestazioni coeve e, men che meno, d'epoche anteriori13. La loro fonte comune è il Villancico, che, oltre a presentarsi unanimemente integrale, come s'è detto, appare sempre attribuito a un nome noto14. Ed è questo «nome noto» e questo «intero» che si taglia.

Un secondo esempio di intervento (cisorio, come dice Devoto, o se si vuole, chirurgico, per cambiare immagine) operato nuovamente sull'autore riguarda un altro nome notissimo della Letteratura Spagnola questa volta del Seicento, Góngora, il quale, come si ti in cui s'esercita col tono «minore» e con la lingua diafana, di tutti i giorni, come fa, ad esempio, in un romancillo esasillabico con ritornello, La más bella niña (B.a).

Come si vede, è un testo assonanzato in nei versi pari e intercala ogni 8 vv. un ritornello, sempre lo stesso, anch'esso esasillabico, ma cuesta volta distico a rima baciata, Dejadme llorar / orillas del mar, di «sapore popolare» non solo per struttura metrica ma anche per contenuti: canto di donna inserito secondo le modalità della citazione diretta, e menzione di un luogo (la riva del mare) ad altissima frequenza nei testi di registro «popolare». Orbene: anche questo ritornello è riconosciuto come «frammento» proveniente «dalla tradizione» da alcuni degli editori: e come tale lo isolano Margit Frenk, sia nella Lir. n. 305 (B.b) che nel Corpus n. 597, e anche Beltrán n. 259 e Alín n. 53315.

Secondo i principi esposti da Margit Frenk in sede teorica, vi sarebbero anche altre ragioni per riconoscere la «autenticità folklorica» del frammento, prima fra tutte la presenza del solo ritornello in altre fonti, che porta di fatto alla sua «vita autonoma». A onor del vero, va riconosciuto che il breve distico, da solo, funge da spunto ad altre esercitazioni letterarie, coeve e posteriori, e che quindi, anticamente è stato già «isolato» e reso indipendente da quanti poeti l'hanno «preso» per citarlo o aggiungervi, di propria invenzione, nuove strofe glossatrici o accoglitrici che no hanno fatto, a tutti gli effetti, un «nuovo» componimento in ciascun caso. Ha quindi avuto una tradizione testuale «frammentaria»16.

Ma a questo proposito possiamo addurre almeno due considerazioni (brevemente, e a modo di parentesi): la prima è che l'intertestualità, il gioco coi versi altrui, è prassi da lungo radicata nella penisola iberica, e basterà citare un paio di casi valevoli per tutti, a dimostrare come questa prassi venga dalle sfere «alte» della poesia. Si tratta di due componimenti del Cancionero General del 1511 (B.c e B.d), la cui rubrica ci avverte del gioco avvenuto fra due autori, Graviel -o Gabriel- e Quirós, più o meno contemporanei e appartenenti alla più stretta tradizione cortese, colta e «alta» del Quattrocento. Infatti nei due casi vi si legge Otro villancico de grauiel, e dopo la prima strofa, come sotto-rubrica, Las coplas son de quiros: quindi, in entrambi i testi il brano iniziale, il tema, è di un autore, e la continuazione, o le strofe glossatrici (in altre parole, l'esercizio), sono di un altro. E di esempi come questi sono pieni i canzonieri, dal Quattrocento in poi (e riguardano testi d'autori note e meno noti, o anche soltanto «anonimi» ma non per questo automaticamente «popolari»), e si intensificano poi nel Cinquecento quando si accentua la tendenza, altrettanto colta, della poesía a lo divino, che per definizione parte da testi altrui pro-noti (e «molto» noti), per lo più di tema amoroso, e li trasforma o volge in chiave religiosa, secondo le tecniche della contraffazione o anche della citazione -raggiungendo, peraltro, in questo modo, i nuclei glossati presenze testuali con cifre da capogiro, o da galassia. L'intertestualità dunque è all'ordine del giorno in Spagna, nelle sfere alte, e non sorprende affatto ritrovarla all'epoca di Góngora, con il caso specifico del'esempio di cui ci occupiamo ora. Ma va anche detto che in nessun caso, in nessuna fonte antica, si ha mai l'esistenza in vita del solo nucleo iniziale preso a spunto, o in questo caso del solo ritornello, un brandello di due versi soli, ma viceversa lo si trova sempre inserito in una nuova struttura più ampia che l'accoglie, diversa di volta in volta. Dunque l'isolamento a «frammento» decontestualizzato che no fanno i moderni editori di queste Antologie è un'operazione cho non riflette la natura della tradizione e finisce col forzarla e manipolarla, snaturandola agli occhi del lettore. Bisognava forse scegliere quale versione offrire, ma integrale e senza frammentazioni, a documento anche del dialogo fra due testi e dei possibili registri stilistici differenziati, a documento, insomma, del filtro che ha trasmesso quel brandello, che altrimenti non ci sarebbe noto.

La seconda considerazione riguarda la possibile attribuzione del frammento nello specifco del Romancillo gongorino. La sua presenza intercalata a mo' di ritonello non significa che nella versione di Góngora sia necessariamente «altrui», e quindi «preesistente», che abbia insomma un valore di citazione a tutti i costi. Premesso che quella di Góngora è per di più la prima documentazione, e che nella prima fase della tradizione testuale prevale, anche numericamente, l'attribuzione a Góngora del Romancillo intero, comprensivo di ritornello, nulla impedisce sul piano delle ipotesi che questo ritornello sia creazione dello stesso Góngora, ammirato e poi diffuso, e quindi servito da spunto, ma ormai frammentario, per ulteriori e feconde derivazioni. In tal caso, se è opera gongorina, da parte degli editori si ha, nei confronti dell'autore, un taglio ad hoc del tutto analogo a quello che s'è visto per il Marchese di Santillana.

Un secondo caso che riguarda Góngora (non riportato in Appendice, e che commento solo brevemente) è quello di un altro suo componimento, pure di tono «facile», questa volta una canzone a citazioni, una ensalada in forma di romance (A la fuente va del olmo17), dal cui insieme, unitario e originario, vengono isolati solo alcuni dei cinque «frammenti incorporati» o addirittura uno, nuovamente per il fatto che anche questi brandelli godono di diffusione autonoma in altre fonti coeve e posteriori18. E ancora una volta si può fare il discorso di poc'anzi, di versi che, vista la data delle attestazioni e vista la persistente attribuzione a Góngora (dell'Ensalada intera) nella fase più antica della tradizione, nulla impediste che siano «nati» gongorini e che «poi» si siano diffusi e popolarizzati, e ripresi come «frammenti» da altri autori per farne nuove glosse o citazioni.

Ma al di là delle questioni attributive, che non possiamo certo risolvere in questa sede, ciò che importa rilevare, ora, è che anche nel caso di testi la cui prima fonte è Góngora, e che per lungo tempo al suo nome restano associati, si registra da parte di questi editori lo stesso operato che s'è visto per il Marchese di Santillana: il taglio di un testo d'autore e la polverizzazione dei frammenti da lui incastrati ad arte19.

Ho citato due casi estremi, nomi notissimi come Santillana e Góngora per far toccar con mano il nucleo della questione, in particolare eclatante nel primo caso, quando tutte le fonti son concordi nell'attribuire il Villancico integrale a un nome noto. Tanti altri nomi, noti e meno noti della poesia iberica del Quattro e Cinquecento, subiscono la stessa sorte, e più spesso ancora si taglia un testo anonimo, e l'anonimato, purtroppo, è dilagante: infatti una piaga delle fonti antiche, specie se canzonieri, è la selva delle attribuzioni che danno anche come anonimi testi ben note di ben noti autori. Gli esempi, «alleggeriti» dagli editori, sono moltissimi e non posso materialmente illustrarli in questa sede. Fornisco solo qualche altro caso di questo spezzettamento, di questa «depurazione», offrendo alcune versioni con glossa (B.e, B.f, B.g, B.h), così come appaiono in una delle fonti (un canzoniere musicale che cito dall'edizione moderna20), e indicando con un segno al margine i soli frammenti salvaguardati da queste Antologie, tratti dal Ms. o da altri originali21. Aggiungo solo che nello specifco di questo Ms. i testi sono anonimi, ma alcuni che risultano notoriamente composti da autori celebri, come Juan del Encina -il caso cui alludevo prima. Ma d'autore o no, quanto si taglia appartiene a un registro (in questo caso, cortese, perché cortese è lo stampo di questo canzoniere), che comunque non si sposa, a giudizio degli editori, con il tono, con lo stile, con la lingua e con la metrica delle strofette ritenute «autenticamente popolari».

Prima di passare ad altro, vorrei aggiungere ancora un paio di dati e osservazioni. La prima è che il taglio a onor del vero non riguarda tutto: si ammettono infatti, e questa volta sistematicamente, le sole glosse considerate «di tipo popolare», aventi cioè determinate caratteristiche: non solo temi, toni e lingua affini a quelli dei nuclei accolti, ma anche modalità più o meno ricorrenti di repetitio e variatio del tema iniziale. Non staremo qui a discutere la legittimità di quest'operazione, e neanche a verificare la pertinenza, Antologie alla mano, di ciascuna delle glosse accolte22, non solo perché occuperebbe troppo spazio, ma anche perché, all'atto pratico, i testi corredati di glossa sono pochissimi (circa una sesta parte). L'immensa maggioranza son brandelli, orfani d'ogni contesto ed isolati (come risulta dall'Appendice C.a che riproduce una pagina-tipo di queste Antologie, in cui è palese quella che Devoto, nelle sue recensioni, chiama la «mania divisionista» o «arte cisoria»), frammenti, come si vede, giustapposti, e per di più sconnessi fra loro, messi uno di seguito all'altro come se fossero una lunga serie di singhiozzi, o se si vuole, una manciata di perle senza la collana (come d'altronde s'è visto fare per le jarchas, anch'esse di trasmissione frammentaria, e anch'esse offerte al lettore senza contesto: sono pochissime infatti le edizioni che forniscono in traduzione la muwasha araba o ebraica che funge loro da cornise). E ribadisco, per parte mia, l'artificiosità di quest'operazione, che non riflette le fonti antiche poetiche a noi note, e che crea un accumulo di strofette teso da un lato a un'unificazione stilistica, e dall'altro a ricostruire una tradizione che solo possiamo ipotizzare (il che è quanto meno imprudente, giacché, come rileva Varvaro, questa tradizione la conosciamo solo grazie a una mediazione che ne condiziona fortemente la prospettiva23).

Ancora debbo dire, su questo punto, che, dietro la spinta di questa mania cisoria, si omettono anche parti extra-testuali, come la rubrica con cui il componimento è in genere presentato nella fonte antica, e dalla quale si traggono spesso utilissime indicazioni per l'inquadramento del testo (genere, titolo, attribuzione, notizie, circostanze della composizione e altro ancora). E tagliando la rubrica si omette, questa volta, il vaglio antico, il giudizio dei contemporanei, la loro ricognizione in generi puntuali24, tutti dati che potevano orientare il lettore diversamente e dargli più precise indicazioni di lettura.

Ancora connesso al taglio è un breve accenno alle inevitabili contraddizioni che ne conseguono. Si parla, in sede teorica, di temi «assenti» in questa lirica supposta «popolare». Così ad esempio, si addita la mancanza della descrizione del sentimento amoroso, tipicamente colta: ma questa va nella glossa, zona di distensione della materia poetica, e se la glossa è tagliata il tema naturalmente non c'è. Ancora, si parla di voci e stilemi «assenti», come pure di scarsa aggettivazione in sintonia con uno stile prevalentemente sostantivale: ma anche l'aggettivazione è nella glossa, zona di arricchimento dei significati, e se questa si taglia, si spazza via ogni traccia di espansione e di ornamento. E ancora, e qui siamo al paradosso, si parla della «brevità» di questi testi, della loro «essenzialità», «sobrietà» e «velocità espressiva» e della connessa «poetica del frammento»25. Insomma, si parla di «brevità» dopo che si è tagliato, anzi, a dire il vero, non sappiamo qual è il prima e qual è il dopo, qual è la causa e qual è l'effetto: se è la teoria a dettare la manipolazione o se al contrario è l'operazione a determinare e a fondare la teoria26.

Un'ultima contraddizione riguarda le cifre, o l'entità stessa del corpus: guardando queste Antologie non è affatto chiaro quale sia il numero effettivo dei componimenti né il numero complessivo di versi accolti. Il che deriva non solo dalla diversa ampiezza delle fonti esplorate di volts in volta, o dalle inevitabili divergenze nella ricognizione del materiale stesso (testi accettati dagli uni e scartati dagli altri), ma anche, a volte, dalla ripetizione di uno stesso testo, nuovamente numerato (come dicevo prima, se l'editore dispone i testi per fonti, fatalmente si trova con il problema di testi ripetuti, che magari accoglie di nuovo pedissequamente, come fa Sánchez Romeralo, sballando i numeri e quanti rilevamenti statistici si facciano sul corpus -come indici di frequenza del lessico o di figure retoriche27). Oppure la divergenza di cifre deriva questa volta da errori nella numerazione (secondo Devoto, Margit Frenk avrebbe inutilmente separato e moltiplicato testi riconducibili a singole unità); ma soprattutto, per quanto concerne in particolare il numero complessivo dei versi, la differenza da un editore all'altro può derivare, per l'appunto, dal taglio, maggiore o minore, che è stato fatto alla glossa originaria. C'è l'editore che accoglie di più e c'è quello che accoglie di meno, e chi non accoglie affatto, e alla resa dei conti, agli occhi del lettore, uno stesso testo si presenta in consistenza multiforme, fluttuante, malsicura, e non si sa mai se nella forte c'è qualcosa in più, omessa da tutti gli antologisti assieme. Il risultato è un terreno traballante, senza contorni precisi, senza una chiara immagine. E questa indefinizione crea sconcerto nel lettore, persino con le cifre, che invece di essere lampanti, matematiche, sono le prime ad essere passibili di revisione (ma per questa revisione il lettore è del tutto abbandonato a se stesso).

Passiamo ora al secondo punto e alla seconda serie di esempi indicativi di un atteggiamento altrettanto generalizzato fra questi antologisti. Mi riferisco questa volta alla «forma» che viene conferita a questi testi, al modo di porgerli al lettore, e ciò riguarda un'ampia gamma di operazioni editoriali che vanno dai più semplici accorgimenti tipografici a scelte ben più complesse di struttura o di ricognizione metrica dei componimenti.

Sul piano delle scelte puramente tipografiche volte a evidenziare, ad esempio, i ritornelli, si spazia da caratteri unici per qualsiasi cosa (tutto il testo in tondo), a brani, sempre in tondo, ma virgolettati (ma la virgolettatura è discontinua e non applicata coerentemente a tutti i casi, e alterna con quella interpuntiva dei discorsi diretti -per i quali si ricorre anche a trattini28). Ancora, si ammettono i corsivi, che offrono il vantaggio dello stacco visivo fra le parti, specie per i ritornelli addossati al corpo di strofa della glossa29, ed è una soluzione soddisfacente che applaudiamo. Ma in certi casi il corsivo in una stessa edizione genera confusione perché è saltuario e, in più, plurivalente: indica nel contempo il ritornello, le forme onomatopeiche e le voci arabe nel caso delle jarchas30. Ancora per staccare i ritornelli si usano talvolta semplici spazi bianchi, ma è una soluzione poco diffusa.

Un astro accorgimento tipografico è quello della rientranza paragrafale che crea un corto movimento per l'occhio. Alcuni antologisti l'adottano sistematicamente in posizione incipitaria di strofa (come fanno vari editori di poesia), mentre altri la usano saltuariamente per i ritornelli o per qualche cantone a citazioni (come abbiamo visto faro da Roncaglia o Alonso/Blecua nel caso del citato Villancico). Un esempio eloquente è il n. 48 di Alonso/Blecua (D.a), dove, come si vede, si produce l'inconveniente che ogni strofa di 3 vv. finisce per avere tre misure diverse di incolonnamento: la prima rientrata perché incipitaria, la seconda di normale attacco di verso, la terza rientrata, ma a una diversa altezza, quella del ritornello; e tutto ciò offre un'estrema mobilità per l'occhio. Anche Margit Frenk ricorre al rientrato in entrambe le antologie (D.b, D.c, e D.d, D.e, D.f), non già per marcare le posizioni incipitarie o i ritornelli ma per tutt'altri fini: perché vuole, con lo stacco della rientranza, evidenziare i plurimi casi, in qualsiasi punto della strofa, di anisosillabismo, di asimmetria, di irregolarità e di diverse lunghezze che a suo giudizio sono caratteristici di questi testi. In questo caso, un accorgimento banalmente tipografico è indizio di scelte precise e passa al servizio di un'ideologia.

Veniamo quindi all'aspetto più eterogeneo e più discutibile di queste raccolte, che è quello della metrica dei testi e delle modalità della sua presentazione. In altre parole, veniamo a una questione altrettanto spinosa, quella della «forma» strofica dei testi, anch'essa strettamente connessa, come si vedrà, a presupposti ideologici che ne determinano la ricognizione e la successiva configurazione, ossia la presentazione «formale» al lettore.

Anzitutto va detto che nelle fonti antiche effettivamente la metrica o lo strofismo di questi testi si presenta extremamente eterogeneo. Vi sono copisti che magari privilegiano altri aspetti -come l'annotazione musicale più puntuale, contro una copia solo sommaria del testo poetico-, altri che non hanno cognizione di misura, di rima, di alternanze parallelistiche, e sbagliano gli a capo, l'ordine delle strofe, saltano versi, oppure li raddoppiano, trascrivono in versi corti, in versi lunghi, o mettono i versi tutti di seguito come se fosse prosa, e altri casi ancora di errore di copia metrico, secondo tipologie ben note a chi frequenta originali di poesia, specie se melica . C'è poi il caso delle fonti canzonieresco-cortesi, di livello «alto», le quali tendono a uniformare quanto copiano a strofismi e a lunghezze di verso a loro consueti (così, ad esempio, trascrivono regolarmente in ottosillabi -il verso per eccellenza della lirica spagnola- testi come i romances per i quali, com'è noto, c'è chi ha postulato una derivazione epica e una «forma» di lassa monorima, che non si apprezza se sono trascritti in versi corti).

Insomma, c'è di tutto in queste fonti, ma l'editore moderno dovrebbe saper riconoscere le «forme», al di là del caos della tradizione antica. E soprattutto non dovrebbe parlare di «irregolarità», di «oscillazioni», di metrica «fluttuante», di «anisosillabismo» e «asimmetria», insomma, di «carenze», «zoppicature», «imperfezioni», «mancanza di scuola» e quant'altro serve a sostenere l'origine «autenticamente popolare» di questi testi (che comporterebbe, per l'appunto, ignoranza d'ogni regola, mitigata da principi accentuativi). Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, l'irregolarità metrica, se c'è, è solo sulla carta: ma la carta stampata dagli editori odierni, vale a dire, nelle modeme Antologie di lirica spagnola «di tipo popolare».

E su questo fronte si passa dalle incoerenze all'interno di una stessa raccolta agli scontri o soluzioni opposte tra un'editore e l'altro, fino alle più accese polemiche scaturite da certe ricostruzioni di stampo positivista, ritenute ardite.

Ancora una volta procederò per punti, e non per antologisti, e citerò soltanto qualche esempio di ciò che nelle raccolte si riscontra ad ogni pagina. Anzitutto va rilevata la scarsa attenzione prestata a due elementi di sicura guida nelle ricognizioni strofiche: la rima e la struttura musicale (nei caso fortunato in cui essa sia pervenuta).

Per quanto attiene alla rima, va detto che molte delle forme cosiddette «fluttuanti» o «anisosillabiche» sono passibili di una diversa ricognizione strofica, a cominciare da un alto numero di distici di versi lunghi (sistemati invece in conformazioni di 4 vv. corti, che comportano la presenza di varie rime «irrelate», o «irregolari», e di versi di misura disuguale).

Vediamo degli esempi concreti: i testi riportati (E.a, E.b, E.c, E.d) risultano trascritti in versi corti in tutte le Antologie, e nei primi due (Frenk Lir. n. 537 e Alonso/Blecua n. 23) le parole gatos (nella glossa del primo) e Carmen (nella seconda glossa del secondo) sembrerebbero a prima vista interrompere il tetrastico monorimo (in ... o nei due casi) che parrebbe accennato da una siffatta trascrizione, ma basterà per entrambi una sistemazione in distici di versi lunghi per ricondurre le rime a posto e non creare alcun sospetto di corruttela né di rima «irrelata», e nel primo caso, oltretutto, per ristabilire versi perfettamente isosillabici.

Anche nei due esempi seguenti (Sánchez Romeralo n. 211 e Alín n. 37), entrambi a glossa paralletistica, la disposizione in distici a versi lunghi non solo ricondurrebbe a schemi originari a rima baciata, ma potrebbe meglio evidenziare le tecniche di ripresa e variazione parallelistiche, che in versi corti si apprezzano molto meno. Senza dire che, ovunque, una più frequente disposizione in distici meglio si sposerebbe con il preteso e predicato «movimento ritmico binario» della poesia «popolare», che però, come si vede, non trova corrispondenza sul piano operativo.

Un analogo discorso va fatto per quelli che definiscono «tristici di 6 versi», che non è solo una contraddizione in termini, ma è anche una scelta editoriale, disposta effettivamente in 6 vv., come quella di Beltrán (n. 187, E.e) o di Frenk (Lir. n, 138, E.f, e Corpus n. 496, E.g), e che pure guadagnerebbe con la trascrizione in versi lunghi restauranti il tristico monorimo nei tre casi.

Che dire poi di incoerenze metriche evidenti da parte degli editori, che danno concordemente31 la disposizione strofica che osserviamo nell'esempio riportato del Corpus n. 993 (E.h), dove la struttura risultante, una strofa corta e un'altra lunga, è «irregolare», ma solo in apparenza giacché, a ben guardare le rime, lo schema è sempre lo stesso (versi assonanzati in ), e come si vede, pur essendo identica, questa struttura è tuttavia dissimilata rispettivamente in versi corti, per la prima strofa, e in versi lunghi per la seconda, potendosi invece optare, più coerentemente, o per tutti versi corti (evidenzianti un romancillo esasillabico), o per tutti versi lunghi (riconoscendovi distici a rima baciata con ritornello, o, agglutinando, un breve tetrastico monorimo, con un verso ripetuto).

Ancora la rima dovrebbe orientare, fortemente, un testo offerto in una struttura inutilmente raccapricciante com'è quello del brano lirico della Leonoreta inscrito nella prosa dell'Amadís de Gaula, accolto da Sánchez Romeralo nella sezione Popularizante 1.12 (F.b) -in forma oltretutto «purgata» anziché integrale, come suole fare in questa zona, dal momento che nell'originale (F.a) c'è una strofa in più, ritenuta evidentemente spuria-; ad ogni modo, offerto in una struttura astrofica e acritica e che, come si vede, è passibile di ricognizioni diverse (Beltrán, F.c, e Botta, F.d), dettate semplicemente dalla rima, che ne fanno un testo del tutto «regolare» nella prima strofa, e passibile di almeno due correzioni congetturali nella seconda (effettivamente problematica, ma presumibilmente per errore di trascrizione e non certo per «amorfismo» strofico)32.

Per quanto riguarda la musica, il suo ausilio potrebbe essere prezioso per riscrivere in ogni caso il ritornello, anche quando omesso o fuori posto, oppure per sistemare i versi diversamente, in maniera più soddisfacente di quella prescelta. Una delle osservazioni di Devoto, infatti, addita proprio la divisione sconcertante, a volte, dei versi, di certi a capo inspiegabili anche sintatticamente, e in tal senso basti l'esempio del Corpus n. 331 A (già citato in D.f)33 ove il verso corto non si giustifica, oltre che per sintassi, neanche come pie quebrado, verso frequente, come è noto, nella poesia spagnola.

Se si guarda infatti alle strutture musicali, a volte fonte unica di certi componimenti, come il Cancionero Musical de Palacio (da cui vengono gli esempi dell'Appendice G), appare chiarissimo che certi versi anziché spezzati in due -come fanno un po' tutti gli editori- andrebbero trascritti come un verso solo, ed è il caso dei due esempi riportati, Sánchez Romeralo n. 32 (G.a) e n. 22 (G.b), divisi in due versi distinti, e per i quali si ha, per contro, un'unica frase melodica fino alla parola m'iré (nel caso di G.a) e alla parola Jaén (in quello di G.b).

Detto sia tra parentesi, l'esempio delle Tres morillas nella fonte presenta ulteriori problemi di trascrizione: nell'ultima strofa un verso è ripetuto -tres moricas tan lozanas, il che ristampano fedelmente Sánchez Romeralo n. 22 (G.b) e Alonso/Blecua n. 25 (G.c)-, e d'altro canto manca un'intera strofa opponente, la quarta, visto il movimento parallelistico delle altre tre. Proprio per questo è stato oggetto di un duplice restauro, il primo correttivo del verso ripetuto e integrato congetturalmente secondo gli schemi più consueti del canto parallelistico -le cosiddette correzioni imposte dalla struttura-, cosa che fa Margit Frenk Lir. n. 101 (G.d), e il secondo intervento, invece, aggiuntivo della strofa mancante, che non solo è stata ricostruita anch'essa congetturalmente, ma ha dato adito a una disposizione strofica diversissima del componimento: non più con glosse a tristici monorimi zagialeschi, con andamento ternario, come fanno tutti34, ma questa volta a distici parallelistici e a movimento binario, secondo una ricostruzione di Romeu Figueras (G.e). Quest'ultimo, peraltro, sulla scia di Carolina Michaëlis, ma anche a partire, per l'appunto, dall'osservazione delle strutture musicali, ha ricostruito questo ed altri casi di canzone parallelistica castigliana a trascrizione «irregolare» nelle fonti, suscitando le più vive critiche da parte di Eugenio Asensio che lo accusava di forzare i testi e di peccare di un eccesso di «ricostruzione» (ese ingeniero lo chiamava)35. Ad ogni modo, al di là delle discussioni d'ordine più generale, nello specifico di questo caso, il lettore si trova con uno stesso testo, le Tres morillas, che è dato come zagialesco in corte Antologie, e a distici parallelistici in certe altre. E naturalmente le sue incertezze aumentano, giacché non riesce a capire qual è la «forma» definitiva di questo testo, né l'andamento ritmico-concettuale, se ternario o se binario.

Ancora la musica potrebbe servire questa volta a ricondurre ad unità testi che di fatto vengono dati a pezzi, con numeri distinti e lontani fra loro: è l'esempio di Teresica hermana che in una delle fonti musicali (Flecha, H.a), costituisce, come si vede, un unicum che invece è smistato da Sánchez Romeralo36, nell'ordine, al nn. 113 (H.b), 246 (H.c) e 250 (H.d) -quest'ultimo, chiaro frammento opponente del n. 113 (e analoghe partizioni di singole unità sono operate da Margit Frenk nel Corpus, provocando la reazione di Devoto).

Per finire gli aspetti metrici, va ancora detto che in sede di rima si riscontrano le soluzioni più varie quando si tratta di accentuare certe voci, forzando la lingua, o di separare correttamente le parole, ed entrambi sono problemi che ci portano ad un'altra serie di considerazioni che riguardano questa volta i criteri di trascrizione e la corretta interpretazione testuale delle fonti.

Mi limiterò a citare un solo esempio, quello della parola amoresé (Sánchez Romeralo n. 302, H.e, e n. 336, H.f), scritta a blocco unico e accentuata sull'ultima vocale, e riconosciuta come una forma linguistica «tipicamente popolare» (analogamente a casi come arbolé e trebolé)37. Ma sorge il dubbio che la voce sia del tutto inventata e che derivi da un'errata separazione delle parole in sede di trascrizione. Può essere letta infatti, a seconda dei casi, o come interiezione (eh, o anche he), oppure ancora come voce del verbo haber (he, la 1.ª persona singolare, che all'epoca si scrive anche senza -h-). Di interiezioni in questi testi di tono esclamativo ce ne seno moltissime, e come tali sono riconosciute dagli editori stessi (un esempio è serranicas eh, Sánchez Romeralo n. 234), anche affiancate alla parola amores (cfr. monumento de amores, eh, Sánchez Romeralo n. 6), e anche per quanto riguarda il verbo accostato alla parola amores i casi sono molteplici, dal momento che esiste il sintagma haber amores (laddove amores al plurale equivale ad «amore», o all'amato, al singolare), e alcuni di questi sono correttamente individuati e trascritti come voce verbale dagli stessi editori che poi altrove stampano la parola unita (per esempio, mal d'amores he, Sánchez Romeralo n. 141). Pare chiaro dunque che una delle due letture, interiezione o verbo38, secondo i contesti (nello specifico di H.e e H.f si tratta d'interiezione), sia estensibile al molti casi di trascrizione agglutinata, amoresé, che a nostro avviso peccano su più fronti: errata separazione, errata accentuazione39 e probabile invenzione di parola, supposta poi come «tipicamente popolare».

D'altro canto, gli errori di accentuazione sono moltissimi, come si rileva anche nelle recensioni, come pure vi sono altri casi di unione o separazione di parola insoddisfacenti o discontinui (è quanto accade per le parole composte con bien o mal, come bienvenido, malcasada, maltratar, ecc., che a volte sono unite, altre separate).

Per non parlare poi delle innumerevoli osservazioni che sarebbero da fare sulla punteggiatura (molte, e minute, le ha fatte già Devoto), ma passeremmo a un piano più puntuale di recensione e a questioni di dettaglio che non è il caso di affrontare ora. Valgano per tutte due osservazioni di principio su modi interpuntivi non coerenti con quanto sostenuto, per eccesso la prima, e per difetto la seconda: la prima è un sovraccarico di virgole, che marcano troppe pause in testi dal ritmo pretesamente «veloce». La seconda è l'abbondanza di costruzioni asindetiche, giustapposte, predicata al quattro venti come principale caratteristica della «sintassi sciolta» (opposta a quella più complessa e «legata» d'ella poesia colta). Ebbene, questa giustapposizione, sul piano interpuntivo, non viene evidenziata dagli opportuni segui di fine frase (punti, o punti e virgole), ma è trattata con alterne soluzioni: accanto a questi, più idonei e poco usati, si aggiungono le virgole e i due punti, e in questo modo, ovviamente, si apprezza meno e perde forza il principio sostenuto.

Infine le grafie, modernizzate a volte, e altre mantenute anche nelle oscillazioni più incoerenti delle fonti, e che suscitano nel lettore continuo perplessità e inutili dubbi di lettura, com'é il caso di -h- ipercorretta nella parola hondas («onde del mare») la cui conservazione40 serve solo a creare equivoco con l'omografo hondas (agg. «profonde»).

E si giunge, su questa strada, a una contraddizione di fondo: da un lato l'arditezza, il taglio dei testi, come s'è visto, l'intervento pesante, la manipolazione del contenuto, e la censura o silenzio dei contesti, della storia; dall'altro, l'atteggiamento opposto, l'astensione, il non intervento, in nome del rispetto e venerazione della fonte, che va dalla copia fedelissima della metrica caotica degli originali alla conservazione petulante delle grafie, e persino degli errori di copia, siano essi metrici o testuali, di lezioni erronee non emendate e neanche segnalate in nota al lettore (tranne in un paio di queste Antologie41).

Oppure, caso opposto, si ha all'improvviso una pluralità d'interventi correttivi, giungendo a vere e proprie congerie di soluzioni fantasiose, solo di rado spiegate o commentate, e che generano nuovo sconcerto nel lettore.

Un esempio divertente di soluzione plurima -e a mio avviso sempre insoddisfacente- di una lezione dubbia del Ms. (Cancionero Musical de Palacio, fonte unita del testo) è quello riportato ne ll'Appendice I, al penultimo verso che, come si vede, è stato letto di volta in volta come: ell pino (I.a), [espino]so (I.b), éll vino (I.c), el lyino (I.d).

Se guardiamo il testo42, vediamo che nel nucleo iniziale o ritornello viene enunciato il motivo dell'insonnia, No pueden dormir mis ojos, mentre nella strofa glossatrice la protagonista narra alla madre un sogno, avuto all'alba (Y soñaba yo mi madre / dos horas antes del día), che sombra avere connotazioni erotiche, poiché oggetto di questo sogno è la fioritura della rosa (que me florecía la rosa), notorio simbolo degli organi sessuali femminili in questa lirica. E fin qui tutti gli editori sono d'accordo. Puro sono d'accordo sulla lettura della seconda parte del verso successivo, so ell agua frida, «sotto l'acqua fredda», anche se poi divergono su quale acqua sia, se della fontana o fiume o simili, o se della pioggia che scende giù dal cielo.

Circo l'attacco del penultimo verso, il Ms. presenta almeno due difficoltà d'ordine paleografico: la prima è la lettera lunga che segue la vocale iniziale -e-, e che alcuni leggono -s-, altri leggono -l- doppia, unita e finale, e altri ancora leggono come due -l- ma separato, finale l'una e iniziale l'altra. Il secondo seoglio è la lettera seguente che alcuni intendono come -p-, altri come -v-, e altri infine leggono come -y-.

I risultati, sul piano interpretativo sono:

1) el pino, l'albero, e dunque, nel contesto: «sognavo che mi fioriva la rosa e il pino sotto l'acqua fredda», senso oscuro (non spiegato dagli editori), e improbabile, dal momento che i pini non sembrano avere fiori e che un caso simile nella lirica galego-portoghese (flores do verde pinho) è forse una corruttela testuale del prov. albespi che si trova nella fonte, come ha indicato Roncaglia recentemente43.

2) espino, inteso come rosa d'espino, «rosa-spino», con caduta della -d- intervocalica (e dunque, nel contesto: «mi fioriva la rosa-spino sotto l'acqua fredda»). Questa lettura, rosa d'espino, è sostenuta da Sánchez Romeralo in nota (p. 557). Ma la lezione che offre nel testo è un'altra, [espino]so, agglutinata al so (che così scompare come avverbio), e che dà per risultato un aggettivo, non concordante però, per genere, con rosa44. Dunque lettura dubbia, poco convincente e incoerente con la spiegazione che ne viene data in nota.

3) la lettura ell vino, che ha dato adito a due interpretazioni distinte:

a) il vino, come «bevanda» (dunque ell articolo, con grafia etimologica da ille -ma su questa si tornerà-, e vino sostantivo), associato all'acqua immediatamente successiva (quindi, nel contesto: «il vino sotto l'acqua fredda»), interpretazione, questa, che vedeva nella Razón de amor con los denuestos del agua y el vino l'antecedente immediato di questo verso, e che obbligava, d'altro canto, a separare questa frase dal verso precedente mediante due punti45. Ma la frase risultante («il vino sotto l'acqua fredda») comunque mancava di verbo e il significato del sogno diventava ancora più misterioso.

b) éll vino, come «egli venne» (éll pronome e vino passato remoto del verbo venir), intendendo quindi che nel sogno a un certo punto sopraggiunge l'amato, ma ahimé, «camminando sotto la pioggia fredda» (interpretando agua frida come pioggia, stando a Romeu Figueras nella sua edizione del Canzoniere, 114:408: «bajo la lluvia del almanecer»), senso anche questo oscuro nel contesto e per di più motivo assente dalla griglia tematica dell'incontro amoroso nei testi di questa «tradizione», da loro stessi individuata ed isolata. Interpretazione dunque non consona al ventaglio tematico, e che oltretutto non tiene conto che agua frida, come fonte frida, nei testi cosiddetti «popolari» è sintagma che non designa pioggia, ma l'acqua di una fontana o un fiume46.

4) ultima proposta è la più recente, quella di Margit Frenk nel Corpus, ma, debbo dire, la più enigmatica di tutte: el lyino, che viene ipotizzata su base paleografica e linguistica (è sancita come «asturianismo»), ma non è affatto spiegata sul piano dell'interpretazione: né si dice infatti che significato abbia questo «asturianismo», né si addita il suo nesso con il contesto, che il lettore, nuovamente abbandonato a se stesso, si sforza d'immaginare (interrogandosi questa volta sul fior del lino, che non ricorda d'aver letto altrove nella raccolta -lino infatti, ma senza flore, è parola che ricorre in tutt'altri contesti, ad es. nei canti delle comari beone, ma non figura mai nella casistica dell'incontro amoroso47). Nuova proposta, come si vede, che non tiene canto né dei temi né dello stile, dell'usus scribendi (pardon, dicendi) dei testi che vengono riconosciuti come «popolari». Né tiene conto, d'altra parte, di quanto riporta il manoscritto -cfr. Appendice L48: se nella seconda parola è poco chiara l'iniziale, una lettera a metà strada tra -p- (pino) e -v- (vino) -il che può essere tutto sommato un errore manuale del copista-, in nessun caso ciò che segue la -e- iniziale è una doppia -ll-, autorizzante la lettura el lyino (e neanche el lirio, supposto da qualcun altro), ma neppure autorizzante il primo ell con grafia etimologica, articolo o pronome che esso sia. La -l- è una sola, come il lettore può verificare, e solo più avanti nel verso (ellagua) la -1- è effettivamente doppia.

In sostanza, nessuno degli editori addita l'unica interpretazione possibile, stando al contesto: l'amato sopraggiunge si («egli venne», él vino so ell agua frida), ma non sotto un diluvio e con l'ombrello, bensì entrando nell'acqua fredda (o «sotto» l'acqua fredda) della fontana o fiume dove si trova la fanciulla ad aspettarlo. Si allude cioè all'incontro amoroso dentro l'acqua che nasconde e protegge gli innamorati, motivo frequentissimo e connesso ai Baños de amor, ai riti della festa di San Giovanni, al cervo alla fontana, e altro ancora49. Una situazione dunque ampiamente descritta in questa lirica e che andava prontamente individuata da chi sostiene di conoscerne così bene temi e stile al punto da fame un'Antologia exclusiva.

Ho elencato fin qui tutta una lunga serie di problemi e di osservazioni metodologiche mosse agli antologisti, che nascono dalla lettura comparativa delle raccolte, e ora, in sede di conclusione, due punti mi sembrano di massima assodati:

1) è imprudente spingere la decostruzione fino all'esproprio proletario-populistico di autori colti che costituiscono presenze documentate, anzi, le sole documentate;

2) sarebbero da aceantonare procedimenti ecdotici che implicano reinterpretazioni ritmico-strofiche arbitrarie spinte, in qualche caso, fino ad estremi lessicali.

Mancherebbe dire che cosa fare e come fare, in alternativa, e su questo punto, per parte mia, se ho idee chiarissime sulla presentazione formale dei testi, devo ancora riflettere invece sulla natura di ciò che andrebbe accolto, cosa cercare, a quali fonti attingere; come ordinare, o come comportarmi se dovessi preparare una raccolta da offrire al grande pubblico o se dovessi invece farne un'edizione per gli specialisti. Ma in questo senso, indicazioni utili potranno venire dal dibattito che forse seguirà.






Post scriptum

Il testo della conferenza del 1997 ha un po'girato il mondo prima di giungere su queste pagine, ed è stato letto da specialisti e amici coi quali ho avuto un assiduo dialogo epistolare e a voce. Ringrazio quindi, per l'attenta lettura e le segnalazioni, o anche per il loro cauto silenzio, gli studiosi seguenti: José María Alín, Álvaro Alonso, Stefano Arata, Stefano Asperti, ArthurAskins, Vicente Beltrán, Alberto Blecua, Giovanni Caravaggi, María Luisa Cerrón Puga, Teresa Cirillo, Paolo Cherchi, Gloria Chicote, Juan Carlos Conde, Daniel Devoto, Alan Deyermond, Ottavio Di Camillo, Anna Ferrari, Margit Frenk, María Cruz García de Enterría, Giuseppe Grilli, Víctor Infantes, Jacques Joset, Eukene Lacarra, Giuseppe Mazzocchi, Emilio de Miguel, Margherita Morreale, Germán Orduna, José Manuel Pedrosa, Norbert ven Prellwitz, Stephen Reckert, Francisco Rico, José Luis Rivarola, Aurelio Roncaglia, Joseph Snow, Adriana Solimena, e tanti altri ancora, tra cui, non da ultimi, il Direttore e il Segretario della Revista de Literatura Medieval che ora la pubblica, Carlos Alvar e José Manuel Lucía Megías, cui sono grata per l'accoglienza.

Lascio il lavoro come lo lessi tre anni fa, come ho già detto, e sulla prima questione non offro soluzioni alternative che contemplino ogni tipo di contesto (anche se per le fonti canzonieresche o poetiche, oggetto principale del mio esame, aleggia una soluzione in molte pagine). Del resto, procediamo per gradi, e per ora limitiamoci a un invito alla riflessione sul come editare i testi, da anni adagiato su prassi ecdotiche non messe in discussione. Devo anche riconoscere che ultimamente qualcosa da più parti sta cambiando: i lavori più recenti di Vicente Beltrán lo portano su posizioni vicine a quelle qui sostenute, e certamente l'auto-critica di cui è stato capace è segno di grande onestà da parte sua (cfr. il suo articolo «Poesía tradicional, ecdótica e historia literaria», in Lírica popular / lírica tradicional. Lecciones en homenaje a Don Emilio García Gómez, Univ. Sevilla 1998, pp. 113-135). Analogamente, è apparsa nel frattempo un'opera importantissima come quella di Alín sulle strofette di tradizione teatrale, condotta con criteri ben diversi, e ove si dota ogni frammento di contesto (cfr. José María Alín e María Begoña Barrio Alonso, El cancionero teatral de Lope de Vega, London, Tamesis, 1997). In questa luce, auguriamoci un dialogo fecondo e non fermo su questioni di principio.




Antologie citate

  1. Aurelio Roncaglia, Poesie d'amore spagnole d'ispirazione melica popolaresca (dalle karge mozarabiche a Lope de Vega), Modena, S.T.E.M., 1953.
  2. Dámaso Alonso e José Manuel Blecua, Antología de la poesía española. Lírica de tipo tradicional, Madrid, Gredos, 1956;
    • - uso la 2.ª ed. corretta (Madrid, Gredos, 1964) che tiene conto delle recensioni di Manuel Alvar (Revista de Filología Española, XL, 1956, p. 261) e di Margit Frenk (Nueva Revista de Filología Hispánica, XIII, 1959, pp. 360-62).
  3. Margit Frenk Alatorre, Lírica española de tipo popular. Edad Media y Renacimiento, Madrid, Cátedra, 1966 («Letras Hispánicas», 60); rist. 1977 e varie posteriori; uso l'ed. 1986.
  4. José María Alín, El cancionero español de tipo tradicional, Madrid, Taurus, 1968.
  5. Antonio Sánchez Romeralo, El Villancico. Estudio sobre la lírica popular de los siglos XV y XVI, Madrid, Gredos, 1969 («Biblioteca Románica Hispánica», 131).
  6. Vicente Beltrán, La canción tradicional. Aproximación y antología, Tarragona, Ediciones Tárraco, 1976.
  7. Margit Frenk, Corpus de la antigua lírica popular hispánica (siglos XV a XVII), Madrid, Castalia, 1987; uso questa edizione; 2.ª ed. 1990; Suplemento, pp. 69, Madrid, Castalia, 1992;
    • - rec.: Germán Orduna (Incipit, 8, 1988, pp. 153-155); John Gornall (Journal of Hispanic Philology, 12, 1988, pp. 162-165); Samuel Armistead (Hispanic Review, 57, 1989, pp. 503-506); Mercedes Díaz Roig (Nueva Revista de Filología Hispánica, 37, 1989, pp. 266-267); Manuel Costa Fontes (Romance Philology, 45, 1991-1992, pp. 355-361), ecc.;
    • - due rec. di Daniel Devoto, «Notomías» (Bulletin Hispanique, 91, 1989, pp. 169-229), e «Con la música a otras partes» (Bulletin Hispanique, 93, 1991, pp. 261-342). Alla prima risponde Margit Frenk, «Contra Devoto» (Criticón, 49, 1990, pp. 7-19); a entrambe risponde José Manuel Pedrosa, «Notas y adendas al Corpus de la antigua lírica popular hispánica (siglos XV a XVII) de Margit Frenk (y apostillas a dos reseñas de Daniel Devoto)», (Anuario de Letras, 32, 1994, pp. 209-250); a quella di Pedrosa risponde ancora Devoto nel 1998, «El falaz chichisbeo» (in corso di stampa).
  8. Vicente Beltrán, La canción tradicional en la Edad de Oro, Barcelona, Planeta, 1990 («Clásicos Universales Planeta»); uso questa edizione;
    • - rec. Margherita Morreale, «El texto como fin y la Filología como medio (en la propuesta universitaria)», in Studia Hispanica Medievalia IV. Actas de las V Jornadas Internacionales de literatura española medieval (Buenos Aires, 21-23 agosto, 1996), Buenos Aires 1999, pp. 16-33.
  9. José María Alín, Cancionero Tradicional, Madrid, Castalia, 1991 («Clásicos Castalia», 190); uso questa edizione.

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