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Ancora sulla genesi e paternità de La Celestina

Patrizia Botta





È apparso nel 1991 un nuovo contributo sulla Celestina (=LC) dovuto a una coppia di docenti madrileni da tempo dediti allo studio del famoso classico della letteratura spagnola1: infatti da più di vent'anni vengono esaminando e setacciando il testo, leggendolo affannosamente fra le righe alla ricerca di una soluzione alle molte incognite dell'opera, quali la questione dell'autore, i tempi e i momenti della stesura, la doppia o la plurima redazione e qualche incoerenza o svista fra le parti.

Come tutti sanno, è il testo stesso a offrire al lettore materia di discussione, giacché nelle zone Preliminari e Finali (dove parla l'autore) si disseminano non poche ambiguità, tra le quali si segnalano:

1. l'affermazione che l'opera è nata dal ritrovamento di un troncone incompiuto (il solo Iº atto rinvenuto a Salamanca), d'autore dapprima anonimo e poi noto (la specifica nasce in un'aggiunta e i nomi che si fanno sono due: Juan de Mena e Rodrigo de Cota);

2. la dichiarazione dell'autore-continuatore di voler mantenere l'anonimato, mentre di fatto il nome Fernando de Rojas è rivelato da un acrostico, la cui chiave di lettura viene offerta da un altro personaggio, Alonso de Proaza, che pure firma alcune parti in Appendice (dagli Acrostici come è noto, si ricava: EL BACHJLLER FERNANDO DE ROYAS ACABO LA COMEDIA DE CALYSTO Y MELYBEA Y FVE NASCJDO EN LA PVEBLA DE MONTALVAN);

3. l'esplicitazione dell'autore di essere estraneo alla letteratura (e di professione giurista), ma di aver tuttavia portato a termine la Comedia in 16 atti nel breve giro di 15 giorni; durante una vacanza;

4. più tardi, un'ulteriore fase di stesura porta il testo a 21 atti e nuovamente il giurista nel presentarlo parla al lettore, spiegando le ragioni dell'aggiunta e del nuovo titolo (ora Tragicomedia) e lamentandosi del fatto che persino i tipografi hanno inserito Argumentos riassuntivi all'inizio di ogni atto.

Su queste basi, e per far luce sulle complesse questioni attributive e di genesi testuale che pone LC si è mossa una folta schiera di studiosi che ha assunto le posizioni più diverse sia sui vari «pezzi» che compongono successivamente la scacchiera (Atto I [=A], Atti II-XVI [=B], Interpolazioni [=C]2, o più recentemente Atti I-XII e restanti3), sia sulla paternità di ciascuna parte e dell'insieme (autore unico, due autori, tre autori, un'intera équipe di letterati).


Nell'ambito delle spesso molto animate discussioni sulla paternità e sulla genesi dell'opera va collocato il volume degli Autori (=AA.), nel quale essi espongono, riprendendola da vari lavori precedenti4, una tesi, a detta loro, «rivoluzionaria» che «risolve» le questioni insolute de LC. Ma a nostro avviso non va oltre il piano della congettura (suggestiva). Vediamola nell'insieme e nei dettagli5.

Basandosi sulle affermazioni che si leggono nei Materiali Preliminari e Finali (secondo gli AA. contradittorie6) e sulle incongruenze logiche e di sequenzialità che credono di riconoscere all'interno del testo, gli AA. giungono a elaborare le teorie che si possono sintetizzare come segue (qui, per comodità, le organizzo in punti, ma nel volume non sono suddivise né esposte con quest'ordine):

1. Un primo autore compone effettivamente il primo atto.

2. Prima di Rojas, un secondo autore ritrova il troncone incompiuto e lo porta a termine, componendo un testo la cui estensione non è nota ma di cui s'indovinano i contenuti, diversi da quelli de LC che attualmente conosciamo. Si tratta, a giudizio degli AA., di una Comedia de final feliz, a lieto fine in conformità col primo titolo, del tutto consona all'andamento iniziale dell'opera7, e le cui tracce ancora si intravedono qua e là negli atti aggiunti (i 15 della fase della Comedia), e a ben guardare anche nella lettera dedicatoria e nella disposizione degli Acrostici.

3. Successivamente, il ventitreenne e benestante Fernando de Rojas8, amico personale del secondo autore, riceve da questi come dono il manoscritto9, a titolo di disobbligo di favori avuti (essendo quindi il giovane Rojas il destinatario -e non l'autore- della lettera dedicatoria, che gli viene scritta dal secondo autore, fuori Spagna). Rojas lo legge e decide di appropriarsene, cambiando in tutta fretta il lieto fine (inserendo le morti punitive e facendone un exemplum moraleggiante), ma da giurista ignaro di letteratura commette nel passaggio non poche sviste (fraintende brani, lascia battute della vecchia redazione, depenna scene essenziali10, non corregge ovunque le nuove prospettive, rende contradittori i personaggi11 e giustappone paragrafi alla buona).

4. Poi, apparsa l'opera alle stampe e decretato il suo successo presso il pubblico, ritorna ancora una volta sulla redazione, ampliandola, dilatando i tempi dell'azione, ripescando qualche vecchio brano12, e correggendo questa volta il titolo in Tragicomedia (perché più consono al testo fin da prima apparso).

Dunque gli autori del testo sarebbero almeno tre: il terzo noto e i primi due anonimi (anche se per il secondo, autore della Comedia de final feliz, nel lavoro del 1971 si additava con insistenza il nome di Juan del Encina, che qui si rinuncia a fare, con vantaggio). Gli stadi susseguitisi nella stesura sarebbero invece per lo meno quattro:

  1. stadio primitivo dell'atto primo;
  2. stadio intermedio del testo completo, a lieto fine;
  3. stadio finale della Comedia in 16 atti;
  4. stadio ultimo della versione della Tragicomedia in 21 atti.

5. A riprova del riaggiusto fatto da Rojas in tutta fretta, sfruttando e riciclando vecchi brani, starebbero le strofe centrali delle undici Ottave Acrostiche (4.ª-7.ª), il cui senso compiuto (S'ACABÓ LA COMEDIA DE CALISTO Y MELIBEA), le divergenze stilistiche (maggior chiarezza negli enunciati) e le peculiarità rimiche (pluralità di rime non verbali) ne dimostrerebbero la diversità e anteriorità di composizione. Esse sarebbero infatti del secondo autore, padre della Comedia de final feliz, e sarebbero state poste in origine a fine testo, a mo' di conclusione in versi dell'opera (supporto d'explicit secondo tradizione). L'acrostico originario e ridotto sarebbe poi stato ampliato da Rojas con le aggiunte, in testa e in coda, necessarie a coprire le iniziali del suo nome, e quindi spostato tra i Materiali Preliminari. Ma a detta degli AA. le aggiunte sono maldestre, spurie, e indizio chiaro di tutt'altra mano (il senso è scuro, la sintassi faticosa, le rime sono banali e solo affidate a verbi).

6. Una conferma dell'esistenza dell'antica chiusa acrostica sta anche nella dedica del vecchio autore, che dice di voler restare anonimo nel «fin baxo que le pongo» (intendendo per tale l'acrostico ridotto a fondo testo, nel quale di fatto avrebbe rinunciato a dichiararsi). Inoltre Rojas, consapevole del «vuoto» poetico che col rimpasto e spostamento si sarebbe venuto a creare a fine testo, avrebbe deciso in un secondo momento di colmare la lacuna inserendo le ottave conclusive, non più acrostiche (vale a dire le tre strofe di Concluye el autor aggiunte nella versione del testo in 21 atti).

7. A riprova di questa tesi sta inoltre il fatto che Rojas usa un lessico chiarissimo quando vuole definire il proprio operato, che è di «rifacimento»: negli Acrostici sceglie parole come «acabó» per indicare l'azione che egli compie, oppure «entretalladura» (str. 8) per definire l'opera stessa, intesa come «ricucitura, riciclo» di vari materiali precedenti.

8. Lo stesso Rojas del resto, nell'ammettere apertamente i propri limiti e nel sottolineare più volte le sue ridotte capacità, insinua in qualche modo di essere solo un raccoglitore di materiali altrui, di un'opera di ben più alti ingegni, che fortunatamente ha ritrovato ma che comunque non è in grado di gestire, essendo troppo giovane, d'altro mestiere e incompetente (al punto, secondo gli AA., da confondere atto e scena e da fraintendere molte delle lezioni originarie).

9. A conferma, non si conosce nessun altro testo letterario che Rojas abbia scritto, né si trova fra gli intellettuali dell'epoca alcun segno di apprezzamento nei suoi confronti: «el gran ignorado de sus contemporáneos» è solo citato da parenti per dar lustro alla sua testimonianza in un processo, o da discendenti con manie di nobiltà.

*  *  *

Queste, in sintesi, le idee centrali contenute nel volume recensito; le quali, sul piano delle ipotesi (che il testo a tutti gli effetti lascia aperte), non mancherebbero di fascino e d'ingegno.

In realtà l'intero impianto argomentale poggia su basi fragili, giacché per nessuno dei punti esposti si fornisce prova o documentazione13, ma vi si giunge secondo un reiterato schema operativo: l'ipotesi (non dimostrata) diventa affermazione, base a sua volta (logica e scontata) di una catena di annessi e connessi successivi, solidali per parte loro col punto di partenza e col sistema.

Tutto «si spiega», tutto «si risolve», ma secondo un'ottica sempre soggettiva e sostanzialmente non rispettosa del testo che ci è pervenuto, ritenuto «incongruo», «mal congegnato», e dovuto alla penna di un ingenio lego che si è trovato a fare il letterato un po' per caso. Come già abbondantemente praticato da Marciales (anch'egli da lungo tempo infaticabile lettore del testo e affannoso ricercatore di una «logica» mancante, nonché ardito risistematore di brani secondo sequenze più consone alle proprie aspettative14), così i due docenti madrileni si ritengono superiori a Rojas (o agli autori) e si sentono in grado di giudicare ciò che è «mal messo» o «stona» nel testo e che, con la loro «ricostruzione», s'incasella finalmente al punto giusto.

Né si può dire, a difesa, che il loro ragionamento si basi su indiscusse evidenze testuali, giacché esso deriva da interpretazioni del testo per lo più opinabili, quando non addirittura dovute a fraintendimento. Mi limiterò a citare qualche esempio.

Il primo è il verbo acabar, addotto per spiegare l'operato di Rojas (di cui al punto 7). Anzitutto l'espressione «acabarla» [scil.: l'opera] non va intesa, come intendono gli AA., nel senso di «rifacimento» (che non risulta né dall' usus scribendi15 né dai dizionari storici citati e che tuttavia gli AA. dichiarano, senza dimostrarlo, a p. 46, «retocarla, darle la última mano», e a p. 129, «refundir», «refundió»16). Il senso più corrente della parola è quello di «portare a termine»17, significato che essa conserva anche quando applicata alla letteratura. Infatti, nelle rubriche della coeva poesia cancioneril il termine esiste come tecnicismo, riferito ai romances «acabados» (o «añadidos»): dicitura, questa, che sta a indicare la «continuazione» che un autore noto apporta a un frammento di un testo precedente, anonimo e tradizionale. Il testo acabado è per lo più il brano iniziale, citato fedelmente, di un componimento più lungo e molto noto, sul quale, a partire da un certo punto (indicato con chiarezza nella rubrica, proprio come si fa ne LC) s'innesta il nuovo pezzo d'autore conosciuto, che ne riprende le rime, il lessico e lo stile ma che v'introduce le note più care alla poesia cortese e ne fa un brano nuovo sostanzialmente originale18. Dunque non è da escludere che anche Rojas, ricorrendo al termine acabar, avesse in mente la prassi corrente nella poesia cortese di riprendere e portare a termine un troncone precedente (anche se non «tagliandolo» appositamente per dar luogo al proprio esercizio letterario, ma continuandolo naturalmente, perché trovato in partenza già incompiuto).

In secondo luogo va precisato che acabar non è l'unico verbo dei Materiali Liminari riferito all'operato che il giurista compie. Infatti, affiancate alle ricorrenze di acabar19, abbiamo espressioni come escrivir, componer, hazer, meter la pluma, che indicano tutte come l'autore nel «finire» o «continuare» un testo incompiuto altrui abbia anche fatto in prima persona un'operazione sostanzialmente creativa -e non di rifacimento di un eventuale testo completo ajeno- (il sottolineato è mio20):

-Acrostici, rubrica str. 1: «El autor escusándose de su yerro en esta obra que escrivió contra sí arguye e compara»;

-Acrostici, str. 3: «o yo aquí escriviendo cobrar más honor» (lezione della Comedia; la Tragicomedia corregge: «o yo de screvir»);

-Acrostici, str. 4: «buscad bien el fin de aquesto que escrivo»;

-Acrostici, str. 6: «este mi desseo cargado de antojos / compuso tal fin quel principio desata» (lezione della Comedia; la Tragicomedia corregge il soggetto, ma non modifica il senso della frase: «estando cercado de dubdas e antojos, / compuse tal fin quel principio desata»;

-Carta: «diría: que no por recreación de mi principal est[u]dio del qual yo más me precio como es la verdad lo fiziesse»;

-Ottave Finali Tragicomedia, rubrica str. 1: «Concluye el auctor aplicando la obra al propósito por que la hizo» («la hizo» secondo il primo testimone della Tragicomedia, Zaragoza 1507; «la acabó» secondo le edd. post.);

-Prologo Tragicomedia: «de manera que acordé aunque contra mi voluntad meter segunda vez la pluma en tan estraña lavor y tan agena de mi facultad» (e cfr. anche «mi pluma», «mi mano» rispettivamente negli Acrostici str. 5 e nelle Ottave Finali, str. 3, e ancora, nella Carta, «E por que conozcáis donde comiençan mis maldoladas razones»).


In conclusione, il significato di «rifacimento» per il termine acabar sostenuto dagli AA. non sembra documentato né dal testo stesso né dalle testimonianze coeve, né d'altro canto questo è l'unico verbo usato per definire l'intervento del giurista.

La seconda osservazione riguarda un'altra delle «spie» lessicali addotte al punto 7, anch'essa basata su un'interpretazione molto opinabile del testo. Si tratta di «entretalladura», per la quale anzitutto alle pp. 56-58 si fa un lungo excursus per collegarla alle voci entretejer e escribir, indebitamente, dal momento che il nesso è assente all'interno dell'opera di Rojas21 ed è assente anche dalla documentazione lessicografica riportata (tra cui il Tesoro di Covarrubias, ove peraltro manca il lemma entretalladura22), essendo questo nesso stabilito dagli AA., che infatti dicono:

resulta imposible no reparar en la semejanza de este término y esta acepción con «entretejer»; palabra utilizada por Covarrubias en la voz «escribir» para denunciar las «mañas» de algunos «autores».


(p. 57)                


mentre più avanti, andando ancora oltre, giungono a equiparare il termine a entreverar, usato da Cervantes, il che neanche risulta dai Dizionari addotti:

Así pues, la ya casi olvidada voz «entretallar», equivalente a «entretejer» e incluso al «entreverar» utilizado por Cervantes, nos proporciona la clave de la abundante problemática de LC.


(ivi)                


Ma oltre a questi collegamenti fanta-lessicografici, il caso di «entretalladura» (usato, non si dimentichi, come argomento) poggia su un ragionamento che in partenza è discutibile e che coinvolge l'interpretazione dell'intero brano, che varrà la pena ora di esaminare (str. 8 degli Acrostici):


Y as[í] que esta obra a mi flaco intender
fue tanto breve quanto muy sutil
vi que portava sentencias dos mill
en forro de gracias lavor de plazer:
no hizo Dédalo en su oficio e saber
alguna más prima entretalladura
si fin diera en esta su propria escriptura
corta: un gran hombre y de mucho valer.


Trag.: v. 1: obra en el proceder; v. 5: Dedalo cierto a mi ver; v. 8: Cota o Mena con su gran saber.

Come risulta dal contesto, l'autore sta parlando del frammento ritrovato, di cui ha già dato notizia nella strofa immediatamente precedente (str. 7: «Yo vi en Salamanca la obra presente») e di cui continuerà a parlare nella strofa successiva ( str. 9: «Jamás no vi sino terenciana»). Di tale brandello fa un elogio entusiastico, cosa che del resto ribadisce più volte nei Materiali Preliminari (parlandone sempre in termini d'opera prima d'artigianato23), e per due strofe di seguito (8 e 9) allude esclusivamente al valore e alla bellezza del testo ritrovato. Ora, in questo contesto risulta chiaro che «entretalladura» si applica non all'operato di Rojas, inteso come «ricucitura» di pezzi altrui, ma al troncone incompiuto del Iº Atto inteso come «opera d'arte», «scultura»24 superiore per artificio finanche alle meraviglie ingegnosissime di Dedal25. Infatti di esso si dice (glosso il senso dei vv. 5-8 della str. 8 qui citata): «Dedalo, con tutta la sua maestria, non sarebbe stato capace di comporre una scultura [un'opera] così primorosa se a finire la propria scrittura breve [incompiuta] fosse stato un grand'uomo di alto valore» (e cioè se l'avesse conclusa il primo autore: poi indicato come Cota o Mena, ma il senso complessivo della frase non cambia).

*  *  *

Ancora, fra le osservazioni, qualche candore che denota distrazione nei confronti della storia della letteratura: così l'ammissione d'incapacità di Rojas nei Preliminari scambiata per «confessione» e non riconosciuta come topos della falsa modestia, di ricca e documentata tradizione nei Prologhi, non solo dell'epoca. Così pure, le rime verbali delle supposte strofe spurie degli Acrostici ritenute «facili» e indizio d'incompetenza di un maldestro autore, e non paragonate a quelle, sempre verbali, che abbondano nei versi di arte mayor dell'epoca (Danza de la Muerte, Laberinto) e che hanno persino riscontro nei rimari più diffusi del periodo. Così ancora, la prassi stessa degli acrostici spiegata con esempi tratti da Cervantes e non direttamente dalla coeva poesia cancioneril, che offre un'ampia gamma di questi e di altri tipi di cripto-letture (enigmi, sciarade, giochi etimologici, ecc.). Sempre a proposito di produzione cortese, essa non viene mai addotta per interpretare taluni atteggiamenti di Calisto, ritenuti, per contro, inspiegabili e indizio d'incoerenza logica nel testo, o di tutt'altra storia narrata in precedenza (così le «amarguras» di Calisto sono considerate incongrue con il «dulce cuento» che si promette nei Preliminari -lungi dall'essere attribuite al frasario dell'amore non corrisposto ampiamente diffuso nelle coeve opere cortesi in verso e in prosa-; o ancora, le antitesi con cui Calisto nell'Atto I esprime i suoi contrapposti stati d'animo, «aguijones, paz, guerra, tregua, amor, enemistad... ecc.», intesi come allusivi a una «guerra fra famiglie» mossagli nella fattispecie da Pleberio e non ricondotti alla ricca tradizione degli opposita con cui ancora una volta nella lirica cortese si era soliti esprimere gli effetti contradittori dell'amore).

Per finire, alcune questioni di dettaglio, tra cui trascrizioni del testo inesatte26, un certo numero di errori di stampa27 e di correzioni a mano28 e qualche imprecisione e ingenuità nelle note29.

In conclusione, l'ipotesi dei due docenti madrileni, pur se affascinante, manca dell'opportuna documentazione e permane quindi sul piano della pura congettura, che a volte pecca di un eccesso di puntiglio (se è vero infatti che il testo lascia ampio margine alla speculazione, non per questo autorizza a «seguir cavilando» ancora oltre, come essi stessi dicono di fare a p. 154).

*  *  *

Quanto alle indicazioni alternative, certamente non è questa la sede per affrontare in modo esaustivo le complesse questioni attributive e di redazione de LC. Mi limiterò quindi a segnalare cosa gioverà tener presente nei futuri studi sull'argomento e a precisare alcune fasi di storia testuale alla luce di una recente esperienza di edizione30.

Sulla questione della paternità, anzitutto andrà vagliata la pluralità di nominativi che sono additati all'interno dell'opera stessa:

1. l'antico autore, incerto tra Cota o Mena, responsabile dell'Atto I;

2. Rojas, giurista e continuatore dei 15 atti della Comedia;

3. i tipografi, responsabili degli Argumentos;

4. Proaza, correttore e collaboratore, che aggiunge di suo sei strofe nei Materiali Finali;

5. ancora il giurista Rojas, che con la Tragicomedia porta il testo a 21 atti;

6. ancora Proaza, che nel 1514 inserisce un'altra copla fra le sei Finali precedenti;

7. un certo Sanabria, autore di una Comedia da cui più tardi si estrapola l'Auto de Traso e lo si incorpora al testo de LC, come Atto XIX, in una decina di testimoni a partire dal 1526.

In aggiunta a questi nominativi, sarà da tener presente anche la rosa di nomi proposta di volta in volta dai vari critici e rassegnata con chiarezza da Gustav Siebenmann31. E poi, ovviamente, saranno da considerare le tesi via via sull'unità (che ha avuto di recente un gran ritorno), o ancora sulla dualità o pluralità di composizione (con la specifica, in quest'ultimo caso, di quali parti del testo attribuire ai vari candidati in lizza). Né andrà dimenticato che c'è chi pensa che sia Proaza l'autore degli interi Materiali Liminari.

Per quel che attiene invece alla genesi testuale, andrà vagliato con massima attenzione ognuno degli stadi in cui s'accresce il testo e ognuno dei momenti in cui lo si corregge:

1. livello redazionale dell'atto I, di cui s'è appena ritrovato un frammento manoscritto, che per quanto copia sciatta dovuta a due copisti documenta tuttavia una redazione del testo diversa e anteriore a quella maggioritaria a stampa (che non sappiamo se limitata all'Atto Iº o se contenente una Ur-Celestina completa, dal momento che il manoscritto s'interrompe bruscamente32);

2. stadio della Comedia in 16 atti manoscritta (non pervenuta, ma testo-base che va in tipografia);

3. aggiunta degli Argumentos da parte dei tipografi e prima edizione a stampa della Comedia in 16 atti (di cui abbiamo un solo testimone, Burgos 1499);

4. stadio delle aggiunte e mini-ritocchi alla Comedia (interpolazione dei Materiali Preliminari e delle strofe di Proaza, e piccole varianti redazionali, forse d'autore, introdotte al testo comune), documentato dalle stampe Toledo 1500 e Sevilla 1501;

5. stadio della redazione in 21 atti, con cambio di titolo (ora Tragicomedia), 5 atti aggiunti che creano nuove prospettive, inserimento di ulteriori Materiali Liminari con pesante rimpasto e smistamento degli Acrostici, e infine numerose interpolazioni, soppressioni e correzioni al testo comune, anch'esse di notevole entità e non sempre soddisfacenti sul piano testuale (testimoniato per prima dalla trad. it. Roma 1506 e poi dall'ed. sp. Zaragoza 1507 che pur deriva da un antecedente più alto nello stemma);

6. ritocchi al testo della Tragicomedia (varianti redazionali non d'autore -piccole glosse, banalizzazioni- testimoniate da tutte le edd. post. al 1507, ma di cui già partecipa la trad. it.);

7. ritocchi ulteriori al testo della Tragicomedia (nuove glosse, nuove sostituzioni), testimoniato da alcune edd. post. al 1510 (le cosiddette 6 falsamente datate 1502 e loro derivate);

8. stadio dell'aggiunta di una nuova strofa a quelle Finali di Proaza, in un'altra edizione da lui curata, Valencia 1514;

9. correzioni congetturali primitive (spostamenti e correzioni non d'autore, testimoniate dal gruppo crombergeriano KLM nella seconda decade del '500 e che danno al testo quella conformazione rinnovata che sarà predominante nella tradizione successiva, ricca e abbondante anche fuori Spagna);

10. stadio dell'aggiunta dell'Auto de Traso d'altro autore (interpolato nel 1526 al Tratado de Centurio come atto XIX);

11. ulteriori soppressioni, aggiunte e correzioni nel corso della tradizione seriore (così i Materiali Finali, omessi in varie edd. post., oppure il Reparto o elenco delle Dramatis Personae che si aggiunge in Venezia 1553, o infine i vari interventi al testo, correttivi, apportati da Salamanca 1570).

Risulta chiaro che in una così complessa evoluzione testuale andrà considerato con massima cautela persino il criterio dell' usus scribendi, tradizionale supporto per l'editore e per lo studioso, giacché, fatta eccezione per la fase successiva, sono comunque molte le mani che già in epoca primitiva si sovrappongono ad assestare il testo, e distinguerne lo stile con chiarezza non sempre è un'operazione facile. A maggior ragione, in futuro sarà bene andar più cauti con le facili congetture, non suffragate e rese plausibili dall'opportuna documentazione, e soprattutto non basate sulla totalità e complessità della storia redazionale del nostro testo33.





 
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