Selecciona una palabra y presiona la tecla d para obtener su definición.
Indice


Abajo

Conferimento della Laurea Honoris Causa in Lingue e Letterature Romanze e Latinoamericane a Giuseppe Bellini: Testi delle presentazioni, della laudatio e della lectio

Pasquale Ciriello

Domenico Silvestri

Giovanni Battista De Cesare


Napoli, 1 giugno 2005




ArribaAbajoPresentazione del Magnifico Rettore

Prof. Pasquale Ciriello


Cari Colleghi, Signore e Signori, con la laurea ad honorem a Giuseppe Bellini «L'Orientale» intende rendere il proprio omaggio a colui che è stato, indubitabilmente, il fondatore, nel mondo accademico italiano, degli studi di letteratura ispanoamericana. Quando il giovane Bellini, nella Milano dell'immediato dopoguerra, riprende gli studi, dopo i travagli del periodo bellico, la letteratura e la cultura dell'America di lingua spagnola erano state infatti oggetto di un lodevole, ma episodico, interesse solo da parte di qualche ispanista un po' più sensibile alle realtà d'oltreoceano. Tra questi vi era Franco Meregalli, maestro dello stesso Bellini, il quale lo incoraggiò ad approfondire lo studio di letterature e culture di cui allora in Italia si conosceva ben poco, al di là dell'eco, peraltro flebile, che arrivava dalle folte comunità di emigranti italiani concentratesi nei Paesi del Río de la Plata e in Venezuela. Tra i giovani studiosi che si dedicheranno allo studio sistematico della letteratura ispanoamericana Giuseppe Bellini si distinguerà in breve tempo come quello più impegnato a dare salde radici alla reale conoscenza di quel mondo.

Impressionante, anzitutto, è l'impegno profuso nel mondo accademico, che ha coinvolto nella sua lunga traiettoria un numero rilevante di università.

Bellini è stato, infatti, professore di Letteratura Spagnola e di Letteratura ispanoamericana presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere della Università Bocconi di Milano e Direttore dell'Istituto di letteratura spagnola e ispanoamericana; ha poi insegnato presso l' Università Cattolica di Brescia e di Milano, nelle Facoltà di Economia e Commercio e di Magistero dell'Università di Parma; poi presso l'Università di Venezia e. infine, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Milano.

Intere generazioni di giovani, attraverso la sua appassionata attività di docente, hanno imparato a conoscere e amare scrittori di cui, all'inizio, poco o nulla si sapeva nel nostro paese e che in pochi anni sarebbero diventate letture centrali del panorama letterario italiano: Jorge Luis Borges, Miguel Ángel Asturias, Julio Cortázar e Pablo Neruda, e gli allora giovani Gabriel García Márquez e Mario Vargas Llosa, a voler citare solo qualche nome tra i più grandi. Moltissini giovani sono stati iniziati a questi studi su quel manuale di Storia della letteratura ispanoamericana che fu il primo in Italia e che poi, tradotto in spagnolo, edizione dopo edizione, divenne forse il maggiore strumento di costruzione di un «canone» scientificamente fondato e di ampia diffusione: per uno scrittore ispanoamericano essere incluso nel «Bellini» è tuttora un riconoscimento più importante di tanti premi letterari.

Ma, anche al di là della sua statura di studioso, c'è un peculiare aspetto nell'attività perseguita da Bellini che trova particolarmente sensibile il nostro Ateneo, ed è quello di avere stimolato costantemente una dimensione «di sistema» della ricerca, peraltro sempre centrata nell'Università, favorendo con il suo impegno la valorizzazione di progetti nazionali che hanno coinvolto studiosi di tutta Italia e spesso i migliori specialisti stranieri. Membro del Consiglio Superiore dell'Università, Presidente del Comitato per le Scienze storiche, filosofiche e filologiche, Presidente della Associazione Europea dei Professori di Spagnolo.

Membro del Direttivo della Commissione Nazionale Colombina per il V Centenario della Scoperta, Presidente del Comitato dei Garanti dei Paesi firmatari della «Association des Archives de la littérature latinoaméricaine du XXe. siècle» (Paris-UNESCO), in tutte queste cariche Bellini ha operato per una promozione delle letterature e delle culture iberiche (di lingua spagnola e portoghese) che fosse coerente con la strategia di sviuppo culturale e scientifico che è nella tradizione dell'Università italiana.

Di straordinaria attualità -e anche in questo Bellini ha saputo precorrere i tempi- è anche la sua vocazione all'apertura verso le realtà dell'alta divulgazione culturale, perseguita non solo attraverso una infaticabile attività di traduttore, ma anche come direttore di importanti collane di narrativa e poesia, oltre che come pubblicista costantemente impegnato in organi di ampia diffusione (da ormai molti anni, ad esempio, sul prestigioso supplemento domenicale de «Il Sole 24 ore»).

Ma forse il lascito più significativo e prezioso di Giuseppe Bellini, quello che ci trova più sensibili, è rappresentato dai suoi tantissimi allievi, diretti o «di elezione», che sono stati il fermento vivo degli studi ispanistici dell'Università italiana. È in questo senso che «L'Orientale», forte anche della presenza nel suo corpo accademico di alcuni studiosi di letterature iberiche che di Bellini sono stati compagni fraterni della prima ora o che in seguito si sono giovati del suo magistero, può confidare di attribuire un riconoscimento non solo meritato ma anche gradito, a colui che da ormai tanti anni si è dimostrato vicino al nostro Ateneo. Un esempio da emulare, ma anche un amico discreto dell'Orientale, dal quale ci piacerebbe poter mutuare -per prendere in prestito un'espressione di Rimbaud, poi resa celebre da Pablo Neruda- quella, «ardente pazienza», quella assennata passione, tanto lombarda nella radice quanto universale nella sua portata, che lo ha reso protagonista di una pagina importante della cultura italiana contemporanea.

È con questo spirito che noi abbiamo unanimamente deciso di conferire a lui la laurea ad honorem in Lingue e Letterature romanze e latinoamericane.




ArribaAbajoPresentazione del Preside

Prof. Domenico Silvestri


Prendo la parola per esprimere una convinzione, che corrisponde a un giudizio da tutti noi condiviso: per una Facoltà di Lingue e letterature straniere annoverare uno studioso di ben meritata e larghissima fama quale è Giuseppe Bellini come suo primo laureato nel «nuovo» corso magistrale di «Lingue e letterature romanze e latinoamericane» si converte nel migliore degli auguri e nel maggiore degli impegni affinché questo percorso di studi diventi presto una strada maestra su cui si muovano con passione e conoscenza schiere sempre più larghe di giovani.

Di ciò è garanzia il curriculum scientifico e didattico del nostro «primo laureato», di cui tra breve parlerà il nostro Decano con specifica e riconosciuta competenza: un curriculum, che come la dantesca foresta «spessa e viva», lascia stupefatti per ricchezza e varietà, coniugando in ogni caso dimensioni italiane, europee e americane, secondo una prospettiva internazionale e intercontinentale in cui il molteplice si riconduce costantemente all'«uno», cioè allo Studioso ed alla sua forte e serena personalità scientifica, lungamente esercitata, in particolare, nello studio del mondo latinoamericano. Di questo mondo Giuseppe Bellini ha precocemente colto e poi riccamente indagato una straordinaria duplice dimensione, che coniuga con risultati spesso eccellenti specificità indigena e dialogicità intercontinentale; un mondo che ben conosce «ríos profundos» del suo appartenersi, ma riconosce anche continuamente -come il rimbaldiano bateau ivre- il suo debito e il suo rimpianto per l'Europa «aux anciens parapets»; un mondo che noi europei -anche grazie a Bellini- abbiamo imparato a scoprire per poi scoprirci più grandi e diversi e tuttavia intimamente coerenti e coesi tra le due (non) lontane sponde dell'Atlantico e ancor oltre, fino all'altra irrinunciabile polarità della dimensione andina e del Pacifico. Di questa scoperta citerò qui solo un libro emblematico del nostro «laureato», «La letteratura ispano-americana dall'età precolombiana ai nostri giorni» (Firenze, 1970), il cui significativo arco cronologico condensa già nel titolo quello che qui mi preme sottolineare e ribadire.

L'opera di Giuseppe Bellini, la sua «umana, troppo umana» «foresta, spessa e viva» comprende oltre 50 volumi di critica e storia letteraria, oltre 500 saggi e recensioni, oltre 100 volumi di traduzioni ed edizioni di testi: una sorta di «tesi di laurea», per restare al nostro argomento, che merita senz'altro il «110 e lode» e (ma quella ce l'ha già ben consolidata) una meritatissima «dignità di stampa». Ma qui mi accorgo che sto rubando la funzione propositiva del voto al Relatore, il chiarissimo (e carissimo) Prof. Gianni De Cesare, per cui mi arresto e rivendico soltanto la mia umile natura di antico lettore di Giuseppe Bellini, che tante luminose finestre mi ha aperto sull'affascinante e irrinunciabile mondo letterario latinoamericano.

Di fronte alla sua variegata operosità scientifica mi vengono spontanei alla mente -quasi sintesi di quello che egli potrebbe dire oggi di sé- i versi di Rubén Darío: «Plural ha sido la celeste / historia de mi corazón» (da «Canción de otoño en primavera») e di fronte allo studioso Bellini ruberò ora un giudizio che Valle-Inclán ha espresso a proposito dello stesso Darío: «un niño grande, inmensamente bueno», dove «bueno» è un giudizio allo stesso tempo di valore intellettuale e morale. Del suo progetto e destino latinoamericano rivendicherò ora con il suo molto amato e frequentato Neruda l'orgogliosa differenza lessicale che oppone la «papa» indigena alla «patata» coloniale e fa della prima un meraviglioso fiore nascosto nella terra, per me qui e ora una metafora potente di una lunga e operosa e preziosa vita di studio: «Papa / te llamas, / papa / y no patata, / no naciste con barba, / no eres castellana... profunda / y suave eres, / pulpa pura, purísima / rosa blanca / enterrada...» (da «Oda ala papa»). Ancora (come vedete, sono solo un povero lettore) farò parlare il suo e il nostro Neruda per dire dell'intero edificio umanistico costruito da Bellini come Neruda dice della donna amata: «Tú repites / la multiplicación del universo» (da «Cien sonetos de amor», XVI).

Posso solo concludere con un grazie affettuoso al nostro «primo laureato» ed un augurio sincero di un ancora lunghissimo impegno nel suo amatissimo settore di studi.




ArribaAbajoLaudatio

Prof. Giovanni Battista De Cesare


Il professor Giuseppe Bellini è nato in provincia di Brescia nel 1923 e risiede a Milano dall'età adolescente. É stato docente di Lingua e Letteratura Spagnola e di Letteratura Ispanoamericana in più università pubbliche e private e quindi Ordinario di Letteratura Ispanoamericana prima nell'Università «Ca' Foscari» di Venezia e poi nella Statale di Milano.

Da ragazzo era appassionato lettore dei romanzi di Salgari, che gli svelarono gli spazi dell'oceano indiano, i segreti della giungla e l'affascinante figura di Sandokan; ed era appassionato, anche, delle storie dei corsari, delle loro scorrerie nel Mar dei Caraibi, tra la Laguna di Maracaibo e l'istmo di Panama. Ne derivò il desiderio, soprattutto per quanto riguarda il mondo caraibico, storicamente e geograficamente più prossimo alla nostra formazione scolastica, di saperne di più, di apprendere la lingua e la cultura delle genti che lo popolano. Reperì la grammatica che circolava in quel tempo, quella di Frisoni, che gli consentì di apprendere i primi rudimenti della lingua spagnola (ancora negli anni Quaranta l'ispanistica è disciplina per soli pionieri, o appendice marginale della letteratura spagnola, che a sua volta era prolungamento eventuale della filologia romanza). Inseguendo gli eroi e i pirati delle narrazioni sull'atlante geografico (La regina dei Caraibi, Il corsaro nero, sua figlia), giunse a conoscere il Caribe, coi navigli dei corsari che veleggiavano tra la Tortuga e Panamá, tra Cartagena de Indias e Cuba e Santo Domingo e i molti arcipelaghi corallini sparsi nelle sue acque. Gli amori generazionali imponevano allora la lettura della narrativa francese dell'Ottocento, e di questa non poteva mancare Victor Hugo, i suoi Nôtre Dame de Paris, Les Miserables e Les travailleurs de la Mer. Gli stessi amori, scoprì più tardi rincuorandosi, avevano eccitato la fantasia giovanile degli scrittori americani da lui prediletti. Tra questi è Pablo Neruda, di cui divenne presto studioso, traduttore e amico e del quale in un'occasione ricorda i versi del Memorial de Isla Negra in cui il poeta cileno racconta la giovanile passione: «Poi il fiume e il bosco, le prugne / verdi, e Sandokan e Sandokana, / le avventure con occhi di leopardo, / l'estate colore del grano, / la luna piena sopra i gelsomini, /...» E completerà il riscatto di dignità di quelle prime letture, Bellini, quando infine scoprirà che anche l'amore per Victor Hugo è ampiamente documentato nell'opera di Neruda.

Da giovane Bellini fu strappato agli studi universitari dal conflitto mondiale, e, dopo un paio d'anni di vita «guerresca», riuscì a stento a portare la pelle a casa. Anche se la casa non c'era più, perché un bombardamento dell'ultima ora su Milano l'aveva rasa al suolo. Attraversò un tempo di torpore e di scoramento, da cui si riprese, sembra, grazie alla lettura dei versi del primo Machado, dove alla «sera grigia e fredda / d'inverno» segue la «luminosa sera, triste e sonnolenta... / sera d'estate», e dove il mormorio di una fonte e il cigolio di una chiave nel vecchio cancello d'un parco solitario custodiscono l'incanto d'un languido limone che protende «un pallido ramo impolverato / sopra l'incanto della limpida fonte».

Giuseppe Bellini completò gli studi universitari alla Bocconi, e qui iniziò la carriera universitaria avendo per maestro Franco Meregalli, un umanista aperto a una visione globale della cultura ispanica della quale affermava l'interdipendenza tra le diverse aree scientifico-disciplinari e per la quale disconosceva ogni limitazione o confine temporale. L'allievo seguì le indicazioni del maestro. E agli studi di letteratura spagnola (suo autore prediletto, già allora, fu Francisco de Quevedo, che diventerà costante riferimento e oggetto di saggi essenziali) fece seguire un'appassionata visitazione storiografica e critica della, o delle, letterature ispanoamericane. Delle quali ebbe, tra i primissimi nell'Università italiana, l'incarico di insegnamento alla Bocconi nel 1959. Ma la disciplina, praticamente nuova, aveva bisogno degli strumenti didattici, i testi erano di difficile reperimento. Alla scomparsa di Ugo Gallo, autore nel 1954 di una curiosa storia della letteratura dell'Ispanoamerica, Bellini, che già da alcuni anni ne andava pubblicando delle elaborazioni personali per uso didattico, fu incaricato di una sua revisione per una nuova edizione. Che apparve, coi nomi di entrambi, e ad essa, dopo molti anni di ulteriori ricerche, seguì la pubblicazione della personale pregevole Storia della letteratura ispano-americana. Dalle origini precolombiane ai nostri giorni (Sansoni-Accademia, 1970). Le successive edizioni spagnole dell'opera, presso Castalia (Madrid) nel 1985 e nel 1997 (con il titolo aggiustato in Nueva historia de la literatura hispanoamericana), ulteriormente rivedute e aggiornate, hanno reso disponibile un testo d'insieme (circa 800 pp.) apprezzatissimo (e vendutissimo) in Spagna e in tutti i paesi ispanoamericani. Il criterio che presiede all'impianto critico delle molteplici edizioni e ristampe, italiane e spagnole, del testo di Bellini si fonda sul principio della integrità della letteratura ispanoamericana, non limitata, cioè, al periodo che va dall'indipendenza ad oggi. Il suo ambito deve comprendere tutti i testi scritti, cioè tutti i testi nati in America, includendo l'intera epoca coloniale nonché, data l'importanza che le civiltà precolombiane assumono in svariati autori di epoca successiva alla conquista, i prodotti della cultura letteraria o mitico-religiosa anteriori alla colonizzazione degli spagnoli. In effetti la memoria delle culture precolombiane è particolarmente viva -annota Bellini nella sua analisi- in grandi autori quali Sor Juana Inés de la Cruz, l'Inca Garcilaso, Neruda, Asturias e Octavio Paz. Un tale impianto rappresentò una novità stridente rispetto alle storie letterarie ispanoamericane edite in Europa e in America fino agli anni Sessanta. Le quali, nella generalità, limitavano la ricognizione all'epoca che inizia con l'indipendenza dalla Spagna, e quindi all'Otto e Novecento. A partire da allora, l'orientamento di Bellini venne accolto e riproposto un po' da tutti gli studiosi di quella letteratura.

La prospettiva storico-letteraria di Bellini in ragione dell'analisi descrittiva e critica della letteratura ispanoamericana, che è eminentemente meticcia, rende necessaria la conoscenza delle letterature dell'Europa e del Nordamerica, ma assume come imprescindibile la padronanza della letteratura spagnola. Di questa, molto interesse accentra l'opera di Quevedo, il grande esponente del Siglo de Oro della cui verve satirico-burlesca e moralistica Bellini ha puntualmente rassegnato i lasciti in molti scrittori di epoca coloniale e in vari altri di epoca contemporanea (dei vari saggi dedicati al tema, ricordo qui Quevedo nella poesia ispanoamericana del'900, 1967, e Quevedo en America, 1974).

Nel racconto per campioni della produzione del professor Bellini una menzione va riservata agli studi storico-letterari riferiti all'intensa letteratura cronachistica che accompagnò la conquista spagnola del Nuovo Mondo, svolti prevalentemente in occasione del Quinto Centenario della Scoperta. Evento che lo vide membro del Direttivo della Commissione Nazionale Colombiana e responsabile di progetti internazionali promossi dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Per la storica circostanza, Bellini produsse un'ampia analisi dedicata a Colombo e la scoperta nelle grandi opere letterarie (1993), cui seguì un'operazione di recupero filologico con edizioni dei testi di Fernando Colombo, di Toribio de Benavente, del Mondo Nuovo, nonché un gruppo di altri saggi riuniti più tardi in Amara America Meravigliosa (1995).

Tra gli scrittori di epoca coloniale ai quali il maestro ha offerto maggiore attenzione e studio, sono rappresentati in rigorosi saggi critici Juan del Valle y Caviedes, Sor Juana Inés de la Cruz, Garcilaso de la Vega el Inca. Del primo, autore satirico e moralista di Diente del Parnaso y otros poemas, ha interessato a Bellini il rapporto di filiazione con Quevedo; all'opera della monaca messicana, scrittrice di teatro e poetessa, esponente tra i più rappresentativi del barocco ispanoamericano, Bellini ha dedicato un'attenzione durata vari decenni: dall'edizione della Respuesta a Sor Pilotea de la Cruz del 1953 a L'opera letteraria di Sor Juana Inés de la Cruz (1964), a Suor Juana e i suoi misteri (1987) e al Teatro sacro y profano (1999); dell'Inca non potevano non interessare, ovviamente, i Comentarios reales.

Altra tenace passione di lettura critica Bellini ha dedicato alla bellezza dei prodotti di scrittori recenti quali Miguel Ángel Asturias e Pablo Neruda, per citare quelli che sono stati i padri della generazione oggi arcinota e che annovera i nomi di García Márquez, di Vargas Llosa, di Cortázar, di Borges, di Sábato, di Skármeta e di tanti altri. Sullo scrittore guatemalteco che più di tutti ha contribuito a recuperare alla storia la civiltà maya, e che ebbe il Nobel nel 1970, al fondamentale libro apparso in più edizioni su La narrativa di Miguel Ángel Asturias, Bellini ha fatto seguire altri saggi che analizzano le componenti del reale e del meraviglioso da cui prende origine l'impianto estetico generazionale del «realismo mágico» e, sua recente estensione, del «fantástico» in letteratura quale componente strutturale (De tiranos, héroes y brujos, 1982; De amor, magia y angustia, 1989; Mundo mágico y mundo real, 1999).

Alle relazioni letterarie, viste dalla prospettiva culturale italiana, Bellini, costruendone ex novo l'impianto storico-critico, ha dedicato con profusione erudita una fortunata Storia delle relazioni culturali tra l'Italia e l'America di lingua spagnola, uscita in più edizioni, e alcuni altri saggi successivi poi confluiti in Italia, España, Hispanoamérica: una Comunidad literaria renacentista (2001).

Nel settore del teatro, dopo il remoto Teatro messicano del Novecento, degli anni Cinquanta, e dopo i saggi sul teatro di Sor Juana, uno dei suoi ultimi prodotti è apparso nel 2001 col titolo di Re, dame e cavalieri, rustici, santi e delinquenti. Il libro svela nel sottotitolo (Studi sul teatro spagnolo e americano del Secolo Aureo) l'antica, radicata ammirazione per il grande teatro spagnolo del Siglo de Oro.

Ma è alla poesia, forse, che Bellini ha maggiormente dedicato le sue sempre fresche energie. E l'esercizio di queste energie ha interessato la poesia di Borges, di Neruda, di Vallejo, di Octavio Paz e di molti altri. È però noto a tutti che è sui versi di Pablo Neruda che egli ha concentrato la frequentazione e l'amore più intenso. I suoi studi critici sul grande cileno si compendiano in tre tappe che vanno da La poesia di Pablo Neruda: da «Estravagario» al «Memorial de Isla Negra» (1966), a Pablo Neruda: la vita, il pensiero, le opere (1973) e, infine, a Viaje al corazón de Neruda (2000), riedito in edizione italiana l'anno scorso presso Passigli. E all'amico Neruda, il cantore dell'amore, della storia d'America nel Canto Generale, delle rovine della città imperiale di Machu Pichu, delle cose semplici di cui si nutre la vita, della sofferenza delle genti oppresse o discriminate, al poeta che sorride alla vita con una carezza cordiale, al cantore della luce, dei colori, della bellezza del mondo, Bellini ha dedicato tanta altra sua dilettevole fatica in termini di eccellenti traduzioni. Traduzioni di raccolte poetiche, innanzitutto, ma anche di selezioni tematiche e di florilegi che, per i tipi di Accademia-Sansoni un tempo, poi di Bulzoni e ora di Passigli, in numero di varie decine hanno illustrato in Italia, a intere generazioni, «il poeta che in modo più aderente e sofferto ha vissuto le vicende del secolo in cui gli toccò vivere, e le ha rappresentate -ancora con parole di Bellini- in modo quanto mai partecipe» (Viaggio al cuore di Neruda, p. 154).

In conclusione, i meriti scientifici del professor Giuseppe Bellini si fondano in prima istanza sulla intensa attività di ricognitore, primo in Europa, delle tendenze culturali e delle modalità stilistiche della emergente letteratura ispanoamericana negli anni Cinquanta e Sessanta; quindi, sulla qualità scientifica dei suoi circa sessanta volumi di critica letteraria, degli innumerevoli saggi e articoli apparsi su riviste italiane e straniere, degli studi ecdotici con edizioni di testi; e ancora, sulla grande quantità di traduzioni di alto profilo che hanno contribuito in modo rilevante a diffondere in Italia, nel corso degli ultimi cinquanta anni, primizie e ricchi frammenti della cultura ispanoamericana.

Infine, gli va ascritto il merito di aver fatto conoscere i grandi autori che hanno prodotto la reale emancipazione storica della letteratura ispana d'America: la generazione dei padri (Henríquez Ureña, Gabriela Mistral, Alfonso Reyes, Jorge Luis Borges, Pablo Neruda, Miguel Ángel Asturias), quella dei figli (Sábato, Cortázar, Onetti, Roa Bastos, Alegría, Donoso, Arguedas, Vargas Llosa, Scorza, Aguilera Malta, García Márquez, Octavio Paz) e quella infine dei nipoti (Posse, Soriano, Giardinelli, Galeano, Skármeta, Isabel Allende, Sepúlveda, Mutis, Balza, Liano, Aridjis, Montero). Ed è giusto menzionare qui l'importanza che ha avuto in Italia la sua lunga, intensa e generosa attività promozionale condotta mediante varie case editrici (Accademia, Sansoni, Guanda, Cisalpino, La Scuola, Bulzoni, Passigli), i cui cataloghi annoverano saggi e testi di svariate letterature straniere, curati da altrettanti colleghi, ospitati in collane da lui dirette. Ed è doveroso ricordare anche che in virtù dei suoi meriti scientifici, ma anche in virtù della generosa disponibilità e della simpatia umana lo studioso ha ampliato il proprio magistero in Italia all'estero raccogliendo intorno a sé un gran numero di allievi.

Nel corso della lunga carriera universitaria, il professor Giuseppe Bellini ha discretamente evitato di ricoprire cariche accademiche, preferendo dedicare la sua vita allo studio. Nondimeno, egli, in ambiti culturali vari ha ricoperto cariche prestigiose di interesse nazionale e internazionale: membro del Consiglio Superiore dell'Università; membro e successivamente a lungo presidente del Comitato per le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche del C. N. R.; presidente della Asociación Europea de Profesores de Español; presidente del Comitato dei Garanti dei paesi firmatari della Association Archives de la Literature Latinoaméricaine du XXe. siècle, organo dell'UNESCO; componente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione «Giorgio Cini» di Venezia; membro del direttivo della «Fundación Huidobro» di Valparaíso, della «Fundación Nicolás Guillén» di La Habana, del comitato scientifico dell'Istituto di Romanistica dell'Università di Leipzig; presidente del Centro per lo studio delle letterature e delle culture delle aree emergenti, del C. N. R.; responsabile dell'Istituto di storia del Mediterraneo, sez. di Milano, del C. N. R.; presidente del comitato scientifico dell'Istituto di studi latinoamericani di Pagani; è direttore delle riviste «Studi di letteratura ispanoamericana» (Milano), «Quaderni della ricerca» (Milano), «Quaderni ibero-americani» (Torino), «Rassegna iberistica (Venezia)»; è condirettore di «Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane» (Milano), «Centroamericana» (Milano). Ha diretto missioni culturali per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche in Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Francia, Guatemala, Messico, Panamá, Perú, Portogallo, Santo Domingo, Spagna, Turchia, Uruguay, Venezuela.

È comprensibile, dunque, che siffatta intensa vita di studio e di dedizione a progetti culturali di rilevante interesse scientifico gli abbia prodotto riconoscimenti ufficiali di prestigio. Tra questi, la medaglia d'oro del C. N. R.; il premio nazionale del Ministero dei Beni Culturali (1999) «per aver contribuito attraverso attività traduttoria di alto profilo qualitativo alla diffusione ispanistica in Italia»; la qualifica di Profesor Honoris Causa dell'Università «Los Andes» di Mérida (Venezuela); di Dottore Honoris Causa in Filologia dell'Università di Salamanca; di Dottore Honoris Causa dell'Università di Perpignan; di Commendatore dell'Ordine di «Rubén Darío» (Nicaragua); dell'Ordine «Andrés Bello» e dell'Ordine «Francisco de Miranda»(Venezuela); dell'Ordine Miguel Ángel Asturias (Guatemala); dell'Ordine al Mérito della Repubblica del Portogallo; dell'Ordine al Mérito Civile del Regno di Spagna; dell'Ordine Isabel la Católica di Spagna.

Annoto per ultimo che Bellini è diventato amico dell'«Orientale» da circa venticinque anni, da quando cioè ci onora di partecipare con gradita frequenza ai nostri convegni di iberistica e a celebrazioni ed atti di varia natura, mettendo a disposizione le sue alte competenze anche per attività connesse al «Dottorato di ricerca in lingua, cultura e istituzioni dei paesi di lingua spagnola in età moderna e contemporanea». Recentemente ha letto da noi la laudatio di Antonio Skármeta, lo scrittore cileno (del quale è arcinoto da noi Il postino di Neruda) al quale una Commissione di ispanisti dell'«Orientale» ha assegnato la prima edizione del Premio Neruda della Regione Campania. L'alto riconoscimento dell'Università «L'Orientale» di Napoli va dunque al grande studioso, alla sua tenacia vincente, ma anche alla generosa disponibilità dell'amico, alla simpatia gioviale del suo tratto.




ArribaLectio

Giuseppe Bellini



La letteratura ispanoamericana interprete di un mondo

Il mio grazie più vivo alle Autorità accademiche, al Magnifico Rettore di questo prestigioso Ateneo, Prof. Pasquale Ciriello, al Preside della Facoltà, Prof. Domenico Silvestri, e al Consiglio della stessa che hanno dato seguito positivo alla generosa proposta degli amici ispanisti. La mia gratitudine, naturalmente, va in particolare a Giovanni Battista De Cesare, al quale mi legano anni di affettuosa amicizia e di collaborazione, a tutti i Colleghi ispanisti, che hanno proposto mi fosse concessa questa distinzione, segno di stima e di amicizia.

È oggi per me un grande onore ricevere questa distinzione dall'Università di Napoli «L'Orientale», una Università con la quale ho avuto, per il settore ispanistico, molti contatti e che ho iniziato a conoscere fin dagli anni di studente, attraverso i suoi precedenti professori e gli apporti scientifici all'ispanismo e all'ispano-americanismo del mondo napoletano. Un lungo e significativo rapporto che ha posto in primo piano nella mia formazione il preminente ruolo della città partenopea nella storia culturale ispanica, nella quale rappresentano momenti determinanti la corte di Alfonso il Magnanimo, fonte della maggiore età della letteratura castigliana, la figura di Carlo III di Borbone, re di Napoli, poi di Spagna, primo modernizzatore della penisola iberica, senza dimenticare l'attività di Benedetto Croce, che tanta luce ha fatto sulle relazioni tra l'Italia e la Spagna.

Il mio intervento intende, ora, nella sostanza, evidenziare l'orientamento da me seguito nei riguardi della disciplina alla quale più mi sono dedicato: la letteratura ispanoamericana, intesa sempre quale testimonianza di tutto un mondo.

In un lontano saggio, in cui trattava del valore delle lettere ispanoamericane, il messicano Alfonso Reyes affermava che la letteratura non era da considerarsi una pura attività ornamentale, bensì l'espressione più completa dell'uomo, poiché solo la letteratura manifestava l'uomo in quanto uomo, senza distinzione né qualificazione alcuna, e, aggiungeva, non esiste maggior specchio dell'uomo di essa, né via più diretta di concezione del mondo di quella manifestata dalle lettere perché i popoli si capiscano e si riconoscano tra di loro.

È pur vero che la cattiva letteratura provoca danni, allorché diffonde idee perniciose, esempi criminali; ma quando parliamo di letteratura intendiamo altra cosa: quella che reca in sé valori veri e che, come ebbe a dire il citato Reyes, interpreta l'uomo, ne rappresenta la condizione sulla terra, combatte in suo nome e costruisce utopie redentrici: una letteratura che penetra non solo nella condizione umana dell'essere, ma nel suo mistero. Non senza ragione nelle «Alturas de Macchu Picchu» Neruda, rifuggendo dalle facili suggestioni dell'archeologia, ricordava che «l'uomo è più ampio del mare e delle sue isole», e che «bisogna cadere in esso come in un pozzo per uscire dal fondo / con un mazzo di acqua segreta e di verità sommerse».

La ricerca del grande cileno lo conduceva, alla fine, a constatare dolorosamente la continuità nei secoli dello sfruttamento. Ben lontano era il modello dell'elegia A las ruinas de Itálica, di Rodrigo Caro, cui in qualche modo si ispirava: le rovine di Macchu Picchu non recavano al poeta nostro contemporaneo memoria di alti esempi, non assurgevano a «favola del tempo», né a simbolo della fortuna, ma attestavano unicamente la sofferenza, l'ingiustizia, il sangue versato, l'agonia ignorata di gente alla quale Neruda aveva deciso di prestare la sua voce: «Parlate attraverso le mie parole e il mio sangue».

Si sono uditi di frequente scrittori, tra essi Mario Vargas Llosa, affermare che la letteratura è rivoluzionaria; lo è, in effetti, soprattutto per popoli ancora incatenati economicamente e politicamente, in quanto dà voce alla protesta contro l'ingiustizia, perseguendo un fine costante: la costruzione di un mondo più giusto, quindi felice, miraggio eterno dell'uomo, a partire dal primo residente sulla terra.

Al disopra di ogni credo politico, la letteratura unisce i popoli attraverso un sistema di relazioni che si afferma nel tempo. Ogni attività letteraria confluisce in un unicum che elimina le frontiere. Non v'è poeta, prosatore, drammaturgo o saggista, a dispetto di scuole e di epoche, che non faccia tesoro della lezione di coloro che lo hanno preceduto, poco prima o secoli addietro, senza che per questo corra pericolo la sua originalità, al contrario ne viene rafforzata, sempre che di un vero artista si tratti. Alludendo ai grandi del passato, da Dante a Shakespeare, a Victor Hugo, Neruda affermava che questi poeti accumulavano certamente foglie, ma tra esse vi erano canti di uccelli, erano foglie di grandi alberi, erano «hojas» e «ojos», foglie e occhi, che si moltiplicano, ci guardano e ci aiutano a scoprirci, ci rivelano il nostro labirinto.

Tutto ciò è riscontrabile nella letteratura ispanoamericana fin dal suo primo testo fondatore: il Diario di bordo di Cristoforo Colombo. L'America fu per lo Scopritore, agli inizi, un mondo della meraviglia ed egli ne diede la prima immagine solare, visione che si è fissata stabilmente nell'immaginario universale, se si pensa ai Caraibi. A distanza di secoli la confermerà nuovamente Gabriel García Márquez, in El otoño del Patriarca, alludendo al reguero, alla sfilata di isole che si offre alla vista dei dittatori deposti, da lui tenuti sotto controllo in un palazzo sulle rive del Mare delle Antille, dove si consumano nell'inedia.

Per Colombo la fonte prima di paragone per il suo entusiasmo americano furono i luoghi incantati del mito. Egli vide splendidi giardini ricchi di alberi di fioriture diverse, a volte su uno stesso tronco, del tutto inesistenti, percepì l'eco di presenze animali, in realtà assenti, descrisse un mondo fantastico meraviglioso, frutto della sua fantasia oltre che della realtà. Nonostante le successive delusioni, questo mondo esaltante avrebbe continuato ad affascinare scopritori e conquistatori durante tutta la presa di contatto con il Nuovo Mondo. Nella novità dei luoghi tornavano a vivere i miti dell'Età dell'Oro, le favole della Fonte di perenne vita, dell'Eterna giovinezza, dell'Uomo tutto d'oro, delle Sette città, della Città aurea dei Cesari, esaltando il ricordo di racconti uditi o di remote letture. Il cronista-soldato Bernal Díaz del Castillo nella Historia verdadera de la Nueva España ricorda che allorché dall'alto dei monti che circondano la valle dell'Anáhuac lui ed i suoi compagni videro improvvisamente sorgere dalle acque del lago la splendida città di Tenochtitlán, capitale dell'impero azteca, lo stupore fu immenso e per renderlo ricorre alle rappresentazioni fantastiche del libro di cavalleria all'epoca più letto: «rimanemmo sbalorditi, e dicevamo che somigliava alle cose d'incantesimo che raccontano nel libro dell'Amadigi».

Più tardi, realizzata la conquista, fra Toribio de Benavente celebrerà la feracità della terra, dando vita, nella Historia de los indios de la Nueva España, a una sorta di «meraviglioso economico», mentre per quanto riguarda il Perù il cronista Cieza de León arriverà a manifestare profonde preoccupazioni morali di fronte alle straordinarie ricchezze del paese, definendolo nuova «tierra de Jauja», pericoloso paese di Cuccagna.

Non aveva tardato, tuttavia, di fronte ai crimini della prima conquista, a levarsi la voce del domenicano Bartolomé de Las Casas, nella Brevísima historia de la destruición de las Indias: egli denunciava la barbarie dei conquistatori, come del resto già dall'Española, poi Santo Domingo, lo aveva fatto anni prima, dal pulpito, frate Antonio de Montesinos, minacciando apocalittici castighi agli sfruttatori inumani degli indigeni.

Sono queste, per sommi capi, le manifestazioni iniziali della letteratura ispanoamericana. Una letteratura che celebra certamente la natura meravigliosa del Nuovo Mondo e la sua eccezionale ricchezza e produttività, la sua cultura, investigata da frate Bernardino de Sahagún per l'area azteca, dal vescovo Diego de Landa per quella maya, dall'Inca Garcilaso per il mondo incaico, ma che soprattutto denuncia duramente lo sfruttamento e l'ingiustizia.

Sarà la caratteristica permanente delle lettere ispanoamericane nel tempo. Su questa linea già aveva dato un contributo rilevante uno spagnolo conquistatore, il poeta epico Alonso de Ercilla, ne La Araucana: descrivendo le vicende della conquista di quella remota regione del Cile, egli non solo illustrava l'eccezionale bellezza, talvolta barbara, dei luoghi, ma esaltava il valore delle popolazioni indigene, mai da alcuno sottomesse, e prendeva partito contro i delitti consumati sui vinti, come era stato il caso dell'esecuzione, per impalamento, dell'eroe Caupolicano, sentenza che, se fosse stato presente, dichiara, non avrebbe permesso si realizzasse. Significativamente Neruda farà di Ercilla il suo poeta e ne adotterà i versi per proclamare l'invincibilità del suo paese di fronte all'assalto dei gringos, ai tempi di Allende.

Non di minor rilievo fu la presa di posizione in favore del mondo peruviano da parte dell'Inca Garcilaso, come attestano i Comentarios Reales e la Historia general del Perú: il suo esaltare il mondo incaico quale altra Roma e il parteggiare per il ribelle Gonzalo Pizarro, che bene avrebbe visto proclamarsi re di una società meticcia, rivelano un'indipendenza di giudizio che si erge coraggiosamente contro i dominatori, ai quali peraltro per via paterna lui stesso apparteneva.

Ancora durante il secolo XVII una suora messicana, Juana Inés de la Cruz, darà il suo contributo alla storia umana del mondo coloniale denunciando, nella Carta a Sor Filotea de la Cruz e nella precedente, meno nota, Carta de Monterrey, la condizione femminile di intelligenza perseguitata, gli arbìtri del potere religioso nel controllo sulla donna, e nella sua opera lirica l'ingordigia di un'Europa sfruttatrice insaziabile delle ricchezze americane, mentre nel teatro manifestava radicale avversione al privilegio di casta, come già Quevedo nel Sueño del Infierno.

Dagli Antipodi, a sua volta, nello stesso periodo, un povero poeta autodidatta, Juan del Valle y Caviedes, seguendo con originalità propria il grande satirico spagnolo, avrebbe denunciato, nel Diente del Parnaso, la corruzione morale della società peruviana, dove il danaro era divenuto la misura di tutte le cose e persino la scienza medica si riduceva all'abilità di trovare «introduzioni», promuovendo una caterva di ignoranti «saggi», con grande offesa alla virtù e alla competenza.

Quello della Colonia è un momento di grande maturità per le lettere americane e di originalità piena, pur nella naturale influenza ispanica. Con la conquista era entrato in America un tipo di cultura di marcato segno medievale, come dimostra il fiorire della cronaca delle Indie e la diffusione del Romancero, ma non secondo un piatto conformismo. Di fronte alla nuova realtà non si trattava solo di illustrare imprese belliche, ma di interpretare la peculiarità di un mondo nel quale la natura e i nativi avevano parte dominante. Da narrazione di imprese la cronaca divenne indagine critica e scientifica, descrizione interpretativa della bellezza, ma anche dell'«orrore» americano, dando vita a una sorta di «realismo magico-denunciatario», impegnato con la vecchia e la nuova società in formazione.

Il Rinascimento e l'italianismo dovevano dare lustro all'ingegno americano, fondamento allo studio delle antiche culture dell'area azteca, valga del già citato Bernardino de Sahagún la monumentale Historia general de las cosas de Nueva España, e all'indagine scientifica, come il padre José Acosta che nella Historia natural y moral de las Indias rivoluzionariamente sostituiva all'autorità degli Antichi l'esperienza.

Cortés aveva rappresentato, nella conquista del Messico, una scaltra adesione agli interessi imperiali di Carlo V, con i quali si identificavano i suoi personali, come si constata agevolmente dalle Cartas de relación, ma Garcilaso el Inca metteva coraggiosamente in discussione tali interessi, mentre Lope de Aguirre, personaggio macchiatosi di molti delitti, ribelle alla Corona, polemico con Filippo II e in guerra dichiarata con lui, doveva dare inizio, se vale l'interpretazione moderna di Miguel Otero Silva, alla lotta per l'emancipazione.

Storia e letteratura documentano per tal modo, in Ispanoamerica, fin dall'inizio, un dissidio con il potere non puramente episodico. La nuova società che si andava formando e che con il passare del tempo si sarebbe mostrata sempre più inquieta, avrebbe volto le sue aspirazioni alla completa indipendenza. Il mondo coloniale, agitato da numerose ribellioni, sempre soffocate nel sangue, continuamente insidiato dall'esterno da nazioni come l'Inghilterra, la Francia, l'Olanda, nemiche e rivali della Spagna, sottoposto a continui riassestamenti in conseguenza di guerre disastrose in Europa, si allontanava sempre più dal potere peninsulare.

L'avvento al trono spagnolo nell'epoca napoleonica di un re straniero, Giuseppe Bonaparte, diede motivo alle colonie americane per un'esperienza di autonomia in nome di una formale lealtà al monarca prigioniero di Napoleone, esperienza dalla quale non recederanno se non per breve tempo durante la restaurazione. La Francia fornirà le armi ideologiche: la Dichiarazione dei diruti dell'uomo e il Contratto sociale. Voltaire e Rousseau divengono presto gli idoli dell'America ispana colta del secolo XVIII: proibiti, e perciò ancor più letti e commentati nella clandestinità, i loro scritti orientano il pensiero indipendentista. Nel 1792 l'abate peruviano Juan Pablo Viscardo indirizza dall'esilio una Lettre aux espagnols américains difendendo con ragioni giuridiche il loro diritto all'indipendenza e riprovando duramente la rassegnazione allo status quo. Né varranno le misure riformatrici in extremis di un sovrano illuminato come Carlo III di Borbone ad evitare il distacco delle colonie dalla madrepatria.

Sarà Simón Bolívar a realizzare il sogno indipendentista e Olmedo lo canterà epicamente. Ancora nel secolo XX Neruda celebrerà il Libertador e Asturias comporrà un «Credo» in onore di questo «figlio d'America», che immagina «ritto presso Dio». Rappresentazione esaltante e ancor più se la si confronta con l'immagine dell'uomo ormai finito, che non molti anni fa ci ha dato Gabriel García Márquez, nel romanzo El general en su laberinto, visione toccante, ugualmente grandiosa di un uomo eccezionale, distrutto dalla delusione e giunto alla fine dei suoi giorni:

vide dalla finestra nel cielo il diamante di Venere che se ne andava per sempre, le nevi eterne, il rampicante nuovo le cui campanule gialle non avrebbe visto fiorire il sabato seguente nella casa chiusa per il lutto, gli ultimi fulgori della vita che mai più, per i secoli dei secoli, sarebbe tornata a ripetersi.



Gli eventi storici si riflettono sull'orientamento del gusto e nell'espressione artistica. Contro il predominio della letteratura spagnola, intrisa positivamente di italianismo, soprattutto nel Rinascimento, e dopo i fasti del Barocco, la letteratura francese diviene nei secoli XVIII-XIX riferimento e modello per l'espressione americana, arricchendone il già accentuato meticciato.

La Nouvelle Héloïse favorisce la manifestazione di una sensibilità nuova, che le opere di Bernardin de Saint-Pièrre e di Chateaubriand ispirano. Il Romanticismo si orienta soprattutto sul modello della Francia, benché autori e testi di aree geografiche europee diverse pure influiscano: i Canti di Ossian, i poemi di Young, di Thomas Gray, di Byron.

Un caso singolare è rappresentato da Victor Hugo, che godrà di grande favore fin ben addentro al secolo XX: se il venezuelano Andrés Bello traduce nel secolo XIX, La prière pour tous, l'orma del poeta francese si imprime stabilmente anche in Neruda, il quale ancora ne Las piedras de Chile gli rende omaggio, come a colui che più ebbe parte nella sua formazione; per lui immagina una tomba alle rive dell'Oceano, le cui acque lambiscono la sua casa di Isla Negra, dove per i secoli dei secoli l'onda e le alghe marine l'avvolgano in una carezza.

Non meno rilevante, naturalmente, nel romanticismo ispanoamericano è di nuovo la presenza italiana: del Foscolo, quello dei Sepolcri e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis; del Manzoni, la cui ode alla morte di Napoleone, «Il 5 Maggio», venne tradotta e imitata centinaia di volte, ma presente anche con le tragedie e I promessi sposi; e poi Vico, il Beccaria e tanti altri di cui risulterebbe prolisso l'elenco. Un italianismo che agli inizi dei movimenti indipendentisti aveva visto il teatro di Alfieri fungere non di rado, come in Argentina, da motore della rivolta.

Quella ispanoamericana è una letteratura aperta a tutte le altre letterature, dalle quali trae vigore di originalità. Il timido inizio del romanzo in Ispanoamerica avviene all'insegna della letteratura francese: María, del colombiano Jorge Isaac, segue le orme di Atala e René, ma con una originale immersione nella realtà americana. Poe sarà più tardi modello per il genere fantastico rioplatense, influirà su autori come l'argentino Leopoldo Lugones e l'uruguaiano Horacio Quiroga, né cesserà di essere presente in uno scrittore così autenticamente originale come Borges. Allo stesso modo, in epoca modernista, lo era stato per il nicaraguense Rubén Darío e il colombiano José Asunción Silva, anche se il Modernismo, nella poesia soprattutto, deve molto alla Francia del Parnasse e del Simbole, mentre nella prosa più deve a D'Annunzio: Silva si ucciderà con al capezzale II trionfo della morte.

Calmatesi le passioni, raggiunta l'indipendenza, l'atteggiamento verso la letteratura spagnola muta gradualmente. La narrativa segue, con il peruviano Ricardo Palma il costumbrismo, mentre al realismo di Pérez Galdós si ispirano il cileno Alberto Blest Gana e il messicano Manuel Altamirano, per citare nomi eminenti. Nella poesia post-romantica sarà Bécquer il modello ispiratore e la sua influenza giungerà addirittura a poeti rilevanti del secolo XX, come Gabriela Mistral e lo stesso Neruda. Ma anche in questi scrittori sarà viva la caratteristica protestataria, la presa di posizione in favore dei loro popoli, di fronte al prepotere politico, straniero o nazionale, alle differenze razziali, alla miseria. Vi darà un sostanziale contributo il naturalismo, sulle orme di Zola, anche se, realizzato da scrittori di condizioni più che agiate, inseriti nella società dominante, come il messicano Federico Gamboa e il franco-argentino Eugenio Cambacerés, subirà distorsioni che porteranno all'esaltazione della società alta dei rispettivi paesi. E tuttavia questi scrittori hanno il merito di aver richiamato l'attenzione sulle piaghe della società, sulla vita miserabile degli strati infimi della popolazione inurbata, confinata nelle periferie di città ormai sulla via di trasformarsi in disumane megalopoli.

Non meno porteranno l'attenzione sulla società contadina la poesia e il romanzo gauceschi, indagando la particolare mentalità degli abitanti delle grandi aree rurali, dediti all'allevamento del bestiame, come avviene nel Don Segundo Sombra dell'argentino Ricardo Güiraldes, e nel poema Martín Fierro, del pure argentino José Hernández.

Nei primi decenni del Novecento ha luogo un lungo momento di esperienze avanguardiste e di nuovo sarà Parigi il punto di riferimento, anche se nelle varie realizzazioni americane, soprattutto in America Centrale, in Messico e nelle Antille, ma anche in Argentina, ha parte notevole e prolungata influenza fin verso la metà del secolo il futurismo di Marinetti.

Il secolo XX è, tuttavia, in Ispanoamerica, il secolo soprattutto della narrativa impegnata: sorge in questo periodo il romanzo della rivoluzione messicana -del 1910-, che ha in Mariano Azuela, autore noto per Los de abajo, il suo maggior esponente, ma presto nuovi scrittori costellano il panorama americano, dal colombiano Eustasio Rivera, autore de La vorágine, al venezolano Rómulo Gallegos, cui si deve Doña Bárbara, scrittore che dà inizio alla prima grande stagione narrativa e che persino un autore come il Nobel Miguel Ángel Asturias considera suo maestro.

Con il guatemalteco Asturias ha inizio la seconda grande epoca del romanzo americano, all'insegna del «realismo mágico». In precedenza, tuttavia, si sviluppa una corrente indianista, rappresentata soprattutto dall'equadoregno Jorge Icaza, autore di Huasipungo, e dal peruviano Ciro Alegría, noto per i romanzi Los perros hambrientos e El mundo es ancho y ajeno, corrente influenzata dalla grande narrativa russa, che mira a denunciare la situazione disperata in cui vegeta la parte indigena della popolazione dei rispettivi paesi. Più tardi in Perú sarà José María Arguedas il continuatore della corrente, con altri raggiungimenti artistici.

È tuttavia con gli scrittori del «realismo mágico» che la narrativa ispanoamericana raggiunge la maggiore età, sfuggendo alle influenze esterne più marcate, adottando tecniche espressive nuove, che fanno tesoro dei raggiungimenti di Kafka come di Joyce, di Dos Passos come di Faulkner e di altri autori nordamericani, ma solo delle tecniche, che pure innovano originalmente. La materia sostanziale è americana; essa affonda con Asturias nella magia del paesaggio, nelle civiltà precolombiane e nei loro miti, per denunciare, in Hombres de maíz e nella trilogia bananiera, la condizione infelice dell'uomo sulla terra, sottoposto allo sfruttamento del capitale straniero, oppresso da crudeli regimi dittatoriali, come denunciato in El Señor Presidente.

Per il cubano Alejo Carpentier il mondo magico sarà la storia americana, l'animismo negro, presente in El reino de este mundo, e la prima, illusoria conquista della libertà, ai tempi di Napoleone, con l'assunzione del potere da parte del negro Henri Christophe, autore di una nuova e crudele dittatura. Lo denuncerà anche l'equadoregno Demetrio Aguilera Malta, e molti altri scrittori lo seguiranno.

E la Spagna? La letteratura ispanoamericana, in particolare la poesia modernista, esercita tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento una indubbia influenza innovatrice sulla poesia e sulla prosa spagnole. Perciò Max Henríquez Ureña ha parlato di «ritorno dei galeoni». Senza l'esperienza modernista non è concepibile la grande poesia ispanica del secolo XX, da Juan Ramón Jiménez e Antonio Machado, alla prestigiosa «Generazione del '27»: Alberti, Lorca, Cernuda, Aleixandre, ecc. Ma il cordone ombelicale, pur sulle sostanziali differenze e originalità, si rinsalda concretamente con la guerra civile del '36, quando grandi personalità delle lettere e del pensiero si rifugiano nei paesi di quella che fu l'America spagnola: in Messico, nelle Antille, in Venezuela, nel Cile e soprattutto in Argentina. Il mondo ispanico si ricongiunge, ora non nella dipendenza, ma su un livello di assoluta parità. Ed è quando la letteratura ispanoamericana raggiunge gli esiti più alti: nel romanzo, nella poesia e nel teatro, oltre che nella saggistica. Valga per tutti l'auge della narrativa, nella quale ancora oggi, nonostante nuove e promettenti leve, dominano i nomi di Onetti, Sábato, Fuentes, Cortázar, Vargas Llosa e García Márquez, i cui romanzi, El astillero, Sobre héroes y tumbas, La muerte de Artemio Cruz, Rayuela, La ciudad y los perros, Cien años de soledad, rispettivamente, sono testimonianza di una creatività americana pienamente autonoma e innovatrice

Come del resto lo è la poesia di Neruda, di Vallejo, di Borges, di Octavio Paz, di José Emilio Pacheco, di Jaime Sabines, di Homero Aridjis...; lo è il teatro dei messicani Xavier Villaurrutia, Rodolfo Usigli, Emilio Carballido, dei cubani Antón Arrufat e José Triana...; lo sono la saggistica e la filosofia prestigiosamente rappresentate da Octavio Paz e da Leopoldo Zea, da poco scomparsi.

Molti sarebbero i nomi da menzionare, ma risulterebbe esercizio tedioso. Vale piuttosto la pena di ribadire, attraverso parole remote di Miguel Ángel Asturias, la caratteristica dominante della letteratura ispanoamericana, quella che più ha richiamato adesione nei lunghi anni della mia attività. Dichiarava:

Siamo scrittori rivoluzionari, totalmente impegnati con i nostri popoli, con la loro causa, con la loro lotta, con la loro fame, con l'ingiustizia alla quale sono sottoposti, con lo sfruttamento di cui sono oggetto, con la loro condizione miserabile in mezzo a terre opulente, senza essere iscritti ad alcun partito, senza un'attività politica determinata. [...]. È la libertà con cui lo scrittore nostro si muove nell'ampio campo della vita ciò che garantisce le possibilità di vigilante, di nemico inflessibile dei nemici dei nostri popoli, la condizione di non contaminati dagli allettamenti dei potenti, dai nuovi biondi conquistatori, e sicuri di scrivere per qualche cosa di più che fare letteratura o poesia, per formare non solo i nostri popoli, ma una coscienza di solidarietà umana intorno a essi [...].



e contemporaneamente che si eserciti profondo lo scandaglio nella complessità dell'individuo, come la letteratura ispanoamericana ha fatto da Ercilla a Neruda, a Cortázar, a Paz, allo stesso Borges, per quanto la figura di quest'ultimo possa, per certi motivi apparire contraddittoria. La perplessità di fronte al presente e al futuro è parte della problematica americana. La traiettoria è lunga; inizia con la poesia dell'area azteca. Tormenta già i cantori indigeni il problema della vita, della morte e di cosa attende oltre essa: «Perché siamo venuti sulla terra?», «Quale ricordo rimarrà di noi?», «Dove andremo a finire?».

Octavio Paz consegnava che l'uomo vive tra due parentesi, e César Vallejo prospettava la morte come un unico colpo consegnato al tamburo di un revolver, che non sappiamo quando farà centro. Neruda a sua volta rendeva drammatica la domanda relativa alla vita: «Se vivere è un cammino che conduce alla morte, questa dove ci conduce?» A sua volta Borges si intratterrà sulla teoria dell'eterno ritorno. E un apocalittico Homero Aridjis presenterà il futuro come epilogo drammatico del mondo.

Ma una volta ancora Neruda recherà al terrorizzato lettore una prospettiva fortificante, seguendo l'impegno assunto di «rinverdire costantemente la speranza», e lo farà nei Cantos ceremoniales, celebrando la terra come madre generosa verso gli uomini, la «maledetta progenie» che tuttavia sola costituisce la luce del mondo. Ne La espada de fuego, davanti alla distruzione atomica del mondo, fonderà sull'amore e sul lavoro la nuova speranza.

È questa l'attrattiva profonda esercitata su di me dalla letteratura cui mi sono dedicato.

Dedico la distinzione che oggi mi viene fatta dall'«Orientale» agli amici ispanisti di questa Università e ai miei discepoli nel tempo, conscio della fortuna di averli avuti.





Indice