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ArribaAbajo Il disordine organizzato. Per una storia dell’ idea di labirinto

Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti. Prefazione di Umberto Eco, Frassinelli, Milano, 1984.


Roberta Martufi


Universidad de Venecia

«All’ingresso del palazzo di Cnosso sta il segno del Toro.

Da esso si scende nel regno del segreto, della disperazione, della purificazione e del ritrovamento di se stessi e della libertà. E laggiù, lungo gli ambulacri e sulle pareti delle sale regali, troviamo, ammonitore e crudele, l’altro segno sacrale della labrys, dell’ascia doppia, arma e simbolo di potere, scure che uccide la Bestia, giustizia verso destra e verso sinistra, insegna del Talassocratore; forse, stilizzazione delle due corna del Toro o, addirittura, della figura umana» (P. Santarcangeli, Il libro dei labirinti, p. 3).

La ricerca sull’origine della parola labirinto è strettamante legata alla comprensione del mito e simbolo che il labirinto in quanto struttura disegnata, costruita, o solo immaginata, è in grado di evocare. Il passo appena citato dal libro di Santarcangeli avrà indotto certamente il lettore ad individuare nella labrys, così frequentemente rinvenuta durante gli scavi archeologici del palazzo di Cnosso, l’elemento da cui far discendere il termine in questione. In effetti ciò è stato sostenuto da illustri archeologi, ai quali viceversa si contrappongono coloro che ricordano che il Minotauro fu segregato in una grotta e che, guarda caso, il termine labra (da cui labirinto) in origine significava appunto grotta. A questa interpretazione se ne affiancano, poi, innumerovoli altre, tutte meno famose e meno accreditate ma non per questo meno affascinanti. Si possono qui brevemente ricordare l’esistenza a Creta di un culto a Zeus Labrandos,   —592→   a cui potrebbe essere dedicato il labirinto; l’uso della parola Labirion per indicare cuniculi scavati da una talpa ed altri tantissimi riferimenti mitologici. Da tutto ciò risulta chiaramente come la cuestione sia tuttora aperta e che, se mai verrà risolta, non sarà assolutamente ininfluente nella ulteriore comprensione del mito del labirinto e dei suoi principali protagonisti: Teseo el il Monotauro.

A questo punto credo che si possa tranquillamente affermare che il mito del labirinto, nelle sue più ampie manifestazioni, esista da che l’uomo è comparso sulla terra. Ciò che nei millenni poi sembra essere radicalmente mutato riguarda prevalentemente la sua forma, il suo aspetto esteriore e non ciò che il simbolo, in quanto tale, realmente esprime. Il problema più oneroso è rappresentato semmai dallo scoprire ciò che può essere individuato come suo significato più pertinente e corretto; questo infatti spesso è reso difficile da individuare e interpretare dalla presenza di indizi sin troppo palesi che, se mal letti, inducono ad erronee conclusioni. All’entusiasmo istintivo e subitaneo che coglie chiunque si voglia cimentare con tale argomento, è necessario che segua uno studio meticoloso e attento sulle origini e le cause che nei secoli hanno determinato il fiorire e il crollare dell’idea di labirinto. Nel mondo contemporaneo, per quanto parlando di labirinti si susciti ancora interesse e stupore, si è andato via perdendo quello che in origine doveva essere il suo carattere principale837 e a maggior ragione si è quasi completamente dimenticata la sua provenienza mitologica e strettamente intellettuale. Se infatti dal pensiero greco a quello ottocentesco si assiste all’eterna diatriba fra coloro che ricercano un ordine o una legge che permetta di risolvere il complesso problema posto dal labirinto, e coloro che viceversa, attraverso l’immaginario padre del labirinto stesso, ne promuovono la diffusione; ai giorni nostri si asisste alla nascita di un nuovo filone che ricerca un modus vivendi con il labirinto. Da questa ricerca di equilibrio, che aspira a decifrare l’alone di mistero e di eresia che lo ha sempre circondato, provengono tanto una sua più precisa conoscenza, quanto, ma solo apparentemente, una sua discesa della «normalità» del vivere quotidiano. Il labirinto sta infatti ormai ad indicare situazioni complesse, non obbligatoriamente ostili, ma dalle quali tuttavia è difficile uscire. E il dover uscire da una situazione difficile, ci dovrebbe riportare immediatamente con la memoria a Teseo che, osteggiato dal Minotauro, deve uscire dal labirinto. Ma quanti si ricordano o ripensano a lui? E’ quindi forse opportuno, prima di proseguire nelle nostre riflessioni, ricordare brevemente il mito di Teseo.

Teseo, figlio di Egeo, era partito da Atene per Cnosso alla testa di quattordici giovani destinate alle fauci del Minotauro (rinchiuso nel Labirinto), per esaudire le condizioni di pace imposte da Minos agli ateniesi dopo la morte   —593→   del proprio figlio Androgeo. Ma Teseo era partito con l’intenzione di liberare la propria città da tale infamia e non per sottostare al terribile rito. In tale proposito gli viene in aiuto Ariadne Glaucopide, figlia di Minos, che innamoratasi di Teseo ne diviene alleata. Se poi fu lei stessa ad accompagnare Teseo nel Labirinto fino al Minotauro e, dopo che questi fu ucciso, ad indicargli la strada per uscirne, o se, como altre leggende raccontano, fu al filo da lei ricevuto che Teseo ne potè uscire, a noi non è dato sapere, ciò che comunque sappiamo, a prescindere dai fatti spesso contraddittori che ci provengono dalle numerose leggende, è che, nonostante il mutamento semantico e simbolico avvenuto nel corso dei secoli, il concetto di labirinto continuerà a persistere: «Lo studio del problema del labirinto ha la strana caratteristica [...] che non esiste una soluzione con cui lo si possa eliminare. Si tratta di segreti, di misteri, nel senso con cui un grande esegeta di difficili testi poetici (Romano Guardini) contrappone mistero a problema: questo va risolto e, quanto è stato risolto, scompare. Quello va sperimentato, rispettato, immesso nella propria vita. Un mistero che possa essere sciolto con una spiegazione non è mai stato tale. Ogni misterio autentico resiste alla spiegazone perché [...] per sua natura, non può essere risolto razionalmente [...]. Mitologemi, figure divine, simboli religiosi non possono essere risolti alla stregua dei problemi, ma solo essere ricondotti a idee, archetipi, figure primigenie, comunque si vogliano chiamarli» (Kerényi, Labyrinth Studien. Labyrinths als Linienreflex einer mythologischen Idee, Zurich, 1950, citato da Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti).

La storia stessa della parola, del mito, del concetto di labirinto, è labirintica, e come giustamente scrive Umberto Eco nella prefazione al libro di Santarcangeli, un discorso sui labirinti non può che essere labirintico. Le vicende hanno influito con alterna fortuna sul diffondersi sia del mito che di manufatti che rievocassero situazioni labirintiche; ma in fondo questo alternarsi del gusto cos’ha di diverso dall’alternarsi di qualunque altra moda artistica o letteraria che sia? Il gusto classico è stato in auge, è crollato per poi risorgere infinite volte, e ciò è ugualmente accaduto alle strutture labirintiche, ma perché queste ultime suscitano ogni volta tanta sorpresa? Cosa si nasconde in fondo dietro il simbolo di labirinto? Il libro di Santarcangeli compie un lavoro utilissimo nel classificare ed illustrare sapientemente i vari tipi di labirinto esistiti o possibili: dalle origini cretesi, attraverso il suo diffondersi nella terra della cultura preellenica, al mondo romano; da questo alla cultura cristiana delle origini e via fino alle allegorie labirintiche dei giardini delle corti sia rinascimentali che barocche fino ai nostri giorni, tempi questi ultimi così bisognosi di simbologie cariche di significati storici. Nei vari periodi il tema conduttore sembra apparentemente cambiare, così come sembra modificarsi la estruttura del labirinto stesso. Nelle epoche caratterizzate da un accentuato sentimento mistico-religioso, come furono quella minoica e medioevale, il senso di misterio e di segreto verrà accentuato; il labirinto verrà viceversa apparentemente   —594→   depauperato di tale significato nella Roma imperiale, nel periodo barocco e per tutto il settecento, ma sempre costante resterà il presentimento di qualcosa di più profondo e misterioso. «Oggi poi, la consuetudine di tracciare labirinti, sul la carta, nei giardini, nei giuochi, è, diciamo repressa; ma in pari tempo, la troviamo insistentemente presente nelle rappresentazioni dei pittori (seppure in modo frantumato, libero, caotico, asimmetrico e asistematico, poiché vige, evidentemente, anche in questo settore circoscritto la fine dei modelli); così come è frequente nei discorsi e nelle immagini dei poeti e degli scrittori» (Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti, p. 110).

In fondo se immaginiamo che l’assetto del labirinto non sia altro che la rappresentazione visiva della prerogativa umana del pensare, del comprendere e del risolvere, che cosa si è veramente modificato nel labirinto? Se il parallelo mente-labirinto è possibile, e quindi in qualche modo sostenibile, perché l’uomo in quanto essere pensante ogni volta si stupisce nel momento in cui scopre il labirinto-mente?

L’uomo si può stupire di se stesso?