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ArribaAbajo- III -

Il teatro nell'America della colonia


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ArribaAbajo- 1 -

Conversione, festa e riscatto indigeno nel teatro della Nueva España


Si è soliti affermare che il teatro coloniale ha alle sue origini l'attività evangelizzatrice degli ordini conventuali, ma occorre precisare che il suo primo sorgere e il suo affermarsi successivo si deve soprattutto ai francescani. Tre frati dell'ordine, tra essi Pedro de Gante, erano giunti a México nel 1523, e nel 1524 arrivarono i «Doce Apóstoles» -tra i quali si trovava fra Toribio de Benavente, «Motolinía»-, guidati da frate Martin de Valencia. Essi diedero impulso immediato all'attività di conversione e subito fecero ricorso per la loro opera al teatro, sfruttando, come era logico, la disponibilità dei molti professionisti indigeni nel settore, rimasti senza lavoro in seguito al crollo del loro mondo.

Una fiorente attività di «rappresentazione» era stata propria, infatti, del mondo sconfitto dalla conquista di Cortés: cerimonie di ogni tipo, balli, pantomime, e anche teatro vero e proprio311. La sconfitta, come scrive Fernando Horcasitas, lasciava inoperosi i resti di una società di specialisti:

cantores, actores, danzantes y bufones; poetas y oradores, voces entrenadas para la declamación, gente experta en la memorización,   —236→   ya que no dependía de las letras. Existían floristas y escenificadores, artesanos en la confección de vestidos ceremoniales, de joyas, plumería y telas. En una palabra, para 1524 estaban ociosos muchos profesionales conectados con las representaciones dramáticas, hombres que habían gozado de la aclamación de las multitudes en las plazas públicas, que habían servido a la clase dirigente antes del cataclismo, y ahora -en 1524- la «clase dirigente» era la orden franciscana. Asombroso sería que no hubiera nacido un teatro con la llegada de los misioneros.312



Se nel mondo medievale cristiano il teatro religioso era stato mezzo di edificazione e di festività devota, in quello americano divenne strumento necessario per convertire le masse, con le quali difficile, peraltro, era la comunicazione orale, per via del disconoscimento iniziale delle varie lingue indigene e dello stesso náhuatl, e in particolare perché abituate a un apprendimento visivo. Di qui le rapresentazioni della dottrina per disegni, le materializzazioni delle fasi più drammatiche della nuova storia religiosa, come ad esempio il sacrificio di Cristo, dove si trapassava il costato del crocifisso con una lancia, facendone uscire un liquido rosso, il sangue.

Di fronte alle masse da convertire alla nuova religione la rappresentazione visiva avveniva dovunque. Meno si badava certamente alla sostanza della dottrina che a suscitare una immediata adesione. Né poteva essere altrimenti; ricordiamo le centinaia di persone che venivano battezzate in una sola occasione: Motolinía ne consegna quantità impressionanti, addirittura milioni313, cosa comprensibile da parte di vinti desiderosi   —237→   di «mettersi in regola» e di porsi sotto un'efficace protezione.

Le «capillas abiertas» di cui si arricchì l'architettura religiosa dell'area messicana, rappresentano una necessità di capienza evidente, oltre che una misura igienica, e l'ambito necessario per uno spettacolo religioso -proibito in chiesa- che si prolungava per ore e ore, divenendo una vera e propria festa, nella quale la realtà aveva un peso determinante. Lo attesta lo stesso Motolinía quando nella sua Historia de los Indios de la Nueva España tratta del battesimo, avvenuto dopo la celebrazione della messa, durante la rappresentazione de La natividad de San Juan, di un bimbo di otto giorni, al quale fu imposto il nome del santo:

Acabose este auto con Benedictus Dominus Deus Israel, y los parientes y vecinos de Zacarías que se regocijaron con el nacimiento del hijo llevaron presentes y comidas de muchas maneras, que puesta la mesa asentáronse a comer que era ya hora.314



Celebrazione religiosa e festa divenivano una sola cosa. Meraviglioso sacro e realismo furono note caratteristiche dell'evangelizzazione, del resto già presenti in abbondanza nelle feste religiose ispaniche e in genere dell'ambito cattolico, dove numerose erano le solennità patronali e le romerías: il popolo devoto le aveva fatte occasione di allegria e nella festa il cibo aveva particolare importanza.

In Messico le rappresentazioni iniziarono, sembra, molto presto315, cioè l'anno successivo alla conquista, ma già le processioni   —238→   del Corpus Domini erano praticamente delle rappresentazioni se vi intervenivano «danzas, invenciones y farsas»316. Lo attesta l'intervento del primo vescovo di México, fra Juan de Zumárraga, il quale denunciava come cose «de gran desacato y desvergüenza» che si presentassero davanti al Santissimo Sacramento

hombres con máscaras y en hábitos de mujeres, danzando y saltando con meneos deshonestos y lascivos, haciendo estruendo, estorbando los cantos de la Iglesia, representando profanos triunfos, como el del Dios del Amor.317



Ma un teatro vero e proprio sorse presto. La chiesa era ricca di una lunga tradizione medievale e non si trattò, come esattamente afferma José Juan Arrom, di un trasferimento puro e semplice nella Nueva España -e anche in Perú successivamente- di temi occidentali, bensì di un inserimento di essi sul tronco del un tempo fiorente teatro indigeno. I frati si affrettarano   —239→   ad apprendere il náhuatl e prepararono i copioni drammatici per la diffusione della dottrina, adattando in lingua indigena testi devoti del teatro medievale o composti da loro stessi, ricorrendo con abbondanza alla Bibbia e alla tradizione cristiana. Tradotti nella lingua indigena e rappresentati dai nativi, questi drammi presero forma «en carne americana» e l'idea «se matizó con el gesto y la inflexión del intérprete que empleaba sus antiguos recursos teatrales para llegar directamente al entendimiento y a la emoción del auditorio»318.

La cronaca religiosa delle Indie abbonda di riferimenti relativi al teatro indigeno e a quello missionario, ma una delle fonti più preziose intorno al primo teatro di evangelizzazione per l'area messicana è la Historia de los indios de la Nueva España, di fra Toribio de Benavente, autore egli stesso, sembra, di alcune delle opere drammatiche di cui tratta. Dal frate, testimone oculare, desumiamo che le rappresentazioni muovevano masse enormi di attori; è il caso de La toma de Jerusalén, dove la battaglia tra cristiani, e «turchi»319, indigeni in attesa di battesimo, si conclude con la scontata vittoria dei primi, e i vinti venivano tutti battezzati. Il Soldano, sconfitto, faceva atto di sottomissione all'Imperatore -Carlo V- e questi lo conduceva dal Papa, che lo riceveva «con mucho amor»; con sé

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Traía también muchos turcos o indios adultos, de industria, que tenían para bautizar, y allí públicamente demandaron el bautismo al Papa, y luego Su Santidad mandó a un sacerdote que los bautizase, los cuales actualmente fueron bautizados. Con esto se partió el Santísimo Sacramento, y tornó a andar la procesión por su orden.320



Il teatro missionario si avvaleva di un ampio spazio scenico, come avveniva prima della conquista spagnola per le rappresentazioni indigene. Nel 1538 a Tlascala furono rappresentati numerosi autos di argomento sacro, in náhuatl: oltre a La conquista de Jerusalén, la Anunciación de la natividad de San Juan Bautista, la Anunciación de Nuestra Señora a Santa Elisabet e La caída de nuestros primeros padres. Fra Toribio descrive la scenografia di questi drammi religiosi, dando la misura delle sue vaste dimensioni, certamente di resa straordinaria.

Nell'auto della Conquista de Jerusalén due eserciti veri e propri si affrontavano nel mezzo di «una grande y muy gentil plaza»; la città di Gerusalemme era stata innalzata nei suoi esterni su case in costruzione per la sede del nuovo Cabildo, «sobre el sitio que ya los edificios iban en altura de un estado», e tutto era stato disposto con torri fornite di merli, molte finestre e «galanes arcos, todo lleno de rosas y flores»321.

Ne La caída de nuestros primeros padres veniva riprodotto al naturale una sorta di paradiso terrestre meraviglioso. Così descrive Motolinía il suggestivo apparato scenografico:

Estaba tan adornada la morada de Adán y Eva, que bien parecía paraíso de la tierra, con diversos árboles con frutas y flores, de ellas naturales y de ellas contrahechas de pluma y oro. En los   —241→   árboles mucha diversidad de aves, desde búho y otras aves de rapiña, hasta pajaritos pequeños, y sobre todo tenía muy muchos papagayos, y era tanto el parlar y el gritar que tenían, que a veces estorbaban la representación. [...] Había también aves contrahechas de oro y plumas, que era cosa muy de mirar. Los conejos y liebres eran tantos, que todo estaba lleno de ellos, y otros muchos animalejos que yo nunca hasta allí los había visto. [...] Había cuatro ríos o fuentes que salían del paraíso, con sus rótulos que decían Fisón, Geón, Tigris, Éufrates; y el árbol de la vida en medio del paraíso, y cerca de él, el árbol de la ciencia del bien y del mal, con mucha y muy hermosa fruta contrahecha de oro y pluma.

Estaba a la redonda del paraíso tres peñoles grandes, y una sierra grande, todo esto lleno de cuanto se puede hallar en una sierra muy fértil y fresca montaña; y todas las particularidades que en abril y mayo se pueden hallar, porque en contrahacer una cosa al natural estos indios tienen gracia singular, pues aves no faltan chicas ni grandes, en especial de los papagayos grandes, que son tan grandes como gallos de España; de éstos había muchos, y dos gallos y una gallina de los monteses, que cierto son las más hermosas aves que yo he visto en parte ninguna; [...].322



Descrizione che ancora si prolunga nella Historia di Motolinía e che include tratti che potrebbero apparire ingenui, ma che certo sono volutamente umoristici, come quando il frate allude a due ocotochles, o marte, legati, «que son bravísimos, que no son bien gato ni bien onza», a uno dei quali per errore si avvicina troppo Eva, «y él, de bien criado, desviose», cortesia verso il gentil sesso, ma il frate puntualizza divertito: «esto era antes del pecado, que si fuera después, no tan en hora buena ella se hubiera allegado.323»

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Del teatro missionario della Nueva España in lingua indigena ci sono giunte solo notizie e scarsi testi, rinvenuti in epoche diverse e pubblicati dagli specialisti: tra i pochi, quello della Destrucción de Jerusalén, ma in un manoscritto del secolo XVII per la graffa, che pubblicò Francisco del Paso y Troncoso, editore anche dell'auto della Adoración de los Reyes e del Sacrificio de Isaac, che pubblicò a Firenze.

Anche i domenicani ricorsero al teatro in lingua indigena per la loro provincia di Guatemala, allora parte della Nueva España. Lo stesso Bartolomé de Las Casas si vide costretto a mettere in verso la dottrina che intendeva insegnare agli indigeni. Era un teatro rudimentale, al quale cercò di dare maggior consistenza nel suo fra Martín Jiménez, nativo di Oaxaca, rappresentando in chiesa i misteri del santo rosario, e sull'argomento altri frati composero opere di non grande livello324.

Al tema religioso si dedica anche, come è logico, il teatro gesuitico, essenzialmente didattico, non di evangelizzazione. I gesuiti erano giunti nella Nueva España nel 1572 e subito fondarono collegi -a México addirittura ne ebbero quattro-, nei quali impartirono un insegnamento di natura classica. Come già nei loro collegi europei, il teatro fu impiegato quale mezzo docente e ispirato alla tradizione latina. Un teatro allegorico e freddo, fondato su dialoghi abbondanti, che trattavano temi sacri, con fini moralizzatori. Era rappresentato all'interno dei collegi, senza alcun contatto con la popolazione, se non erano i parenti dei collegiali, o, in occasioni   —243→   particolari, come l'arrivo di un nuovo vescovo o di un viceré, alla presenza della società ufficiale. Non di rado si avvaleva del latino e quindi era proprio di una élite preparata, capace di intendere l'abbondante allegoria. L'azione era scarsa, anche se non di rado dominava un realismo scenico di dubbio gusto.

In Messico ebbe particolare risonanza la settimana teatrale che i gesuiti dei quattro conventi della città dedicarono, nella prima settimana di novembre del 1578, a festeggiare l'arrivo di numerose reliquie -una spina della corona di Cristo, ossa di Santa Anna, di San Giuseppe, di San Paolo e di altri santi- destinate alle loro chiese.

Tra le rappresentazioni che ebbero più successo spiccò La tragedia del triunfo de los Santos, en que se representa la persecución de Diocleciano y la prosperidad que se consiguió con el Imperio de Constantino, messa in scena la domenica 2 novembre dell'anno indicato, nel Colegio Maximo de San Pedro y San Pablo, stampata poi l'anno seguente, 1579, dal torinese Antonio Ricardo, a México325. Era il coronamento di un elaborato «festejo», svoltosi con un fastoso cerimoniale, cui avevano preso parte tutte le autorità nei loro sfarzosi costumi e il popolo, e che si era snodato dalla cattedrale al collegio gesuitico. L'opera drammatica faceva parte di una più complessa scenografia, comprendente messa e processione, parate di dignitari, archi trionfali numerosi lungo il percorso, traboccanti di allegorie e di vistosi ornamenti floreali.

Quanto all'opera teatrale in sé, non si trattava di un lavoro straordinario, certamente, ma era ben versificata, e, come conclude il Rojas Garcidueñas, il quale si rifa alla Carta del gesuita   —244→   Pedro de Morales, editore del testo326, rappresentava nell'insieme «un magnífico espectáculo» durato quattro ore, «de las ocho a las doce pasadas», piacevole

por los muchos entretenimientos gustosos de entremeses, canciones y músicas diferentes, ya a una voz ya a dos y más...; conmovió a los espectadores hasta las lágrimas y manifestaciones de fuerte emoción en sus sentimientos religiosos; gustó extraordinariamente y fue menester volver a llevarla a escena al fin de la octava de festejos; fue, por todo eso, la representación teatral más importante en el México del siglo XVI.327



L'Arrom smorza notevolmente gli entusiasmi per l'opera -attribuita ai padri Juan Sánchez Baquero e Vincencio Lanucci328-, riducendone la portata a «mero interés histórico»329; egli denuncia la diseguaglianza dello stile, l'azione «lánguida», la mancanza di vita e di animazione nei personaggi, la lentezza nello svolgimento, la retorica eccessiva e la tendenza alla sentenziosità, che rivela l'orma delle tragedie di Seneca, per concludere:

Lástima que el empeño de imitación privara de espontaneidad y hálito creador a un laborioso esfuerzo que, desprovisto de positivo   —245→   valor literario, quedó reducido a inocuo ejercicio de declamación.330



La lettura del testo, tuttavia, non dà affatto questa impressione e in particolare attrae la versificazione, dalle ottave reali agli altri metri, «quintillas», canzoni e versi sciolti. Il numero ingente di personaggi e i loro costumi dovevano sicuramente suscitare l'interesse degli spettatori. Non a torto il Rojas Garcidueñas ricorda che nella Nueva España del secolo XVI i «festejos» più notevoli si realizzarono intorno a una fastosissima processione e alla rappresentazione della vita dei santi e che neppure le feste organizzate dal secondo marchese del Valle nel 1566, né i ricevimenti dei viceré, né alcuna altra festa dell'epoca raggiunsero «la suntuosidad y la pompa y la emoción del público», come i «festejos» organizzati dalla Compañía di Gesù nella prima settimana di novembre del 1578331.

In genere, comunque, il teatro gesuitico non diede frutti rilevanti dal punto di vista artistico. Rimase, come s'è detto, circoscritto all'ambito dei Collegi e la vitalità inventiva si esaurì nell'allegoria332.

Il teatro artisticamente di maggior valore si afferma nella Nueva Espaha nell'ambito secolare. La società messicana ormai stabilizzatasi, inquadrata nelle strutture statuali imposte dalla madrepatria, anche se attratta sempre dalle cerimonie religiose, alle quali neppure il viceré si sottraeva, andò manifestando gusti propri. Se il teatro «palaciego» si nutriva prevalentemente di testi di autori peninsulari333, nondimeno favorì   —246→   l'affermarsi anche di autori locali, le cui opere teatrali finirono per entusiasmare anche le classi popolari.

Il nuovo mondo americano si differenziava ormai notevolmente dalla Spagna e il teatro ne divenne interprete: «penetrado cada vez más de una sensibilidad característicamente americana es -afferma l'Arrom-, como la mayoría del público que lo presenciaba, insoslayablemente criollo»334.

Grandi e meno grandi drammaturghi spagnoli del Siglo de Oro continuano ad essere punto di riferimento per gli autori americani e lo sono per il teatro del Messico non meno che per quello del Perù. Alcuni di essi, come Tirso e Lope de Vega guardavano tutt'altro che distrattamente, come si è visto, all'America, dove le loro opere erano rappresentate e lette.

Nella Nueva España le rappresentazioni di questo tipo di teatro furono numerose. Ogni avvenimento veniva solennizzato con «funciones» teatrali, e dapprima si intercalarono a drammi peninsulari entremeses di autori locali, mentre in seguito si pervenne a un repertorio sempre più americano.

In Messico scrisse nel 1574 il dramma Desposorio espiritual entre el pastor Pedro y la Iglesia Mexicana il creolo Juan Pérez Ramírez (1545-?), in occasione dei festeggiamenti per la consacrazione dell'arcivescovo Pedro Moya de Contreras: una commedia allegorica molto vicina al teatro di Juan del Encina.

Di maggior valore artistico è l'opera di Fernán González de Eslava (1534-1601), autore di sedici Coloquios espirituales y sacramentales, poesia finissima, di intonazione allegori   —247→   co-religiosa, in opere rappresentabili, come avverrà poi nelle chiese con i villancicos. Consta, del resto, che già nel 1566 fu rappresentato a México il secondo di tali Coloquios335.

Carattere chiaramente di opera drammatica hanno gli entremeses che l'Eslava introduce nei Coloquios VI, VII, XVI, e soprattutto il vivace Entremés de dos rufianes, dove due soli personaggi intervengono attivamente, di fronte a uno spettatore silenzioso. L'argomento è semplice e lo espone in apertura l'autore: «el uno había dado al otro un bofetón, y el que le había recibido venía a buscar al otro para vengarse»; l'aggressore «viendo venir de lejos a su contrario, se fingió ahorcado». Vedendolo in quello stato, l'offeso non fa che urlare cosa gli avrebbe fatto se non si fosse impiccato; tra le altre enormità afferma che



   Repartiera como pan
al hijo de la bellaca
los brazos en Coyoacán
y las piernas en Oaxaca
y la panza en Michoacán.

   Y lo que queda sobrado
ante mí fuera quemado,
y fuera poco castigo:
yo hiciera lo que digo,
si no se hubiera ahorcado.



Avverte il testo che il personaggio

Cada vez que acababa de glosar Si no estuviera ahorcado, acometía a darle una estocada, y el que se ahorcó, le tenía el brazo diciéndole: «No ensucie vuesa merced su espada en un   —248→   hombre muerto, que no es valentía». Y habiéndose ido el rufián agraviado, el otro se desenlazó y dijo al que estaba presente: «Oiga vuesa merced cómo le voy glosando la letra».



Ossia come gli rendo la pariglia. Segue, quindi, la serie minacciosa di cose che il «rufián» avrebbe fatto all'altro se non si fosse trovato nella condizione di impiccato, e infine



   Las barbas por más tormento,
una a una le pelara,
y después, por mi contento,
por escoba las tomara
y barriera mi aposento.

   Y no quedara vengado
con verle barbipelado,
que en ellas, por vida mía,
escupiera cada día
si no estuviera ahorcado.



Gioco semplice e certamente divertente per il pubblico, sempre felice di constatare come gli spaccamontagne siano, in realtà, solo dei vigliacchi336.

Vanno rilevati nell'entremés, con la semplicità dell'impianto, il popolarismo e il risultato comico immediato. L'Eslava era un artista genuino, che alla sensibilità poetica aggiungeva la capacità umoristica. Lo si vede anche nell'entremés che inserisce nel Coloquio XVI, intitolato Del bosque divino donde Dios tiene sus aves y animales. Cosciente della necessità di mantenere desta l'attenzione del pubblico, l'autore interrompe la seconda «Jornada» allegorico-sacra del lunghissimo   —249→   Coloquio con l'inserimento di una discussione tra moglie e marito, la prima reclamante cose suntuarie che il consorte non è in condizione, né ha volontà di comprarle, così che, perduta la pazienza, la minaccia «a palos».

La donna, denominata Ocasión, ha una vita piuttosto discutibile, non disdegna gli amanti e il marito è motivatamente geloso; inoltre essa presenta la boria e le pretese delle discendenti dai conquistatori, ma alla fine, per l'intervento della Templanza, riconosce di essere in colpa e si ravvede:


ya conozco que he pecado,
el diablo me ha engañado;
plega a Dios y a su poder
que se amanse mi velado.



Non siamo molto lontani dai Pasos di Lope de Rueda, ma Eslava mostra una verve vivace, originale, nella rappresentazione della donna infuriata, pronta a tutte le scene, anche a quella della perseguitata, pentita per il suo matrimonio:



   Antes me partiera un rayo
que yo dijera de sí.
¡Ay sin ventura de mí!
Que me angustio y me desmayo
sin poder pasar de aquí.

   ¡Ay, ay! ¿No habrá quien me mate?
Que me fino, que me muero.
¡Ay triste!, que desespero,
¿no hay quien me traiga un mecate?
Presto, que ahorcarme quiero.
¡Quiero echarme en un atengo!337



  —250→  

Se manca la novità, è mantenuta la vitalità della scena e l'ambientazione è del tutto messicana per riferimenti e vocabolario338.

Dopo Eslava verranno a illustrare il teatro messicano del secolo XVII due grandi drammaturghi: Juan Ruiz de Alarcón y Mendoza e suor Juana Inés de la Cruz, al secolo Juana de Asbaje. Il primo svolse tutta la sua attività di drammaturgo in Spagna, ma legittimamente è da considerarsi messicano non solo per nascita, ma per sensibilità; la suora fu la grande espressione della poesia e del teatro novohispani del Seicento. Con la sua morte, non con quella di Calderón, nell'opinione di Alfonso Méndez Plancarte, si chiude luminosamente l'Età Aurea delle lettere ispaniche339.

Quando Alarcón iniziava la sua attività nella madrepatria, il teatro messicano aveva già raggiunto considerevole sviluppo ed esistevano attori professionisti, compagnie teatrali vere e proprie, oltre a luoghi destinati espressamente alle rappresentazioni. Un Corral de comedias era già in funzione a México nel 1597, nella Calle del Arco, presso l'ospedale di Nuestra Señora, costruito da Francisco de León, e un altro era stato disposto nel cortile dell'Hospital Real de los Indios340. Gli ospedali   —251→   traevano, come si sa, per privilegio reale, sostentamento dagli introiti delle rappresentazioni teatrali, il che spiega come i «corrales de comedias» si trovassero allogati presso di essi. Il processo teatrale nella Nueva España si chiudeva con un bilancio del tutto positivo agli albori del nuovo secolo.

Nel 1620, fu pubblicato a México il romanzo pastoralereligioso Los sirgueros de la Virgen, di Francisco Bramón, al quale è intercalato l'Auto del triunfo de la Virgen y gozo mexicano, ricco di musicali villancicos e di una interessante scenografia, per la quale evidenti sono i punti di contatto con quella de La caída de nuestros primeros padres, descritta da fra Toribio de Benavente: presenza di «una alegre floresta» e di fiori, il tutto coronato da un tocotín, o danza finale, con musiche e canti di finissimi accenti, preludio ai musicali villancicos di suor Juana.

Degli inizi del secolo XVII, secondo il Rojas Garcidueñas, è anche il Coloquio de la nueva conversión y bautismo de los cuatro últimos reyes de Tlaxcala en la Nueva España, che lo studioso giudica non appartenere al teatro di evangelizzazione, ma al genere dell'auto sacramental341. Il testo è sicuramente posteriore alla diffusione della commedia di Lope de Vega, El Nuevo Mundo descubierto por Cristóbal Colón, conosciuto, sembra, nella Nueva España a partire dal 1604.

Di maggior rilevanza è senza dubbio la Comedia de San Francisco de Borja, del gesuita Matías de Bocanegra (1612-1668), autore famoso della imitatissima Canción a la vista de un desengaño. Della sua produzione drammatica si era persa   —252→   traccia, fino a quando nel 1953 José Juan Arrom reperì il testo della commedia citata. Composta nel 1640 in occasione dell'arrivo del nuovo viceré marchese di Villena, ricevuto al Collegio della Compagnia di Gesù, fu rappresentata dagli allievi.

In sé una commedia non eccezionale, ma interessante, e per qualche critico, come la Perassi, un «felice approdo drammaturgico [...] tale per la fine concretezza della commozione con la quale si indaga il percorso interiore compiuto dai suoi, quand'anche eccezionali, protagonisti», perciò «a buon diritto» una commedia «tra le migliori del teatro coloniale»342.

Sempre nell'ambito della tematica religiosa occorre ancora menzionare, per scrupolo documentaristico, El Pregonero de Dios y Patriarca de los pobres, di Francisco de Acevedo, rappresentato nel Coliseo di México nel 1684, sulla vita di San Francesco di Assisi, di scarsissimo valore artistico.

Ben al di là del dato storico è suor Juana Inés de la Cruz (1648-1695) la grande autrice drammatica del secolo XVII novohispano. Donna indomita, carattere del tutto opposto a quello del compatriota Alarcón, diversa da lui per grazia e per successo, gli è assai vicina per la difficoltà del vivere. Coscientemente americana, al di là delle interpretazioni volonterose, folcloristiche non di rado343, che in qualche tempo si sono date, non v'è dubbio che suor Juana ebbe un atteggiamento deciso, che la oppose ai poteri del mondo e ai suoi inganni e la condusse ad affermare apertamente e con   —253→   orgoglio la sua messicanità. Entusiasta del suo paese, la suora lo celebra con trasporto, come già aveva fatto fra Toribio de Benavente nella Historia de los Indios de la Nueva España, dove aveva dato luogo a quel «meraviglioso economico» di cui in altra sede ho parlato344.

Quanto alla cultura indigena, suor Juana era ben cosciente del suo valore e la poneva in chiara competizione con quella importata dagli spagnoli. E che nella sostanza considerasse un privilegio l'essere nata in terra americana lo conferma il romance dedicato a doña María de Guadalupe Alencastre, dove afferma



[...] yo, Señora nací
en la América abundante,
compatriota del oro,
paisana de los metales,

adonde el común sustento
se da casi tan de balde,
que en ninguna parte más
se ostenta la tierra Madre.

De la común maldición
libres parece que nacen
sus hijos, según el pan
no cuesta al sudor afanes.



Lungi, quindi, dall'aver punito gli abitanti delle terre del Nuovo Mondo per la loro idolatria, come i frati ritenevano, Dio li avrebbe privilegiati, secondo suor Juana, escludendoli   —254→   dalla condanna biblica di guadagnarsi il pane con il sudore della loro fronte. Non solo, ma non contenta di questa ardita affermazione, la suora formula una chiara accusa contro l'Europa, mentre sottolinea il richiamo irresistibile di un'America felice:



Europa mejor lo diga,
pues ha tanto que, insaciable,
de sus abundantes venas
desangra los minerales.

¡Y a cuántos, el dulce Lotos
de sus riquezas, les hace
olvidar los propios nidos,
depredar los patrios Lares!



Nella loa che precede l'auto sacramental de El Divino Narciso, introducendo il personaggio dell'America, suor Juana non dà sfogo solamente al desiderio di far conoscere al mondo ispanico la sua terra, ma esprime il concetto in cui la tiene. L'Inca Garcilaso per proiettare dignità sul Cuzco e sul suo impero parla sempre, nei Comentarios Reales, di «otra Roma» e fa continuo riferimento all'impero romano e alla sua civiltà. La suora non ha bisogno di riferimenti di questo tipo; a lei basta la civiltà azteca per dar ragione della grandezza civile del Messico; è sufficiente l'abbondanza di ricchezze della terra messicana, la bellezza del paesaggio, per farne un luogo che si riscatta anche alla luce del Vangelo. Il che non era poco ardimento di fronte a una chiesa sospettosa e a un potere per nulla incline a celebrazioni di questo tipo, se persino ai discendenti di Cortés e dei maggiori conquistatori veniva interdetta l'America.

Nella loa che introduce l'«auto» de El cetro de José, Juana Inés torna a trattare il tema delle Indie e affronta il problema   —255→   dei sacrifici umani presso gli aztechi, presentandoli come la forma più alta del culto indigeno, interpretandoli espressione di una ritualità che in qualche modo prelude alla rappresentazione cattolica del sacrifìcio di Cristo nell'Eucaristia. Del resto anche il padre Las Casas345 e lo stesso Torquemada346 avevano sostenuto che gli aztechi mangiavano unicamente la carne sacrificale, che consideravano sacra, e a ciò li induceva la religione, non il «vizio»347.



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ArribaAbajo- 2 -

Tenzoni d'amore in tre commedie di Alarcón


Il teatro di Juan Ruiz de Alarcón, se è il frutto della vicenda vitale e artistica di un uomo vissuto prevalentemente nell'ambito ispanico, è pure quello di un nativo della Nueva España, anche se, come sottolinea Margarita Peña348, in gioventù la sua patria ben poche opportunità di sistemazione gli diede, per cui forse per questo, o forse per la severità del padre, o per conflitto con la madre349, o per altri motivi impossibili da chiarire, il suo trasferirsi in Spagna. Tutto è supposizione non suffragata, per l'argomento, da documenti; perciò il largo spazio alle fantasie interpretative, come già fece l'antico e più seguito biografo, Luis Fernández Guerra   —258→   y Orbe350, denunciate da Antonio Castro Leal351, e le molte lacune, nonostante validi apporti352, ancora non del tutto sanate dai molti che di Alarcón si sono occupati, dallo stesso Castro Leal e da Willard F. King353, qualificati studiosi del drammaturgo messicano354.

In particolare la King ha ricostruito con puntiglio le origini familiari di Alarcón, come prima di lei aveva fatto più sbrigativamente Antonio Castro Leal355, per il quale il drammaturgo era di origini nobili, confermate dalla King356, anche se di una nobiltà decaduta economicamente. Il padre era originario della provincia di Cuenca e si dice che appartenesse alla famiglia   —259→   degli «Alarcones», cui si ascrive quell'Hernando de Alarcón, marchese di Valsiciliana, il quale, dopo la vittoria spagnola sui francesi nella battaglia di Pavia (1-525), fu incaricato della custodia a Pizzighettone del re Francesco I fatto prigioniero.

Ma la King apporta dati importanti anche a proposito delle origini ebraiche della famiglia, circa gli studi in Spagna del drammaturgo, le pretese frustrate di carriera universitaria in Messico, le amicizie, le parentele e le probabili protezioni, per le quali dopo molti anni riuscì a ottenere un posto sicuro nel Consejo de Indias, che gli permise di abbandonare il teatro. Il Castro Leal motiva questa decisione con il fatto che Alarcón doveva aver preso «muy en serio» la nuova carica, e vi aggiunge la tendenza alle piacevoli frequentazioni sociali, amante com'era del sesso gentile357, ma pure osserva come, nel raccogliere le sue commedie per la pubblicazione, l'autore provasse il piacere di vederne ormai affermato il valore, senza peraltro voler continuare in quella che il critico definisce «dura servidumbre de la literatura»358, che di certo era stata tale per il poco avvenente personaggio, sia pure di piacevole carattere, come affermavano i suoi stessi nemici.

Quella di autore di commedie sembra fosse un'attività alla quale Ruiz de Alarcón si era dedicato come espediente per sopravvivere, ma che mai lo aveva davvero interessato. Probabilmente provava una certa animosità verso il pubblico, che non lo applaudiva come riteneva giusto, e di sicuro verso gli invidiosi colleghi contemporanei -a partire da Suárez de Figueroa, da Lope, da Montalbán, da Tirso e da Quevedo-, autori di impietose satire sulla sua poco aggraziata figura, alle quali Alarcón rispondeva non meno velenosamente.

  —260→  

Doveva smettere di scrivere perché gli stessi che lo avevano osteggiato e deriso ne celebrassero i meriti artistici. Nel Laurel de Apolo, Lope, infatti, dopo tanti attacchi velenosi, non ebbe difficoltà a tesserne le lodi:


En Méjico, la fama,
que como el sol descubre cuanto mira,
a don Juan de Alarcón halló, que aspira
con dulce ingenio a la divina rama,
la máxima cumplida
de lo que puede la virtud unida.



A Lope farà eco Montalbán nel Para todos, sottolineando la novità delle commedie del messicano, costruite con «ingenio y extrañeza, que no hay comedia suya que no tenga mucho que admirar, y nada que reprender: que después de haberse escrito tanto es gran muestra de caudal fertilísimo». Cos'era accaduto per così radicale cambiamento? Era scomparso dalla scena attiva un concorrente fastidioso.

Nell'arte drammatica Juan Ruiz de Alarcón fu un vero rivoluzionatore. La sua opera è sorprendentemente scarsa, se confrontata con l'abbondanza dei drammaturghi spagnoli e soprattutto con l'instancabile macchina produttrice che era Lope de Vega. Naturalmente si è voluto vedere anche in questo un limite, un'impossibilità personale di maggior creatività, quindi uno dei motivi del «risentimento» di Alarcón verso la società, sfociato in critica durissima nella sua opera. Illazioni assurde, se si osserva la serenità di tante commedie alarconiane. Più plausibile è che proprio lo sfarzo, la rilassatezza, la superficialità della vita nella «Villa y Corte», centro ancora di un impero apparentemente florido ai tempi di Filippo IV, tra nobili boriosi e intellettuali maligni, abbia accentuato nel drammaturgo un'esigenza morale, che nelle   —261→   sue commedie si manifesta anche come essenzialità di discorso e rigore strutturale.

Ancora si discute su questo problema: se si debba interpretare il teatro di Alarcón assegnando alla sua «extrañeza» una valenza di tipo morale, o se ciò sia del tutto insignificante di fronte alla validità delle sue commedie in quanto opera di divertimento. Il Maravall, ad esempio, esclude un «sentido moralizador»359. E fuor di dubbio, tuttavia, che i personaggi del teatro alarconiano siano nuovi; essi colpiscono in quanto non solo si muovono agilmente sulla scena, ma perché sono «persone», presentano una dimensione interna quali attori di una vita reale. Alla «figura», Alarcón contrappone l'interiorità; a un quadro che si fonda soprattutto sullo spettacolo sostituisce un teatro spoglio nell'apparenza, ma ricco interiormente. La validità delle sue commedie sta proprio in questo; nel fatto che i protagonisti sono in ogni momento esseri umani. Di qui il tono «problemático» del suo teatro, dove la novità non risponde che all'esigenza di incidere, attraverso la scena, nell'ideale utopico di un mondo diverso. Esigenza accentuata, non lo si esclude, dalla scarsa fortuna, dalla povertà, dalle difficoltà e dalle avversioni incontrate, che sempre contribuiscono a spogliare l'individuo di superficiali appagamenti360. Del resto, ignorare nella scarsa fortuna contemporanea del messicano la radicata avversione dell'intellettualità peninsulare verso gli «ingegni» coloniali sarebbe negare una realtà che si conferma nei secoli.

  —262→  

Artista attento e intelligente, Alarcón non ripudia nulla dei risultati artistici cui il teatro a lui contemporaneo era pervenuto, non si allontana dagli schemi su cui si era costruita la sua fortuna, ma con lui la commedia «de capa y espada» si trasforma, diviene commedia di costume e il pur ricorrente tema dell'amore, della passione, con l'inevitabile casistica di contrasti che lo caratterizza, è arricchito dalla dimensione interna dei protagonisti e apre ampi spazi per una visione nuova della società presa in esame, ma con valenza universale. Il tratto psicologico si allea, nel teatro di Alarcón, alla creatività di un consumato artista, abile e spesso ispirato versificatore, apportatore di istanze inedite. Si direbbe che egli scriva per un pubblico più maturo di quello cui pensava Lope, desideroso di divertirsi, ma non alieno dalla riflessione.

Queste qualità si colgono, in particolare, in alcune commedie divenute famose, tra le quali Las paredes oyen, Mudarse para mejorarse e La verdad sospechosa, esempi efficaci del comportamento di uomini e di donne nell'ambito delle imprese d'amore, ma anche della vita. La prima fu scritta probabilmente nel 1616, rappresentata l'anno seguente e pubblicata nel 1628 nella Parte primeva delle opere drammatiche di Alarcón; la seconda, composta, sembra, tra il 1617 e il 1618, fu posta in scena prima del 1622 e pure pubblicata nel citato volume; la terza è forse anteriore al 1621, rappresentata, pare, nel 1624, pubblicata nel 1630, con il titolo di El mentiroso, nella Parte Veintidós delle commedie di Lope e nel 1634 riscattata dall'autore nella Parte segunda del suo teatro361.

Domina nelle tre commedie la trama amorosa, fatta di contrasti e di sottigliezze proprie della retorica barocca. L'immagine   —263→   di una Spagna dominata dal senso di casta, da un culto esteriore per la donna, oggetto di desiderio, sia pure camuffato di regolarità coniugale, ma anche un mondo di esseri reali. I protagonisti rompono spesso il cliché, divengono tipi riscontrabili nella realtà della vita, e le donne, pur nel decoro che mantengono, secondo le regole del tempo, mostrano passione, vitalità non inferiore a quella delle consorelle di Lope, le dame come le serve, anche se queste ultime hanno una parte secondaria, ma non tanto da non influire sulla condotta delle padrone.

Così, ad esempio, doña Ana, una vedova avvenente, ne Las paredes oyen non esita a manifestare, se non passione, sentimento ardente per l'uomo che ama e che la sta tradendo. Ma essa ha anche una sua forza personale, data dalla condizione di vedova e di ricca, esente da una diretta e costrittiva tutela maschile, tanto che si erge decisamente ad arbitro del proprio destino, rifiutando alla fine il falso innamorato e concedendo la mano al discreto e non precisamente adonico -nota autobiografica- don Juan. Dichiara apertamente all'infido e finalmente scornato don Mendo, che insiste perché torni a lui:


... en fin, si bien lo miráis,
el dueño fui de mi mano;
y sobre mi gusto, en vano
sin mi gusto disputáis.362



Decisioni autonome prendono le principali protagoniste delle tre commedie, nei complicati e classici giochi d'amore.   —264→   In Las paredes oyen quattro sono i galanes che si contendono due dame, doña Ana e doña Lucrecia. La prima, nonostante tutto, oltre che bella, tenera e ingenua negli affetti; la seconda, più giovane, disponibile come richiedeva la prassi a uno sposalizio quasi d'obbligo, e tuttavia alla fine capace di indignazione e di scelta. Niente, quindi, «superficialità in ogni senso», come è stato affermato363; se manca talvolta quella vivacità «pizpireta» che spesso presentano le donne del teatro lopiano, quelle di Alarcón mostrano nel fatto d'amore una maggiore partecipazione, che nel personaggio femminile più giovane, quindi più debole perché sottoposto ad altra autorità, può essere spesso anche capitolazione o condiscendenza, tuttavia non esente da problematica. Ma quelli erano i tempi e quella la condizione della donna, specie se, pur di nobili origini, giovane e povera.

In Mudarse para mejorarse ci si trova di nuovo davanti a una ricca e bella vedova, corteggiata da tempo da un pretendente, che tuttavia improvvisamente s'innamora della nipote di lei e, senza rompere in modo aperto con l'interessata, cerca di portare avanti un suo poco nobile gioco amoroso, al quale partecipa, illusa dalle prime avvisaglie dell'amore, la giovane, Leonor. Ma qui le donne sono tre, tutte innamorate del cavaliere, don García, due di esse prese in giro. Con acutezza Alarcón studia le reazioni dell'animo femminile, presenta ansie, illusioni e contrasti, costruendo quella che, a ragione il Castro Leal ha giudicato una delle commedie «más finas» del messicano364.

  —265→  

Il critico celebra, in particolare, in Leonor «uno de los tipos femeninos de más delicada realidad» del teatro alarconiano: donna nell'età dell'amore, quindi facile ad essere ingannata dalle dichiarazioni dell'abile corteggiatore365. Preso da entusiasmo il Castro Leal si lancia a celebrare l'ingegnosità propria di ogni giovane che «ama en las mieles de la primavera» e perciò si avvantaggia sulla zia, «a quien ciegan ya las preocupaciones de la satisfacción»366. Ma la fanciulla non è proprio questo tesoro di freschezza e d'ingenuità e giustamente il drammaturgo pone in rilievo, in sostanza, pur senza pronunciarsi, come essa non si periti di contrastare nel campo degli affetti proprio colei che generosamente l'ha accolta nella sua casa: una condotta che la moralità di Alarcón non poteva che condannare.

Ingenua, ma non tanto, la giovane, se è pronta poi ad accettare la proposta matrimoniale del marchese, ricco naturalmente, mentre la zia, passando sopra una serie di equivoci, finisce per sposare il frustrato don García, che aveva invano tentato di «mejorarse», passando alla più avvenente e fresca Leonor, scegliendo «tanto sol por una estrella»367.

Il motivo della ricchezza e della nobiltà è ben presente nelle commedie di Alarcón. In genere le sue donne non paiono indifferenti al danaro, siano esse dame o serve. La chiave del mondo, e lo sapeva bene il drammaturgo, è sempre stata il danaro. Quevedo lo denuncerà continuamente, ed è singolare che avversasse così duramente Alarcón, se tanta era la vicinanza per esigenza morale. Ma il marchese della commedia aveva anche un'altra attrattiva: aveva voluto sondare   —266→   Leonor e innamorarla prima di chiedere la sua mano, convinto che «amor conquista amor»368. Un tipo nel teatro e non tanto maturazione, come si è preteso, di un «fino epicureismo»369, ma un saggio procedere che già contempla la possibilità di un rifiuto e quindi una inedita libertà per la donna di fronte al matrimonio.

Don García è invece un vanesio «enamoradizo», traditore della parola e calpestatore dei sentimenti. Un tipo come lui doveva risultare grandemente antipatico al pubblico, il quale certo si compiaceva del fallimento delle sue arti poco pulite, mentre peraltro godeva della pirotecnia inventiva. Del resto, già nella commedia Las paredes oyen Alarcón aveva presentato un personaggio singolarmente negativo, don Mendo, rimasto vittima del suo stesso gioco di emerito detrattore. È vero che in un'occasione egli lo fa, nei riguardi di doña Ana, per evitare che il duca se ne invaghisca e gliela porti via, ma Alarcón non doveva andare tanto per il sottile con questi personaggi, profondamente ferito egli stesso dalla mormorazione.

La commedia è ricca di motivi autobiografici e don Mendo, corteggiatore di successo, nobile e immancabilmente ricco, viene contrapposto alla dirittura e alla discrezione di don Juan, pure nobile, ma povero e non proprio bello, alla fine vincitore nella singolare tenzone d'amore. Ciò che finisce per squalificare il poco simpatico personaggio è l'agguato che egli tende all'amata che sta per sfuggirgli, e il tentativo di usarle violenza, una volta portata fuori strada la carrozza nella quale viaggia. Ed è singolare che poi ritorni a protestarle spudoratamente il suo amore, facendole visita nel suo palazzo.

  —267→  

È in Las paredes oyen dove Alarcón più si scaglia contro i maldicenti. Don Mendo è il bugiardo per eccellenza: ha una lingua che non perdona nessuno. La maldicenza è il peggiore dei vizi; Beltrán, il «gracioso» l'afferma imperdonabile:


Vicios hay de mil modos
que no aborrecen la gente,
y sólo del maldiciente
huyen con cuidado todos.
Del malo más pertinaz
lastima la desventura;
solamente al que murmura
lleva el diablo en haz y en paz.370



Sul tema il drammaturgo torna anche in Mudarse por mejorarse, con chiare allusioni ai suoi nemici, come nella scena seconda del terzo atto, a proposito di Figueroa, uno scudiero, ma di certo allusione a Suárez de Figueroa suo acerrimo detrattore, che, secondo la serva Mencia, «hace libros», ma che per Leonor «El papel / echa a mal», perché, aggiunge Mencía, nei libri «por mil modos, / dice en ellos mal de todos»371. E ancora è il personaggio Ottavio che, rivolto al marchese, si scaglia contro i maldicenti, che vanno duramente puniti:


No llame dura la más dura pena
quien con lengua insolente y atrevida
la ajena fama y opinión condena.372



Non maldicente, ma bugiardo è un altro don García, il protagonista de La verdad sospechosa, commedia che il Castro   —268→   Leal si rifuta di considerare un'invettiva contro i mentitori, interpretandola piuttosto come «una comedia de regocijo que muestra cierto gusto juvenil por la vida»373. Più esatto è trovare in essa, con un inizio vitalista, ma fondato sulla spacconeria e la menzogna, un graduale accentuarsi della nota amara, con molto di esperienza personale sottesa374, come giudica la King, così che «la comedia de enredo gana en hondura y se convierte en una comedia irónica sobre la moral y las costumbres»375. Non a torto la Josa parla di una «dualidad alarconiana», fondata sul contrasto e che regge tanto la sfera morale del suo universo drammatico come le tecniche cui ricorre376.

L'opera è ricca di preziosità barocche, non solo nella descrizione della donna ma anche di ambienti e di giardini, siano «opacidades espesas / que el soto formaba de olmos, / y la noche de tinieblas», nella scena settima del primo atto, come meraviglie in cui si intrattiene la fantasia del menzognero don García, ingelosendo don Juan, in particolare quando illustra entusiasta l'arrivo in cocchio del fantomatico «dulce dueño», prodotto eccelso della sua fantasia, miracolo di femminilità, di risonanze stilnovistiche, che sarebbe stato accolto da lui con profusione di fuochi d'artificio:


Llegó en su coche mi dueño,
dando envidia a las estrellas
a los aires suavidad,
—269→
y alegría a la ribera.
Apenas el pie que adoro
hizo esmeraldas la yerba,
hizo cristal la corriente,
las arenas hizo perlas;
cuando en copia disparados
cohetes, bombas y ruedas
toda la región del fuego
bajó en punto a la tierra.377



Non v'è che dire, Alarcón è un poeta delicato e passaggi come questo dovevano entusiasmare il pubblico, tanto più che il drammaturgo continuava celebrando le rive alberate del Manzanares, cene fantastiche, meravigliose, che gli spettatori mai avevano neppure sognato, portate avanti fino all'inizio del giorno.

Ne La verdad sospechosa le donne in gioco sono due, Jacinta e Lucrecia, che come al solito finiscono spose a chi le desiderava non corrisposto. Il tradimento di don García per Jacinta, dopo una intricata serie di equivoci, finisce per condurlo definitivamente tra le braccia della donna che voleva tradire, Lucrecia, mentre il galán, don Juan de Sosa, sposa la bella Jacinta. Ma mentre nelle altre commedie esaminate le donne hanno parte rilevante, nella Verdad sospechosa sono gli uomini ad averla, soprattutto il mentitore don García, ma anche un padre che potremmo definire inedito, in quanto protagonista attivo di un'esigenza morale che si oppone alla superficialità menzognera del figlio.

Nella commedia don Beltrán è quel che si direbbe un severo difensore della verità, odia la menzogna, tanto più se il difetto di mentire domina in un figlio che, per fortuite circostanze,   —270→   è destinato a succedergli nella direzione della casata. Secondogenito, don García aveva condotto vita da studente a Salamanca, con trascorsi correnti, che il Letrado che ne ha avuto cura e il padre considerano normali: l'età provvederà a calmare i bollenti spiriti. Ma se il giovane, pur «repentino, impaciente», è magnanimo, valoroso, sagace e ingegnoso, liberale e pio, ha il grave difetto di mentire, cosa che fa inorridire il vecchio. E tuttavia, la bellezza, l'interesse della commedia sta proprio in questo, nel fantastico dispiego delle capacità d'invenzione del giovane protagonista, invenzioni che finiscono per irretire lui stesso, per condurlo a momenti difficili in cui deve rischiare la vita duellando, ed infine alla sconfitta, sempre dolce, alla fine, se si deve accontentare di una bella giovane come Lucrecia.

La verdad sospechosa è ricca di argomenti interessanti. Torna qui il tema del danaro, ritenuto mezzo principe di convinzione presso le donne. Il concetto negativo del sesso femminile è espresso da Tristàn, servo-guida di don García, nella scena te za del primo atto, concetto evidentemente condiviso dal giovane signore. La distinzione è tra «angeli», o donne virtuose, e quelle che, pur «divinas», sono leggere e corruttibili, le sposate soprattutto, spesso con mariti consenzienti: esse «influven en extranjeros / dadivosa condición»; molte, poi, si fingono maritate, «por vivir con libertad», e infine vi sono le professioniste, buone in casi di necessità. La satira antifemminista era, come si sa, diffusa378; le sue radici affondano nella poesia e nella prosa ispanica medievale, così che nella commedia di Alarcón il tema assume un carattere più che altro   —271→   folcloristico, ma certo di efficace richiamo presso il pubblico.

Di ben diverso significato è la lezione morale affermata nel secondo atto de La verdad sospechosa, ed è qui dove ancora una volta Alarcón appare vicino alle idee di Quevedo, il quale sosteneva nel Sueño del Infierno, per bocca dei diavoli moralisti, che la nobiltà non viene dalla famiglia, ma dalle opere personali379. Nella scena nona del secondo atto don García afferma che anche la nascita fa cavaliere, ma il vecchio padre gli ricorda che se «el honor puede ganar / quien nació sin él», chi è nato con onore lo può di conseguenza perdere. Ciò avviene con una condotta che infama presso la gente: allora «no sirven altos abuelos». Lo sdegnato genitore rimprovera duramente il «mentiroso» figlio:


¿Qué cosa es que la fama
diga a mis oídos mesmos
que a Salamanca admiraron
vuestras mentiras y enredos?
¡Qué caballero y qué nada!
si afrenta al noble y plebeyo
sólo el decide que miente,
decid, ¿qué sera el hacerlo,
si vivo sin honra yo,
según los humanos fueros,
mientras de aquel que me dijo
que mentía no me vengo?
¿Tan larga tenéis la espada,
tan duro tenéis el pecho,
que pensáis poder vengaros,
diciéndolo todo el pueblo?
—272→

¿Posible es que tenga un hombre tan humildes pensamientos, que viva sujeto al vicio más sin gusto y sin provecho?.........................................todos los vicios al fin, o dan gusto o dan provecho; mas de mentir, ¿qué se saca sino infamia y menosprecio?


Colui che è abituato a mentire non è, alla fine, creduto neanche nei rari casi in cui dice la verità. È questa la sorte che tocca a don García. La commedia conclude, come ho detto, con una dolce sconfitta, e il personaggio, per quanto negativo moralmente, risulta, in sostanza, un simpatico fantasista superficiale, facile all'innamoramento e all'avventura, vivo-come personaggio e non difficilmente riscontrabile nella realtà della vita.

Queste le dame, questi i cavalieri, queste le audaci imprese; imprese d'amore s'intende, che intraprendono, in una società che appare vuota, superficiale. Le armi sono quelle della bellezza e dell'intrigo nelle donne, del rango nobiliare e del danaro negli uomini. Intorno stanno servi e serve, spesso dotati di maggior giudizio dei loro padroni e in ogni caso loro consiglieri, inclini le fantesche, più dame di compagnia che tali, verso uno dei pretendenti, che risulta poi il vincitore. E nel caso del «gracioso» si nota una trasformazione del personaggio, non più votato a fungere da contrasto umoristico, ma dotato, come nel caso di Beltrán, in Las paredes oyen, di una sua filosofia della vita.

La rappresentazione della classe dominante nelle commedie alarconiane è di grande efficacia; i personaggi sono vivi, lo spettacolo interessante. Alarcón ha presentato in queste commedie,   —273→   la società ispanica, ricca più che di valori di disvalori, sui quali ha espresso il suo giudizio negativo. I tempi erano ormai sul punto di cambiare; tutto un mondo cristallizzato era giunto al momento finale380. Alarcón apporta al processo di disfacimento un fondamentale contributo, riscattando i valori non perituri su quelli di superficie. Le sue commedie si fanno talvolta abile eco anche di testi, poetici o drammatici, noti al pubblico: il verso di Jorge Manrique, «recuerde el alma dormida», e l'uso parodico del romance di Nerone in Mudarse para mejorarse381, echi di San Juan de la Cruz in Las paredes oyen382. Una intertestualità che accresce l'interesse, coinvolge direttamente gli spettatori, oggi i lettori. Né manca qualche spunto polemico «americano», come allorché in Las paredes oyen, scena XVII del primo atto, alla celebrazione da parte di don Juan della Calle Mayor di Madrid come «Indias de nuestro polo», con cinismo replica don Mendo: «Si hay Indias de empobrecer, / yo también Indias las nombro». Si coglie così come il drammaturgo non fosse indifferente alla situazione del suo mondo di origine, oggetto di sfruttamento intenso, anche se doveva muoversi con prudenza nell'ambito dominante.



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