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Il difficile «Regno di questo mondo» nei Caraibi

Giuseppe Bellini


Università di Milano



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Nel romanzo El otoño del Patriarca, Gabriel García Márquez presenta una singolare istituzione creata dal suo protagonista, matusalemmico detentore del potere: la casa dei dittatorti spodestati1. Essa si affaccia sul paesaggio più affascinante del mondo, il mare dei Caraibi, quello stesso che fece pensare a Colombo di essere giunto al Paradiso terrestre; dalle sue finestre e terrazze l'occhio abbraccia il «reguero de islas alucinadas de las Antillas», la Martinica col suo vulcano profumato, Paramaribo, la spiaggia di Tanaguarena, la Guayra, Trinidad, Haití, Curação, Cartagena de Indias, «el universo completo de las Antillas desde Barbados hasta Veracruz»2. Lì il vecchio dittatore ha riunito i suoi colleghi spodestati dalle mille rivoluzioni e «golpes» che si succedono nelle Americhe; essi si consumano nella vana attesa de «la hora grande»3, quella in cui si presenterà l'occasione di riprendere il potere. Una carità da ultima ora, verso gente definitivamente perduta, che tuttavia il vecchio Patriarca ritiene sia sempre bene tenere sotto controllo.

Possiamo considerare questa casa in un significato simbolico: essa rappresenta la vicenda ricorrente del mondo americano, che nel Caribe sembra avere il suo specchio; mondo funestato instancabilmente, nella sua lunga storia, dal prepotere. Aveva iniziato Colombo, con un governo dispotico; dopo il lungo periodo coloniale, le piccole nazioni indipendenti che si affacciano sull'ampio mare o che in esso vivono, affermarono quasi tutte una vocazione dittatoriale di violenza. Se tuttavia i dittatori della casa di García Márquez, detronizzati, invecchiavano nella «penumbra» della misericordia dell'astuto Patriarca, «muriéndose muertos», trascorrendo il loro tempo a consumare con i vecchi sederi le sedie della terrazza che dà sul mare, ben diverso è stato il finale reale di molti dittatori del mondo caraibico, fuggiti in tempo con il tesoro depredato ai loro stati.

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Nella narrativa latinoamericana «caribeña» il tema della dittatura è ricorrente e ha dato luogo ad opere di singolare rilievo, tali da essere considerate tra le più significative del romanzo americano. Non sarà inutile ricordare che, nella letteratura latinoamericana esiste una costante per quanto riguarda i secoli XIX e XX, la preoccupazione politica, o, come scrive Ricardo Navas Ruíz4, un interesse centrale per gli avvenimenti di significato politico, quali possono essere una guerra che cambia il destino di un popolo, una forma di governo; preoccupazione politica che si manifesta in sfumature varie su un fondo comune, quello della dignità dell'uomo, del suo diritto ad essere libero. Le radici di questo impegno affondano nel passato, si esprimono nel presente: nell'Inca Garcilaso de la Vega, in Juan del Valle y Caviedes, allo stesso modo che in Neruda, in Vallejo, in Asturias, senza dimenticare l'influenza della Rivoluzione francese, s'intende, né personaggi come Nariño, Mutis, Santa Cruz y Espejo e altri innumerevoli che, senza pervenire a un'opera scritta che le storie della letteratura registrino, costituirono nonpertanto il fermento dell'indipendenza americana.

Non è dubbio, tuttavia, che il secolo XIX, agli albori delle nazionalità latinoamericane, fu un momento di particolare importanza, nella vicenda storica, ma anche in quella letteraria, per l'espressione di una preoccupazione politica. In questo senso Lizardi è già uno scrittore impegnato con la realtà del suo paese, il Messico, come lo sono, in modo più direttamente partecipe, José Martí, che muore per l'indipendenza di Cuba, e il suo compatriota José María de Heredia, nostalgico cantore della patria dall'esilio, o lo stesso José Joaquín de Olmedo, quando celebrava Bolívar e la libertà nell'ode a lui intitolata, o quando denuncia drammaticamente, nell'ode al General Flórez, le lotte fratricide che in Ecuador misero in serio pericolo i raggiungimenti della guerra di liberazione. Olmedo era allora ben lontano dal sospettare che il generale in questione si sarebbe trasformato di lì a poco in uno dei peggiori tiranni d'America.

La libertà è un bene troppo grande perché non la si insidi: l'Ottocento latinoamericano risuona ancora delle invettive di Juan Montalvo contro i dittatori equatoriani Gabriel García Moreno e Ignacio Veintemilla; ancora fa rabbrividire il nome del Dottor Francia, tiranno del Paraguay. E tuttavia, personaggio-simbolo della dittatura latino-americana del secolo XIX finì per divenire l'argentino José Manuel de Rosas: contro di lui si leva il gruppo degli scrittori passati alla storia letteraria come i «Proscritti». In El Matadero, Estéban Echeverría fissa per sempre un'ora tragica della nazione argentina, elevando una durissima protesta contro la barbarie della dittatura, mentre José Marmol in Amalia amplia il panorama dei misfatti del governo di Rosas e della sua gente, e in Facundo Domingo Faustino   —15→   Sarmiento denuncia il tragico conflitto tra barbarie e civiltà, tra dittatura e libertà, dando alle generazioni future un testo-simbolo di permanente valore.

Con Sarmiento il personaggio del dittatore incomincia a prendere rilievo nella narrativa; egli è ormai protagonista in carne ed ossa e lungo la strada che conduce al secolo XX ciò è significativo. Il narratore non propone ormai più al lettore la descrizione, talvolta romanticamente carica, con gli inevitabili squilibri, di un ambiente di violenza e di corruzione, ma introduce la presenza barbara di chi è all'origine di tutto. Senza peraltro passare sotto silenzio il fascino che, non di rado, l'uomo barbaro esercita sulle sue stesse vittime, o gli equivoci cui dà luogo un governo cosiddetto «forte»; fascino ed equivoci che i narratori del Novecento denunceranno con impietosa durezza, senza tuttavia sfuggire neppure essi, in qualche caso, a un'istintiva attrazione.

Nella narrativa latinoamericana del secolo XX sul tema della dittatura, luogo geografico privilegiato è l'area centroamericano-caraibica, non perché la dittatura non sia un male presente anche in altre aree continentali d'America, ma per la frequenza con cui la forma dittatoriale di governo vi ricorre.

Nel 1926 il grande scrittore spagnolo Ramón María del Valle-Inclán contribuiva a fissare proprio in quest'area il luogo ideale d'ambientazione per il romanzo di denuncia politica, attraverso Tirano Banderas. Nel suo libro lo scrittore spagnolo presenta una composita repubblica centroamericano-caraibica, dominata da un dittatore nel quale si ravvisano le caratteristiche di personaggi presenti nella realtà storica locale. Il libro, una delle maggiori opere di Valle-Inclán, pur interessante, rivela nella sostanza l'estraneità dell'autore al mondo americano, di cui presenta la situazione drammatica come accidente pittoresco di un mondo esotico: «No vela de tierras calientes» reca, infatti, il sottotitolo5. Un'estraneità che si manifesta anche nell'impasto linguistico, mescolanza che si rifa a peculiarità diverse dei paesi ispano-americani.

E tuttavia Tirano Banderas era destinato a influenzare decisamente il sorgere nell'area centroamericano-caraibica di un romanzo della dittatura. Valle-Inclán, pur senza sentire il problema in carne propria, era riuscito a dare un'immagine efficace del tiranno, ispirandosi per qualche verso alla tragica figura di Lope de Aguirre, ribelle al re Filippo II di Spagna e proclamatosi a sua volta re dei Marañones. Braccato dalle truppe regie, il sanguinario personaggio finisce per suicidarsi, non prima di aver ucciso la propria figlia, per evitarle di cadere nelle mani del nemico.

Tirano Banderas, mezzo bandito, mezzo stregone, nell'esercizio crudele del potere, segue la stessa condotta. La sua lugubre figura, come quella di un uccello notturno, domina il romanzo, in una ripetizione ossessiva di immagini, sempre   —16→   attento a spiare, dall'angolo di una finestra della sua casa-fortezza, il paesaggio circostante, come se più che il timore di sorprese lo inquietasse la libertà di un mondo naturale che sfugge alla sua volontà.

Quando nel 1946 appare El Señor Presidente, del guatemalteco Miguel Ángel Asturias -in seguito Premio Nobel-, ben si può cogliere la portata del magistero esercitato da Valle-Inclán, attraverso Tirano Banderas, su un'opera che viene ancor oggi considerata una delle più originali e significative della narrativa latinoamericana del secolo XX.

Asturias elabora il suo libro nel periodo in cui è studente a Parigi e frequenta, alla Sorbona, le lezioni di Georges Raynaud sulle civiltà dell'area mesoamericana6; è il periodo delle Leyendas de Guatemala, momento di presa di coscienza della ricchezza culturale e spirituale del mondo guatemalteco; ma El Señor Presidente incide in una zona intima del giovane scrittore, la preoccuapazione per il proprio paese, dominato da regimi dittatoriali.

Romanzo destinato a divenire punto di riferimento obbligatorio per chiunque, in qualsiasi modo, voglia trattare il tema della dittatura, El Señor Presidente non era il primo romanzo dedicato al tema nell'area dei Caraibi, ai primi del Novecento. Nel 1935, infatti, l'equatoriano Demetrio Aguilera Malta, allora a Panamá, aveva ambientato nella zona del canale un suo romanzo, Canal Zone, dove stigmatizzava, con l'inquietante presenza degli Stati Uniti, la commedia della falsa democrazia, presentando un presidente capace di entusiasmare la gente semplice con la sua sola presenza, evitando di risolvere i problemi: «De pronto hubo un gran silencio. En el balcón había aparecido el Presidente. Lo acompañaban varias personas. Tenía el ademán grave, solemne. Al asomarse, la multitud se entusiasmó. Y dio un aplauso largo, caluroso»7.

Anteriormente, nel 1915, proprio nei Caraibi, a Santo Domingo, era stato pubblicato il romanzo La sangre, di Tulio Manuel Cestero (1877-1954), scrittore modernista; un libro appassionante, impegnato nell'evocazione del clima di terrore instaurato dal dittatore Ulises Hereux nell'isola e del turbolento periodo seguito al suo assassinio, nel 1899, che determinò l'intervento armato dei «gendarmi dei Caraibi», i «marins» degli Stati Uniti.

Di fronte a El Señor Presidente, è naturale, sia Canal Zone, sia La sangre perdono valore, come lo perdono i romanzi, pur interessanti, del venezolano Rufino Blanco Fombona, da El hombre de hierro (1907) a La bella y la bestia (1927). Il romanzo di Asturias è un'opera vigorosa per disegno e come creazione linguistica; il libro si impose, quindi, immediatamente, fino ad acquistare categoria esemplare per l'America latina, poiché dava al tema della dittatura una dimensione   —17→   continentale: benché si riferisse concretamente al Guatemala e al dittatore Manuel Estrada Cabrera -contro il quale Rafael Arévalo Martínez pubblicava nel medesimo anno 1946 una tremenda requisitoria in ¡Ecce Pericles!-, la condanna della dittatura accomunava tutto il mondo americano; infatti, il narratore eliminava ogni riferimento a uomini e a luoghi. Assimilata la lezione «esperpentica» di Tirano Banderas, per la quale il mondo dominato dal despota si presentava deformato, il romanzo di Asturias si avvantaggiava su quello dello scrittore spagnolo per sincerità di accenti e novità linguistica, una lingua che, pur qualificandosi come guatemalteca, abbondava di originali invenzioni, di neologismi, ricorreva all'onomatopea, riproduceva con efficacia artistica la parlata locale, in numerosi interventi dialogici.

Tra mito e realtà, la figura del dittatore domina le pagine de El Señor Presidente. Nel mondo rappresentato da Valle-Inclán non esisteva valore umano realmente positivo, nessuno si salvava moralmente; in quello di Asturias, al contrario, in mezzo al terrore e alla delazione, al sopruso e alla violenza, sopravvivono i valori umani, rappresentati dalla serie infinita di coloro che soffrono, gente umile in genere, tutto un popolo che, malgrado l'inferno in cui vive, non ha perso la dignità: i prigionieri politici che, in processione incessante, passano diretti al carcere; umili e tormentate donne, come la niña Fedina, venduta a una casa di tolleranza; le prostitute, più umane nella loro miseria di qualsiasi esponente della dittatura; lo studente che, in carcere, proclama il valore dell'azione sulla rassegnazione.

Su questo inferno umano, nel quale agiscono gli esseri più ripugnanti, tra essi il favorito del Presidente, «Cara de Ángel», domina il dittatore, un uomo del quale Asturias non denuncia il nome né le fattezze, un essere enigmatico, freddo e crudele, che incute timore e rispetto istintivo persino ai nemici, sopravvivenza della suggestione del mito o, come lo stesso romanziere chiarisce, dell'«hombre-mito, el ser superior (porque es eso, aunque no queramos), el que llena las funciones de jefe tribal en las sociedades primitivas, ungido por poderes sacros, invisible como Dios, pues entre menos corporal aparezca, más mitológico se le considerará. La fascinación que ejerce en todos, aun en sus enemigos, el halo de ser sobrenatural que lo rodea, todo concurre a la reactualización de lo fabuloso, fuera de un tiempo cronológico»8.

Nel suo romanzo Miguel Ángel Asturias mira soprattutto a presentare il potere deformante della dittatura, l'effetto disgregatore che essa ha, la perversione che provoca e comporta, un clima nel quale la persona viene cosificata, dove domina il terrore del potere. Lo stesso «Cara de Ángel» esperimenta direttamente,   —18→   una volta caduto in disgrazia presso il Signor Presidente, la vera natura di un sistema al quale per diversi anni ha collaborato attivamente, poiché l'unico problema è di sopravvivere: «vivir, lo que se llama vivir, que no es este estarse repitiendo a toda hora: pienso con la cabeza del Señor Presidente, luego existo, pienso con la cabeza del Señor Presidente, luego existo»9.

In tutti i romanzi latinoamericani volti alla denuncia della dittatura, il despota è presentato circondato dalla solitudine. Il potere dispotico, di per sé, genera isolamento; la violenza dell'esercizio lo accentua. Ne El Siglo de las Luces, romanzo che il cubano Alejo Carpentier pubblica nel 1962, è presentata efficacemente la solitudine di Victor Hugues, despota francese dell'epoca della Convenzione nei Caraibi.

Con maggior attinenza al nostro tema, precedentemente, nel 1949, lo scrittore aveva trattato il tema della dittatura ne El Reino de este Mundo, offrendo una singolare rappresentazione della grandezza, solitudine, miseria e morte di un despota, il negro haitiano Henri Christophe, che ai tempi di Napoleone I si era proclamato re dell'isola; «el primer rey negro del Nuevo mundo». Il singolare personaggio doveva esercitare la sua suggestione anche sul grande poeta martinicano Aimé Césaire; nel 1963, infatti, egli pubblica La tragedie du Roi Christophe. Il dramma esalta la figura del re negro, che rivendica per il suo popolo il diritto alla storia10.

L'Henri Christophe di Carpentier non ha preoccupazioni così elevate. Nel romanzo neppure si registrano, alla sua morte, compianto e celebrazione di parenti e di sudditi che ne consacrino la dimensione mitica11, ma certamente Césaire aveva presente El Reino de este Mundo per questo finale grandioso, malgrado la Tragedie concluda tra solenni fanfare funebri e salve regie di cannone, mentre nel romanzo dello scrittore cubano la sepoltura del re avviene quasi clandestinamente, tra il rullare dei tamburi che chiamano alla rivolta, sullo sfondo della nuova Versailles, la reggia di Sans Souci, che brucia.

Il «reale meraviglioso» è ciò che si impone nel libro di Carpentier; egli lo fonda sulla storia americana, su un'anima mitica strettamente in contatto con la natura, sul fascino delle mitologie importate dall'Africa dal popolo negro. Il romanziere sottolinea nel suo personaggio un destino di solitudine. La crudeltà di quest'uomo, prima schiavo, assurto con la rivoluzione alla dignità regia, megalomane, assetato di grandezza, ridicolo imitatore della Francia in lussuose costruzioni, la residenza di Sans Souci, la fortezza piranesiana di La Ferrière, nell'assurda etichetta di corte e nella creazione di una ridicola nobiltà, immette in una categoria nuova del tiranno nel mondo caraibico, folcoristica e tragica al tempo   —19→   stesso. Il potere, la ricchezza, non sono, qui, fine a se stessi, ma servono solo ad appagare, dopo un primo impulso rivendicativo della libertà, una megalomane ambizione.

Presto tiranno della sua stessa gente, Henri Christophe ricorre alla violenza, impone il lavoro forzato, si aliena il suo popolo e precipita nell'isolamento. Di fronte al succedersi degli avvenimenti, quando ormai la ribellione è prossima, si sbandano soldati, dignitari e servi. La grande costruzione regia rimane vuota. Il grottesco sovrano vaga sperduto, disorientato, disperato, tra gli ampi saloni della reggia, che ora risuonano vuoti. Il senso inquietante del potere perduto, della grandezza svanita è reso dal narratore attraverso minuti particolari: ora il re ode i grilli cantare sul soffitto a cassettoni, accentuando «una escala de profundidad»; le candele sgocciolano cera; una farfalla notturna svolazza nella sala del Consiglio e alcuni insetti cadono sul suolo «con el inconfundible golpe de élitros de ciertos escarabajos voladores»12. Rumori lievi che, per contrasto, approfondiscono la dimensione del silenzio e con essa il senso freddo della solitudine. E finalmente, in un quadro del più lugubre ma efficace barocco, sul ritmo del memento relativo alla polvere, alla natura inconsistente delle grandezze umane, Alejo Carpentier presenta una imponente allegoria che fa pensare alla pittura di Valdés Leal. Christophe dissemina sul pavimento della sala del trono le monete con la sua effigie e le corone di oro massiccio, «Una de las cuales alcanzó la puerta, rodando, escalera abajo, con un estrépito que llenó todo el palacio», quindi si siede sul trono preso dai suoi pensieri e infine si uccide, con un colpo di pistola alla tempia, dopo aver indossato, come si conviene a un re, «ropa limpia y perfumada» e il vestito da cerimonia13. Il suo cadavere sarà portato nella cittadella di La Ferrière, ultimo e ormai inutile ridotto costruito dalla fatica degli schiavi, e sarà fatto affondare nella «argamasa» di una piazzuola per l'artiglieria. In questo modo il narratore sottolinea il limite del potere, la condizione abbandonata del potente di fronte alla morte, la cosa misera che è l'uomo, il quale si crede onnipotente e muore solo, nell'aberrazione della sua opera.

Ne El Reino de este Mundo, titolo che, come spesso accade nell'opera narrativa di Alejo Carpentier, è capovolgimento voluto di altri richiami, in questo caso de «Il Regno dei Cieli», intenzione dello scrittore non è solamente di raccontare la storia di un uomo preso da un aberrante sogno di grandezza, ma di dare rilievo alla condizione ricorrente della schiavitù, che si esercita attraverso la prevaricazione del potere: prima erano i francesi colonialisti, poi la società creola schiavista, quindi, con la ribellione e il regno di Henri Christophe, la speranza di libertà, che invece conclude presto in rinnovata schiavitù e ora, per di più, ad   —20→   opera di un ex schiavo negro, Ti Noel, che attraverso il corso della sua lunga vita presenzia i contrastanti avvenimenti, dopo essersi sorpreso di fronte all'uso della frusta prima da parte dei bianchi, poi dei negri, vede giungere senza più meravigliarsi, dopo la morte del re, la dittatura dei mulatti. Ciò non significa acquiescenza: la lotta porta sempre a un risultato positivo, nonostante tutte le apparenze. Questo è il messaggio finale di Alejo Carpentier. Ti Noel, infatti, comprendeva ora «que el hombre nunca sabe para quien padece y espera. Padece y espera y trabaja para gentes que nunca conocerá, y que a su vez padecerán y esperarán y trabajarán para otros que tampoco serán felices, pues el hombre ansia siempre una felicidad situada más allá de la porción que le es otorgada, pero la grandeza del hombre está precisamente en querer mejorar lo que es. En imponerse Tareas. En el Reino de los Cielos no hay grandeza que conquistar, puesto que allá todo es jerarquía establecida, incógnita despejada, existir sin término, imposibilidad de sacrificio, reposo y deleite. Por ello, agobiado de penas y de Tareas, hermoso dentro de su miseria, capaz de amar en medio de las plagas, el hombre sólo puede hallar su grandeza, su máxima medida en el Reino de este Mundo»14.

Dopo alcuni decenni, successivamente a El Siglo de las Luces, Alejo Carpentier ritorna deliberatamente al tema della dittatura, prima in un romanzo breve, El derecho de asilo, che pubblica nel 1972, poi in un vero e proprio romanzo, El recurso del método, che appare nel 1974. Nel primo di questi libri la dittatura è vista come farsa: un Segretario alla Presidenza della Repubblica sfugge alla cattura da parte dei «golpisti» di turno e si rifugia nell'Ambasciata di un piccolo «paese amico», dove, protetto dall'ambasciatrice, nel frattempo divenuta sua amante, riesce a comporre abilmente una questione di confini tra i due paesi, soppiantando anche nella carica l'inetto e cornificato ambasciatore; presentate al generale-dittatore le sue credenziali, il personaggio entra con lui in un'ibrida e complice confidenza.

Nella breve narrazione lo scrittore denuncia la violenza, la falsità e la superficialità della dittatura, la sua retorica delittuosa, la bestialità e la perversione. In qualche modo El derecho de asilo può apparire come una rapida prova per la fatica maggiore de El recurso del método, di ben altra complessità e valore artistico. Il romanzo si presenta completamente nuovo sia per la struttura, che per lo stile, la dimensione dei temi, l'abilità con cui lo scrittore muove i suoi personaggi. In sette capitoli, composti di diverse pani non numerate, e un breve prologo posto sotto l'anno 1972, Alejo Carpentier illustra la prosperità, caduta e morte di un dittatore di una repubblica caraibica al quale, come Asturias, non dà nome, anche se è legittimo pensare a un complesso impasto di figure reali di despoti   —21→   che tormentarono in epoche ancora recenti gli stati dei Caraibi, tra essi in primo luogo il dittatore cubano Machado, sotto il quale lo scrittore conobbe la prigione e l'esilio, e certamente il famigerato sergente Batista, messo in fuga dalla rivoluzione castrista.

El recurso del método -anche qui abile richiamo, per contrasto, ad altro titolo, il Discorso del metodo, di Descartes- sembra per qualche motivo richiamare El Señor Presidente, come la menzione, tra i diversi dittatori evocati, di Estrada Cabrera, e più concre tamente per la figura dello studente che si oppone al «Primer Magistrado», come viene chiamato il dittatore di Carpentier, e che, attraverso l'organizzazione di uno sciopero generale riesce ad abbatterlo. E tuttavia in El recurso del método lo scrittore cubano è più vicino al Valle-Inclán di Tirano Banderas, allorché costruisce l'area geografica su cui domina il dittatore: un ambiente tropical-centroamericano-caraibico, dettagli che fanno pensare al Guatemala, feste carnevalesche di marca cubana, riti funebri vagamente maya, una vegetazione tropicale esuberante, colori e aromi intensi e inebrianti, una popolazione composita per razza.

Tuttavia, al contrario del dittatore di Asturias, o di quello di Valle-Inclán, il «Primer Magistrado» di Carpentier è un «ilustrado», un personaggio completamente «afrancesado», raffinato per cultura, competentissimo d'arte e di musica, di lettere e di filosofia, sottile disquisitore, ma anche un «criollo» schietto e parlatore colorito. Il suo mondo ideale è Parigi, al quale il dittatore sempre aspira, ma senza per questo disprezzare le caratteristiche vitali del suo proprio mondo; quando è costretto all'esilio, egli sceglie precisamente la capitale francese come sua residenza definitiva, ma stabilitosi a Parigi prova una tormentosa nostalgia per il mondo caraibico che ha dovuto lasciare e cerca di evocarlo, se non altro attraverso l'orgia colorista e di aromi della cucina creola.

Per conservare il potere il colto despota sa perfettamente che occorre insistere su un «método»: la repressione e la morte. Le citazioni da Descartes, che infittiscono nelle epigrafi apposte alle diverse parti del romanzo, costituiscono una sorta di suggestivo «breviario», o meglio, un efficace commento all'azione del dittatore e al suo destino. Cinicamente disincantato, il «Primer Magistrado» conduce la sua politica di corruzione delle coscienze e di oppressione, attento anche agli «yankee», ma senza alcuna simpatia per essi, come avviene in tutta l'America del Sud.

Benché convinto della superiorità culturale della Francia, egli difende, tuttavia, le radici culturali del proprio paese. Un'aspra «querelle» prende corpo, a questo proposito, nel romanzo. Contro l'«Ilustre Académico» che osa disprezzare la cultura iberica, il «Supremo Magistrado», abbandonato il francese colto e perso ogni controllo, si lancia «por el disparadero de un alud de improperios criollos», contro quell'essere miserabile che osa chiamare «una asonada de indios y negras» la rivolta che egli ha appena domato. In aiuto dell'indignato despota accorre anche il Doctor Peralta, quando il francese pronuncia l'infelice frase   —22→   «L'Afrique commence aux Pyrenées»: «Je vous enmerde avec le sang español», grida; quindi, passando in rassegna «con exaltada irreverencia» tutti i crimini francesi, partendo da personaggi come Simon de Monfort fino alla Comune, conclude che se la Francia aveva avuto un Descartes, un Luigi XIV, un Molière, un Rousseau, un Pasteur, ancor meno giustificabili erano i suoi delitti: «La culture oblige, autant que la noblesse, Monsieur l'Académicien»15.

Un personaggio complesso il «Primer Magistrado» di Alejo Carpentier, che tuttavia non arretra minimamente davanti a repressioni crudeli e a delitti, completamente disincantato nei confronti degli uomini e della politica, soprattutto di quella degli Stati Uniti, i quali, alla sua caduta, riescono immediatamente a comperarsi anche il nuovo presidente, figlio della rivolta. Incominciano allora i discorsi fumosi, gli accordi pieni di clausole. Dall'esilio il deposto dittatore segue attraverso i giornali del suo paese, senza compiacersene, l'operazione. Opportuna, a questo proposito, appare l'epigrafe cartesiana che presiede il capitolo: «... puede occurrir que, habiendo escuchado un discurso cuyo sentido haya sido perfectamente entendido por nosotros, no podamos decir en qué idioma fue pronunciado»16.

Ciò non toglie che durante il suo governo il «Primer Magistrado» non abbia avuto scrupolo di fare del paese un grande mercato, come padrone onnipotente che egli era: «Amo de empresas de trasmano era Señor de Panes y Peces, Patriarca de Mieses y Rebaños, Señor de Hielos y Señor de Manantiales, Señor del Fluido y Señor de la Rueda, bajo una múltiple identidad de siglas, consorcios, razones comerciales, sociedades siempre anónimas, ignorantes de quiebras ni descalabros»17. Viene spontaneo pensare alia Mamá Grande di García Márquez18; ma la riccona possedeva il mondo per sé, era sua esclusiva proprietà per l'eternità, mentre il dittatore di Carpentier possiede il suo regno con gran fretta, cosciente della precarietà del potere.

Nell'ultima parte del romanzo il personaggio, che si consuma in un esilio fatto di nostalgia, di evocazioni di un «allá» ormai irraggiungibile, e di godimenti squallidi nelle case di piacere parigine -la presenza del bordello è costante nel romanzo latinoamericano della dittatura-, finisce per umanizzarsi. Nel tramonto della vecchiaia, nella progressiva decadenza fisica, Carpentier rende patetica la figura dell'ex-dittatore, attraverso dettagli che finiscono per muovere la sensibilità del lettore. Immerso in un intermittente monologo interiore, il vecchio expoderoso trascorre gli ultimi giorni della sua vita. L'illusione di essere stato un   —23→   grand'uomo non lo abbandona, e nei vaghi momenti di lucidità pensa alla sua permanenza nel tempo, una frase da ultima ora che lo consacri nella storia; squallidamente egli la trova nelle pagine rosa del Petit Larousse, «Acta est fabula», ma nessuno dei presenti alla sua agonia riesce a udirla. La morale di tutto è che tutte le dittature sono destinate a terminare miseramente e i dittatori a essere cancellati dalla storia; restano solo le ferite che hanno inferto alla nazione e ai loro popoli: «...arretez vous encore un peu á considerer ce chaos...», invita la citazione finale di Descartes19, e quindi il richiamo biblico: «Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris»20. Valeva allora la pena tanto affanno di potere, tanta feroce ingiuria all'umanità? La morte è, come sempre, misura delle ambizioni umane.

Ma la morte e la cosificazione dell'uomo sono arma e impegno della dittatura. Nell'ambito dei Caraibi uno dei luoghi più negativamente qualificati in tal senso è Haiti, per i tempi del «Papá Doc». Un grande poeta e narratore haitiano, René Depestre, ha dato voce, nel 1975, in un singolare romanzo, El palo ensebado, a una vigorosa denuncia. Si tratta di una sorta di narrazione fantastica in cui vengono stigmatizzate le aberrazioni della dittatura, soprattutto nella capitale, Port-au-Prince, dove dominano i «Léopard» e i «Ton-ton - macutes», professionisti del crimine al servizio del regime.

Nel romanzo il dittatore è presentato come un impasto di stregone, dedito al vodu, e di pseudoscienziato pazzo, in piccolo un maniaco imitatore del nazismo. Il personaggio appare direttamente sulla scena durante una grottesca cerimonia esorcizzatrice nel palazzo presidenziale, contro un temibile avversario politico, l'ex-senatore Henri Postel, che ha resistito alla «zombificazione» e nel giorno simbolico in cui si svolge la gara per la conquista del palo della cuccagna, sorta di festa nazionale, apertamente lo sfida.

Si tratta di un romanzo di equilibrio difficile, sospeso tra la denuncia e il folklore animista, caratteristico di Haiti. Tuttavia Depestre riesce a rendere efficacemente l'idea di un paese duramente sottoposto alla tirannia. I personaggi negativi sono maschere grottesche, quelli positivi, al contrario, presentano una notevole dimensione interiore, come il vecchio calzolaio Maitre Horace, la «loa» Soeur Cisa, la splendida Elise, di fronte alla cui bellezza «Parecía que el quinqué también tuviera el aliento cortado, pues se veía claramente el movimento de la mecha»21.

Il finale è, naturalmente, tragico: Henri Postel riesce a salire sul palo «ensebado» e vince la gara; giunto in alto egli spara contro la tribuna, dove stanno il   —24→   governo e il presidente, ma non riesce nell'intento di uccidere il dittatore; le guardie sparano a loro volta contro di lui e lo uccidono. Sono comunque arrivati gli ultimi giorni per il Papá Doc: un «tardivo» infarto, infatti, lo uccide, come la storia consegna.

Nel romanzo René Depestre ricorre al grottesco per distruggere quello che viene definito «El Gran Electrificador de Almas», il despota. Per rendere il clima della dittatura lo scrittore si vale anche di finti «collages» della stampa del regime, di cui ripete le espressioni deliranti di propaganda, metodo comune a tutte le dittature, denunciando il giornalismo venduto. Con questo libro Depestre conferma la sua passione per Haiti, patria che evoca con nostalgia, descrivendone il mondo composito, il paesaggio che la voracità e la trascuratezza del regime hanno finito per distruggere, una Port-au-Prince di suggestioni perdute: «Ahora las laderas desnudas ofrecían a la vista sus flancos de huesos prominentes, blanqueados por el viento de las tormentas. La erosión y la tala son para nuestras montañas lo que la zombificación para los seres vivos»22, una città, «appestata», dove «todo es viejo, rastrero, leproso»23.

Con lucidità il Dottor Francia, despota protagonista del romanzo, Yo el Supremo, del paraguaiano Augusto Roa Bastos, denunciava la «mala yerba» della dittatura, pianta maligna che cresce in ogni luogo, e il botanico Amadeo Bompland prigioniero del Supremo puntualizzava: «Se la arranca y vuelve a brotar. Crece. Crece. Se convierte en un árbol inmenso. El gigantesco árbol del Poder absoluto. Alguien viene con el hacha. Lo derriba. Deja un tendal. Sobre el gran aplastamiento crece otro»24.

Nel mondo americano, e nei Caraibi, ovunque si volga lo sguardo se ne ha conferma, anche in due grandi paesi che per gran parte si affacciano sulle acque dello splendido mare, il Venezuela e la Colombia.

In Colombia lo scenario sul quale viene proiettata la dittatura è costituito dalle terre caraibiche. Isolerò due scritti particolarmente significativi; El gran Burundún-Burundá ha muerto, di Jeorge Zalamea, e El otoño del Patriarca, di Gabriel García Márquez. Il primo di questi testi, un romanzo breve, appare nel 1952, a Buenos Aires, ma già nel 1949 Zalamea aveva dedicato una breve narrazione al tema, La metamorfosis de Su Excelencia, elaborato «bajo el terror de la época»25, la dittatura di Mariano Ospina Pérez (1946-50), cui era seguita quella di Laureano Gómez (1950-53). Nel testo citato l'onnipotente signore è ossessionato   —25→   da un «soso olor» di macello26, un «agrio tufillo de ropas sudadas»27, o per meglio precisare, di «sábanas mancilladas, flores en putrefacción, húmedas cenizas, vendas sanguinolentas... y el tufo extrañamente ferruginoso de la cadaverina»28. Ciò determina nel dittatore «un asco incoercible a los hombres»29, pur essendo egli, come ironicamente sottolinea il narratore, un cattolico «practicante, fervoroso y ejemplar»30, tanto che quando elimina gli avversari si preoccupa del destino delle loro anime. Visioni d'incubo, allo stile di Quevedo nei Sueños, o meglio, di Neruda in España en el corazón, lo tormentano: Sua Eccellenza «se veía a sí misma, desnuda, formando el lívido centro de una monstruosa flor de cuerpos humanos que se asían de ella por los cabellos, los brazos y las piernas mientras se precipitaban todos hacia un nauseabundo piélago de azufradas llamas, entre un desesperado clamor de maldiciones y las interjecciones arrieras de multitud de diablos, diablesas y diablillos que lo aguijoneaban en su definitivo derrumbamiento»31. Alla fine, il despota deve convincersi che il «soso olor» di morte emana da lui stesso e nel tentativo di liberarsene, ricorrendo ai luoghi puri dell'infanzia, si trasforma in uno strano animale: «un nuevo ser en cuyos ojos rodaba la infinita tristeza de las bestias, aullaba a la muerte»32.

Tra Las metamorfosis de Su Excelencia e El Gran Burundún-Burundá ha muerto, non esiste relazione diretta; tuttavia tra i due testi è possibile stabilire una connessione, tanto più che, nel romanzo, lo strano animale trovato nella bara del dittatore, al posto del suo corpo, al momento della sepoltura, potrebbe essere quello stesso della metamorfosi del racconto che lo precede cronologicamente, «un enorme papagayo, todo él henchido, rehenchido y forrado de papeles impresos, de gacetas, de correos de ultramar, de periódicos, de crónicas, de anales, de pasquines, de almanaques, de diarios oficiales»33, grottesca sintesi della burocrazia dittatoriale.

Ciò che veniamo a conoscere in El Gran Burundún-Burundá ha muerto è la natura mortifera del despota, ora condotto all'ultima dimora da un iperbolico corteo di gente patibolare, quella vissuta alla sua ombra e che ha dato corpo al suo regime nefasto. Un regime che ha ridotto al silenzio i cittadini, animalizzato la repubblica.

La natura del dittatore è resa nella descrizione tragicamente grottesca delle sue tendenze e attività: «Tuvo, por ejemplo, el prurito de revolver y olisquear   —26→   ropas sucias, fue cleptómano de caras íntimas y Champollión de documentos ajenos: discípulo de Dioniso el siracusano, se hizo perito de escuchar tras de las puertas y aojar por las cerraduras; le puso casa al chisme y abrió garito a la calumnia: le ofreció incienso al Diablo Cojuelo, oro a la Celestina y mirra a Yago. Pero el hombre tenía su malicia y, en vez de inspector de alcantarillas, lo diputaron Catón»34.

Non sorprende che simile personaggio, giunto al potere lo usi per togliere ai suoi sudditi persino il dono della parola, per renderli più docili e, di conseguenza, con ironia mortale, più felici, come gli animali; pensava: «Si se quiere, [...] hacerles dichosos y mansos, es menester extirpar de sus costumbres la más vana y peligrosa: la de hablarse entre sí, la de comunicarse sus cobardes temores, sus ineptas imaginaciones, sus torpes ideas, sus enfermizos sentimientos, sus engañosos sueños, sus inciertas aspiraciones, sus imperdonables quejas y protestas, su torpe sed de amor»35.

Gli esecutori delle sue opere sono personaggi bestiali e terribili. La dittatura si fonda su questi animali ributtanti, che ora sfilano nell'iperbolico corteo funebre. Personaggi la cui sola faccia è arma efficace in mano al «Gran Terrorista», gente dagli occhi coagulo di pus, ghigni rapidi e occulti capaci di pietrificare «la dulce entrada de las mujeres y hacer nacer el yerto vendaval del miedo en los testículos de los hombres más cabales», volti sudati, come di cera, propri di chi spia per il buco della serratura, di chi cerca «en la cosquilla erótica el camino de la fatal confidencia», di chi passa «la lengua cirrosa por el engomado de los anónimos», di chi brinda alla salute dell'amico «condenado de antemano», di chi riceve ancora caldo il pane dalla madre anziana, «cuando han ido a su casa para arrestar al hijo que se oculta en el granero»36.

Unico personaggio positivo nel gran «desfile» è il cavallo del defunto, che scalpita irrequieto, divertito per la beffa finale: «Tenía tanta risa el caballo de batalla del Gran Burundún-Burundá, que le bajaba de la cabeza altanera al pecho enjuto y de allí se propalaba a las finísmas manos obligándolo, sí, obligándolo en la embriaguez de la alegría, a dimitir de su propia dignidad y belleza para competir con los corceles circenses. Pues cayó en la flor de hacer de sus manos batutas que quisieran dar otro ritmo al desfile. Su propio ritmo. ¡No le cabía al animal tanta risa en su cuerpo!»37.

Al tema della dittatura dedica in Colombia pagine di rilievo il suo più celebre scrittore attuale, Gabriel García Márquez, Premio Nobel di Letteratura. Precedentemente a El otoño del Patriarca, romanzo che pubblica nel 1975, lo scrittore   —27→   aveva denunciato i pericoli e le aberrazioni del potere in testi di grande rilevanza, da Los funerales de la Mamá Grande, al celebre Cien años de soledad, che pubblica nel 1967 e col quale inizia la grande stagione della narrativa latinoamericana. Se nel primo era l'iperbole della ricchezza il tema, nel secondo è la disumanizzazione provocata dal potere. Aureliano Buendia, al culmine della sua potenza quale capo delle forze ribelli, arriva a far tracciare dai suoi «edecanes», ogni volta che si ferma in qualche luogo, un circolo invalicabile di tre metri di raggio intorno alla sua persona, e a decretare la morte persino di antichi amici di famiglia, come il colonnello Gerineldo Márquez. Se la madre, Úrsula, era rimasta colpita di fronte al figlio dal «resplandor de autoridad que irradiaba su piel»38; ancor più lo è poi dalla sua aria decisa: «Dios mío, se dijo Úrsula, alarmada. Ahora parece un hombre capaz de todo»39. Il potere annulla i sentimenti, vanifica gli ideali. «Cuídate el corazón», dirà al potente amico il colonnello Gerineldo Márquez, «Te estás pudriendo vivo»40. Alla fine, «Extraviado en la soledad de su inmenso poder», Aureliano Buendía, «empezó a perder el rumbo»41.

In El otoño del Patriarca García Márquez si è proposto di presentare il prototipo di un personaggio che definisce «mitológico y patológico» della storia americana42. Egli afferma di essere andato riunendo aneddoti e storie di dittatori come materia per il suo romanzo, e infatti in esso abbonda il tratto umoristico, vi è coinvolto persino, indirettamente, il generale De Gaulle, attraverso alcune barzellette che correvano ai suoi tempi e delle quali è protagonista.

Il primo capitolo si apre su un panorama di morte, uno svolazzare di avvoltoi che, in un fine settimana, penetrano nella vecchia casona presidenziale. La città si sveglia, all'alba del lunedì, dal suo letargo secolare «con una tierna y tibia brisa de muerto grande y de podrida grandeza»43. È allora che alcuni cittadini, tra essi colui al quale appartiene la voce narrante, osano entrare nel palazzone per vedere che cosa è accaduto. Ed è l'incontro con il tempo morto, tempo ristagnante: «Fue como penetrar en el ámbito de otra época, porque el aire era más tenue en los pozos de escombros de la vasta guarida del poder, y el silencio era más antiguo, y las cosas eran arduamente visibles en la luz decrépita»44.

Come in un mondo irreale, senza dover forzare le porte blindate, che per tanto tempo avevano impedito il passaggio, i visitatori clandestini entrano nella   —28→   casona e giungono a una stanza dove trovano il corpo disteso e sfigurato del dittatore; ma il dubbio che sia lui il morto permane, sia per la difficoltà dell'identificazione che per l'assuefazione alla sua esistenza, per l'abitudine immemorabile ad avere il personaggio come capo del paese, a partire da un tempo nel quale il presente si confonde con il passato più remoto, quello stesso della scoperta colombiana, se ad un certo momento i cittadini del singolare stato vedono giungere gente vestita in modo strano, che parla una lingua arcaica e gli regala berrettini rossi e collanine di vetro: gli uomini di Colombo.

Realtà e irrealtà si fondono nella mescolanza temporale e il Patriarca acquista dimensioni fantastiche, contorni misteriosi e indefinibili, che il narratore ottiene attraverso riferimenti a indizi sconcertanti: «sabíamos que había alguien en la casa civil porque de noche se veían luces que parecían de navegación a través de las ventanas del lado del mar, y quienes se atrevieron a acercarse oyeron desastres de pezuñas y suspiros de animal grande detrás de las paredes fortificadas, y una tarde de enero habíamos visto una vaca contemplando el crepúsculo desde el balcón presidencial, imagínese, una vaca en el balcón de la patria, qué cosa más inicua, qué país de mierda, pero se hicieron tantas conjeturas de cómo era posible que una vaca llegara hasta un balcón si todo el mundo sabía que las vacas no se trepaban por las escaleras, y menos si eran de piedra, y mucho menos si estaban alfombradas, que al final no supimos si en realidad la vimos o si era que pasamos una tarde por la Plaza de Armas y habíamos soñado caminando que habíamos visto una vaca en un balcón presidencial donde nada se había visto ni había de verse otra vez en muchos años hasta el amanecer del último viernes cuando empezaron a llegar los primeros gallinazos [...]»45.

Con singolare abilità, tra ritagli di una realtà in cui tutto è credibile e incredibile al tempo stesso, lo scrittore colombiano va esaltando l'atmosfera allucinata del mondo della dittatura, denuncia la sostanza maligna di un potere che ha potuto perpetuarsi grazie alla violenza, ma anche alla passività dei cittadini. Le vacche che popolano, distruggendola, la casa presidenziale, e contro le quali negli ultimi anni il despota non può nulla, costituiscono un'allusione simbolica alla negatività della dittatura. Come i lebbrosi, gli storpi che vivono tra i rosai del palazzo, e a volte spariscono, altre salgono per gli scaloni dell'edificio, in attesa che la «divinità» dell'uomo onnipotente ed eterno compia il miracolo.

Nel romanzo di Gabriel García Márquez il vecchio dittatore è un individuo in apparenza semplice, come un signore di campagna, padrone dall'eternità e per l'eternità del paese su cui esercita un potere ormai incontrastato, abitudinario si direbbe. Nel tempo egli ha affermato questo potere attraverso crimini inauditi, condotti sempre con astuzia, ma spietatamente. Il popolo lo ha osannato, come   —29→   fanno le masse con qualsiasi uomo forte, pochi lo hanno combattuto, senza successo, perdendo la vita tra i tormenti. Cose correnti in tutti i regimi dispotici. La condizione umana è resa tristissima e ciò fino al rimbambimento senile del personaggio.

Alla fine del romanzo la morte del Patriarca è comprovata e la nazione sulla quale egli ha esercitato per un tempo immemorabile il suo potere esulta. Gli stessi cortei che fino al giorno prima inneggiavano al Patriarca, ora festeggiano la sua scomparsa. Tutto sembra tornare alla vita, ma García Márquez sa, come Roa Bastos, che la pianta maligna della dittatura non muore. Infatti, gli «eredi» del potere ingaggiano subito la lotta per la prevalenza gli uni sugli altri e al popolo restano poche speranze.

Nella dimensione temporale favolosa, che il narratore costruisce attraverso elementi molteplici -mescolanza di fatti reali e fantastici, di nomi e di epoche diversi, di personaggi del presente e del passato più remoto, di segni celesti premonitori e di infermità bibliche, di elenchi di ambasciatori statunitensi che si succedono vertiginosamente nel paese, di ricorrenti sbarchi di «marins», di mode, di mezzi di locomozione e di comunicazione propri di epoche diverse, ecc.-, ma soprattutto sulla costante dell'atteggiamento d'incredulità circa la morte del dittatore va definendosi nel romanzo un uomo crudele, che non solo dà luogo a una serie infinita di soprusi e di indegnità, ma che vende persino il proprio paese agli Stati Uniti, al cui appoggio deve la sua situazione politica. Con la meticolosità che li distingue, e che ad arte lo scrittore sottolinea, un giorno gli americani si portano via persino il mare nazionale: «de modo que se llevaron el Caribe en abril, se lo llevaron en piezas numeradas los ingenieros náuticos del embajador Ewing para sembrarlo lejos de los huracanes en las auroras de sangre de Arizona, se lo llevaron con todo lo que tenía dentro, mi general, con el reflejo de nuestras ciudades, nuestros ahogados tímidos, nuestros dragones dementes, [...]»46.

Girando e rigirando il suo personaggio da ogni parte, il narratore costruisce l'immagine di un essere meschino e crudele, per il quale non tanto la ricchezza, quanto il puro esercizio del potere è divenuto ragione di vita.

Diverso è il caso della figura di Bolívar, protagonista de El general en su laberinto, che Gabriel García Márquez pubblica nel 1989, personaggio che può pure iscriversi tra i dittatori, ma in questo caso di quegli uomini forti, capaci di disegni grandiosi, che si fondano sul riscatto delle nazioni e degli uomini. Un uomo che esercita il potere in forma assoluta, ma per finalità grandi.

In un interessante studio sulla narrativa ispanoamericana contemporanea, Juan Calviño ricorda che, per porre un freno al proliferare di bande di «caudillos» e di piccoli tiranni di ogni razza e colore, Bolívar scriveva al generale Santander che «solamente un hábil despotismo puede regir a América»; nel Congresso di   —30→   Cúcuta egli avvertiva: «Un hombre como yo es un ciudadano peligroso en un gobierno popular; es una amenaza inmediata a la soberanía nacional»47.

Occorre interpretare bene queste parole: esse sono volte a porre in guardia coloro che pensassero di contrastare il grande disegno bolivariano di unità nazionale, approfittando di situazioni critiche per far posto alle ambizioni di potere personale. Sappiamo che il «Libertador» non fu felice nel suo progetto e presto vide non solo l'erigersi di poteri che sconvolgevano il suo disegno, spesso ad opera dei suoi stessi generali, come Flores, che divenne dittatore dell'Ecuador, ma vide volgersi contro la sua stessa persona l'ostilità delle «camarillas» e le ambizioni nazionaliste.

Nel suo romanzo, quindi -un testo che ha suscitato molto scalpore al suo apparire, soprattutto in Colombia, per i molti personaggi storici della guerra d'indipendenza che venivano posti alla berlina-, García Márquez non denuncia le malefatte di un dittatore, ma descrive l'ultimo periodo di vita di un dittatorepatriota, si potrebbe dire. All'epoca, non di rado Bolívar aveva assunto, conferitogli dal Congresso, il titolo di «Dittatore», titolo con ben diverso significato, che tuttavia implicava l'esercizio del potere assoluto. Ma in El general en su laberinto lo scrittore offre lo spettacolo a un tempo della miseria del potere e degli uomini. Dopo i tanti trionfi, dopo tanta potenza, Bolívar non raccoglie che amarezze e ostilità; costretto ad abbandonare ogni cosa e a partire per l'esilio, l'Europa sarà, nelle intenzioni, la sua meta, un luogo ben lontano dallo scenario sul quale esercitò il suo potere.

Intenzione di García Márquez è di demitizzare il personaggio, e vi riesce efficacemente. All'eroe egli toglie gli stivali, lo mette in pantofole, col risultato perfettamente raggiunto di accentuarne la dimensione umana, quindi la grandezza. Nel contempo dà corpo alla denuncia più spietata contro l'ingratitudine, la miseria del comportamento degli uomini. Si costruisce in questo modo un altro mito, più vicino al nostro animo: quello del grande ingiustamente venuto a meno, dell'eroe privato delle bardature e messo in un angolo, che fa breccia dentro di noi con la sua disadorna e contraddittoria umanità e che pure è diverso da noi per la categoria eccezionale, che si fonda sulle sue gesta, fortunate o sfortunate che siano, ma sempre grandi e che noi mai avremmo saputo compiere.

Questo il risultato di un libro singolare, che si presta anche a diverse riserve -in primo luogo l'indecisione tra romanzo e biografia, con il peso della documentazione sulla «ficción»-, ma che comunque afferma vigorosamente il suo disegno, che è quello di celebrare la grandezza eccezionale di Bolívar.

Gabriel García Márquez ha sempre amato personaggi al tramonto, resi più umani dalla loro debolezza fisica. Gli spettacoli dell'abbandono, della delusione,   —31→   della solitudine esercitano sullo scrittore un'intensa attrazione: lo attestano numerosi protagonisti nei suoi romanzi, come quello di Nadie escribe al coronel, i persistenti amanti di El amor en tiempos del cólera, le figure indimenticabili di Cien años de soledad. Di qui anche la scelta per la figura di Bolívar negli anni della sua sventura, che precedono di poco la sua morte.

El General en su laberinto prende le mosse, infatti, dal momento in cui il «Libertador» rinuncia formalmente al potere, quando ormai il suo sogno di unificare il mondo ispanoamericano liberato in una grande confederazione sembra definitivamente crollare. A Santa Fe de Bogotá resterà a difendere la sua memoria la combattiva amante, Manuela, insieme a pochi generali fedeli, di fronte a un Congresso e a una popolazione ormai apertamente ostili.

Simón Bolívar intraprende la via dell'esilio, amareggiato e indeciso tra la rinuncia definitiva e la tentazione di riprendere il potere con uno dei suoi non inconsueti colpi di forza. In questa indecisione fatale permarrà sino alla fine. Intanto, egli sembra seguire il piano predisposto da coloro che lo vogliono lontano e si dirige verso Cartagena de Indias per imbarcarsi per l'Europa. Non si imbarcherà mai.

Il lungo corteo di soldati e di ufficiali, quasi tutti venezolani, rimastigli fedeli, si snoda per le terre colombiane per giorni e giorni, esasperando le truppe governative che lo seguono da lontano e i politici di Bogotá, sempre in allarme. Intanto il Venezuela, la patria, al suo avvicinarsi gli vieta l'ingresso nel paese e con lui alla sua gente. Il generale Urdaneta ordisce nella capitale colombiana un piano per riportarlo al potere, ma senza successo, anche perché manca una decisione del «Libertador». Bolívar è ormai un uomo finito. Il suo corteo assomiglia piuttosto a un disfatto esercito napoleonico in ritirata o a un accompagnamento funebre.

Nelle pagine di El general en su laberinto assistiamo al tramonto volontario di un grande personaggio che ancora conserva ascendente sui suoi uomini e fa paura agli avversari. Il suo comportamento, anche privo di potere, è quello di un uomo abituato ad esercitarlo in modo assoluto. La sua figura si afferma ora più complessa, come quella di chi ha sperimentato profondamente la mutevolezza della fortuna, la natura infida degli uomini, la forza distruttrice dell'ambizione non nobilitata da grandi disegni. García Márquez vuol denunciare proprio questo: le invidie e i tradimenti, le meschinità, le ambizioni, le basse astuzie, non di rado il delitto -si veda l'assassinio del maresciallo Sucre, che così profondamente colpì Bolívar-, congiurato contro il disegno grandioso del «Libertador». Il narratore tratta il suo personaggio senza apparente pietà, accentuando le note correnti di una natura umana che ormai domina la vicenda del condottiero stanco. La delusione degli uomini si allea a quella della perdita del potere. La malattia, gli acciacchi crescenti, accentuano l'umanità dell'individuo già eccezionale, che sempre presenta qualche cosa di non riscontrabile negli altri uomini, anche nella coscienza dì un privilegio esaurito dal rifiuto del comando.

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Se intorno al condottiero si stringono gli ultimi fedeli e se ancora egli ricorre, «in extremis», spinto più dai suoi che dalla sua volontà, a riprendere la guerra, il clima è però quello dell'irrepetibilità della storia. L'esaltante avventura è finita per sempre; non si assiste al ripetersi del miracolo poiché manca in Bolívar la volontà.

Alla fine del romanzo García Márquez ci mostra il «Libertador» in punto di morte, pienamente cosciente che «la loca carrera entre sus males y sus sueños llegaba en aquel instante a la meta final»48. Lo circondano gli oggetti della sua miseria: l'ultimo letto ottenuto in prestito, la toletta miserabile «cuyo turbio espejo de paciencia no lo volvería a repetir», il catino di porcellana scrostata, con l'acqua e il sapone che ormai sarebbero stati per altre mani, «la prisa sin corazón del reloj octogonal desbocado hacia la cita ineluctabble del 17 de diciembre a la una y siete minutos de su tarde final»49.

Con partecipazione priva di retorica, Gabriel García Márquez insiste su queste note e conclude così la costruzione mitica del suo eroe. Il lettore è sempre più indotto a considerare la crudele distanza tra la gloria passata e la miseria presente. Il grande personaggio «Entonces cruzó los brazos contra el pecho y empezó a oír las voces radiantes de los esclavos cantando la salve de las seis en los trapiches, y vio por la ventana el diamante de Venus en el cielo que se iba para siempre, las nieves eternas, la enredadera nueva cuyas campánulas amarillas no vería florecer el sábado siguiente en la casa cerrada por el duelo, los últimos fulgores de la vida que nunca más, por los siglos de los siglos, volvería a repetirse»50.

Per quanto concerne il Venezuela, paese dove pure la dittatura è stata un male ricorrente, il tema è stato trattato da diversi scrittori nella narrativa, a partire da Rufino Blanco Fombona, nell'epoca modernista, le cui opere restano più che altro come documento storico del sorgere del romanzo venezolano. La grande narrativa si afferma in Venezuela con l'opera di Rómulo Gallegos, il celebre autore di Doña Bárbara, testo programmatico della lotta tra civiltà e barbarie. Ma Gallegos -presidente della repubblica deposto dopo pochi mesi dal suo stesso ministro degli Esteri, Pérez Jiménez, poi per lunghi anni dittatore-, affrontò anche il problema della dittatura, nel romanzo El Forastero, libro terminato nel 1922, ma che pubblicò in una nuova stesura solo nel 194251.

Più che della dittatura il tema è quello del «personalismo». Don Parmenión non è, infatti, un dittatore, ma un «cacique», un ricco possidente in combutta con il potere politico e che rende schiavo tutto un villaggio. Interessante è la figura   —33→   del «Forastero», un personaggio sconosciuto che, capitato nel villaggio, diviene presenza inquietante per il tiranno e punto di riferimento, per la sua resistenza al despota, per il popolo.

Don Parmenión fa di tutto per conquistarsi il forestiero, persino gli fa balenare la possibilità di vantaggi per la gente del villaggio. Ma l'uomo comprende che collaborando si trasformerà in strumento del tiranno: perciò rifiuta, mantenendo con questo viva la speranza negli oppressi.

El Forastero, più che un romanzo è un saggio politico. Ben diverso è il libro che Arturo Uslar Pietri pubblica nel 1976, Oficio de difuntos. In questo romanzo protagonista è il generale Juan Vicente Gómez, presidente-dittatore del Venezuela, sostituitosi con un «golpe» a un altro militare dittatore, il generale Páez, entrambi personaggi storici degli inizi del secolo XX. Gómez finisce per considerarsi non solo il tutore di un ordine necessario alla sopravvivenza del paese -come restauratore di tale ordine era stato salutato da tutti-, ma finisce per considerare il Venezuela una proprietà personale. Convinto di essere nel giusto, governa con durezza e con astuzia il paese, come se fosse un'immensa fattoria. Le carceri sono presto colme di prigionieri politici; l'esilio pullula di venezolani. Sbaragliati tutti i generali pericolosi, il generale afferma il suo potere attraverso l'esercito, che coltiva e potenzia. In apparenza rispettoso della Costituzione, cede il potere di volta in volta, alla scadenza del suo mandato, a personaggi di nessun rilievo, dei quali è sicuro, ma non lascia mai il comando dell'esercito. Tuttavia il generale finisce per cadere nel suo stesso inganno: si convince, cioè, che la sua elevazione al sommo potere avviene democraticamente, per volere del popolo.

Alla fine, vinto dall'età e dagli acciacchi, il potente giunge al termine dei suoi giorni. L'atmosfera nel paese è presto tragica: vi è chi teme e chi spera, come sempre in queste occasioni. Uslar Pietri presenta la situazione con estrema perizia e nella morte mostra la miseria dell'onnipotente generale. Stupisce che tanto potere abbia potuto essere esercitato da un personaggio di così scarsa consistenza: «Estaba muerto el general. Había empalidecido, el bigote gris había blanqueado, el cuerpo se había ido vaciando de materia como un saco de arena roto. Los que lo habían visto en su larga agonía decían que parecía otro. Más pequeño, más delgado, casi frágil. Todo el imponente aspecto de fuerza había desaparecido, todo el imperio de la mirada y de los gestos se había ido borrando hasta convertise en una débil y esfumada semblanza de lo que había sido»52.

Gran trionfo della morte sulla miseria umana. Il romanzo latinoamericano della dittatura insiste spesso sul tema. Ma lo scrittore non tralascia di sottolineare con le responsabilità delle «élites» quelle delle masse nell'avvento e nel perdurare del potere dittatoriale. Gómez, d'altra parte, è un dittatore particolare nel   —34→   romanzo di Uslar Pietri: non è un politico, ma un «caudillo» e il suo amore per il paese difficilmente può essere posto in dubbio, anche se è un amore che soffoca e che vive sul crimine. Per mantenere nell'ordine il Venezuela, Gómez non lascerà mai il potere, convinto che «El mando no se puede dejar ni un momento»53. Ma l'esercizio del potere assoluto implica, con la sfiducia negli uomini, il sospetto continuo, la solitudine. Si ha quasi l'impressione che, insistendo su questi motivi, il narratore finisca per giustificare, al termine del suo libro, gli equivoci dell'uomo che si sentì salvatore della patria. Gómez sarebbe allora un tiranno «equivocado», che ha perduto la rotta poiché non ha saputo interpretare le istanze di libertà del suo popolo.

Un'intensa nota patetica proietta sul personaggio l'avanzare dell'età, l'indebolimento fisico. È un insistente «memento» che, malgrado tutto, il dittatore si rifiuta di accogliere, aggrappandosi sempre più al potere, alla sua terra, all'esercito, il cui comando alla fine deve lasciare a uno dei suoi ufficiali, giovane, apparentemente fedele; ma chi può mai fidarsi degli uomini?

Il sospetto distrugge il generale; sono giorni amari, nei quali il timore di un possibile esautoramento si aggiunge ai segni tragici della decadenza fisica: «Dio un traspiés al levantarse del sillón. ¿Lo habrían visto?»54. È questa la preoccupazione costante: che altri si accorgano della decadenza. Finché giunge il momento dell'agonia, e allora tutto è intorno e nell'intero paese sospensione e timore: «el tiempo pareció hacerse más lento y casi detenerse. Era como una larga víspera desesperadamente tarda»55.

Una serie singolare di opere qualifica, come si è visto, nell'ambito dei Caraibi, la narrativa latinoamericana sul tema della dittatura. La difficile condizione del «Regno di questo mondo», come lo definì Alejo Carpentier, non distrugge il coraggio né la speranza. Lo scrittore del Caribe, come del resto quello di ogni altra regione del mondo latinoamericano, segue con animo partecipe la dura vicenda della condizione umana e con la sua denuncia ne reclama il riscatto nella libertà e nella giustizia.





 
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