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Il primo «Discorso» Nobel di Neruda

Giuseppe Bellini



A Pablo,
spentosi con la libertà del Cile





1. Sul finire del 1971 l'Accademia Svedese assegnava il Premio Nobel per la letteratura a Pablo Neruda. Era un riconoscimento tardivo, in quanto da anni il poeta cileno sembrava averne diritto, e precisamente fin dalla pubblicazione del Canto General (1950). La sua opera, infatti, da tempo si era qualificata come l'espressione di maggior rilievo della poesia contemporanea, esercitando un'influenza decisiva anche fuori dei paesi di lingua spagnola.

Il 31 dicembre 1971 Neruda pronuncia, davanti all'Accademia di Svezia, il discorso ufficiale di accettazione del premio. L'interesse di tale discorso, dal punto di vista artistico, e come spia per penetrare la complessa sensibilità nerudiana, è evidente, anche se mi sembra eccessivo considerarlo «la culminación de todas las expresiones del Neruda de hoy»1. Lo dimostrano le raccolte poetiche seguite al Memorial de Isla Negra, da La Barcarola (1967) -che del Memorial è l'ultimo libro-, a La espada encendida (1970), a Geografía infructuosa (1972). Sull'antico filone, essenzialmente autobiografico, della poesia nerudiana si innestano le nuove testimonianze del tempo, le innovazioni formali e le creazioni inedite della fantasia.

Del discorso di accettazione del Premio Nobel2 è stato condotto un acuto e dettagliato esame, relativamente alla prima parte, da Maria Antonia Frau. La studiosa mette in rilievo, oltre alla struttura, i contatti che il testo presenta con l'opera antecedente del poeta, il cerchio magico nucleo della narrazione, l'atteggiamento impegnato e solidale3. Un atteggiamento quest'ultimo da me sottolineato nel prologo all'edizione italiana di Fin de mundo4, attraverso il richiamo a passaggi significativi del discorso, in particolare all'affermazione di una scelta volontaria nella propria condotta morale -«Yo escogí el difícil camino de una responsabilidad compartida [...]»-, all'adesione al Rimbaud del verso «A l'aurore, armes d'une ardente patience, nous entrerons aux splendides villes», che Neruda così commentava:

«En conclusión, debo decir a los hombres de buena voluntad, a los trabajadores, a los poetas, que el entero porvenir fue expresado en esa frase de Rimbaud: sólo con una ardiente paciencia conquistaremos la espléndida ciudad que dará luz y dignidad a todos los hombres.

Así la poesía no habrá cantado en vano»5.



Ben diversa realtà si presentava improvvisamente al poeta, per quanto riguarda il Cile, nel settembre 1973, dopo l'intervento dei militari e la morte di Allende. Il fallimento di tante speranze dovette contribuire, con la morsa del male, a vincerne la fibra.

Non è un mistero per nessuno ormai che alla fine del 1963 l'Accademia Svedese stava per assegnare il Premio Nobel a Pablo Neruda. All'ultimo momento una violenta campagna antinerudiana condotta da ambienti internazionali avversi all'ideologia del poeta, in particolare da un nemico accanito di Neruda, diffondendo false informazioni intorno a un suo presunto intervento nella congiura contro Trotsky, indusse gli accademici a ripiegare su una soluzione meno rischiosa: i voti favorirono il poeta greco Giorgio Seferis6.

La reazione di Neruda fu equilibrata. Egli accettò il verdetto inaspettato, quando tutti lo indicavano vincitore. Ma certo si trattò di una prova assai amara; lo documenta un passo di una lettera scrittami in data 14 novembre 1963:

«[...] Ya habrás sabido que estuve muy cerca de recibir este año el famoso Premio Nobel. No te mencionaría este asunto porque a cualquiera que se lo den, siempre recae en la poesía, y es esto lo importante. Pero esta vez, por informaciones llegadas de Suecia, se ha sabido que se armó una máquina internacional desde París para impedir que se me concediera».



Il tono del passo riprodotto è apparentemente distaccato dall'avvenimento, ma non abbastanza da non rivelare il vero stato d'animo di Neruda.

Allegato alla lettera citata il poeta mi inviava un dattiloscritto, datato Isla Negra, 25 de Octubre de 1963, dal titolo El Premio Nobel en Isla Negra. È questo il primo «discorso» Nobel nerudiano, non pronunciato come tale, davanti a un pubblico di accademici, ma diretto agli amici, a rassicurarli che, al disopra dei premi letterari per importanti che siano, e delle meschinità inevitabili che li accompagnano, permane intatto il valore della poesia.

2. Il dattiloscritto cui alludo si compone di quattro facciate di formato normale. Ho reso noto lo scritto una prima volta sulle pagine della rivista «Asomante», nel 19657, rispondendo implicitamente a un ironico commento di H. A. Murena nella sua Carta del Río de la Plata, là dove alludeva a un «Brindis de cólera»8. Più tardi Neruda includeva il testo in Una casa en la arena9, quindi nella terza edizione delle Obras Completas10, ma in sostanza lo scritto è passato alquanto inosservato. Esso merita, al contrario, di essere sottolineato poiché, superato per il Nobel il «caso Neruda», ci offre la possibilità di ristabilire inequivocabilmente un clima spirituale e di apprezzare una pagina nerudiana pressoché inedita, di singolare valore artistico.

Il dattiloscritto non presenta modifiche di rilievo se non nel paragrafo finale, dove dopo il periodo in cui si allude alla comunicazione via radio del nome del premiato, un «buen poeta griego», è possibile ricostruire integralmente un periodo poi cancellato: «Nunca antes habíamos escuchado su nombre». Il significato di questa frase non lascia dubbi. Certamente Neruda si pentì dello sfogo e decise di eliminare il passo.

Il testo cui mi riferisco si presenta come uno dei documenti più rilevanti della sensibilità nerudiana e della sua opera creativa, non certo inferiore, per quanto riguarda la prosa, a pagine ben note, quali quelle di Oceanografía dispersa, né al discorso ufficiale che il poeta pronuncia nel 1971. L'avvicinamento a Oceanografía dispersa non è immotivato: ne El Premio Nobel en Isla Negra, come in Oceanografía, si manifesta una dimensione sentimentale di marcato rilievo, che permette di penetrare nel più intimo del mondo nerudiano, fatto di costanti riferimenti alla natura, di poesia delle cose semplici, di riflessioni assai intime, che danno un tono inconfondibile a tutta l'opera del poeta.

Il testo presenta una struttura narrativa perfetta e lo si può considerare composto di tre parti: la prima (paragrafi 1-3), costituisce l'introduzione; il corpo è dato dal resto dello scritto (paragrafi 4-14), e conclude nel paragrafo finale (il 15) ricollegandosi direttamente all'introduzione.

Nella prima parte, introduttiva, Neruda ci si presenta nell'attesa della comunicazione del premio, ma in un atteggiamento di difesa contro la curiosità degli indiscreti. Egli propende per una nota umoristica, ad accentuare il distacco dall'avvenimento: allude a un piano di difesa, il «Plan N. 3 de Defensa Doméstica», che lui e Matilde pongono in opera per isolarsi dai giornalisti, presentati come animali assetati di sangue, «tigres», che «rondaban» dietro il portone d'ingresso, chiuso da «un gran candado de bronce».

Questa prima parte del testo ci offre qualche elemento interessante nel riuscito clima drammatico; in primo luogo, il rilievo dato al «candado de bronce» riporta alla passione manifestata più volte da Neruda per tutto ciò che appartiene alla «ferretería»; vi è poi un dato interessante, che offre un'informazione nuova intorno alle letture del poeta: l'allusione alla provvista di libri gialli di Simenon che la coppia riunisce per sopportare l'assedio.

La radio è il punto primo di partenza di questo momento: «Cuando por la radio dijeron [...]» inaugura il clima sospeso, che si concluderà nell'ultimo paragrafo dello scritto con l'annuncio che il Nobel è stato dato a un altro poeta.

Di fronte alla difesa posta in atto da Neruda e da Matilde i giornalisti «emigrano». La tranquillità torna sulla costa, ma la coppia mantiene un atteggiamento diffidente e difensivo. Il breve paragrafo finale della prima parte ha la funzione di immettere in un clima di maggiore intimità e poesia; Neruda torna a essere l'«amateur» del mare, il contemplatore della costa e della natura.

3. Il corpo centrale dello scritto, ossia la seconda parte del testo in esame, si apre illuminato da una luce nuova, diffusa dalla menzione della primavera. Ma la primavera del 1963 è una primavera tarda, quasi alludente, simbolicamente, alle contrarietà che attendevano il poeta. Il momento della prova viene segnato per sempre nel tempo da Neruda: «en este año de 1963»; il luogo è quello sempre caro al poeta: «en el litoral del Pacífico Sur».

Il momento difficile attraversato dello scrittore, i giorni «solitarios» - con un trasparente rimprovero alla mutevolezza degli uomini (i giornalisti che emigrano sfumato l'interesse per il poeta) hanno un risultato positivo per Neruda: «me sirvieron para intimar con la primavera marina». Ma la bellezza della primavera richiama, per contrasto, il ricordo dell'estate, stagione in cui la terra è pietrosa e non cade una goccia d'acqua. Nella scia del ricordo di un paesaggio desolato, in cui si riflette lo scoramento dell'uomo, i colori tornano a incidere nel grigio. Quindi Neruda supera il momento negativo; la sua sensibilità dà voce all'ampia poesia che la caratterizza ed egli s'intrattiene a descrivere il «gran trabajo amarillo» della primavera iniziante, prestando un'attenzione «minuta» alle germinazioni che sembrano sfidare la finitezza umana. La fecondità della primavera è immagine della fecondità del poeta, del suo eterno e inevitabile rinascere, del superamento, quindi, di ogni momento negativo.

Nella descrizione dei fiori della costa Neruda offre in questo scritto un documento inatteso di nuova sensibilità cromatica. La sua poesia, e soprattutto la prosa, si compiace di colori tenui. Nelle Odas, è vero, egli aveva già cantato il fiore giallo, quello azzurro, il fiore bianco, mentre nella Canción de gesta aveva espresso cromatismi accesi, nella descrizione della «pedrería» del cielo, i multicolori uccelli venezolani. Tuttavia, per quanto riguarda la flora, nell'opera del poeta cileno non è rintracciabile una policromia così intensa e definita: dal viola, al giallo, all'azzurro, al rosso. La natura si mostra al poeta nella sua essenza miracolosa, si manifesta in tale varietà di fiori e di colori, che egli avvicina lo spettacolo cromatico ai «pabellones» incalzanti di nazioni contrarie che s'invadano.

Il paesaggio tenero, i fiori senza pretese, vengono successivamente sostituiti da un elemento di significato ostile, il cactus, che reca la nota accesa del suo fiore. La menzione del cactus amplia la prospettiva, richiamando Neruda ai contrafforti della regione andina, «Lejos de esta región». Il motivo che ha dato origine allo scritto sembra totalmente dimenticato, ma presto ci accorgiamo che la divagazione è un puro pretesto per allontanare un pensiero insistente, quello di una realtà immediata. Nel successivo paragrafo, infatti, di colpo la casa torna in primo piano, introdotta da una presenza simbolica, il vecchio agave giunto, dopo tanti anni di fioritura e di crescita, alla morte. Di nuovo il clima si fa cupo. La puntigliosa citazione del nome scientifico dell'agave, mentre sottolinea una volta ancora le conoscenze del poeta in ambito botanico, è in realtà un trasparente tentativo per mascherare il riincidere dell'amarezza. La reazione avviene tuttavia immediata; Neruda osserva che vicino al fiore che muore sta un fiore «titánico» che nasce, il «chahual» o «Puya Chilensis», pianta «ancestral» che egli suppone nota a pochi fuori del Cile. La natura «ancestrale» della pianta permette al poeta il riaggancio con un tema caro, quello del legame con gli antepassati araucani. Nel fiore egli vede la riscossa improvvisa della sua gente, il perdurare della terra sul passare degli uomini e del tempo: «Sólo la tierra continúa siendo, preservando la esencia».

Nel paragrafo successivo Neruda si diffonde nella descrizione della pianta, ostentando nuovamente le sue cognizioni botaniche, ma per meglio elevare un inno all'«inmensa rosa verde» che, come emanata dal mare, copre la spiaggia, ed è «solitario monumento de la ola».

Oltre al poeta e alla moglie, oltre ai giornalisti, intervengono a questo punto nello scritto altre presenze umane: i contadini, i pescatori, i minatori che, presi dalla lotta per la vita, da tempo hanno dimenticato i nomi delle umili piante. Di nuovo Neruda rivendica implicitamente la sua condizione di predestinato alla memoria delle cose. Verso i contadini, i pescatori, i minatori, egli esprime la sua solidarietà nella lotta giornaliera, sottolineando la dura battaglia dell'uomo.

Nel paragrafo che segue il legame simbolico tra il fiore e la casa, tra la terra, cioè, e il poeta, si chiarisce. Tra i fiori anonimi, dimenticati dagli uomini intenti alla loro «aspereza», alla «continua muerte y resurrección de sus deberes, de sus derrotas», un fiore azzurro «de largo y orgulloso talle» ha invaso tutta la casa. Neruda si attarda a sottolineare del fiore le qualità di forza e di resistenza, il «talle» «lustroso y resistente», su cui risplendono «las múltiples florecillas infra-azules, ultra-azules». È questa un'altra nota cromatica nuova, nella sua intensità, nell'opera nerudiana. Dalla presenza del fiore, che distingue la sua casa, il poeta elabora il significato di una propria condizione privilegiata: «No sé si a todos les será dado contemplar el más excelso azul. Será revelado sólo a algunos o permanecerá cerrado, invisible, para algunos otros humanos a quienes algún dios azul les negará esta contemplación?».

Il dubbio che il privilegio sia unito alla propria gioia che si nutre nella solitudine si allea, in Neruda, all'orgoglio di essere il destinatario di un omaggio unico. La solitudine in cui il poeta si chiude si trasforma in felicità, l'isolamento in orgoglio, che afferma una condizione superiore alle contingenze umane.

4. Nell'ultimo paragrafo della seconda parte de El Premio Nobel en Isla Negra Neruda passa a trattare delle «docas», piante «millonariamente multiplicadas, que arrastran por la arena sus dedos triangulares»; esse sono prodotto della primavera, ma anche una germinazione del mare. L'avanzare di queste «manos» verdi, con insoliti anelli color amaranto, verso la casa del poeta assume il significato non solo di una comunione con gli elementi naturali, la terra, il mare, ma conferma una privilegiata distinzione tra i mortali; ciò nel clima di una primavera che sembra voler ricuperare il tempo perduto, manifestandosi nei più inediti cromatismi quando il poeta ha superato la sua crisi.

La parte finale del testo, la terza, costituita di un solo paragrafo, torna, come ho detto, al motivo della radio che comunicando il verdetto del Nobel conclude la vicenda e restituisce il poeta al consueto contatto con gli uomini: il portone della casa torna a spalancarsi e ognuno può entrare senza farsi annunciare, «Como la primavera».

La prima, e la seconda parte de El Premio Nobel en Isla Negra presentano un interesse preminente; ma tutto il testo rivela, nella perfetta strutturazione, il superamento, attraverso la poesia, di un momento particolarmente amaro nella vita del poeta, e preannuncia in parte ciò che Neruda esprimerà alcuni anni dopo nel discorso ufficiale di accettazione del Nobel: la medesima adesione a un mondo naturale che costituisce le radici stesse della sensibilità nerudiana, il medesimo impegno nei confronti dell'uomo, lo stesso messaggio di speranza, manifestato nel simbolo della primavera.




El Premio Nobel en Isla Negra

Cuando por la radio dijeron, repitiéndolo varias veces, que mi nombre se discutía entre los otros candidatos al Premio Nobel de Literatura, Matilde y yo pusimos en práctica el Plan N. 3 de Defensa Doméstica. Pusimos un candado grande en el viejo portón de Isla Negra y nos pertrechamos de alimentos y vino tinto. Agregué algunas novelas policiales de Simenon11 a estas perspectivas de enclaustramiento.

Los periodistas llegaron pronto. Los mantuvimos a raya. No pudieron traspasar aquel portón. El gran candado de bronce no sólo es bello sino poderoso. Detrás de él rondaban como tigres. Qué se proponían? Qué podía decir yo de una discusión en que sólo tomaban parte académicos suecos en el otro extremo del mundo? Sin embargo, ahí estaban los periodistas mostrándome con sus miradas sus intenciones de sacar agua de un palo seco. Pronto emigraron.

La costa quedaba libre de amenaza. No obstante, continuamos invisibles.

La primavera ha sido tardía en este año de 1963 en el litoral del Pacífico Sur. Estos días solitarios me sirvieron para intimar con la primavera marina. Aunque tarde se había engalanado para su solitaria fiesta. Durante el verano no cae una sola gota de lluvia. La tierra es gredosa, hirsuta, pedregosa. No se ve una brizna verde. En el invierno el viento del mar desata furia, sal, espuma de las grandes olas, y la naturaleza aparece acongojada, víctima de la12 fuerza terrible.

La primavera comienza con un gran trabajo amarillo. Todo se cubre con innumerables, minúsculas flores doradas. Esta germinación pequeña y poderosa cubre laderas, rodea las rocas, se adelanta hacia el mar y aparece en medio del camino, allí donde hay que pisar todos los días, como si quisiera desafiarnos, probarnos su existencia13. Tanto tiempo sostuvieron una vida invisible, la desolada negación de la tierra estéril, que ahora todo les parece poco para su fecundidad amarilla.

Luego pasan14 las pequeñas flores pálidas y todo se cubre con una intensa floración violeta. El corazón de la primavera pasó del amarillo al azul, y luego al rojo. Cómo se sustituyeron unas a otras las pequeñas, desconocidas, infinitas corolas? Lo cierto es que un día el viento sacudía un color y luego otro color, como si allí, entre las solitarias15 colinas, cambiara el pabellón de la primavera y las16 repúblicas diferentes ostentaran sus17 estandartes invasores18.

En esta época florecen los cactus de la costa. Lejos de esta región, en los contrafuertes de la cordillera andina, los cactus se elevan gigantescos, estriados y espinosos, como columnas hostiles. Los cactus de la costa son pequeños y redondos. Ahora los vi coronarse19 con veinte botones escarlatas, como si una mano hubiera dejado allí un ardiente tributo de gotas20 de sangre. Pero ahora21 se abrieron y frente a las grandes espumas blancas del océano22 se divisan miles de cactus encendidos por sus flores plenarias.

El viejo agave de mi casa sacó desde el fondo de su entraña su floración suicida. Esta planta, azul y amarilla, gigantesca y carnosa, duró más de diez años junto a mi puerta, creciendo hasta ser más alta que yo. Y ahora florece para morir. Erigió una poderosa lanza verde que subió hasta siete metros de altura, interrumpida por una seca inflorescencia, apenas cubierta por polvillo de oro. Luego, todas23 las hojas colosales del agave americana se desploman y mueren.

Junto a la gran flor que muere, he aquí otra flor titánica que nace. Nadie la conocerá fuera de mi patria. No existe sino en estas orillas antárticas. Se llama chahual (Puya chilensis). Esta planta ancestral fue adorada por los araucanos. Ya el antiguo Arauco no existe. La sangre, la muerte, el tiempo y luego los cantos épicos de Alonso de24 Ercilla, cerraron la antigua historia, la tribu de arcilla que despertó bruscamente de su sueño geológico para defender la tierra patria de25 los invasores. Al ver surgir sus flores otra vez, sobre siglos de oscuros muertos, sobre capas de sangriento olvido, creo que el pasado de la tierra florece contra lo que somos, contra lo que somos ahora. Sólo la tierra continúa siendo, preservando la esencia.

Pero olvidé describirla.

Es una bromeliácea de hojas agudas y aserradas. Irrumpe en los caminos como un incendio verde, acumulando en una panoplia sus misteriosas espadas verdes26. Pero, de pronto, una sola flor colosal27, un racimo le nace de la cintura, una28 inmensa rosa verde de la altura de un hombre. Esta única flor compuesta, como un pólipo marino, de una muchedumbre de florecillas que se agrupan en una sola catedral verde, coronada por el polen de oro, resplandece a la luz del mar. Es la única inmensa flor verde que he visto, el solitario monumento de la ola29.

Los campesinos y los pescadores de mi país olvidaron hace tiempo los nombres de las pequeñas plantas, de las pequeñas flores que no tienen nombre. Poco a poco lo fueron olvidando y lentamente las flores perdieron su orgullo. Se quedaron enredadas y oscuras, como las piedras que los ríos arrastran desde la nieve andina hasta los desconocidos litorales. Campesinos y pescadores, mineros y contrabandistas, estuvieron dedicados a su propia aspereza, a la continua muerte y resurrección de sus deberes, de sus30 derrotas. Es oscuro31 ser héroes de territorios aún no descubiertos: la verdad es que en ellos, en su canto32, no resplandece sino la sangre más33 anónima y34 las flores cuyo nombre nadie conoce.

Entre éstas35 hay una que ha invadido toda mi casa. Es una flor azul de largo y orgulloso talle. Este talle es lustroso y resistente. En su extremo se balancean las múltiples florecillas infra-azules, ultra-azules36. No sé si a todos les será dado contemplar el más excelso azul. Será revelado sólo a algunos y permanecerá cerrado, invisible, para algunos otros humanos a quienes algún dios azul les negará esta contemplación? O se tratará de mi propia alegría, nutrida en la soledad y transformada en orgullo al encontrarme este azul, esta ola azul, esta estrella azul37, en la abandonada primavera?

Por último, hablaré de las docas. No sé si existen en otras partes estas plantas, millonariamente multiplicadas, que arrastran por la arena sus dedos triangulares. La primavera llenó estas manos verdes38 con insólitas sortijas de color amaranto. Estas docas llevan un nombre griego: Aizoaceae. El esplendor de39 Isla Negra en estos tardíos días de primavera son las Aizoaceae que se derraman como40 una invasión marina, como la emanación de la gruta verde41 del mar, de los purpúreos42 racimos que acumuló en su bodega el lejano Neptuno43.

Y, justo en este momento, la radio nos anuncia que un buen poeta griego ha obtenido el Renombrado Premio44. Ya, Matilde y yo, nos quedamos tranquilos. Con solemnidad retiramos el gran candado del viejo portón para que todo el mundo siga entrando sin llamar a las puertas de mi casa, sin anunciarse. Como la primavera.

Isla Negra, 25 de Octubre de 196345.

Pablo Neruda





 
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