Colombo nella poesia spagnola e ispanoamericana
Giuseppe Bellini
Università di Milano
Ben poco sembra di dover aggiungere a quanto Calixto Oyuela, nel 1892, in occasione del IV Centenario della Scoperta, poi nel 1915, ha scritto nel suo Colón y la poesía1 e, successivamente, José María Gárate Córdoba in La poesía del descubrimiento2, Joaqufn Arce in Colón y la poesía española3. Per quanto concerne l'area linguistica che ci interessa il primo, fatta allusione a Juan de Castellanos e alle Elegías de Varones Ilustres de Indias, denunciava la povertà del «Siglo de Oro» quanto a poemi che trattassero di Colombo e della sua impresa:
Ma il critico
aggiungeva anche che «No hay
motivo alguno para suponer, sin embargo, que ese poema, dado que
por entonces se escribiese, hubiera tocado la cumbre de
perfección a que no pudieron alcanzar los mejores
épicos literarios de
España»
4
.
Ciò nonostante ricordava alcune ottave de El Bernardo (1624), di Bernardo de Balbuena (1568-1627), autore ben più famoso per la Grandeza Mexicana (1604), poema nel quale celebra le meraviglie della città di Messico, e per il romanzo pastorale, sul modello dell'Arcadia del Sannazaro, El Siglo de Oro en las Selvas de Erifile (1608). Nel Bernardo il saggio Tlascalán predice al poeta, nel canto XIX, l'avvento di un uomo la cui «luz» aprirà prospettive meravigliose per il suo popolo, oltre che per la Spagna:
Come si vede, che Colombo sia ligure non è posto in dubbio e neppure che la sua impresa sia di giovamento alla nazione spagnola. Sotto questa luce tutto diviene positivo per Balbuena, anche la schiavitù degli indios, proposta da Colombo, se interpretiamo correttamente i versi:
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Il buon saggio indigeno è tutto un elogio dell'impresa colombiana che sta predicendo, felice, si direbbe, di por fine al suo mondo, alle sue strutture e alla sua religione, interprete in tutto fedele del pensiero del poeta, che vede in Colombo, scopritore di un mondo nuovo, colui che ha fatto più grande la Spagna dandole un impero immenso. Perciò Tlascalán prosegue con entusiasmo trasparente, e certamente illogico:
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Come siamo lontani dalla dignità e dal senso di fine cosmica che i saggi indigeni esprimono nel drammatico colloquio sostenuto con i primi francescani giunti in Messico per dare avvio all'evangelizzazione! Nel famoso Coloquio de los Doce c'è un impressionante senso di tragedia, ben diverso dall'incosciente felicità del veggente Tlascalàn:
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Il trionfo di Colombo è visto apoteosicamente, invece, dal saggio indigeno-Balbuena, come giusta origine della nuova grandezza ispanica:
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Versi non certo di straordinaria fattura, questi del Bernardo, carichi di scoperta retorica, una retorica che la nazionalità del Balbuena, vescovo e cittadino dell'Impero, d'altra parte, giustifica.
Nell'ambito della lirica vari poeti allusero a Colombo e alla scoperta, tra essi Góngora e Quevedo, ma il riferimento è soprattutto alle ricchezze che, dopo la conquista, incominciarono ad arrivare in Spagna. Mitici divennero il Perù e il monte del Potosf, dove si trovavano le più ricche miniere d'argento. Colombo fu, nella sostanza, nella poesia lirica spagnola, un riferimento occasionale e di poco significato, se eccettuiamo il sonetto «Túmulo a Colón», dove Francisco de Quevedo fa parlare una trave della nave del Genovese, ora triste compagna delle sue «sante» spoglie.
Ma per tornare ad
opere più ampie dedicate a Colombo, vale a dire ai poemi,
ricorderò, anche se di scarsa qualità artistica,
El Nuevo Mundo
(1701) del portoghese Francisco Botelho de Moraes y Vasconcelos,
«rara avis», se non
rarissima, nel vuoto facilmente spiegabile di inni a Colombo e alla
scoperta spagnola nella letteratura portoghese. Scritto in lingua
castigliana, il lungo poema -dieci libri, in ottave reali- è
definito dall'Oyuela «extravagante en sumo grado,
alegórico en su esencia y desesperadamente
gongorino»
5.
In esso la figura di Colombo è, del resto, appena
adombrata.
Neppure di rilievo
sarà il Colombo del brasiliano Manuel de
Araújo Porto Alegre, dato alle stampe a Rio de Janeiro, in
due volumi, nel 1866: quaranta canti e un prologo, in versi
sciolti. Nel poema si segue la vita di Colombo dalla resa di
Granada alla morte dello Scopritore. Ne loda il verso «terso, puro y
elegantísimo»
l'Oyuela6,
il quale non tralascia, tuttavia, di denunciare lo spirito settario
dell'autore, in quanto accoglie ogni calunnia sui compagni del
Genovese, trasformando questo in un essere soprannaturale, che
porta a termine un'impresa quasi «por arte de
encantamiento»7.
Per l'area ispanofona bisogna arrivare all'età romantica per trovare nuovamente qualche cosa di realtivamente valido sul tema di Colombo e della sua impresa, i Romances históricos (1837) del Duque de Rivas (1791-1865), dove è inserito il ciclo intitolato Recuerdos de un grande hombre, dedicato al Genovese. Si tratta di sei «romances» che il duca dedica al nipote don Cristóbal Colon y La-Cerda, marchese della Giamaica, discendente quindi dell'Ammiraglio delle Indie, e si comprende il fervore del poeta per il lontano ma prestigioso parente.
Il ciclo prende avvio dall'arrivo di Colombo, accompagnato dal figlioletto Diego, al convento della Rabida, dove è benevolmente accolto da frate Juan Pérez de Marchena, e segue poi la lunga avventura del Genovese presso la corte dei Re Cattolici, intenti alla conquista di Granada, fino al richiamo della regina Isabella, quando Colombo, persa ormai ogni speranza, stava per abbandonare definitivamente la Spagna. Viene finalmente l'autorizzazione regia all'impresa. Il toccante, e falso, sacrificio dei gioielli da parte della sovrana per allestire le tre caravelle, quindi la partenza. In un unico «romance» conclusivo è riassunta la peripezia del viaggio, la rivolta dell'equipaggio e l'avvistamento della terra americana. E evidente che ciò che interessava al poeta era porre in rilievo, con i ségni dell'eccezionale nella stessa figura, misera ma nobile, di Colombo, quelli della predestinazione divina e al tempo stesso quanto vane dovevano essere le opposizioni e le incomprensioni umane, frapposte al volere di Dio, che in Colombo aveva scelto l'uomo destinato a realizzare i suoi misteriosi fini.
Al di sopra dell'inevitabile retorica del patriottismo e del culto per i Re Cattolici, soprattutto per la mitica regina Isabella, il Duque de Rivas celebra con trasporto l'indomita natura dello Scopritore, strumento divino, e conclude con un inno entusiasta. Scoperta la terra, tutta la ciurma si getta ai piedi dell'uomo che prima aveva tentato di eliminare, e ne leva alte le lodi, concordi il cielo e la terra:
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Nulla di straordinario, s'intende, nei «romances» del Duque de Rivas, ma certamente un entusiasmo comprensibile ed encomiabile, e il riconoscimento pieno della «genovesità» dello Scopritore, insieme alle sue doti di uomo eccezionale, padrone di sé di fronte all'ignoto, alla furia degli uomini e degli elementi, che sembrano perversamente, e diabolicamente, opporsi alla sua impresa. Efficace la descrizione della tremenda burrasca, nella quale le onde, «como montañas», sembrano voler distruggere le minuscole caravelle, in uno scenario terrificante, dove unica luce sono i lampi. La sicurezza viene alle navi dalla bandiera di Castiglia, che sventola sull'albero maestro, afferma il poeta, infiammato nuovamente di patriottismo:
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Il Duque de Rivas non manca, tuttavia, nonostante il suo «spagnolismo», di celebrare l'eccezionalità del personaggio Colombo, in uno spirito pienamente legittimatore della scoperta come voluta da Dio, non solo per distinguere la Spagna tra le nazioni del mondo, ma per il riscatto dell'America dalle tenebre del paganesimo.
Nel 1853 Ramón de Campoamor (1817-1901), celebrato poeta, oggi quasi del tutto dimenticato, pubblica a Valencia il poema Colón, in sedici canti e in ottave reali, poi più volte ristampato -nel 1859, 1882 e 1884-, segno evidente del successo riscosso tra il pubblico lettore, e comunque indice del clima che si andava maturando in Spagna in prossimità del IV Centenario della Scoperta.
I giudizi della
critica sul poema furono fin dall'inizio favorevoli. L'accademico
Severo Catalina, nella sua introduzione all'edizione del 1882,
scriveva, responsabilmente, che non si trattava di un'opera
perfetta, ma certamente notevole e sottolineava la corrispondenza
istintiva tra il poeta e la precettistica, sostenendo che il
Colón
non conteneva solamente la storia meravigliosa e le varie
vicissitudini del viaggio più rischioso mai intrapreso nei
secoli, ma che nel protagonista si poteva vedere l'umanità
dell'«ilustre navegante
del océano»
di fronte alla vita
contrariata dall'uragano delle passioni, ma protetta dall'influsso
felice delle virtù8.
Naturalmente la
valutazione del poema ha visto nel tempo diversi cambiamenti, di
pari passo con la fama del poeta. Se ancora negli anni cinquanta
del secolo XX vi era chi considerava Campoamor, con Zorrilla ed
Espronceda, una delle grandi figure del rinascimento lirico del
secolo XIX9,
già sul finire dell'Ottocento un critico come l'Oyuela
poneva in serio dubbio col valore del poeta quello del Colón, che
giudicava la più debole e difettosa delle sue opere,
affermando che «en vez de
ir al tema, para armonizar con él su concepción y
estilo, ha llevado el tema hasta él, impregnandolo de sus
personalísimas excentricidades, de su humorismo
filosófico y hasta de su capricho y travesuras de
estilo»
10.
Per tal modo, invece di un poema «objetivo» ne risultava una
poesia lirica molto «campoamoriana», una
«Dolora», che lo studioso argentino riteneva forma
assolutamente inadeguata per un'impresa «tan vasta y de
tan soberbia plenitud
histórica»
11.
Ancor minore
considerazione ha trovato il Colón in tempi recenti. Se ne è
preso gioco il Gárate Córdoba, che lo ha definito
«tremendo
poema»
12
e si è divertito a porne in rilievo le
manchevolezze13.
Che certamente sono molte, come l'assurda introduzione della
vicenda della mora Zaida, innamorata di Rodrigo de Triana, da
costui ricambiata ardentemente, mentre pure arde d'amore per lei
Nuno, che l'ha riscattata, e nel tentativo di eliminare il rivale
trova la morte. O l'intervento delle virtù teologali e la
curiosa comparsa del «genio» dell'Atlantide che, nel
Canto X, racconta del continente sommerso. Vicende e personaggi che
nulla hanno a che fare con Colombo e la scoperta. Aggiungiamo
ancora il discorso di Satana nel Canto IV, con la comparsa di
numerosi fantasmi nell'inferno del Teide, il vulcano di Tenerife;
il prolisso «riassunto», del tutto prescindibile, della
storia di Spagna nel Canto IX, dagli iberi all'«último suspiro del
Moro», e peggio ancora la «Revista de la Historia
Universal» nel Canto XII. E tuttavia, nel
panorama generalmente povero della poesia ispanica del secolo XIX
sul tema di Colombo e della Scoperta, il Colón di Campoamor è
degno di qualche attenzione, se ci atteniamo al puro argomento
colombiano. Il poeta celebra, infatti, con entusiasmo il grande
Navigatore e guarda con spirito cattolico e con patriottismo alle
sue gesta, contribuendo a rinverdire il mito dello straordinario
personaggio.
Anzitutto è giusto sottolineare l'originalità dell'avvio del Canto I, lento e immerso in un'aura di mistero, come l'introduzione a un'impresa che affrontava l'ignoto richiedeva. Seguendo probabilmente i poemi ispanici del secolo XVII di argomento religioso, come La Cristiada di Diego de Hojeda, poiché l'avventura colombiana era intesa all'insegna dell'evangelizzazione, non poteva essere che Dio l'ispiratore del canto:
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Il richiamo
gongorino finale chiude, si direbbe, «con broche de
oro»
l'invocazione. Ma i momenti riusciti
del poema sono diversi, anche se sparsi qua e là nella
farraginosa fatica poetica di Campoamor. Alludo, ad esempio,
all'efficace descrizione delle lunghe calme nella navigazione e
delle tempeste, della poca fede e della turbolenza dell'equipaggio,
dei segni che, seguendo il Diario colombiano, preannunciano la terra, fino
allo sbarco e alla presa di possesso del Nuovo Mondo per i re di
Spagna. Ciò che più reca danno al poema è
l'accumulo di presenze estranee, la serie forzata delle allegorie,
la retorica del patriottismo e la visione riscattatrice cristiana
della Scoperta. Ma sono stonature, queste ultime, che risaltano
soprattutto ai nostri occhi di uomini che ben diversamente
giudichiamo la storia e i rapporti tra i popoli. Più grave
è, invece, la mancanza di diversificazione dei personaggi, i
quali, già lo osservava l'Oyuela14,
non hanno alcuna relazione con la loro indole personale né
col tempo in cui si svolge l'azione.
Neppure la celebrazione del IV Centenario della Scoperta valse a dare nella poesia spagnola e ispanoamericana testi di maggior rilievo di quelli sin qui esaminati. I nomi di poeti che si dedicarono al tema colombiano non sono numerosi nella rassegna che ne fa Calixto Oyuela, e soprattutto non hanno prodotto alcunché di veramente degno di essere ricordato oggi.
Nell'ambito della creazione poetica in lingua catalana, invece, il grande lirico Jacinto Verdaguer (1843-1902) offre ne L'Atlántida (1877) un testo di valore singolare anche per quanto attiene al tema colombiano, benché il poema sia centrato sulla scomparsa del misterioso continente nel fondo dell'Oceano Atlantico. La scoperta delle terre americane da parte di Cristoforo Colombo inaugura un nuovo momento felice per l'umanità.
Il poema di
Verdaguer è stato sempre valutato positivamente dalla
critica, a partire dal difficile e caustico Marcelino
Menéndez y Pelavo, che lo paragonò a una cascata del
Niagara, definendolo un «torrente deshecho de
poesía»
, uno sforzo creativo
gigantesco, quindi, coronato da pieno successo.
Il tema colombiano compare nell'epilogo, la Conclusiò, dove il poeta richiama la figura del marinaio che racconta a Colombo la sua eccezionale esperienza, quella del fantomatico «pilota anonimo», e successivamente presenta il Somni d'Isabel, aprendo il poema su una prospettiva luminosa.
Nel primo dei due canti, intitolato Colom, già il verso iniziale immette in una atmosfera di rara poesia, presentando Colombo sospeso per quanto il buon vecchio gli ha raccontato:
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Il marinaio non è qui morente, ma un uomo pieno di fede nel suo interlocutore, che sprona all'impresa perché dia vita a un nuovo mondo. Infatti, Colombo è presentato come un Dio creatore: il suo «Fiat!» trarrà come dal nulla il mondo americano. Il grande sogno domina il Genovese; in lui trovano terreno fertile le parole del vecchio. Dal mondo sconosciuto sembra giungere per l'aria, sul racconto del marinaio, un inebriante profumo di luoghi paradisiaci. Per avere «dels palaus de Naptú la millor perla» il Navigatore è già disposto a varcare l'Atlantico:
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In breve sintesi sono richiamate le frustrate offerte del Genovese alla sua città, a Venezia e al Portogallo, all'ingrato re Giovanni II, e finalmente il sogno lo porta alla regina di Castiglia, Isabella, «la reina de les reines qui hi ha agut», l'unica che lo può aiutare. Al tempo stesso, la regina sogna. All'inizio del secondo canto, Somni d'Isabel, compare la mitica sovrana, un'immagine delicata avvolta di poesia e d'innocenza. Il canto si svolge raccolto, ricco di musicalità, nel racconto che la donna fa al re suo sposo:
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Ma l'uccelletto si
impadronisce del suo anello d'oro e se ne vola via; timorosa la
regina ne segue il volo fino alle onde dell'oceano, dove sorgono
isole in fiore. Qui l'uccello lascia cadere l'anello nelle onde,
poi cantando inni festivi corona con una ghirlanda la testa della
sovrana, che improvvisamente si sveglia. Interpretato il sogno come
preannuncio delle glorie future Isabella è presta a vendere
i suoi gioielli per finanziare il viaggio di Colombo. L'impresa
sarà compiuta e ora il vecchio marinaio può morire in
pace: «-Vola, Colom...
ara ja puc morir!»
Come si può vedere, favola e realtà tornano ad avvolgere ne L'Atlántida di Verdaguer la vicenda colombiana. Ma il pregio sta, qui, nella genuina ispirazione, nell'atmosfera che il poeta catalano ha saputo suscitare, senza appesantimenti retorici, presentando in efficace sintesi i fatti, con una levità d'accenti e di colori che si riflette su tutto il canto. Non ha torto il Gárate Córdoba di affermare che a volte sembra di star leggendo delle «cantigas», tale è la dolcezza, il ritmo del verso15.
Il poema di
Verdaguer è l'ultimo testo del genere epico nell'ambito
iberico e americano che possa essere definito «grande» opera letteraria,
anche se altri poemi furono pubblicati, come La Colombiada (1880), di
Felipe Trigo, il Colón, (1887) di Bernabé Demarfa, un
altro Colón, di Juan José García
Velloso (1850-1907), del quale tesse elogi Calixto Ovuela e lo
stesso Gárate Córdoba, che tuttavia lamenta di non
averlo potuto reperire. Un lungo poema in cento canti «breves y de
variados metros»
pubblica nel 1935, a
Madrid, in due volumi, dedicandolo all'Accademia Spagnola, il
«médico y
poeta» José Goyanes Capdevila, dal
titolo Los Atlantes,
Epopeya de los Castellanos por el Mar. Poema heroico del
Descubrimiento del Nuevo Mundo y Orbe e del quale l'eroe
principale è Cristoforo Colombo, con la cui morte si
conclude. Su questo come su altri poemi del genere è
giustificato sorvolare. Ben poca cosa sono anche i poemi di
José María Pemán (1898-1981) El Divino Impaciente (1935) e
El mensaje de la
Alegría, del Poema de la Bestia y el Ángel (1938),
ispirati a una sorta di mistica della missione ispanica, con
interventi profetici e personaggi simbolici: una poesia di
scoraggiante lettura.
Nella poesia lirica, sia di Spagna che d'America, diversi, anche se non numerosi, sono i riferimenti a Colombo e alla Scoperta, e col trascorrere del tempo sempre meno frequenti, in ambito americano, come celebrazione, tesi piuttosto a denunciare la negatività dell'arrivo degli europei, mano a mano che i Iatinoamericani, presa coscienza della loro condizione, si ribellano a essa. Il Gárate Córdoba, nel suo studio, ha incluso vari nomi di poeti, citando versi di ognuno sull'argomento di cui trattiamo, ma è forza riconoscere che pochi sono i testi di qualche interesse, se si eccettua l'elegia A Colón, che Rubén Darío (1867-1916) scrisse nel 1892, in occasione appunto del IV Centenario dell'impresa colombiana, e incluse poi nel Canto errante (1907).
Il Canto a España, del venezolano Andrés Eloy Blanco (1897-1955), con il quale vinse nel 1923 un certame poetico: pur alludendo alle caravelle della Scoperta, è in realtà ben poca cosa, tanto pesante è l'impegno laudatorio della Madrepatria. Peregrinamente il poeta paragona le navi di Colombo ai tre Re Magi che raggiunsero la grotta di Betlemme, dove era nato Gesù. Un irreale «cacique» osserva stupito e compreso al tempo stesso, l'evento: le caravelle colombiane guidate da Dio, governatore di ogni evento, e il mare, che al loro passaggio si apre
«como el Jordán herido por el manto de Elías / y el mar de los milagros al grito de Moisés!» |
. Un'America inedita attende felice i nuovi Re Magi. Nel suo entusiasmo il poeta sottolinea commosso il prodigio e l'incontro della Spagna con se stessa:
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Si comprende l'entusiasmo che in Spagna, tra i giurati del premio, il poema dovette suscitare: l'Annunciazione, i Re Magi, la nuova nascita del Salvatore nel Nuovo Mondo, sottolineava il carattere sacro dell'avventura di Cristoforo Colombo, predestinata al successo da Dio.
Ben diverso è l'atteggiamento di Darío e altro è il valore intrinseco della sua elegia allo Scopritore, che egli scrive in un momento particolarmente infelice per l'America, quando lotte fratricide e regimi dittatoriali travagliano molti dei Paesi formatisi dopo la guerra d'indipendenza dalla Spagna. Il massimo poeta del Modernismo non ripudia affatto l'apporto ispanico al continente, ma ritiene che con il sangue spagnolo sia entrata in America una rissosità che porta le sue popolazioni alla rovina:
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Il bilancio della
Scoperta è negativo, se «fraternizan los Judas con los
Caínes»
, se le «ambiciones
pérfidas no tienen diques»
e le
«soñadas
libertades yacen deshechas»
. Una visione
cupa, che porta il nicaraguense al ripudio di quanto ebbe inizio
con l'arrivo di Colombo e con la successiva conquista ispanica. La
preoccupazione di Rubén Darío per le sorti
dell'America dà al suo verso una drammaticità
convincente:
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Il poeta giunge, perciò, a mitizzare il tempo passato, evocando una irreale condizione idilliaca del mondo indigeno, con un risultato efficace di contrasto:
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Preda di un totale pessimismo, Darío vede travolte nel fango, con le libertà, anche la religione e la lingua. Rivolto a Colombo denuncia:
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Siamo ben lontani
dai ritmi vitalisti della Marcha triunfal e della Salutación del Optimista, che il
poeta include nei Cantos de vida y esperanza (1905): le «Ínclitas
razas ubérrimas, sangre de Hispania fecunda, /
espíritus fraternos, luminosas almas
/.../»
che Darío cantava nell'ultima
delle due liriche citate, si sono trasformate in generatrici del
male; il «reino nuevo» che
sembrava allora annunciarsi è disordine e rovina: una
fallita speranza. Né i «clarines» della
Marcha
triunfal hanno più ragione di celebrare con il loro
suono eroici guerrieri, se tutto intorno è canaglia.
Ben addentro il secolo XX un altro grande lirico, Pablo Neruda (19041973), farà duro riferimento alla Scoperta colombiana e alle sue conseguenze di dolore, nel Canto General (1950). Il grande poema s'inaugura con una rappresentazione vasta e intensamente poetica dell'America anteriore all'arrivo di Colombo, immersa in una pace patriarcale, immagine meravigliosa del Paradiso, dove l'uomo viveva nella più perfetta armonia:
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Vennero poi i
«carniceros» che
«desolaron las
islas», come Neruda denuncia in Los conquistadores, ma
già «macellai» furono gli uomini del Navigatore
e Guanahani la prima isola «en esta historia de
martirios»
.
Neruda denuncia, in «Vienen por las Islas (1493)» i soprusi ed i martiri:
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Il poeta cileno aderisce, è evidente, alla versione della conquista che dà nella Brevísima relación de la destrucción de las Indias il Padre Bartolomé de Las Casas, personaggio che nel Canto egli pone tra i «Libertadores», giungendo a invocarlo quale sostegno taumaturgico nella lotta che ha intrapreso in difesa dell'uomo:
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Dalle
profondità del dolore la Scoperta colombiana si trasforma
per Neruda in un tragico avvenimento. Cuba, «La alaja de
Colón, Cuba fosfórica»
fu
trasformata in «sangre y
ceniza». Un vento di tragedia sconvolge, in
«Ahora es Cuba», il
giardino della delizia, tutto distruggendo. Un clima apocalittico
domina i versi nerudiani, additando un vasto paesaggio di morte che
si impone sulla primitiva bellezza dell'isola:
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Neruda afferma una visione ben diversa da quella celebrativa dell'impresa di Cristoforo Colombo, un atteggiamento duramente critico che, indipendentemente dalle ideologie, era destinato ad accentuarsi polemicamente nella seconda metà del secolo XX e sempre più in vista del V Centenario.
Col poeta cubano
Eliseo Diego (1920) Colombo torna ad essere l'inventore del Nuovo
Mondo. Nella raccolta Los días de tu vida (1977) egli dedica una
lirica in tre tempi allo Scopritore, intitolandola, appunto,
«Cristóbal Colón inventa
el Nuevo Mundo». La scena è quella
dell'arrivo degli uccelli alla nave, dopo la furiosa tempesta:
annuncio di terra vicina per lo Scopritore, che accoglie il segno
della vita con trepidazione. Poi la luce in lontananza: Colombo
«ha visto una luz
donde no hay nada»
, una luce che egli
è andato cercando per tutta la vita, segno dell'intelligenza
umana. Ora che l'ha scorta, «solloza solo en la cubierta / mientras
el último de los pájaros se hunde vibrando en la
memoria»
.
Il terzo tempo della lirica presenta il Genovese sospeso davanti alla pagina bianca del suo Diario: «Cristóbal Colón siente el vértigo con que lo llama el abismo / de la página», poiché
Escribir la primera palabra será como empezar a no ser, como engendrar o como morir, los dos extremos que son una y la misma embriaguez, pavorosos principios, triunfos, catástrofes, glorias. |
Quando, finalmente, Colombo affonderà la sua penna d'oca nella pagina avrà inizio l'invenzione dell'America.
L'atteggiamento di Eliseo Diego nei confronti dello Scopritore non è di contestazione, anzi, si potrebbe dire «religioso». Il poeta sente l'emozione del grande momento degli inizi: l'America, infatti, incomincia per lui ad esistere dal momento in cui Cristoforo Colombo consegna alla pagina bianca del Diario, in attesa dai secoli, la sua visione. Poiché senza di lui il miracolo non sarebbe avvenuto.