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Colombo nella poesia spagnola e ispanoamericana

Giuseppe Bellini


Università di Milano



Ben poco sembra di dover aggiungere a quanto Calixto Oyuela, nel 1892, in occasione del IV Centenario della Scoperta, poi nel 1915, ha scritto nel suo Colón y la poesía1 e, successivamente, José María Gárate Córdoba in La poesía del descubrimiento2, Joaqufn Arce in Colón y la poesía española3. Per quanto concerne l'area linguistica che ci interessa il primo, fatta allusione a Juan de Castellanos e alle Elegías de Varones Ilustres de Indias, denunciava la povertà del «Siglo de Oro» quanto a poemi che trattassero di Colombo e della sua impresa:

No obstante haber coincidido el descubrimiento de América con la alborada de la edad áurea de nuestra literatura, ni un solo poema épico, entre la considerable cantidad de los que en el curso de dos siglos se compusieron en España, aparece destinado a cantar el gran acontecimiento que transformó la monarquía española en un magnífico y dilatado imperio.



Ma il critico aggiungeva anche che «No hay motivo alguno para suponer, sin embargo, que ese poema, dado que por entonces se escribiese, hubiera tocado la cumbre de perfección a que no pudieron alcanzar los mejores épicos literarios de España»4 .

Ciò nonostante ricordava alcune ottave de El Bernardo (1624), di Bernardo de Balbuena (1568-1627), autore ben più famoso per la Grandeza Mexicana (1604), poema nel quale celebra le meraviglie della città di Messico, e per il romanzo pastorale, sul modello dell'Arcadia del Sannazaro, El Siglo de Oro en las Selvas de Erifile (1608). Nel Bernardo il saggio Tlascalán predice al poeta, nel canto XIX, l'avvento di un uomo la cui «luz» aprirà prospettive meravigliose per il suo popolo, oltre che per la Spagna:


Suy luz abrirá el alba a nuestra gente,
Y el sol dará en los mundos del poniente.
Hará volar con soberanos fines
Del ligurio Colón los pensamientos,
Que mudando los hombres en delfines,
Domará el mar y enfrenará los vientos;



Come si vede, che Colombo sia ligure non è posto in dubbio e neppure che la sua impresa sia di giovamento alla nazione spagnola. Sotto questa luce tutto diviene positivo per Balbuena, anche la schiavitù degli indios, proposta da Colombo, se interpretiamo correttamente i versi:


Y llegando a las playas y confines
Que a este incógnito mundo dan cimientos,
Alegres, viendo su encubierta gente,
Della cargados volverán a Oriente.



Il buon saggio indigeno è tutto un elogio dell'impresa colombiana che sta predicendo, felice, si direbbe, di por fine al suo mondo, alle sue strutture e alla sua religione, interprete in tutto fedele del pensiero del poeta, che vede in Colombo, scopritore di un mondo nuovo, colui che ha fatto più grande la Spagna dandole un impero immenso. Perciò Tlascalán prosegue con entusiasmo trasparente, e certamente illogico:


Volverá a renacer el siglo de oro
Con el que sudará el suelo fecundo,
Y de ricas naves el tesoro
Gemir el golfo hará del mar profundo;
Y estos dioses sin alma, que hoy adoro,
Piedra a ser volverán en nuestro mundo,
Y en el suyo las nuevas maravillas
Nuevos asombros parirá el oíllas.
   Ya el prudente Colón, blanca paloma,
Pronóstico de paz a nuestra guerra,
La empresa de añadir a España toma
Del Nuovo Mundo la encubierta tierra.
¡Oh alma siempre feliz, preciosa forma
De la luz santa que el morir destierra!
Nazca de tu honor el rayo ardiente
Que la aurora ha de ser de nuestro oriente.



Come siamo lontani dalla dignità e dal senso di fine cosmica che i saggi indigeni esprimono nel drammatico colloquio sostenuto con i primi francescani giunti in Messico per dare avvio all'evangelizzazione! Nel famoso Coloquio de los Doce c'è un impressionante senso di tragedia, ben diverso dall'incosciente felicità del veggente Tlascalàn:


Somos gente vulgar,
somos perecederos, somos mortales,
déjennos pues ya morir,
déjennos ya perecer,
puesto que ya nuestros dioses han muerto.



Il trionfo di Colombo è visto apoteosicamente, invece, dal saggio indigeno-Balbuena, come giusta origine della nuova grandezza ispanica:


   Dé vuelta a su dichoso curso el cielo,
Y el vasto mar sus crespos golfos rinda,
Para que alumbre de su lustre el vuelo
La gente que ahora con la noche alinda:
Digno fervor de aquel heroico celo
Que a tu alma santos pensamientos brinda,
De dar paso al furor del mar profundo,
y a Castilla y León un nuevo mundo.



Versi non certo di straordinaria fattura, questi del Bernardo, carichi di scoperta retorica, una retorica che la nazionalità del Balbuena, vescovo e cittadino dell'Impero, d'altra parte, giustifica.

Nell'ambito della lirica vari poeti allusero a Colombo e alla scoperta, tra essi Góngora e Quevedo, ma il riferimento è soprattutto alle ricchezze che, dopo la conquista, incominciarono ad arrivare in Spagna. Mitici divennero il Perù e il monte del Potosf, dove si trovavano le più ricche miniere d'argento. Colombo fu, nella sostanza, nella poesia lirica spagnola, un riferimento occasionale e di poco significato, se eccettuiamo il sonetto «Túmulo a Colón», dove Francisco de Quevedo fa parlare una trave della nave del Genovese, ora triste compagna delle sue «sante» spoglie.

Ma per tornare ad opere più ampie dedicate a Colombo, vale a dire ai poemi, ricorderò, anche se di scarsa qualità artistica, El Nuevo Mundo (1701) del portoghese Francisco Botelho de Moraes y Vasconcelos, «rara avis», se non rarissima, nel vuoto facilmente spiegabile di inni a Colombo e alla scoperta spagnola nella letteratura portoghese. Scritto in lingua castigliana, il lungo poema -dieci libri, in ottave reali- è definito dall'Oyuela «extravagante en sumo grado, alegórico en su esencia y desesperadamente gongorino»5. In esso la figura di Colombo è, del resto, appena adombrata.

Neppure di rilievo sarà il Colombo del brasiliano Manuel de Araújo Porto Alegre, dato alle stampe a Rio de Janeiro, in due volumi, nel 1866: quaranta canti e un prologo, in versi sciolti. Nel poema si segue la vita di Colombo dalla resa di Granada alla morte dello Scopritore. Ne loda il verso «terso, puro y elegantísimo» l'Oyuela6, il quale non tralascia, tuttavia, di denunciare lo spirito settario dell'autore, in quanto accoglie ogni calunnia sui compagni del Genovese, trasformando questo in un essere soprannaturale, che porta a termine un'impresa quasi «por arte de encantamiento»7.

Per l'area ispanofona bisogna arrivare all'età romantica per trovare nuovamente qualche cosa di realtivamente valido sul tema di Colombo e della sua impresa, i Romances históricos (1837) del Duque de Rivas (1791-1865), dove è inserito il ciclo intitolato Recuerdos de un grande hombre, dedicato al Genovese. Si tratta di sei «romances» che il duca dedica al nipote don Cristóbal Colon y La-Cerda, marchese della Giamaica, discendente quindi dell'Ammiraglio delle Indie, e si comprende il fervore del poeta per il lontano ma prestigioso parente.

Il ciclo prende avvio dall'arrivo di Colombo, accompagnato dal figlioletto Diego, al convento della Rabida, dove è benevolmente accolto da frate Juan Pérez de Marchena, e segue poi la lunga avventura del Genovese presso la corte dei Re Cattolici, intenti alla conquista di Granada, fino al richiamo della regina Isabella, quando Colombo, persa ormai ogni speranza, stava per abbandonare definitivamente la Spagna. Viene finalmente l'autorizzazione regia all'impresa. Il toccante, e falso, sacrificio dei gioielli da parte della sovrana per allestire le tre caravelle, quindi la partenza. In un unico «romance» conclusivo è riassunta la peripezia del viaggio, la rivolta dell'equipaggio e l'avvistamento della terra americana. E evidente che ciò che interessava al poeta era porre in rilievo, con i ségni dell'eccezionale nella stessa figura, misera ma nobile, di Colombo, quelli della predestinazione divina e al tempo stesso quanto vane dovevano essere le opposizioni e le incomprensioni umane, frapposte al volere di Dio, che in Colombo aveva scelto l'uomo destinato a realizzare i suoi misteriosi fini.

Al di sopra dell'inevitabile retorica del patriottismo e del culto per i Re Cattolici, soprattutto per la mitica regina Isabella, il Duque de Rivas celebra con trasporto l'indomita natura dello Scopritore, strumento divino, e conclude con un inno entusiasta. Scoperta la terra, tutta la ciurma si getta ai piedi dell'uomo che prima aveva tentato di eliminare, e ne leva alte le lodi, concordi il cielo e la terra:


   Y arrojándose a sus plantas,
Del entusiasmo al impulso
Grita, y acordes repiten
Cielo y tierra y mar profundo:
¡Viva Colón, descubridor de un mundo!



Nulla di straordinario, s'intende, nei «romances» del Duque de Rivas, ma certamente un entusiasmo comprensibile ed encomiabile, e il riconoscimento pieno della «genovesità» dello Scopritore, insieme alle sue doti di uomo eccezionale, padrone di sé di fronte all'ignoto, alla furia degli uomini e degli elementi, che sembrano perversamente, e diabolicamente, opporsi alla sua impresa. Efficace la descrizione della tremenda burrasca, nella quale le onde, «como montañas», sembrano voler distruggere le minuscole caravelle, in uno scenario terrificante, dove unica luce sono i lampi. La sicurezza viene alle navi dalla bandiera di Castiglia, che sventola sull'albero maestro, afferma il poeta, infiammato nuovamente di patriottismo:


   Mas la frágil carabela
Sigue pertinaz su curso,
Y en tan espantoso caos
Lleva hacia Occidente el rumbo.
    Sin duda que se confía
En el talismán seguro
Del pabellón castellano
Que en su popa osado puso,
    Pabellón que en aquel siglo
Al Omnipotente plugo
Hacer de rara fortuna
Y de excelsas gloria nuncio.



Il Duque de Rivas non manca, tuttavia, nonostante il suo «spagnolismo», di celebrare l'eccezionalità del personaggio Colombo, in uno spirito pienamente legittimatore della scoperta come voluta da Dio, non solo per distinguere la Spagna tra le nazioni del mondo, ma per il riscatto dell'America dalle tenebre del paganesimo.

Nel 1853 Ramón de Campoamor (1817-1901), celebrato poeta, oggi quasi del tutto dimenticato, pubblica a Valencia il poema Colón, in sedici canti e in ottave reali, poi più volte ristampato -nel 1859, 1882 e 1884-, segno evidente del successo riscosso tra il pubblico lettore, e comunque indice del clima che si andava maturando in Spagna in prossimità del IV Centenario della Scoperta.

I giudizi della critica sul poema furono fin dall'inizio favorevoli. L'accademico Severo Catalina, nella sua introduzione all'edizione del 1882, scriveva, responsabilmente, che non si trattava di un'opera perfetta, ma certamente notevole e sottolineava la corrispondenza istintiva tra il poeta e la precettistica, sostenendo che il Colón non conteneva solamente la storia meravigliosa e le varie vicissitudini del viaggio più rischioso mai intrapreso nei secoli, ma che nel protagonista si poteva vedere l'umanità dell'«ilustre navegante del océano» di fronte alla vita contrariata dall'uragano delle passioni, ma protetta dall'influsso felice delle virtù8.

Naturalmente la valutazione del poema ha visto nel tempo diversi cambiamenti, di pari passo con la fama del poeta. Se ancora negli anni cinquanta del secolo XX vi era chi considerava Campoamor, con Zorrilla ed Espronceda, una delle grandi figure del rinascimento lirico del secolo XIX9, già sul finire dell'Ottocento un critico come l'Oyuela poneva in serio dubbio col valore del poeta quello del Colón, che giudicava la più debole e difettosa delle sue opere, affermando che «en vez de ir al tema, para armonizar con él su concepción y estilo, ha llevado el tema hasta él, impregnandolo de sus personalísimas excentricidades, de su humorismo filosófico y hasta de su capricho y travesuras de estilo»10. Per tal modo, invece di un poema «objetivo» ne risultava una poesia lirica molto «campoamoriana», una «Dolora», che lo studioso argentino riteneva forma assolutamente inadeguata per un'impresa «tan vasta y de tan soberbia plenitud histórica»11.

Ancor minore considerazione ha trovato il Colón in tempi recenti. Se ne è preso gioco il Gárate Córdoba, che lo ha definito «tremendo poema»12 e si è divertito a porne in rilievo le manchevolezze13. Che certamente sono molte, come l'assurda introduzione della vicenda della mora Zaida, innamorata di Rodrigo de Triana, da costui ricambiata ardentemente, mentre pure arde d'amore per lei Nuno, che l'ha riscattata, e nel tentativo di eliminare il rivale trova la morte. O l'intervento delle virtù teologali e la curiosa comparsa del «genio» dell'Atlantide che, nel Canto X, racconta del continente sommerso. Vicende e personaggi che nulla hanno a che fare con Colombo e la scoperta. Aggiungiamo ancora il discorso di Satana nel Canto IV, con la comparsa di numerosi fantasmi nell'inferno del Teide, il vulcano di Tenerife; il prolisso «riassunto», del tutto prescindibile, della storia di Spagna nel Canto IX, dagli iberi all'«último suspiro del Moro», e peggio ancora la «Revista de la Historia Universal» nel Canto XII. E tuttavia, nel panorama generalmente povero della poesia ispanica del secolo XIX sul tema di Colombo e della Scoperta, il Colón di Campoamor è degno di qualche attenzione, se ci atteniamo al puro argomento colombiano. Il poeta celebra, infatti, con entusiasmo il grande Navigatore e guarda con spirito cattolico e con patriottismo alle sue gesta, contribuendo a rinverdire il mito dello straordinario personaggio.

Anzitutto è giusto sottolineare l'originalità dell'avvio del Canto I, lento e immerso in un'aura di mistero, come l'introduzione a un'impresa che affrontava l'ignoto richiedeva. Seguendo probabilmente i poemi ispanici del secolo XVII di argomento religioso, come La Cristiada di Diego de Hojeda, poiché l'avventura colombiana era intesa all'insegna dell'evangelizzazione, non poteva essere che Dio l'ispiratore del canto:



   ¡En el nombre de Dios!, canto la gloria
de un nauta osado, inteligente y pío,
que de los sabios nubla la memoria,
que de los héroes oscurece el brío.
¡Nauta feliz, que eclipsara en la Historia
todo el valor, la ciencia y poderío
que en seis mil años, con jactancia vana,
fastuosa acumuló la especie humana!

   ¡En el nombre de Dios!, canto al que osado
aventó con su soplo omnipotente
el palacio de sombras encantado
donde dormía el sol en Occidente!
¡Canto al que el ansia hidrópica ha saciado
del codicioso y viejo continente,
dando a su afán en peremnal tesoro
sobre islas de coral montañas de oro!



Il richiamo gongorino finale chiude, si direbbe, «con broche de oro» l'invocazione. Ma i momenti riusciti del poema sono diversi, anche se sparsi qua e là nella farraginosa fatica poetica di Campoamor. Alludo, ad esempio, all'efficace descrizione delle lunghe calme nella navigazione e delle tempeste, della poca fede e della turbolenza dell'equipaggio, dei segni che, seguendo il Diario colombiano, preannunciano la terra, fino allo sbarco e alla presa di possesso del Nuovo Mondo per i re di Spagna. Ciò che più reca danno al poema è l'accumulo di presenze estranee, la serie forzata delle allegorie, la retorica del patriottismo e la visione riscattatrice cristiana della Scoperta. Ma sono stonature, queste ultime, che risaltano soprattutto ai nostri occhi di uomini che ben diversamente giudichiamo la storia e i rapporti tra i popoli. Più grave è, invece, la mancanza di diversificazione dei personaggi, i quali, già lo osservava l'Oyuela14, non hanno alcuna relazione con la loro indole personale né col tempo in cui si svolge l'azione.

Neppure la celebrazione del IV Centenario della Scoperta valse a dare nella poesia spagnola e ispanoamericana testi di maggior rilievo di quelli sin qui esaminati. I nomi di poeti che si dedicarono al tema colombiano non sono numerosi nella rassegna che ne fa Calixto Oyuela, e soprattutto non hanno prodotto alcunché di veramente degno di essere ricordato oggi.

Nell'ambito della creazione poetica in lingua catalana, invece, il grande lirico Jacinto Verdaguer (1843-1902) offre ne L'Atlántida (1877) un testo di valore singolare anche per quanto attiene al tema colombiano, benché il poema sia centrato sulla scomparsa del misterioso continente nel fondo dell'Oceano Atlantico. La scoperta delle terre americane da parte di Cristoforo Colombo inaugura un nuovo momento felice per l'umanità.

Il poema di Verdaguer è stato sempre valutato positivamente dalla critica, a partire dal difficile e caustico Marcelino Menéndez y Pelavo, che lo paragonò a una cascata del Niagara, definendolo un «torrente deshecho de poesía», uno sforzo creativo gigantesco, quindi, coronato da pieno successo.

Il tema colombiano compare nell'epilogo, la Conclusiò, dove il poeta richiama la figura del marinaio che racconta a Colombo la sua eccezionale esperienza, quella del fantomatico «pilota anonimo», e successivamente presenta il Somni d'Isabel, aprendo il poema su una prospettiva luminosa.

Nel primo dei due canti, intitolato Colom, già il verso iniziale immette in una atmosfera di rara poesia, presentando Colombo sospeso per quanto il buon vecchio gli ha raccontato:


Fineix als llavis del bon vell la historia,
i, com dormint lo somni de la gloria,
l'inspirat mariner no li respon,
es que, envolt amb la boira del misteri,
amb celisties i llum d'altre hemisferi,
dintre sa pensa rodolava un mon.



Il marinaio non è qui morente, ma un uomo pieno di fede nel suo interlocutore, che sprona all'impresa perché dia vita a un nuovo mondo. Infatti, Colombo è presentato come un Dio creatore: il suo «Fiat!» trarrà come dal nulla il mondo americano. Il grande sogno domina il Genovese; in lui trovano terreno fertile le parole del vecchio. Dal mondo sconosciuto sembra giungere per l'aria, sul racconto del marinaio, un inebriante profumo di luoghi paradisiaci. Per avere «dels palaus de Naptú la millor perla» il Navigatore è già disposto a varcare l'Atlantico:


jo tornaré l'Atlántic a pontar.
Desperta, humanitat: mira ta Eva
que d'un tálem de flors frairosa es lleva:
Adams dels continents, vés-la a abraçar.



In breve sintesi sono richiamate le frustrate offerte del Genovese alla sua città, a Venezia e al Portogallo, all'ingrato re Giovanni II, e finalmente il sogno lo porta alla regina di Castiglia, Isabella, «la reina de les reines qui hi ha agut», l'unica che lo può aiutare. Al tempo stesso, la regina sogna. All'inizio del secondo canto, Somni d'Isabel, compare la mitica sovrana, un'immagine delicata avvolta di poesia e d'innocenza. Il canto si svolge raccolto, ricco di musicalità, nel racconto che la donna fa al re suo sposo:



   Ella se posa la más als polsos,
com un ángel mig rient;
gira a Ferran sos ulls dolços,
i aixi diu-li géntilment:

   -A l'apuntar l'alba clara
d'un colom he somiat:
ai! mon cor somia encara
que era eix somni veritat.

   Somiava que m'obria
la mora Alhambra son cor,
niu de perles i armonia
penjat al cel de l'amor.

   Inspirant-me en eixos marbres
jo et brodava un rie mantell,
quan he vist entre verds arbres
rossejar un bonic aucell

   Saltant, saltant por la molsa,
me donava el bon matí:
sa veu era dolça, dolça
com la mel de romani.



Ma l'uccelletto si impadronisce del suo anello d'oro e se ne vola via; timorosa la regina ne segue il volo fino alle onde dell'oceano, dove sorgono isole in fiore. Qui l'uccello lascia cadere l'anello nelle onde, poi cantando inni festivi corona con una ghirlanda la testa della sovrana, che improvvisamente si sveglia. Interpretato il sogno come preannuncio delle glorie future Isabella è presta a vendere i suoi gioielli per finanziare il viaggio di Colombo. L'impresa sarà compiuta e ora il vecchio marinaio può morire in pace: «-Vola, Colom... ara ja puc morir!»

Come si può vedere, favola e realtà tornano ad avvolgere ne L'Atlántida di Verdaguer la vicenda colombiana. Ma il pregio sta, qui, nella genuina ispirazione, nell'atmosfera che il poeta catalano ha saputo suscitare, senza appesantimenti retorici, presentando in efficace sintesi i fatti, con una levità d'accenti e di colori che si riflette su tutto il canto. Non ha torto il Gárate Córdoba di affermare che a volte sembra di star leggendo delle «cantigas», tale è la dolcezza, il ritmo del verso15.

Il poema di Verdaguer è l'ultimo testo del genere epico nell'ambito iberico e americano che possa essere definito «grande» opera letteraria, anche se altri poemi furono pubblicati, come La Colombiada (1880), di Felipe Trigo, il Colón, (1887) di Bernabé Demarfa, un altro Colón, di Juan José García Velloso (1850-1907), del quale tesse elogi Calixto Ovuela e lo stesso Gárate Córdoba, che tuttavia lamenta di non averlo potuto reperire. Un lungo poema in cento canti «breves y de variados metros» pubblica nel 1935, a Madrid, in due volumi, dedicandolo all'Accademia Spagnola, il «médico y poeta» José Goyanes Capdevila, dal titolo Los Atlantes, Epopeya de los Castellanos por el Mar. Poema heroico del Descubrimiento del Nuevo Mundo y Orbe e del quale l'eroe principale è Cristoforo Colombo, con la cui morte si conclude. Su questo come su altri poemi del genere è giustificato sorvolare. Ben poca cosa sono anche i poemi di José María Pemán (1898-1981) El Divino Impaciente (1935) e El mensaje de la Alegría, del Poema de la Bestia y el Ángel (1938), ispirati a una sorta di mistica della missione ispanica, con interventi profetici e personaggi simbolici: una poesia di scoraggiante lettura.

Nella poesia lirica, sia di Spagna che d'America, diversi, anche se non numerosi, sono i riferimenti a Colombo e alla Scoperta, e col trascorrere del tempo sempre meno frequenti, in ambito americano, come celebrazione, tesi piuttosto a denunciare la negatività dell'arrivo degli europei, mano a mano che i Iatinoamericani, presa coscienza della loro condizione, si ribellano a essa. Il Gárate Córdoba, nel suo studio, ha incluso vari nomi di poeti, citando versi di ognuno sull'argomento di cui trattiamo, ma è forza riconoscere che pochi sono i testi di qualche interesse, se si eccettua l'elegia A Colón, che Rubén Darío (1867-1916) scrisse nel 1892, in occasione appunto del IV Centenario dell'impresa colombiana, e incluse poi nel Canto errante (1907).

Il Canto a España, del venezolano Andrés Eloy Blanco (1897-1955), con il quale vinse nel 1923 un certame poetico: pur alludendo alle caravelle della Scoperta, è in realtà ben poca cosa, tanto pesante è l'impegno laudatorio della Madrepatria. Peregrinamente il poeta paragona le navi di Colombo ai tre Re Magi che raggiunsero la grotta di Betlemme, dove era nato Gesù. Un irreale «cacique» osserva stupito e compreso al tempo stesso, l'evento: le caravelle colombiane guidate da Dio, governatore di ogni evento, e il mare, che al loro passaggio si apre

«como el Jordán herido por el manto de Elías / y el mar de los milagros al grito de Moisés!»


. Un'America inedita attende felice i nuovi Re Magi. Nel suo entusiasmo il poeta sottolinea commosso il prodigio e l'incontro della Spagna con se stessa:

   ¡Qué prodigio de azul!
Las carabelas
tienen azul arriba y abajo y adelante.
Sólo un blanco: las velas;
y un verdor de esperanza: el Almirante.
    ¡Quiero volver a España! -clamó la algarabía-,
porque no presentía en esa hora
que estando atrás España, su barca dirigía
hacia España la proa.
Y cuando al fin la Anunciación de Triana
fue de grímpola en grímpola, de mesana
en mesana, y en pleno mar la Isla irguió su flor,
para los Reyes Magos que buscaban su nido,
aquel mundo, del mar recién nacido,
fue como el de Belén, el Salvador.



Si comprende l'entusiasmo che in Spagna, tra i giurati del premio, il poema dovette suscitare: l'Annunciazione, i Re Magi, la nuova nascita del Salvatore nel Nuovo Mondo, sottolineava il carattere sacro dell'avventura di Cristoforo Colombo, predestinata al successo da Dio.

Ben diverso è l'atteggiamento di Darío e altro è il valore intrinseco della sua elegia allo Scopritore, che egli scrive in un momento particolarmente infelice per l'America, quando lotte fratricide e regimi dittatoriali travagliano molti dei Paesi formatisi dopo la guerra d'indipendenza dalla Spagna. Il massimo poeta del Modernismo non ripudia affatto l'apporto ispanico al continente, ma ritiene che con il sangue spagnolo sia entrata in America una rissosità che porta le sue popolazioni alla rovina:



   ¡Desgraciado Almirante! Tu pobre América,
tu india virgen y hermosa de sangre cálida,
la perla de tus sueños, es una histérica
de convulsivos nervios y frente pálida.

   Un desastroso espíritu posee tu tierra:
donde la tribu unida blandió sus mazas,
hoy se enciende entre hermanos perpetua guerra,
se hieren y destrozan las mismas razas.



Il bilancio della Scoperta è negativo, se «fraternizan los Judas con los Caínes», se le «ambiciones pérfidas no tienen diques» e le «soñadas libertades yacen deshechas». Una visione cupa, che porta il nicaraguense al ripudio di quanto ebbe inizio con l'arrivo di Colombo e con la successiva conquista ispanica. La preoccupazione di Rubén Darío per le sorti dell'America dà al suo verso una drammaticità convincente:


   ¡Pluguiera a Dios las aguas antes intactas
no reflejaran nunca las blancas velas;
ni vieran las estrellas estupefactas
arribar a la orilla tus carabelas!



Il poeta giunge, perciò, a mitizzare il tempo passato, evocando una irreale condizione idilliaca del mondo indigeno, con un risultato efficace di contrasto:


Libres como las águilas, vieran los montes
pasar los aborígenes por los boscajes,
persiguiendo los pumas y los bisontes
con el dardo certero de sus carcajes.



Preda di un totale pessimismo, Darío vede travolte nel fango, con le libertà, anche la religione e la lingua. Rivolto a Colombo denuncia:



   La cruz que nos llevaste padece mengua;
y tras encanalladas revoluciones,
la canalla escritora mancha la lengua
que escribieron Cervantes y Calderones.

Cristo va por las calles flaco y enclenque,
Barrabás tiene esclavos y charreteras,
y las tierras de Chibcha, Cuzco y Palenque
han visto engalonadas a las panteras.

Duelos, espantos, guerras, fiebre constante
en nuestra senda ha puesto la suerte triste:
[Cristoforo Colombo, pobre Almirante,
ruega a Dios por el mundo que descubriste!



Siamo ben lontani dai ritmi vitalisti della Marcha triunfal e della Salutación del Optimista, che il poeta include nei Cantos de vida y esperanza (1905): le «Ínclitas razas ubérrimas, sangre de Hispania fecunda, / espíritus fraternos, luminosas almas /.../» che Darío cantava nell'ultima delle due liriche citate, si sono trasformate in generatrici del male; il «reino nuevo» che sembrava allora annunciarsi è disordine e rovina: una fallita speranza. Né i «clarines» della Marcha triunfal hanno più ragione di celebrare con il loro suono eroici guerrieri, se tutto intorno è canaglia.

Ben addentro il secolo XX un altro grande lirico, Pablo Neruda (19041973), farà duro riferimento alla Scoperta colombiana e alle sue conseguenze di dolore, nel Canto General (1950). Il grande poema s'inaugura con una rappresentazione vasta e intensamente poetica dell'America anteriore all'arrivo di Colombo, immersa in una pace patriarcale, immagine meravigliosa del Paradiso, dove l'uomo viveva nella più perfetta armonia:



Antes de la peluca y la casaca
fueron los ríos, ríos arteriales:
fueron las cordilleras, en cuya onda raída
el cóndor o la nieve parecían inmóviles:
fue la humedad y la espesura, el trueno
sin nombre todavía, las pampas planetarias.

El hombre tierra fue, vasija, párpado
del barro trémulo, forma de la arcilla,
fue cántaro caribe, piedra chibcha,
copa imperial o sílice araucana.
Tierno y sangriento fue, pero en la empuñadura
de su arma de cristal humedecida,
las iniciales de la tierra estaban
escritas.



Vennero poi i «carniceros» che «desolaron las islas», come Neruda denuncia in Los conquistadores, ma già «macellai» furono gli uomini del Navigatore e Guanahani la prima isola «en esta historia de martirios».

Neruda denuncia, in «Vienen por las Islas (1493)» i soprusi ed i martiri:



Los hijos de la arcilla vieron rota
su sonrisa, golpeada
su frágil estatura de venados,
y aun en la muerte no entendían.
Fueron amarrados y heridos,
fueron quemados y abrasados,
fueron mordidos y enterrados.
Y cuando el tiempo dio su vuelta de vals
bailando en las palmeras,
el salón verde estaba vado.

Sólo quedaban huesos
rígidamente colocados
en forma de cruz, para mayor
gloria de Dios y de los hombres.



Il poeta cileno aderisce, è evidente, alla versione della conquista che dà nella Brevísima relación de la destrucción de las Indias il Padre Bartolomé de Las Casas, personaggio che nel Canto egli pone tra i «Libertadores», giungendo a invocarlo quale sostegno taumaturgico nella lotta che ha intrapreso in difesa dell'uomo:



Hoy a esta casa, Padre, entra conmigo.
Te mostraré las cartas, el tormento
de mi pueblo, del hombre perseguido.
Te mostraré los antiguos dolores.

Y para no caer, para afirmarme
sobre la tierra, continuar luchando,
deja en mi corazón el vino errante
y el implacable pan de tu dulzura.



Dalle profondità del dolore la Scoperta colombiana si trasforma per Neruda in un tragico avvenimento. Cuba, «La alaja de Colón, Cuba fosfórica» fu trasformata in «sangre y ceniza». Un vento di tragedia sconvolge, in «Ahora es Cuba», il giardino della delizia, tutto distruggendo. Un clima apocalittico domina i versi nerudiani, additando un vasto paesaggio di morte che si impone sulla primitiva bellezza dell'isola:



Por los valles de la dulzura
bajaron los exterminadores
y en los altos mogotes la cimera
de tus hijos se perdió en la niebla,
pero allí fueron alcanzados
uno a uno hasta morir,
despedazados en el tormento
sin su tierra tibia de flores
que huía bajo sus plantas.

Cuba, mi amor, qué escalofrío
te sacudió de espuma a espuma,
hasta que te hiciste pureza,
soledad, silencio, espesura,
y los huesitos de tus hijos
se disputaron los cangrejos.



Neruda afferma una visione ben diversa da quella celebrativa dell'impresa di Cristoforo Colombo, un atteggiamento duramente critico che, indipendentemente dalle ideologie, era destinato ad accentuarsi polemicamente nella seconda metà del secolo XX e sempre più in vista del V Centenario.

Col poeta cubano Eliseo Diego (1920) Colombo torna ad essere l'inventore del Nuovo Mondo. Nella raccolta Los días de tu vida (1977) egli dedica una lirica in tre tempi allo Scopritore, intitolandola, appunto, «Cristóbal Colón inventa el Nuevo Mundo». La scena è quella dell'arrivo degli uccelli alla nave, dopo la furiosa tempesta: annuncio di terra vicina per lo Scopritore, che accoglie il segno della vita con trepidazione. Poi la luce in lontananza: Colombo «ha visto una luz donde no hay nada», una luce che egli è andato cercando per tutta la vita, segno dell'intelligenza umana. Ora che l'ha scorta, «solloza solo en la cubierta / mientras el último de los pájaros se hunde vibrando en la memoria».

Il terzo tempo della lirica presenta il Genovese sospeso davanti alla pagina bianca del suo Diario: «Cristóbal Colón siente el vértigo con que lo llama el abismo / de la página», poiché

Escribir la primera palabra será como empezar a no ser, como engendrar o como morir, los dos extremos que son una y la misma embriaguez, pavorosos principios, triunfos, catástrofes, glorias.



Quando, finalmente, Colombo affonderà la sua penna d'oca nella pagina avrà inizio l'invenzione dell'America.

L'atteggiamento di Eliseo Diego nei confronti dello Scopritore non è di contestazione, anzi, si potrebbe dire «religioso». Il poeta sente l'emozione del grande momento degli inizi: l'America, infatti, incomincia per lui ad esistere dal momento in cui Cristoforo Colombo consegna alla pagina bianca del Diario, in attesa dai secoli, la sua visione. Poiché senza di lui il miracolo non sarebbe avvenuto.





 
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