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Abajo

La magia nel teatro romantico1

Ermanno Caldera





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La crisi della fede nella scienza che, col diffondersi del romanticismo, fu coinvolta nella più generale crisi dei valori culturali illuministici, trascinò con sé la fede nei poteri della magia.

Certo, le credenze magiche erano già state attaccate fin dal primo Settecento e, se Torres Villarroel aveva manifestato ironicamente il suo scetticismo nei confronti di esse, il padre Feijoo le aveva apertamente relegate fra gli «errori popolari» da confutare: «espantajo de las gentes y coco de adultos» le aveva definite.

Tuttavia, una sorta di convenzione o di compromesso letterario (teatrale soprattutto), assimilando la magia alla scienza, aveva permesso al mago di sopravvivere nelle comedias de magia senza contrasti troppo stridenti con i lumi del secolo, sia pure fra l'altezzosa irrisione dei dotti, cui peraltro si opponevano i frenetici applausi dei settori più ingenui del pubblico.

Al mágico delle commedie settecentesche venivano, in effetti, attribuiti atteggiamenti che, con un po' di buona volontà, si potevano considerare illuministici: spesso era infatti presentato come uno studioso (talvolta di fama universale come Abelardo), che si giovava della sua scienza per ristabilire la giustizia, essenzialmente aiutando i deboli contro i soprusi dei potenti: scienziato e filantropo dunque, in linea con gli orientamenti dell'epoca.

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Nel teatro della seconda metà del Settecento, già comincia un certo processo di revisione critica della magia: e come si possono incontrare personaggi i quali rinunziano ai poteri magici al fine di trionfare con le sole loro forze, così non è infrequente che l'onore e l'amore, o più in generale la dimensione umana, finiscano per avere la meglio sulla magia2.

Ci si può perfino imbattere in una figura di mago malvagio -l'opposto del filantropo originario- che pagherà il fio delle sue colpe sul filo della spada del protagonista, il quale sanzionerà in tal modo il trionfo delle arti cavalleresche su quelle magiche3.

L'avvento del romanticismo conclude questo processo e non solo per il rifiuto della scienza cui si accennava, ma anche per una forte istanza di realismo e di verità che accompagnò in Spagna il diffondersi del movimento. Non dimentichiamo che fin dai primi manifesti del romanticismo spagnolo e poi, giù giù, lungo tutto il dipanarsi delle polemiche nel corso degli anni Trenta e in particolare delle satire di giornalisti e di commediografi, vengono pervicacemente respinti gli spettri e le presenze preternaturali che avevano invece incontrato un discreto successo di là dai Pirenei.

Proprio una siffatta pregiudiziale opposizione decretò il fallimento dell'Alfredo, il dramma con cui Joaquín Pacheco tentava d'introdurre sulle scene spagnole, nel 1835, i temi del satanismo romantico.

L'autore vi tracciava una storia di sangue e di incesto che si svolgeva alla sinistra presenza di un certo Griego, essere enigmatico e torvo, fra apparizioni di fantamsi, sconvolgimenti della natura, canti profetici di un misterioso pellegrino. Il pubblico non accettò queste violazioni della realtà e della razionalità e un critico dell'Eco del Comercio, commentando l'insuccesso dell'opera, ne lamentava appunto le inverosimiglianze e si domandava ironicamente dove mai si potesse trovare un

cadáver de cualquiera clase que resuscite y se presente a los vivos.


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E soggiungeva:

¿Se querrá acaso volvernos al siglo de los duendes, brujas y almas en pena?4


L'Alfredo non era propriamente un'opera di magia, in quanto quel Griego che era evidentemente un manipolatore di forze occulte possedeva più le caratteristiche del demonio che del mago5, ma sfiorava ugualmente quei temi preternaturali che del teatro di magia erano l'ingrediente fondamentale: il suo insuccesso sta pertanto a dimostrare come qualsiasi opera seria che contrastasse con l'istanza del realismo fosse destinata al fallimento.

Sta di fatto che (eccezion fatta per l'Estrella de Oro di cui si tratterà più avanti) nei drammi che andarono in scena in quello stesso periodo -proprio all'inizio dunque della nuova drammaturgia romantica- le poche figure di maghe o di streghe che vi compaiono (si tratta solo sempre di donne) hanno un valore per così dire di ricostruzione storica. Tale la maga morisca che in Blanca de Borbón di Espronceda canta scongiuri e invia il figlio a uccidere la regina; tale la gitana del Trovador, figlia a sua volta di una strega bruciata sul rogo dell'Inquisizione; tale infine, in Carlos II el Hechizado, l'innocente Inés che il torvo prete don Froilán fa arrestare come maga solo perché rifiuta di sottostare alle sue voglie. In quest'ultimo caso poi, il tema della magia giova semplicemente a ricreare un clima di ignoranza superstiziosa opportunamente fomentata dai mestatori di palazzo; e in questo clima rientrano pure la voce sparsa ad arte che il re sia stato stregato per mezzo del cioccolato, i trucchi di cui ci si avvale per colpire la debole mente del sovrano, sempre disposta a vedere l'evento miracoloso, nonché i processi inquisitoriali sullo sfondo di sinistri autos de fe.

Sul versante comico, il discorso può invece essere notevolmente diverso. È chiaro che persone scettiche nei confronti della magia la potevano accettare in chiave comica o parodistica oppure in un'interpretazione essenzialmente simbolica.

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Non a caso tali furono, in gran parte, le caratteristiche delle commedie che, dopo una lunga pausa di creatività, salirono alle scene spagnole sul finire degli anni Venti.

Lo spirito nuovo che animava queste opere era certamente un prodotto dei tempi, ma un'influenza più diretta su di esse dovette essere esercitata da Le pied de mouton di Martainville e Ribié che, considerato lo strepitoso successo ottenuto a Parigi e la sua diffusione negli ambienti teatrali di Madrid6,

E Le pied de mouton suggeriva agli autori spagnoli la possibilità di una prospettiva diversa, di sostituire al tono serioso della tradizionale comedia de magia il piglio leggero e festivo della féérie parigina.

Uno dei primi, forse il primo, ad attingere a questa fonte fu Rafael Humara y Salamanca: costui, nel gennaio del 1825, mandò in scena quel Genio Azor, o El protector caprichoso7 che ebbe tra i suoi spettatori il giovane Hartzenbusch, il quale ne avrebbe tratto, più tardi, stimolo per comporre a sua volta comedias de magia8.

La prima scena dell'opera sembra davvero ispirata alla celebre commedia francese, di cui ripete la situazione iniziale, immaginando che il protagonista sia fermato da un provvidenziale genio nel momento in cui sta per uccidersi a causa di una disperazione amorosa9.

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Ma più romantico, ormai, del suo modello, il giovane arabo Osmín spiega le ragioni del gesto che sta per compiere, con parole degne di Werther:


Voy a descansar que es tiempo,
pues sufro desde que vivo,
y sufrir tanto no quiero.


E aggiunge, come un qualsiasi eroe romantico:


Amo un imposible hermoso
que reina en mi ardiente pecho.


(II, 1)                


Questo 'imposible' è la principessa Zoradina che, com'è naturale, Osmín riuscirà infine a impalmare con l'appoggio di Azor; il quale tuttavia, da «protector caprichoso» qual è, si diverte a giocare al suo stesso protetto tiri burloni che perseguono soprattutto lo scopo di prolungare le peripezie per i tre atti. D'altronde, apprendiamo che il primo scherzo Azor l'aveva giocato al protagonista fin dall'infanzia; da quando cioè questo, che è in realtà Seldor, rampollo di nobile casato rapito e poi abbandonato dai beduini, era stato allevato da lui, Azor, senza che mai gli rivelasse la verità sui suoi illustri natali,


pues para ser virtuoso,
para conservar intacta
la inocencia, y ser igual
en fortuna y en desgracia
ser rico y noble es dañoso,
y ser hombre y pobre basta.


(III, 10)                


Burlone e moralista, Azor continua dunque in questa curiosa protezione che consiste nel favorire l'amore di Osmín-Seldor, ma   —190→   anche nel frapporre vari ostacoli: gli fa assumere l'aspetto di uno zio di Zoradina, che pertanto respinge adirata le sue dichiarazioni amorose, trasforma in uno stivale la rosa donata dalla fanciulla e, al momento delle nozze, sostituisce la sposa con un negro deforme. Ottiene così lo scopo che spiega nelle raccomandazioni con cui si chiude la commedia:


goza la dicha de ser
amado de la que amas;
la persecución, los sustos
de tu existencia agitada
de la virtud y placer
te han enseñado las trazas,
pues nadie gusta la dicha
si con penas no la alcanza.


Sulla scia del Genio Azor, pochi anni dopo venivano rappresentate, rispettivamente nel 1829 e nel 183010, La pata de cabra ed El Diablo verde. Todo lo vence amor o La pata de cabra11 (libera versione, com'è noto, dell'opera di Martainville, che veniva a sostituire la vecchia traduzione, probabilmente più letterale, de La pata de carnero) era la storia di due innamorati, i quali, grazie a un curioso talismano -una zampa di capra, come dice il titolo- fornito loro del dio Cupido, riuscivano a coronare il loro sogno d'amore sconfiggendo un grottesco pretendente blasonato e un altrettanto ridicolo tutore della fanciulla.

Nel Diablo verde o Lo necesario y lo superfluo12 (e analogamente in un'altra versione leggermente diversa dal titolo El mágico y el cestero), ambientato nuovamente, come l'Azor, in Oriente, il povero cestaio Hacenday riesce a ottenere, con l'aiuto di un buffo genio   —191→   -il diavolo verde, per l'appunto- una bella schiava, un meraviglioso palazzo e ricchezze a profusione finché, avendo ecceduto nelle sue pretese, viene privato di ogni cosa. Tuttavia, in omaggio allo happy end, finisce per riottenere, insieme all'amata Zaira, il più contenuto benessere di una casa decente e di un 'esistenza agiata.

Il fatto nuovo che immediatamente colpisce in queste prime commedie è l'assenza o lo svuotamento della figura del mago.

Veramente Azor, nelle intenzioni dell'autore, dovrebbe mantenere le caratteristiche del mago tradizionale: infatti, alla domanda rivoltagli da Osmín se egli sia uomo o genio, risponde di essere uomo e soggiunge, come tanti mágicos precedenti:


en la cima del Tauro
estudié la inmensa ciencia
de Zoroastres el mago.


(II, 14)                


Senonché, il suo comportamento ambiguo, che fa pensare più a un duende che a un essere umano, autorizza il dubbio di Osmín e, conseguentemente, dello spettatore; forse perfino dell'autore, visto che lo definisce «genio» fin dal titolo. In ogni modo è certo che in questa commedia la figura tradizionale del mago è per lo meno in crisi.

Quest'aspetto si accentua notevolmente nelle due commedie successive; infatti, nel Diablo verde, il mago svolge una funzione del tutto marginale, mentre nella Pata compare, verso la fine, come un debole e comico antagonista, cosciente dei propri limiti, costretto cioè a riconoscere che le sue arti non possono fornire la felicità, che è invece appannaggio degli affetti familiari, della rettitudine, dell'onore, del culto delle lettere e delle scienze.

In ogni caso poi, il potere del mago è sostituito da un rapporto diretto fra il protagonista e il suo genio tutelare, il quale tende così a divenire una sorta di simbolo dei sentimenti e dei comportamenti umani: dell'amore, nella Pata, del dilemma fra moderazione e avidità nel Diablo; delle due cose insieme, entro certi limiti, nell'Azor.

Perfino il parodistico talismano che Cupido concede al giovane protagonista della Pata de cabra non è altro, in fondo, che un vago simbolo dell'amore. Don Juan infatti non compie magie per mezzo suo come facevano i magni tradizionali con anelli, bacchette, fazzoletti   —192→   e simili, ma si limita a seguire gli impulsi del cuore: la zampa miracolosa opera, di volta in volta, il sortilegio onde proteggere l'amore dei due giovani. D'altronde Cupido l'aveva avvertito fin da principio che il talismano non gli avrebbe obbedito ma che «obrará cómo y cuándo mejor convenga para tu bien».

Analogamente, nell'Azor e nel Diablo, la magia si realizza al di fuori e quasi all'insaputa del protagonista, il quale si limita a formulare le sue richieste al genio protettore.

Non è pertanto fuor di luogo affermare che il vero stimolo di ogni operazione magica sono i sentimenti di Osmín e di Hacenday, così come gli smodati desideri di quest'ultimo sono la causa della distruzione dell'intero edificio costruito dalla magia.

Ciononostante le operazioni magiche non mancano. Non molto frequenti né particolarmente funzionali nell'Azor, acquistano invece maggior rilievo nell'opera di Grimaldi, la quale non lesina certo l'impiego della tramoya e di tutti quei trucchi scenici che il Settecento aveva usato con particolare dovizia. Tuttavia, tanto nella prima quanto nella seconda, affiora lo scetticismo degli autori che ormai indirizzano la magia prevalentemente a effetti comici. Se infatti, nella commedia di Humara y Salamanca, la magia è posta per lo più al servizio degli scherzosi «capricci» del Genio, nella Pata chi fa le spese dei poteri magici conferiti alla zampa di capra è Don Simplicio Bobadilla Majaderano y Cabeza de Buey, il ridicolo rivale di Juan, che vede sparire i piatti verso cui si protende affamato, o comparire figure che gli altri non vedono per cui passa per visionario; che rimane sospeso alla grata di una finestra che improvvisamente si solleva; che è trasportato fin sulla luna dal suo stesso berretto trasformatosi in un pallone.

Nel Diablo verde perdura invece la tradizione, propria di questo genere di teatro, degli effetti scenografici sontuosi, dei voli dei personaggi, dei cambi di scena repentini: elementi non ignoti neppure al Genio Azor o alla Pata de cabra, dove tuttavia compaiono, in genere, solo marginalmente.

Sotto quest'aspetto, il Diablo verde è ancora abbastanza legato alla tradizione settecentesca, da cui tuttavia si distacca per l'intento moraleggiante che accompagna le diverse operazioni magiche e per l'insegnamento che attraverso di esse intende impartire agli spettatori: che chi troppo vuole nella stringe.

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D'altra parte, abbiamo visto che un messaggio di moralità scaturisce spesso dalle pagine del Genio Azor; a sua volta anche Grimaldi sembra volerlo lanciare dalla sua opera la quale non a caso si chiude con l'affermazione già contenuta nel titolo (e che è la tesi dell'intera commedia) che


Todo lo vence amor.


Ma infine ciò che contraddistingue queste opere contrapponendole in maniera netta a quelle del secolo precedente è il carattere borghese della loro sensibilità, delle loro aspirazioni e delle prospettive esistenziali entro cui si muovono. Se infatti nell'Azor e nel Diablo verde compaiono ancora sultani, califfi e palazzi meravigliosi, sono osservati con l'occhio del borghese ottocentesco che oppone la sua modesta aspirazione a quella limitata agiatezza e a quel medio benessere che finiscono per essere, nel Diablo (ma sostanzialmente anche nell'Azor) la dimensione esistenziale in cui si risolve l'avventura del protagonista. La Pata poi prospetta i semplici ideali di due giovani del ceto medio e non si stanca di satireggiare le tronfie e assurde pretese di un'aristocrazia il cui ruolo è ormai tramontato.

E lo spirito borghese che anima queste opere è, in fondo, la ragione principale del loro moralismo.

Moralismo e comicità sono peraltro gli indizi di quel processo di infantilizzazione del genere, di cui discorre il Caro Baroja13. Un tale processo si va gradualmente accentuando nelle commedie di magia che, dopo un decennio di silenzio, si riprese a comporre tra la fine degli anni Trenta e il principio dei Quaranta, quando ormai il movimento romantico si avviava verso l'estinzione.

La redoma encantada14, che Hartzenbusch mandò in scena nel 1839, a soli due anni dall'eccezionale successo del suo dramma, Los Amantes de Teruel, è satirica e parodistica dal principio alla fine. Satira della nobiltà che continua a credere nei privilegi di casta,   —194→   satira politica (a un personaggio che viene definito «el primer ministro tonto que hubo en España» viene obiettato: «De antiguo datará S. E.»), parodia dei drammi contemporanei con i loro finali rimbombanti15, del linguaggio arcaizzante, dell'amore romantico16; ma soprattutto parodia delle comedias de magia e della pratica stessa della magia.

È questo anzi il tema centrale dell'opera, in cui si narra che Garabito, un umile artigiano, inciampando in una madia piena di un liquido magico, viene trasformato nell'arcimaga Marizápalos. Come tale, presiede una confusa e disordinata assemblea di maghi, nel corso della quale viene decisa la cessazione della magia in Spagna e i vari intervenuti optano per mestieri più comuni. Poi rompe il matraccio in cui è rinchiusa da secoli l'anima del marchese di Villena; questi, ormai libero e ritornato alle fattezze di un tempo, si giova del suo anello magico per riportare a sua volta Garabito alle primitive sembianze. Da questo momento ha inizio una serie di avventure incentrate sull'amore fra Villena e una certa Dorotea e sulla rivalità del conte de la Viznaga, che arriva a incarcerare l'antico mago. Ma Garabito, che sopraggiunge trasportato da un corvo, pronunziando a caso il primo di tre versetti magici, libera tutti e li fa ritrovare nell'antico, solenne palazzo del Marchese, il quale finisce per dichiarare a Dorotea che, per amor suo, rinunzierà alle arti magiche.

Due rinunzie alla magia, nel corso della commedia, sono di per sé significative; ma lo sono altrettanto le molteplici operazioni magiche che si svolgono all'insegna della comicità, fin da quell'inciamparsi nella madia incantata, che dà l'avvio ai diversi prodigi. Come già nella Pata de cabra, la magia si esercita soprattutto nei confronti dei personaggi odiosi e ridicoli: qui il conte e il suo servo Laín, rinchiuso il primo in una gabbia che Laín è costretto a trasportare,   —195→   il secondo gettato nell'inferno, malmenato, stordito dal fatto che Garabito ne he preso le fattezze e via dicendo.

Ma anche il protagonista, Garabito, è l'interprete di vicende magico-comiche. Oltre a essere trasformato nell'arcimaga, viene fucilato ma il suo corpo riappare attraverso il camino in vari pezzi che si vanno ricomponendo. Indovina uno dei versetti che formano l'incantesimo per puro caso. Chiede una tavola imbandita, ma il suo pranzo è continuamente interrotto da prodigi di vario genere. Quando Villena gli offre la possibilità di vedere esauditi tre desideri, commette un errore dopo l'altro. Dapprima formula il desiderio di mangiare un vitello e puntualmente un intero vitello gli viene servito. Capisce di avere sprecato un'occasione, si dà della bestia e si lascia sfuggire che gli manca solo la coda. Ed ecco che una coda gli spunta, per cui non gli resta che esprimere il terzo desiderio, auspicando che tale appendice gli venga tolta.

Come si desume da quest'ultimo motivo, Hartzenbusch introdusse nel tronco delle comedias de magia un filone di origine fiabesca: d'altronde, egli stesso confessò di essersi ispirato a Perrault e a M.me Beaumont. E anche questo contribuì, per la sua parte, al processo di infantilizzazione.

Sotto la spinta del rilevante successo che arrise alla Redoma, Hartzenbusch fece rappresentare, due anni dopo, Los polvos de la madre Celestina17 un'opera che riproponeva la sicura formula già sperimentata dalla Pata de cabra: l'amore di due giovani semplici e simpatici, inutilmente contrastato da esseri buffi e antipatici.

Nella fattispecie, Teresa e Garda (quest'ultimo un poeta idealista); aiutati dalla Follia, riescono a sconfiggere il pretendente Don Junipero e il cognato e tutore di Teresa, il farmacista Don Nicodemus, nonostante l'appoggio loro offerto dall'antica Celestina, che il poeta immagina condannata a vivere in un'eterna vecchiezza.

Anche in questo caso, come era già accaduto per l'opera di Grimaldi, l'ispirazione veniva dalla Francia e precisamente da certe Pillules du diable -evidente imitazione de Le pied de mouton già tradotte e rielaborate, forse dallo stesso Hartzenbusch. Il quale,, ne Los polvos de la madre Celestina compiva l'opera di una rielaborazione   —196→   più complessa e personale, non solo sostituendo il talismano (anziché pillole, polveri da annusare), ma soprattutto ispanizzando la commedia attraverso frequenti parodie del teatro del Siglo de Oro e contemporaneo. In particolare, i più celebri passi de La vida es sueño calderoniana ricompaiono qui stravolti in direzione comica e messi in bocca a personaggi buffi.

È chiaro che, in queste condizioni, l'argomento, già trattato con mano leggera e su di un registro giocoso dallo scrittore francese, si smitizza ulteriormente e viene investito da una luce di comicità intensa.

La quale è inoltre ribadita, al solito, dal particolare tipo di operazioni magiche che hanno per ispiratrici Celestina e la Follia. Un buon numero di esse appare ispirata a quell'espediente dell'apparizione-sparizione che gli inglesi chiamano «peep-bo»18 e che è uno dei più tipici giochi infantili. Oltre ai soliti viveri e bevande che si allontanano o spariscono quando un commensale tenta di afferrarli, oltre a sedie che sfuggono quando qualcuno tenta di sedervisi, oltre a panni che spariscono e vengono ritrovati addosso a un personaggio, qualcosa di simile accade alla stessa persona di Don Junipero (che è, insieme ai suoi accoliti, lo zimbello di questo tipo ili magie), il quale, spiaccicato da un'esplosione contro la parete, non ne può essere staccato perché ogni volta che ci si avvicina, il suo corpo si sposta.

Ma gli accade pure di essere ricoverato in una stanza d'ospedale, le cui finestre si spalancano per far entrare il più insopportabile frastuono, cui succede una calma totale all'arrivo della persona responsabile: oppure viene trasformato in pavone, mentre il garzone Damiàn viene rinchiuso in un'enorme siringa; o si rivolge a un'osteria in cui serve giganti gli servono il rinfresco su tavoli irraggiungibili, che saranno subito dopo sostituiti da tavoli giocattolo serviti da cameriere nane. E via discorrendo.

Quasi a completare l'opera di demolizione della magia che questi episodi sottintendono, la commedia si conclude, alla stessa stregua della Redoma, con una esplicita rinunzia alle arti magiche. Essa riguarda Celestina che, dopo aver convinto Don Junipero a sposarla,   —197→   quando viene baciata dallo sposo -invero alquanto riluttante- si trasforma in una giovane piacente ma, insieme all'orrenda bruttezza, perde pure i suoi antichi poteri: d'ora in poi, come commenta la Follia, potrà soltanto «hechizar a su marido».

Il motivo magico non mancò di tentare pure uno degli ingegni più fertili e festivi del romanticismo spagnolo: Manuel Bretón de los Herreros che, alla fine dello stesso anno 1841, faceva rappresentare La pluma prodigiosa19, «gran comedia de magia en tres actos», come la definitiva in maniera scherzosamente pomposa.

Bretón riprendeva certi temi che nel secolo precedente avevano decretato il successo delle comedias de magia; li riprendeva probabilmente attraverso la mediazione del dramma contemporaneo che per alcuni aspetti ne era stato l'erede: non vi mancano infatti né un'opportuna agnizione, né una fuga per mare, né la sfruttatissima mazmorra; tra i personaggi compaiono mori e moriscos (come nelle commedie di magia esotiche, ma anche nei recenti drammi Los Amantes de Teruel e La morisca de Alajuar) e perfino una gitana fornita di poteri magici, come nella settecentesca Juana la Rabicortona e nel più recente Trovador.

Ma anche Bretón finisce per fare appello ai modelli semiologi offerti dalla fiaba. Alla base della trama sta infatti un talismano rappresentato da una penna che consente al protagonista, il giovane Gonzalo, di ottenere ciò che vuole scrivendo nell'aria. Solo, l'avverte la gitana che è una specie di maga o meglio di intermediaria e di interprete della magia, gli sono vietati tre desideri. La trattazione antitradizionale del motivo fiabesco dei tre desideri (in luogo della solita concessione di formularli, qui ne viene espressa la proibizione) trova un suo corrispettivo nel comportamento di Gonzalo che per tre volte esprime la sua aspirazione a cose assurde: essere poeta, divenire immortale e trasformarsi in donna. Ogni volta, per punizione, gli viene sottratta la penna che tuttavia gli sarà regolarmente restituita.

L'espediente della penna-talismano è naturalmente la molla della vicenda, la quale tuttavia si snoda attraverso moltissime peripezie in   —198→   cui sono coinvolte la coppia seria (o, per meglio dire, semiseria) Gonzalo-Elvira, e quella comica rappresentata dall'amico di Gonzalo, Buitrago, e da Aldonza, una fanciulla che lo insegue continuamente mentre egli tenta in ogni modo di sfuggirla. La commedia finirà, come c'era da attendersi, con le nozze di entrambe le coppie. A quel momento, la penna magica, in maniera veramente emblematica, se ne volerà via: ancora una volta, l'amore l'ha spuntata sulla magia.

La quale, al solito, si esercita in prevalenza e in forma grottesca sul personaggio comico, qui Buitrago, spesso guidata da una qualche forza superiore che non è dato conoscere ma che forse l'autore vorrebbe romanticamente identificare con la forza del destino20.

Tema ricorrente di questi incantesimi è la persecuzione di Buitrago da parte di Aldonza: accade così che, all'arrivo del giovane, un roseto si trasformi in una finestra da cui si affaccia la fanciulla; che un uccellacelo sottragga a Buitrago la penna che Gonzalo gli aveva prestato e che il giovane si ritrovi improvvisamente fra le braccia di Aldonza; che, esasperato, egli le tagli la testa, ma che la gitana gli imponga di farla rivivere baciandola.

La stagione romantica delle commedie di magia si chiude un po' più fiaccamente con la terza opera di Hartzenbusch: Las Batuecas21, salita alle scene nel 1843.

Se una caratteristica delle opere precedenti che abbiamo esaminato era la scarsa presenza o, in ogni modo, la deficiente incisività della figura del mago (che, al più, rimane sullo sfondo e non scatena col suo gesto le forze occulte come facevano Pedro Vayalarde o Juan de Espina), si direbbe che, ne Las Batuecas, Hartzenbusch abbia inteso rovesciare la situazione: infatti vi fa agire ben tre maghi, Virtelio, Sofronio e Fortunio, i quali proteggono rispettivamente Lucia (la virtù), il suo fidanzato Mateo (la sapienza) e Paulino, un asino cui il suo protettore ha concesso sembianze umane (la fortuna). La commedia ci fa assistere alla graduale ascesa dell'asino umanizzato, finché un colpo di scena con tanto di agnizione ribalta le sorti e Mateo può sposare l'amata Lucía, mentre Paulino riprende le primitive spoglie animali.

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Tuttavia, nonostante il terzetto di maghi, cui se ne aggiungono altri nel corso dell'opera, la loro funzione è anche qui abbastanza ridotta: sebbene infatti si dia per sottinteso che le varie operazioni magiche nascono dalle loro volontà contrapposte, lo spettatore ha l'impressione che esse si svolgano indipendentemente dal loro intervento; peraltro, occorre aggiungere, la funzionalità di tali operazioni, ai fini dello sviluppo della trama, è relativamente scarsa.

Prevale invece il consueto sfruttamento comico della magia. Non mancano, ovviamente, i soliti procedimenti dell'apparizione-sparizione o altri analoghi. Paulino, per esempio, cerca invano di afferrare una casseruola posta su di un tavolo che prende a girare su se stesso; il tronco su cui si siede si solleva e lo costringe a stare in piedi; la scala su cui tenta di salire dapprima si ritira dinanzi al suo piede e poi sprofonda; le frittelle che sta per addentare sparano e così via.

Anche Mateo è talvolta vittima di questi scherzosi incantesimi: quando, all'inizio, tenta di baciare Lucía, gli spunta un naso enorme che glielo impedisce; quando tenta di abbracciarla, il corpo di lei si ricopre di pericolosi spunzoni.

Infine, basterebbe leggere la seguente didascalia per avvertire il tono dominante di talune scene:

Conviértense los jueces en burros, la mesa en pesebre y la lonja en cuadra, y a todos los batuecos les salen orejas de asno.


(II, p. 39)                


Con tutto ciò, l'opera procede con poco smalto, indice di un'ispirazione che va declinando. I tentativi di ravvivarla col ricorso alla fiaba (intervengono il re degli gnomi e la regina delle salamandre; si fa riferimento alla solita prescrizione ternaria: qui si tratta di tre sbadigli), con allusioni satiriche alla vita sociale e politica, con motivi desunti dai drammi contemporanei (come nel Trovador, qui una strega ha sostituito il proprio figlio a quello del re), con spunti tratti dai vaudevilles, possono sì dar luogo a episodi gustosi o a situazioni capaci di destare interesse, ma non riescono a proiettare una vivida luce sulle vicende. In compenso si intensifica il moralismo: Las Batuecas è ormai una commedia allegorico-pedagogica.

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L'opera rivela insomma i sintomi di un'epoca che sta tramontando mentre una nuova sensibilità sorge all'orizzonte; è l'epoca in cui la stessa commedia romantica sta per cedere il passo alla cosiddetta alta comedia, che per l'appunto al libero gioco della fantasia intende sostituire una visione più concreta della realtà non disgiunta da preoccupazioni pedagogiche. Non si dimentichi che El hombre de mundo debutterà due anni dopo.

In quegli stessi anni, il dramma romantico volgeva parimenti al declino e gli autori avvertivano l'esigenza di un suo rinnovamento.

Mentre Zorrilla si apprestava a rinverdire con nuove formule il dramma storico, altri, come il Duque de Rivas, tentava temi diversi. Proprio Rivas, nel 1842, operava il ricupero del teatro di magia con El desengaño en un sueño, che definiva «drama fantástico».

Di sicuro occorreva un certo coraggio per risuscitare il teatro dì magia su di un registro non comico ed è pensabile che l'autore si muovesse con qualche circospezione. Peraltro, occorre precisare che l'operazione intrapresa da Rivas non era una novità in senso assoluto. Quattro anni prima, nel 1838, era infatti stata rappresentata La Estrella de Oro22 che l'anonimo autore definiva «drama de magia».

Si tratta di un'opera abbastanza complessa, in cui si accumulano gli episodi e i colpi di scena. In sintesi, essa narra la scoperta di un talismano, una stella d'oro, da parte del pescatore Mauricio che, grazie ad esso, può aiutare il principe Genaro a coronare il suo sogno d'amore con la principessa Matilde, sconfiggendo il perfido traditore Manfredo e il suo abietto luogotenente Conrado.

Il fatto interessante è dunque che, a soli tre anni dall'insuccesso dell'Alfredo, qualcuno osasse ripercorrere l'insidioso cammino del teatro di magia serio. Ma questa volta l'autore aveva adottato le dovute cautele, trasferendo al dramma gli stessi accorgimenti che avevano reso accettabili le prime commedie di magia del secolo.

A dir la verità, egli aveva compiuto una semplicistica operazione di sutura fra la comedia de magia, che ha il suo protagonista nell'allegro   —201→   pescatore, e il dramma romantico con i suoi foschi castelli e i suoi torvi congiurati sullo sfondo di quell'Italia rinascimentale che era il tradizionale luogo d'elezione di tutte le perfidie.

In effetti, tutto ciò che riguarda propriamente la magia ci riporta ai toni e all'atmosfera delle prime commedie romantiche del genere. Mauricio, per esempio, sa fare un uso moderato e saggio dei poteri che gli conferisce il talismano e al momento opportuno si fa pedagogico nei confronti della moglie in cui si è invece risvegliato il tarlo dell'ambizione:

Mira, Marta -le dice-: hablemos en razón. Poco me costaría complacerte; pero ¿sabes tú lo que viene detrás de ese brillo y de esas carrozas? Pues detrás verás el fastidio, y el cansarse de las sencillas caricias de un marido que fue pescador ecc.


E ammaestrato, si direbbe, dal Diablo verde, soggiunge:

Nada de lujo. ¡Lo necesario y no más!


(II, 11, p. 17)                


Stessa morale dunque, e stesso uso della magia con effetti prevalentemente comici. Valga l'esempio della seguente didascalia (in un mercato, Mauricio e Genaro sfuggono ai loro nemici):

Genaro desaparece sobre un fardo. Mauricio salta sobre una mesa que se transforma en un dragón. Conrado queda preso en una jaula de hierro. Otros varios muebles se transforman en fieras. Todos los objetos del mercado se ponen en movimiento.


(II, 4, p. 27)                


Più ancora, verso la fine dell'opera, una serie di prodigi finisce per travolgere nel ridicolo Manfredo e Conrado, ospiti casuali di un'incantata osteria gestita da Mauricio. Il culmine è raggiunto quando Conrado taglia a Mauricio la testa che ricompare, ben viva, nel piatto di portata.

Parallelamente, nel nucleo «tragico» dell'opera, si giustappongono i più caratteristici ingredienti del manierismo romantico, allora nel suo pieno auge: dall'eroina che, credendo che il suo amato sia stato ucciso, prorompe:

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Murió... ¡asesinado! ¡Qué horror! ¡Y no he podido sacrificar mi vida para salvar la suya!... ¡Y no me fue dado siquiera recoger sus últimos suspiros!


(III, 2, pp. 40-41)                


allo scenario cupo in cui nulla è risparmiato al fine di incutere terrore:

Panteón ducal... arco por el foro por el cual se ve la parte del edificio destinada a depósito de los cadáveres... A su tiempo aparecen fuegos fatuos, y sombras vaporosas, alzándose de los sepulcros algunos espectros.


(III, 14, p. 53)                


Al lato opposto, non manca neppure la parodia dell'eroe romantico, recitata dallo stesso Mauricio il quale afferma:

Yo llevo conmigo un poder irresistible, arrollador, destructor, devastador, exterminador... ¡casi romántico!


(III, 11, p. 50)                


Il che conferma ulteriormente la presenza di una netta demarcazione fra la componente comica e quella tragica.

Proprio per questo, non possiamo dunque affermare che La Estrella de Oro avesse realizzato pienamente il dramma romantico di magia. L'impresa riuscì invece a Rivas, il quale ianzitutto eliminò dalle operazioni magiche ogni venatura di comicità, mantenne il carattere moraleggiante e pedagogico delle commedie, utilizzò e rafforzò il valore simbolico della magia, e fuse il tutto con motivi legati a un filone del teatro di magia più volte sperimentato oltre che fornito di palesi legami con quella tematica calderoniana che costituiva, per se stessa, una sicura garanzia.

Dalle contemporanee commedie di magia (oltre che da una convenzione dominante nel genere drammatico) Rivas trasse inoltre la collocazione della vicenda nel passato. La redoma era infatti ambientata nel 1710, Las Batuecas nel 1488, La pluma prodigiosa e Los polvos de la madre Celestina rispettivamente sul finire del Cinquecento e del Seicento. Un tale distanziamento temporale era determinato sia dal desiderio di infondere all'opera un tono fiabesco, sia da   —203→   un certo ritegno a far comparire un mago nei panni di un uomo contemporaneo. Era, insomma, un altro modo di sottolineare il proprio scetticismo in materia.

Analogamente dunque Rivas situava la sua opera a metà del secolo XIV sebbene poi non si preoccupasse affatto di attribuire alla vicenda il minimo colorito d'epoca.

El desengaño en un sueño23 è la storia del giovane Lisardo che, trattenuto dal padre Marcolán, saggio e mago, su di un'isola deserta, vuole conoscere il mondo. Marcolán, avvalendosi delle proprie arti, lo immerge in un sonno profondo, durante il quale il giovane sogna un'infinità di avventure, la cui sequenza è determinata dalla sua perenne insoddisfazione.

Ha incontrato (nel sogno, naturalmente) l'amore di una fanciulla semplice e gioiosa, Zora, ma non gli basta. Vuole le ricchezze, vuole il potere; diviene un generale vittorioso ma aspira a salire ancora. Uccide il re, sposa la regina, è proclamato signore assoluto. Ma a questo punto una congiura di palazzo lo abbatte. Non ha più amici; scopre che Zora è morta di dolore; i nemici lo incalzano; viene imprigionato e sta per essere condotto al patibolo. A questo punto si risveglia e quando il padre gli domanda se stia per abbandonare lui e l'isola, grida terrorizzato:


¡No, padre mío, jamás!


Il tema non era nuovo ed è facile reperire una lunga sequela di antecendenti: dalla Vita è sogno a quel filone del teatro di magia che si suole definire come «prova delle promesse» e che a sua volta risale al noto esempio del Dean di Santiago contenuto nel Conde Lucanor, fino a Sueños hay que lecciones son o Efectos del desengaño24, di Igual, che, pubblicato nel 1808 e ristampato nel 1817, fu il modello cui più direttamente attinse il Duque de Rivas.

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È tuttavia da notare che quest'ultima opera, quantunque ne possedesse alcuni tratti tipici, mancava dei requisiti fondamentali delle commedie di magia. In luogo del mago, vi troviamo infatti un Pellegrino che si rivelerà poi per il Desengano, il quale fa annusare al protagonista un mazzo di erbe soporifere. In realtà si comporta come un mago poiché gli procura il sogno con il relativo ammaestramento; ma poi si apprenderà che è la personificazione di un concetto astratto e questo sposterà l'opera piuttosto verso il piano dell'allegoria.

Il fatto che Rivas sostituisca al Pellegrino un vero mago sottolinea la sua intenzione di riallacciarsi esplicitamente al teatro di magia. E bisogna riconoscere che, sebbene Marcolàn svolga funzioni assai limitate (non fa altro che aprire la vicenda addormentando il figlio e chiuderla risvegliandolo) esse sono peraltro così essenziali da riverberarsi su tutta l'opera. Una tale costanza dell'azione magica è opportunamente rilevata dallo stesso Rivas, il quale esige che, durante tutto lo sviluppo dell'azione, la grotta di Marcolàn, con il mago al suo interno immerso nei suoi studi, resti immutata a un lato del proscenio indipendentemente da vari mutamenti di scena.

Gli effetti che questa presenza esercita sono opposti a quelli propri di tanta magia settecentesca. Se infatti uno degli aspetti che più trascinavano il pubblico del secolo precedente era la possibilità che la magia offriva di compiere mirabolanti ascese nella scala sociale (era, fra gli altri, il caso dei celeberrimi Vayalarde e Giges) nell'opera di Rivas, al contrario, la magia ha lo scopo di rivelare i pericoli di una tale ascesa; tutt'al più, di favorirla in forma effimera e illusoria per rendere più acuta e dolorosa la caduta successiva.

Magia al servizio del disinganno, non concede neppure quei piaceri brevi e turbolenti che, per esempio, avevano allietato a Sigismondo la fugace esperienza del palazzo. Nel corso del suo magico sogno, Lisardo prova infatti quell'assidua, insuperabile insoddisfazione che, nel precedente stato di veglia, l'aveva indotto a desiderare lidi diversi da quelli ristretti dell'isola in cui viveva.

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Eroe romantico, medita su questa sua condizione insanabile:


No sé qué pasa en mi abismado pecho.
Ni la gloria, ni el eco resonante
del popular aplauso, ni el triunfante
laurel, me lo han dejado satisfecho.


(II, 2, p. 81 b)                


E tende ad attribuire al suo malessere una dimensione e una disperazione cosmiche:


El mortal ¡ay de mí! más desdichado
soy, que cobija con su manto el cielo,
corriendo de un anhelo en otto anhelo
a una sima sin fondo despeñado.


(III, 2, p. 93 a)                


In fondo, tutto il suo continuo ascendere sfocia nell'angosciosa coscienza dei propri limiti:


¿Con que no lo puedo todo?


(III, 1, p. 92 b)                


All'inizio sì, nel suo breve incontro con Zora, Lisardo aveva intravisto la felicità; cosicché l'amore avrebbe teoricamente potuto rompere l'incantesimo e sconfiggere la magia, come appunto accadeva nelle commedie contemporanee. Ma il protagonista -che in questo assomiglia all'eroe del Diablo verde- è distratto dai troppi, smodati desideri e pertanto è costretto a percorrere sino in fondo l'itinerario che i poteri magici del padre gli hanno prescritto.

Alla fine Lisardo è battuto e il mago Marcolán consegue un completo trionfo.

Questa volta la magia ha veramente vinto. Ma la sua vittoria è assai più deprimente delle gioconde sconfitte che essa subiva nelle commedie. Il suo triste bottino non è infatti altro che la possibilità di gettare uno sguardo carico d'amarezza sul quadro desolante della condizione umana25.





 
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