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ArribaAbajoIl falso a teatro

Silvia Monti



Potenza della lirica
dove ogni dramma è un falso,
con un po'di trucco e con la mimica
puoi diventare un altro.



Sono versi di una popolare canzone di Lucio Dalla, ispirata a un grande tenore, Caruso, e ambientata a pochi chilometri da qui, nello splendido golfo di Sorrento. Dalla si riferisce alla lirica, all'opera lirica, ma le sue parole colgono con grande precisione ed economia di mezzi espressivi, l'essenza della semiosi teatrale, di qualsiasi tipo di rappresentazione. Sulla scena tutto «sta per» qualcos'altro. Qualsiasi oggetto perde il proprio statuto referenziale per assumere quello di «rappresentazione» di altro186. Tutto a teatro è falso in senso stretto, anche se il teatro rimane tuttora una delle poche forme di spettacolo in cui si assiste ad eventi reali propiziati da persone in carne ed ossa, attori e spettatori presenti concretamente in un determinato luogo e in un determinato tempo. E in questa contraddizione tra realtà fisica dell'evento e mondo immaginario evocato consiste il fascino di quest'arte millenaria, data molte volte per morta, ma che, sfidando le leggi del progresso tecnologico, continua a sopravvivere fondamentalmente invariata e immutabile.

Il falso è connaturato dunque con l'idea stessa di teatro: infatti se nella narrativa sappiamo che esiste un patto finzionale che induce il lettore a trattare dal punto di vista logico i fatti narrati come se fossero veri, nella rappresentazione teatrale è evidente che ci troviamo di fronte a un raddoppiamento di tale patto finzionale. Alla prima convenzione,   —106→   che il testo drammatico scritto condivide con qualsiasi testo narrativo, si aggiunge infatti un secondo accordo tacito, relativo alla rappresentazione, che permette allo spettatore (ma anche, reciprocamente, agli attori) di riconoscere il cosiddetto frame teatrale, di distinguere cioè la realtà teatrale come segno di un'altra realtà, dalla realtà contingente. In altre parole lo spettatore sa che lo spazio concreto del palcoscenico con i suoi oggetti materiali è segno di uno spazio fittizio, il tempo reale della rappresentazione è segno di un tempo fittizio, gli attori -persone reali- rappresentano persone fittizie187. La categoria del falso a teatro assume dunque molteplici aspetti, variamente articolati tra di loro, che nell'insieme costituiscono uno dei tratti essenziali della rappresentazione.

Dando per scontata la finzionalità del testo drammatico, che non differisce da quella del testo narrativo, di cui si occupa la narratologia e che è stata qui più volte analizzata, mi interessa ricordare brevemente alcuni degli elementi del rapporto realtà/finzione che entrano in gioco invece nel momento specifico della performance.

La convenzione transazionale (attore-spettatore-attore) a cui si è accennato, che definisce lo status simbolico della rappresentazione, è normalmente accettata senza essere esplicitamente stipulata. Tuttavia in alcuni casi essa è resa esplicita attraverso la messa in opera di «mezzi con i quali il pubblico viene persuaso ad accettare personaggi e situazioni la cui validità è effimera e circoscritta al teatro»188. Tra questi troviamo il prologo, l'epilogo, la richiesta d'indulgenza, 1.ª parte e altri modi di appellarsi direttamente al pubblico. Sotto l'aspetto di apparenti rotture momentanee dell'illusione scenica, essi svolgono funzioni teatrali e metateatrali che in realtà servono a confermare il frame, sottolineando i molteplici aspetti finzionali dello spettacolo.

La stessa convenzione transazionale permette di accettare come verosimile l'interagire degli attori sulla scena, che come è noto si allontana sensibilmente dal corrispondente incontro sociale che intende rappresentare. E ancor a in base alla stessa convenzione gli attori possono agire come se ignorassero la presenza del pubblico, che è invece il destinatario   —107→   privilegiato della performance e che con la sua semplice presenza mette in moto tutto il complesso processo della comunicazione teatrale. Questa serie di accordi taciti o espliciti fà sì che la rappresentazione abbia a che fare in realtà più con il concetto di simulazione, così come oggi viene utilizzato per esempio nella computer graphics189, che con quello del falso, molto più ampio e in ogni caso di difficile definizione190.

Tornando ora al testo drammatico, bisogna dire che al di là della sua intrinseca e globale finzionalità, la serie concettuale relativa a falsità, menzogna, apparenza, verità, verosimiglianza... vi opera ad almeno altri due livelli, entrambi in parte condivisi dalla narrativa. Il primo riguarda il contenuto della rappresentazione, cioè l'azione drammatica, in cui i personaggi agiscono per convenzione, se non altrimenti specificato, in base a una relazione fiduciaria tra apparenza e realtà. A questo livello si collocano gli inganni, gli equivoci, le false interpretazioni di cui sono autori o vittime i personaggi stessi e che configurano gran parte dei testi teatrali, sia comici che tragici. Ricordo che il falso può essere enunciato o agito dai personaggi non solo mentendo o presentandosi sotto false sembianze, ma anche non rispettando la completezza dell'informazione, o alterando l'ordine discorsivo in modo da produrre un senso contrario all'istanza di verità191. Il secondo livello coinvolge direttamente lo spettatore e si basa sulla quantità e correttezza dell'informazione che gli viene fornita, sui fattori legati all'orizzonte d'attesa e su quelli più strettamente logici della creazione dei mondi possibili.

Al di là di tutte queste occorrenze del rapporto tra vero e falso nella rappresentazione teatrale si colloca l'eventuale inganno o falso intenzionale dell'autore, che può essere interpretato come un'ulteriore stratificazione di tale relazione, anche se, a mio parere, il falso intenzionale dell'autore, oggetto specifico di questo convegno, non e mai completamente scindibile dallo statuto globalmente finzionale del testo artistico.

Proiettando ora queste sintetiche considerazioni teoriche sul teatro   —108→   di Aub, possiamo renderci conto in concreto di quanto e a che livelli vi agisca la dialettica vero/falso. Prenderemo in considerazione solo alcuni esempi, particolarmente significativi per illustrare le occorrenze e le diverse funzioni della suddetta opposizione. Ma prima è necessario fare un'ulteriore premessa.

Se consideriamo la produzione teatrale di Aub nel suo complesso, non possiamo non essere colpiti in primo luogo dalla sua estensione (una cinquantina di testi), notevole per un drammaturgo quasi non rappresentato192, e poi dalla varietà formale e di contenuto. La terza caratteristica, altrettanto evidente, è la costanza della spinta etica e di una certa serietà, rintracciabili anche in testi apparentemente poco impegnati, come quelli raggruppati da Aub sotto l'epigrafe di Teatrillo y diversiones, o quelli d'avanguardia degli anni venti e trenta. Rispetto alla sua produzione narrativa, in cui la componente ludica della creazione letteraria si affaccia spesso, quella drammatica risponde sempre a una necessita di comunicazione diretta col pubblico su temi seri, cosa che non impedisce che questi stessi temi forniscano il pretesto anche per azioni comiche, grottesche o paradossali.

Anche il supposto destinatario dell'opera drammatica, diverso rispetto a quello della narrativa, in quanto considerato più ampio ed eterogeneo -benché tutto ciò possa sembrare assurdo, trattandosi di un teatro che aveva ben poche possibilità di andare in scena-, contribuisce a escludere la produzione teatrale dall'ambito dello scherzo letterario, del gioco testuale.

Infine, ma è questa una motivazione estremamente importante, l'occultamento del soggetto dell'enunciazione e quindi, in ultima analisi, dell'autore nel discorso teatrale, libera in un certo senso Aub dalla necessità di ricorrere a eteronimi o apocrifi193.

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La serietà di intenti del teatro di Aub non costituisce comunque un impedimento alla comparsa in esso di aspetti ludici, di ammiccamenti, di voluti depistaggi e soprattutto di abili giochi con gli stessi elementi costitutivi del testo teatrale, tra i quali appunto la dialettica tra vero e falso e le sue molteplici occorrenze che ho elencato brevemente prima. Cominciando dai titoli e sottotitoli: Cara y cruz, definita nella dedica una mentira de verdades; i tre monologhi raggruppati sotto il titolo sibillino di Tres monólogos y uno sólo verdadero; Comedia que no acaba...

Accenno qui di seguito a cinque ambiti in cui l'opposizione vero/ falso acquista, nei testi teatrali di Aub, un particolare valore significativo; i limiti di tempo di questo intervento non mi permettono un'ana lisi più dettagliata.


Rappresentazione e falso storico

Cara y cruz è un chiaro esempio della consapevolezza di Aub della compenetrazione dei piani del reale e del fittizio nel testo drammatico e di come questa sia ancora più complessa nel caso di drammi storici o che semplicemente alludono a personaggi e fatti storici. Non solo Aub definisce questo testo una mentira de verdades, ma si vede costretto ad aggiungere alla fine un interessantissimo Prólogo llamado a desaparecer, che consiglia di premettere alla eventuale rappresentazione, nel caso siano presenti spettatori in grado di associare quanto succede sul palcoscenico con la realtà della Spagna della Seconda Repubblica, o come dice più precisamente: «españoles que tuvieran uso de razón de 1932 a 1936». Lo riporto quasi per intero, dato il suo innegabile interesse:

¡Aquí venden gato por liebre! ¡Les van a engañar! (...) Ya sé que pueden decir que esto es un teatro, que han venido a ver un drama y que, tratándose de una comedia, el autor tiene derecho a jugarles tretas, y hasta es posible que alguno crea que es su obligación. Pero aquí sucede algo peor: en ciertos momentos creerán identificar un personaje de la comedia con otro vivo, y, minutos después, se darán cuenta de   —110→   que se conduce como no lo hizo o le suceden cosas que todos saben que no fueron así. (...) Frases hay que se pronunciaron tal como aquí suenan y las oirán engarzadas al capricho del dramaturgo. (...) De pronto parece que lo que aquí se presenta sucedió en Madrid el 10 de agosto de 1932. Es mentira: yo estaba allí y lo atestiguo. El traspunte que es amigo mío, asegura que el propósito del autor fue reproducir escenas acaecidas el 18 de julio de 1936. ¡Tampoco es cierto! (...) Al fin y al cabo inventa hazañerías. Pero no siempre vence el más fuerte, sino la verdad. Y lo que vais a ver es mentira. Yo no niego que pudo ser cierto, o que lo vuelva a ser, pero ¡si fuésemos a suponer lo que pudo haber sucedido si fulano hubiese muerto o parido hija, no saldríamos nunca del teatro! (...)194.



Con poche frasi apparentemente ingenue, in cui compaiono ripetutamente le parole verdad, mentira, engañar, ser cierto e teatro, Aub mette a fuoco il problema e, benché finga di affermare il contrario, fa trapelare tra le righe la difesa, ironica ma ferma, della libertà creativa dello scrittore, a cui non intende rinunciare anche se sembra in contrasto con l'impegno testimoniale assunto con altrettanta risolutezza. La tensione tra queste due esigenze è uno dei tratti più interessanti del teatro di Aub. Gli conferisce infatti una dimensione di profondità, di pluralità di lettura, senza appesantirlo eccessivamente, come succederebbe se fosse ancorato esclusivamente alla realtà. Lo stesso autore ne è consapevole e ritorna più volte su tale problema nei prologhi o nelle presentazioni dei suoi testi: nell'Aparte di Morir por cerrar los ojos, e poi nei preliminari dei tre monologhi («si algún valor tienen es el de testimoniar...»), de Las vueltas¿Qué tienen que ver con la verdad? Daría cualquier cosa por saberlo»), del Teatro policíacoestas escenas son de mi tiempo y, en general, de ciertos hechos ciertos»), attenendosi poi sempre, comunque, alle sue personali inclinazioni libertarie.




Falso, equivoci e inganni

All'interno dell'azione drammatica, il falso come si è detto si identifica con l'inganno intenzionale, l'equivoco involontario, l'errata interpretazione   —111→   causata da mancanza o non completa informazione da parte di uno o più personaggi. Gli esempi di questo tipo nel teatro di Aub, che pure in generale non è un teatro d'azione, ma di parola, sarebbero innumerevoli, poiché si tratta di uno dei meccanismi fondamentali di qualsiasi intreccio drammatico (ma anche narrativo) e d'altra parte la sua scoperta, la chiarificazione, il ristabilirsi della verità porta allo scioglimento del conflitto195. Tuttavia voglio segnalare un caso in cui Aub enfatizza coscientemente questo procedimento, mostrando come in torno a una banale falsa interpretazione, un equivoco, si possa costruire un intero dramma, arrivando ai limiti del paradossale, del l'assurdo con conseguenze tragiche.

Si tratta di Así fue, curioso atto unico poliziesco in dieci quadri, proposti in ordine esattamente inverso a quello cronologico: il primo quadro e l'ultimo in ordine di tempo, il secondo è immediatamente anteriore al primo, il terzo al secondo e così via. Apprendiamo dunque subito che Rodolfo Nájera, avvocato progressista difensore dei lavoratori -siamo nel 1921 in una città di provincia spagnola-, è stato arrestato e subito dopo giustiziato col falso pretesto di un tentativo di fuga. Sappiamo anche che l'ordine di cattura si basava su una conversazione so spetta dello stesso Nájera, riferita da un confidente della polizia. Aub ci fa ripercorrere a ritroso i passaggi della fatidica frase attraverso i vari livelli della gerarchia poliziesca; in questo tragitto essa aveva acquisito una sempre maggiore autorevolezza fino a identificarsi completamente con la verità e a trasformarsi in condanna per un uomo innocente. In realtà nell'ultima scena, la prima in ordine cronologico, veniamo a sapere che si trattava dell'equivoca interpretazione di un semplice rinvio di un appuntamento con un amico.




Rotture e conferme del frame

Lo statuto finzionale della rappresentazione viene messo in rilievo ripetutamente da Aub con frequenti giochi di rimandi e sottolineature di tale componente. Immancabili nel primo teatro, fanno la loro comparsa   —112→   anche nei testi successivi, seppure in misura minore. La loro funzione, a mio parere, varia infatti nel tempo. Se nel teatro d'avanguardia Aub intendeva richiamare l'attenzione sulla difficoltà di distinguere chiaramente la realtà dall'apparenza, per le carenze dei mezzi cognitivi a nostra disposizione, in primo luogo del linguaggio, nei testi successivi, mi pare che prevalga l'intento di distanziamento critico di tipo brechtiano. Ed ecco, come esempio del primo genere, la ribellione del protagonista al termine della farsa intitolata El desconfiado prodigioso:

UN ALDEANO.-  Distinguido público: sentimos mucho tener que interrumpir la representación, pero desgraciadamente nuestro protagonista se ha vuelto loco y no nos queda sino solicitar benevolencia por caer el telón antes del final de la farsa.

DON NICOLÁS.-   (Grita en un esfuerzo último) No, no, ¡que no baje el telón! Que lo blanco no es blanco, que lo negro no es negro. ¡Que la farsa no se acabó!



O i ripetuti interventi dell'Autore e dello Spettatore ne La botella, o quelli del Corifeo in Narciso.

Nel teatro del dopoguerra, tralasciando il caso emblematico di Comedia que no acaba196, troviamo molteplici allusioni metateatrali alla rappresentazione. In un teatro, in mezzo al movimento di attori e tecnici comincia il monologo di Emma in De algún tiempo a esta parte. In questo caso si suppone semplicemente che la donna sia l'addetta alle pulizie del teatro. Più sorprendente l'intervento degli operai che iniziano a smontare la scenografia e invitano Matilde ad uscire di scena nel finale de Los muertos.

Un esempio estremista di teatro nel teatro, ma lo spettatore non lo sa e non se lo aspetta è il divertente Dramoncillo, in cui abbondano le allusioni critiche al mondo dello spettacolo. Qui si assiste all'inizio di una commedia sentimental-poliziesca con abbondanza di falsi, equivoci e colpi di scena. Una donna, Marcela, rientra a casa giustificando con scuse generiche il suo ritardo al marito, Manuel, che sembra assopito sulla scrivania; quando la donna cerca di scuoterlo, si rende conto che costui è morto e legge a voce alta la lunga lettera che gli trova accanto,   —113→   nella quale il suicida dichiara di non poter più sopportare i dubbi sulle infedeltà della moglie. Immediatamente Marcela telefona all'amante, invitandolo a raggiungerla al più presto. Avuta precisa conferma dei suoi sospetti, Manuel, che evidentemente non era morto, si rialza, strangola la moglie, telefona alla polizia, indicando l'uomo che troveranno accanto a lei come il suo assassino e se ne va. Arriva l'amante... ma a questo punto si precipita sul palcoscenico il regista che interrompe la scena, considerandola totalmente insoddisfacente.

Lo spettatore viene così a sapere senza preavviso che stava assistendo, non allo spettacolo a cui credeva di assistere, ma alle prove di quello stesso spettacolo. Intanto gli interpreti, perplessi sulla credibilità del testo, suggeriscono continui cambiamenti, in un crescendo di esilaranti proposte, indifferenti alle possibili proteste dell'autore dell'opera. Costui, del resto, «desde que hace adaptaciones cinematográficas está acostumbrado a que le vuelvan las obras al revés, y tan contento. Además podrá tener ideas, pero nosotros conocemos mucho mejor al público que él. Y eso es lo que vale. Además, si le importara su obra estaría aquí» fa dire Aub al regista con un impagabile autoriferimento ironico. Nell'impossibilità di mettersi d'accordo, attori e regista decidono per la riproposta del collaudato Gran galeoto di Echegaray.

Oltre alle pungenti critiche ai gusti del pubblico e degli impresari e alla deliziosa leggerezza con cui viene smontato e rimontato più volte il testo originario, e interessante, dal nostro punto di vista, sottolineare l'effetto di spiazzamento prodotto sullo spettatore al momento dell'entrata in scena del regista e il conseguente processo di riadattamento a un frame teatrale modificato rispetto all'iniziale.




Mondi possibili

Se Así fue e Dramoncillo sono testi costruiti con grande abilità sfruttando coscientemente le componenti finzionali del teatro convenzionale, in questo paragrafo citerò una serie di testi aubiani che presentano, rispetto a quello, un'interessante anomalia. Si tratta della sovrapposizione dei piani del reale e dell'immaginario, non solo nei testi d'avanguardia, nei quali c'è come si dice da aspettarselo, ma anche nel cosiddetto teatro di testimonianza, quello che si propone di dar conto delle cose viste e vissute dall'autore. In questi casi in un mondo drammatico   —114→   che riproduce esattamente leggi e convenzioni logiche del mondo reale si insinuano schegge di altri mondi drammatici, retti da altre regole, senza che queste vengano previamente esplicitate.

Così l'iperrealista Matilde può dialogare coi figli non nati nella prima versione de Los muertos e vivere una vita non vissuta nella seconda. O in Tránsito, uno dei testi più amari di Aub, l'amante messicana, Tránsito appunto, e la moglie che vive in Spagna possono comparire contemporaneamente in scena, mettendo tra parentesi l'oceano che le separa. Oppure Andrés, protagonista di Uno de tantos, e in grado di rivolgersi indifferentemente ad amanti passate, presenti e future. O, ancora, i personaggi di Otros muertos possono risolvere i loro conflitti dopo che lo scoppio improvviso di una bomba li ha scaraventati tutti nell'aldilà.

Ma uno degli esempi sicuramente più evidenti della completa indifferenza aubiana nei confronti di un certo tipo di coerenza logica convenzionale è lo scioccante dialogo tra Sara e il negro che chiude il primo atto di San Juan197, tanto razionalmente improbabile, quanto perfettamente funzionale al significato della tragedia.




Falso intenzionale

Vediamo infine il caso de La vuelta: 1964. Si tratta dell'unico testo teatrale nel quale Aub ricorre a un vero e prorio falso intenzionale, impegnandosi a far passare per vero ciò che è pura invenzione, mettendo in atto quindi tutte quelle strategie che abbiamo sentito più volte ricordare nel corso di queste giornate di studio. Appena sotto il titolo si possono leggere infatti queste perentorie affermazioni: «Nada de lo que sigue es invención. Me lo refirió -con puntos y comas- mi hermano. Se negó a escribirlo...». E aggiunge particolari apparentemente inequivocabili: «Rodrigo entró en España el 24 de enero de 1964 -tal como lo cuenta- por la frontera de Portugal. Falleció de un infarto, exactamente dos meses después».

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L'inganno può essere scoperto facilmente non solo da chi sa che Aub non ha mai avuto fratelli, ma anche ricordando le altrettanto perentorie frasi della presentazione generale delle tre Vueltas: «Que yo sepa» esordiva infatti tale prologo «no he estado en España desde el primero de febrero de 1939. Las obras -o la obra- que siguen, escritas en 1947, 1960 y 1964, suceden allí y, más o menos, en esas fechas. Inútil decir que reflejan la realidad tal y como me la figuré».

L'intenzione messa in atto, ma si potrebbe dir meglio l'esigenza dell'autore e quella di dare patente di autenticità a un episodio sognato per tanti anni e che non si era ancora potuto avverare: il ritorno in Spagna. Nello stesso tempo giudizi e impressioni sulla Spagna di Franco vengono sottratti alla sfera della visione personale venata di nostalgia e distorta dalla contrapposizione ideologica e attribuiti invece a un testimone oculare. Per fare ciò Aub ricorre dunque anche nel teatro a un alter ego. Si inventa un fratello mai esistito, facendolo morire, peraltro, subito dopo. Ma non si accontenta di ciò. Nella dettagliata presentazione dei personaggi che precede il testo, arrivato al turno di Rodrigo, dice: «De él no tengo por qué hablar: publico esto para quienes le conocieron», aggiungendo «dejando constancia de mi inconformidad con algunos de sus juicios». Come si vede, siamo qui nel pieno dello scherzo in bilico tra amarezza e divertimento, tra spirito burlone e ineludibile serietà. La frase «publico esto para quienes le conocieron» è infatti un esempio particolarmente efficace non solo di doppio senso (da una parte rinforza l'idea dell'esistenza reale del fratello, riferendosi a persone che lo hanno conosciuto, dall'altra, una volta svelato l'inganno, acquista un significato particolarmente doloroso), ma proprio di quel particolare sincretismo che caratterizza non solo la sua opera ma anche Max Aub stesso. Un autore sempre impegnato sul fronte della giustizia, della solidarietà, della pietà umana, ma che ha sempre difeso anche il diritto e il valore dell'umorismo. Un autore che amava ripetere «sólo los tontos no se divierten»198.





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ArribaAbajoMax Aub: académico comprometido o lúdico posmoderno

Hub. Hermans


Aunque a primera vista resulte quizás extraño dedicarle un texto serio a otro texto intencionadamente falso, creo que en estos tiempos pos modernos, en que el hombre definitivamente ha perdido la ilusión de conocer la verdad, sigue siendo la única manera de interpretar el mundo. Dándome cuenta de que incluso los textos más serios contienen más mentiras que verdades, me atrevo a añadir las mías a un texto que en mi interpretación es más serio de lo que su propio autor haya pretendido.

El texto en cuestión de Max Aub es su discurso apócrifo de ingreso en la Academia Española, leído en el acto de su recepción académica, el 12 de diciembre de 1956. El narrador de este texto es historiador testigo de una realidad histórica conocida de todos, a la vez que protagonista de una historia ficticia. El resultado son dos discursos entremezclados que contienen tanto elementos claramente imaginarios como elementos históricamente comprobados, pero que gracias a su ingeniosa mezcla elevan la duda a la única realidad convincente. En un logrado intento de superar la realidad mediante la ficción, totalmente en la línea de su Jusep Torres Campalans, su Juego de cartas o su Antología traducida, Max Aub exige del lector una postura crítica frente a cualquier realidad que se presente como tal. La reedición de este texto, fechado en 1956, aunque los biógrafos de Aub lo datan en 1971, se publicó en 1993 por el Ayuntamiento de Segorbe, a cargo de Javier Pérez Bazo, quien añadió al discurso de ingreso de Max Aub y a la subsiguiente contestación de su amigo Juan Chabás, una «Introducción en tres actos»199. Esta introducción,   —118→   que es a la vez valiosa interpretación y explicación, insiste en los dos textos mencionados, pero trata demasiado escuetamente, a mi modo de ver, la relación entre estos dos textos y la «Lista de los Señores Académicos de número [...] que ocupan las cuarenta y cuatro sillas de la Academia». Esta lista, que contiene aparentemente más notas lúdicas y fantásticas que verídicas, es, en realidad, una rica fuente de información sobre los resortes serios y hasta tristes, que caracterizan al autor de tantas historias falsas. José Luis Abellán da en el clavo al decir sobre este texto que es uno de los discursos utópicos más importantes de la literatura de la emigración, aunque, según Abellán, la utopía haya que entenderla aquí como ucronía: lo que debía haber sido y no fue200. Primero daré alguna información general sobre el trasfondo de la lista que acompaña al discurso, y luego trataré de establecer una relación entre la lista imaginaria de Aub, que para mí refleja el estado deseado de la literatura española, si la Guerra Civil y la muerte no hubieran impedido ciertas evoluciones, y por otra parte el estado real de la literatura española de la posguerra, analizada por Max Aub en su Manual de Historia de la Literatura Española y en otros escritos. Así, de la combinación de lo falso imaginario y lo real histórico, nacerá una especie de tipología de la concepción de literatura que probablemente tuviera el propio Aub.

Desde el principio queda claro que la lista hay que verla como suplemento o como prolongación de los discursos ficticios de Aub y de su amigo Chabás. Los dos discursos están dedicados, como es de todos sabido, principalmente a la situación del teatro español en los años cuarenta y cincuenta. No ha habido Guerra Civil ni Segunda Guerra Mundial y en España se mantiene en el poder la Segunda República. El discurso de contestación de Juan Chabás, quien, en realidad, ya se había muerto dos años antes, sirve para realzar dentro de este marco histórico-literario la posición de Max Aub. Para este discurso de contestación el narrador Aub recurre principalmente a dos textos: primero unos fragmentos sobre el autor Max Aub sacados del Manual de Literatura   —119→   española contemporánea (1952) de Juan Chabás y segundo el «Proyecto de estructura para un Teatro Nacional y Escuela Nacional de Baile», que escribió el hombre de teatro Max Aub en 1936 y que iba dirigido a don Manuel Azaña. Añade el apócrifo Chabás a los dos textos mencionados unos comentarios como el que sigue a continuación:

Nombrado el 18 de julio de 1936 «para estudiar el establecimiento de un teatro nacional», se inaugura éste, en lo que fue Teatro Real, el 1.º de abril de 1939. En el Diario Oficial de esa fecha puede leerse el nombramiento de nuestro neófito como 'Director del Teatro Nacional'. Pasaron seis meses para la organización y el 12 de octubre del mismo año se inauguró con la memorable representación de El acero de Madrid, dirigido por Cipriano de Rivas Cherif201.



A nadie se le habrá escapado el simbolismo escondido detrás de las tres fechas mencionadas, ni tampoco el deseo mal escondido del propio Aub de haber querido jugar un papel relevante en la organización teatral española. Una mezcla parecida de juego disparatado y de deseo reprimido la encontramos en la lista de 44 académicos. Aquí figura una nota de pie que dice lo siguiente:

En su origen fueron veinticuatro, que se designan en esta relación con letras mayúsculas; otras doce, creadas por el Real Decreto del 12 de mayo de 1847, se señalan con minúscula. Por decreto del 18 de julio de 1941 se aumentaron a cuarenta y cuatro; las últimas se señalan con números romanos202.



Empezando por lo menos importante, cabe observar que esta nota de pie es una versión muy libre de la verdadera composición de la Academia. En cualquier bosquejo histórico o hasta en cualquier enciclopedia puede leerse que desde los estatutos de 1848 son treinta y seis los sillones académicos, y que en 1926 se crearon ocho nuevas plazas para representantes del gallego, vascuence y catalán. En 1930 se suprimen estas nuevas secciones, aunque los académicos nombrados quedarían como numerarios, con todos sus derechos. Max Aub no sólo juega con las fechas, sino que también se inventa los números romanos, llegando a un   —120→   total de 48 académicos, más tres académicos sin designación de silla para la Sección Catalana, la Gallega y la Vascuence respectivamente. Tales insignificantes detalles, presentados con toda seriedad, ya denotan que Aub, quien seguramente estaba muy bien al tanto de la situación verdadera, tenía intenciones que iban mucho más allá de una simple y burocrática relación de la realidad. Aub se permite varias libertades al designar sillas a académicos que jamás las tuvieron o al quitarles sillones a académicos que sí los ocuparon en 1956. Así quedan excluidos académicos muy adictos al régimen (que nunca existió en la visión de Aub), como Joaquín Calvo Sotelo, el Conde de Foxa, Juan Antonio Zunzunegui o Rafael Sánchez Mazas. Y quedan incluidos hombres que nunca pertenecieron a esa institución y que además ya habían muerto en 1956, tales como Lorca, Salinas, Hernández, Moreno Villa, Chabás y Castelao. Así Aub podría haberse permitido el lujo de seleccionar a unas excelentes mujeres de su propia generación como Rosa Chacel, María Teresa León, María Zambrano o la futura académica Carmen Conde, pero Aub tenía, como luego veremos, otros intereses.

Para descubrir estos intereses me fijaré primero en unos detalles aparentemente insignificantes. De los quince académicos de verdad sólo les atribuye la letra correcta del abecedario a dos personas: la Q a Camilo José Cela y la O a Vicente Aleixandre. En el caso de Aleixandre no solamente coincide la letra, sino también el año, aunque 1949 es el año de la elección y no el de la recepción. En el caso de Cela ello parece ser pura casualidad ya que Cela no tomó posesión de su silla el 19 de octubre de 1956, como escribe Aub, sino el 27 de marzo del año siguiente. El he cho de la letra exacta, sin embargo, -dicho sea entre paréntesis- también puede deberse al hecho de que Aub haya querido homenajear de esta manera a un joven colega y amigo, con quien se carteaba regularmente. En el caso de que Aub esto lo hubiera hecho a propósito, ello es prueba de que el autor no ha redactado esta lista en 1956, como nos hace creer el folleto original, sino que la terminó más tarde. Según sus biógrafos se trata de una edición que hizo imprimir su autor en 1971203. Partiendo de la idea de que esta información fuera correcta, el atribuirle la silla Q a Cela, si es intencionado y no es casual, es un simple yerro narrativo. Es muy seductor tratar de descubrir más (ir)regularidades detrás   —121→   de las letras y las fechas manejadas por Aub. Así, por ejemplo, el político franquista Pedro Sáinz Rodríguez llega, según Aub, a tomar posesión de la silla a el 30 de octubre de 1956. Esta silla le había pertenecido a Pío Baroja, fallecido justamente aquel día 30 de octubre de 1956. Pero creo que este tipo de relaciones no es siempre sistemático. En general la designación de letras y de años de ingreso incluso parece ser algo arbitraria, aunque nunca exenta de humor y de cinismo. Así, José María Pemán toma posesión de su silla en 1936, mientras José Bergamín lo hará el 2 de mayo de 1939, año del triunfo nacional, y así también Vicente Llorens, un amigo en el exilio mexicano, toma posesión el 2 de junio, el día del cumpleaños de Max Aub.

Donde hay más claridad es en la relación entre la lista de académicos y el ya citado Manual de Historia de la literatura de Max Aub. En este estudio Aub distingue dentro de la literatura del siglo XX cuatro generaciones: La generación del 98, El modernismo, La generación de la primera dictadura y La generación de la segunda dictadura. En realidad apenas distingue entre los dos primeros ya que, a pesar de las muchas diferencias predominan para él los puntos comunes. Además se trata en los dos casos de hombres nacidos alrededor de 1870. Aub incorpora a este grupo incluso a miembros de La generación del 14, en general nacidos alrededor de 1885. De entre todos ellos destacan los que en vida fueron de hecho miembros de la Real Academia Española: Azorín, Marañón, Menéndez Pidal y Pérez de Ayala. Aquí se podrían añadir los nombres de otros ilustres españoles como Sánchez Albornoz o Jacinto Grau, que nunca ingresaron en la Academia. Todos estos señores estaban todavía con vida el 12 de diciembre de 1956, el día en que Max Aub leyera su discurso de ingreso, pero ninguno de todos ellos forma parte de la Academia imaginaria de Aub. Ni tampoco hombres tan admirados por Aub como Gabriel Miró, Enrique Díez Canedo o José Ortega y Gasset, que en realidad ya habían muerto, pero como hemos visto antes, esto para Aub no hubiera sido obstáculo para darles acceso a la Academia. El mensaje es evidente: aunque el 30% de los académicos nombrados por Aub, perteneció o iba a pertenecer a esa institución, Aub ha querido terminar con los viejos, considerándoles ya de tiempos y modas del pasado. Los únicos académicos verdaderos y miembros de las primeras generaciones de nuestro siglo a quienes Aub concede una silla, son Tomás Navarro Tomás y Salvador de Madariaga. En los dos casos se   —122→   trata de académicos electos en los años treinta y exiliados con la Guerra Civil. Por orden ministerial de 1941 sus sillas quedaban vacantes, aunque la Academia no quiso proveer en su sustitución, de acuerdo con su reglamentación interna. Salvador de Madariaga, electo en 1936, no leería su discurso de ingreso hasta en 1976, con un retraso de 40 años. Algo parecido le pasó a Menéndez Pidal, académico desde 1901 ocupando la silla b, y exiliado durante la Guerra Civil. No figura en la lista de Aub, pero éste le atribuye la silla número b al ya citado José María Pemán, lo que es sátira. Este sería, cuando la Academia comenzó a funcionar de nuevo en Salamanca, en 1938, el nuevo presidente, en funciones de director interino. La verdad nos obliga decir que Pemán, al ser elegido director en 1944, dijo que iba a preparar durante los tres años de su presidencia, la vuelta para ese puesto de don Ramón Menéndez Pidal, lo que logró204. Menéndez Pidal volvió en 1947 a su puesto, y a la silla n.º b. La silla i, ocupada en realidad por Pemán, una persona por quien Aub en su manual tiene poca estima, le corresponde en la lista de Aub a alguien que realmente la merecía: Max Aub. Sin embargo, volviendo a Navarro Tomás y Madariaga, los dos únicos verdaderos miembros de la Real Academia, se hacen acompañar en la Academia imaginaria de Aub (en la que el título de Real queda suprimido), de cuatro miembros ficticios de su propia generación: Américo Castro (con el cargo de director), Ramón Gómez de la Serna, Juan Ramón Jiménez y Corpus Barga. A ellos se podrían añadir, por su edad -y con alguna fantasía- al mexicano (!) Martín Luis Guzmán, y a Carlos Riba y Ramón Castelao, de la sección catalana y la gallega, respectivamente. En total se trata, pues, de 9 miembros de la generación del 98, del modernismo y del 14 juntos. Esto significa que Aub apenas toma en consideración a los viejos: ni siquiera el 20% de su Academia tiene más de 70 años, mientras que, en realidad se trata de más de la mitad. Y luego una conclusión preliminar más interesante: los viejos que él admite en su Academia, todos, se exiliaron.

Otra consecuencia del lugar secundario que Aub les reserva a los viejos es que casi todos los miembros restantes de su Academia pertenecen a lo que Aub en su Manual denomina «la generación de la primera dictadura (1923-1930)»: todos autores nacidos alrededor de 1900. Es interesante   —123→   observar, aunque dicho sea entre paréntesis, que Aub en su Manual intenta romper con el concepto totalmente superado de las tradicionales generaciones y que también se niega a distinguir entre autores exiliados y autores que se quedaron. Los que empezaron a escribir después del 39, forman para el «la generación de la segunda dictadura». En la lista que aquí comentamos figuran tan sólo seis académicos de esta nueva promoción; una generación de autores nacidos alrededor de 1915, y normalmente denominada «generación de 1936». En su discurso Aub, desde luego, no utiliza esta terminología, ya que ahí parte del punto de vista de que en vez de guerra y exilio, hubo continuidad. Para el simplemente son «jóvenes». Los jóvenes que tuvieron la suerte de ser elegidos académicos, son Agustín Millares Carlo, Luis Felipe Vivanco, Dionisio Ridruejo, Blas de Otero, Camilo José Cela y Miguel Delibes. Como es sabido, tan sólo los dos últimos llegarían a ser académicos de verdad. En su Manual dice Aub, al hablar de los poetas de la generación de Vivanco y Ridruejo, que forman un grupo que desearía verse llamado «generación de la República» y que ninguno de ellos había sabido decidirse por una de las dos rutas que antes o después de la guerra seguía la poesía española: la personal o la francamente social205. Comparándoles con los viejos, llama la atención que estos autores jóvenes no se exiliaron, hecha excepción de Millares. Acerca de ellos también se podría observar que en los años en que Aub redactara su folleto, ninguno de ellos fuera muy adicto al régimen. Todos juntos forman poco más del 10% de la Academia aubiana.

El resto de los académicos, casi el 70%, pertenece, pues, a la generación de la primera dictadura, o sea la generación de Aub. Se trata, en realidad, de una ampliación de la generación de 1927, ya que Aub incluye en ella también a autores como Hernández, Sender, Ayala y Rodríguez Moñino. Un rasgo muy notable, al comparar los viejos y los jóvenes por una parte, y los compañeros de la generación de Aub, por otra, es que entre los primeros no hay ningún hombre de teatro, mientras que en la generación de la primera dictadura son más del 30%. Candidatos no faltan. Entre los viejos podría haber incorporado, además de los ya citados, a dramaturgos como Jacinto Grau; y entre los jóvenes a   —124→   hombres como Torrente Ballester, Buero Vallejo o Alfonso Sastre. Claro que Aub insiste en su discurso en el enorme florecimiento del teatro español durante los años veinte y treinta, y especialmente en el alto nivel que éste hubiera alcanzado si sucesos de fuerza mayor no hubieran impedido su posterior desarrollo. Aquí caben dos observaciones o preguntas críticas que luego trataré de resolver. Primero veo una enorme contradicción entre este supuesto florecimiento y las críticas de la mano del propio Aub durante los años treinta de la deplorable situación del teatro español. Así se dirige en 1938, en un artículo publicado en el «Boletín de Orientación Teatral» «a un actor viejo», reprochándole: «¿Por qué lo dejasteis en el estado en que estaba antes del 18 de julio de 1936?»; y en aquel mismo año se queja en un artículo en «La Vanguardia» de que el teatro de guerra «se mantiene del repertorio», añadiendo que «todos están de acuerdo en lamentar la mala calidad de las obras representadas»206. Hasta en un texto escrito en 1959, aunque publicado en 1971, Aub se muestra muy crítico con respecto al teatro y la situación teatral en España en esos años:

El movimiento renovador del teatro europeo (que tiene su base de una parte en el esplendor de los bailes rusos de Diaghilev y por otra en el ascetismo de Jacques Copeau) no tiene repercusiones en España207.



Es evidente que la realización de las reformas defendidas por Aub y otros hombres de teatro en los años treinta, podrían haber cambiado el panorama. Pero también en este caso la segunda pregunta queda sin resolver. ¿Cómo es posible que el florecimiento del teatro en los años veinte a cincuenta, tal como Aub lo señala en su discurso -y no importa si esto es realidad o deseo- no tuviera repercusiones en una generación posterior? O, con otras palabras, ¿Cómo es posible que un teatro que le debe, según el propio Aub, tanto a excelentes precursores, y académicos, como Unamuno, Valle-Inclán o los Machado, no haya producido académicos en la generación joven?

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Para esta segunda pregunta propongo una respuesta doble. En primer lugar es evidente que Aub considera a los miembros de su propia generación infinitamente superiores a los de la generación joven. Esto es lo que, entre líneas, se deduce de su propio discurso de inauguración, al referirse a los jóvenes dramaturgos. Allí dice:

Antes de terminar, quiero referirme a los autores nuevos que no pueden todavía -por falta de sillas- estar en nuestra compañía y que, sin embargo, forman uno de los conjuntos más importantes del teatro de nuestros días. No pocos ya han triunfado con un número naturalmente reducido de obras: me refiero a Antonio Buero Vallejo, Alfonso Sastre, Carlos Muñiz, Antonio Gala, Bernardo Giner de los Ríos, José Ricardo Morales, Lauro Olmo, Jorge Semprún, José García Lorca y Fernando Arrabal. Todos ellos al tanto y al tú por tú de cuanto se representa de más interesante en el mundo, a pesar de que estos últimos tiempos el espectáculo en sí parece cobrar más importancia que la literatura. No me quejo: para ello estoy en vuestra compañía208.



En estas notas Max Aub no sólo se muestra un tanto pedante, sobre valorando a los exiliados, también dice a escondidas lo que pronuncia de manera más manifiesta en una carta al director en la revista «Triunfo», con motivo de una crítica que le hiciera Emilio Romero en «Sábado Gráfico», a raíz de su visita a España en 1969. Según Romero el alto nivel de la moderna vida intelectual y la moderna creación literaria españolas no se merecen «el aire descalificador» con el cual Aub se vino a España. Para el no hay gran diferencia entre la generación joven y la vieja, pero Aub le contesta con su cinismo habitual, de la manera siguiente:

Tiene razón el gran periodista [Romero...] No insiste con los novelistas, sin razón... qué o quién puede traer a cuento a Benavente, Valle Inclán, Unamuno, García Lorca, Arniches, los Machado cuando se habla de Buero que respeto en lo que vale-, Mihura, Gala, Salom..., ni quién se atreverá a comparar a Laín con Marañón, a López Ibor con Unamuno, a Tierno Galván con Araquistáin, a Marías con Ortega, a Pueyo con Francisco Ayala, Gas o García Bacca. Supongo que el maestro Romero calla los poetas porque todos saben que cualquiera   —126→   de hoy puede compararse con Juan Ramón, Guillén, Salinas, Garfias, Federico, Alberti o Cernuda, y, él lo sabe mejor que nadie, hay críticos a paletadas que se pueden llevar la palma frente a Enrique Díez-Canedo, Adolfo Salazar o "Juan de la Encina"209.



Para comprender mejor «el aire descalificador» de Aub es suficiente tener en la mente la situación política de aquel entonces y el innegable alto nivel de sus colegas generacionales. Pero ello todavía no explica el por qué Aub hace ingresar en su Academia a novelistas jóvenes como Cela y Delibes, y no a dramaturgos como Sastre o Buero Vallejo. En su discurso Aub habla de su corta edad y de la predominancia en sus obras del espectáculo sobre la literatura. Pero Buero Vallejo (1916) y Sastre (1926) no son mas jóvenes que los académicos Cela (1916) y Delibes (1920), mientras que los primeros a finales de 1956 habían estrenado más obras importantes que los segundos publicado novelas. Además, para los cuatro escritores en cuestión se podría aducir que su obra primeriza, sin el fuerte eco de la guerra civil, probablemente hubiera ido por rumbos totalmente diferentes. Creo que aquí se encuentra el otro aspecto de esta segunda pregunta. Los jóvenes dramaturgos, teniendo poco que contar, se limitan a explotar lo que el teatro tiene de espectáculo. No pueden todavía igualar literariamente el alto nivel de la generación de Aub. A ellos se les aplica el título del discurso de Aub: «el teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo»; un título que habría tenido una resonancia más positiva si Aub de veras pudiera haber omitido toda referencia a la triste ruptura que significa para él la Guerra Civil española.

Y esto nos lleva inmediatamente a una contestación de la primera pregunta acerca del florecimiento del teatro en los años veinte a cincuenta, criticado en otras ocasiones por el propio Aub. En su discurso Aub hace florecer este teatro, más de lo que hiciera de hecho en los años veinte y treinta, y más de lo que probablemente hubiera hecho en los cuarenta y cincuenta -si la Guerra Civil y la victoria de Franco no hubieran tenido lugar- para poder realzar en aquel gran teatro su propio   —127→   papel. Hablando en su Manual de ese teatro que pudo haber sido, dice literalmente que «Todo se lo iba a llevar la gran trampa de la guerra civil», para luego añadir:

He aquí la única nota a pie de página de este manual: refiérese a su propio autor [...] que pudo ser dramaturgo de cierto interés si la guerra y el exilio no le hubiesen impedido el acceso a las tablas en su momento, y llevado por los terrenos de la novela210.



Pero no se trata sólo de su papel como autor teatral, sino también de su labor imaginaria como director del Teatro Nacional; actividades que ya han sido comentadas ampliamente por Pérez Bazo en su anteriormente citada «Introducción». Pero la sencilla razón de que Aub haya querido pintarse a sí mismo, algo que de por sí ya justifica el uso que Aub hace de lo falso, todavía no nos explica la visión y las expectativas que Aub tenía de ese teatro posible. Para ello nos concentraremos en una comparación entre lo que Aub dice en su discurso sobre los dramaturgos de su generación, y lo que dice en otros textos. Uno de esos textos es el ya citado Teatro inquieto español, en donde el autor ya descorre el velo acerca de ese teatro que pudo haber sido, y no fue. Hablando del retraso español con respecto a evoluciones en el extranjero, dice que en los años veinte sólo unas reducidas minorías están al tanto de lo que allí sucede:

El teatro refleja ese ambiente: muchos espectáculos sin relieve y los de vanguardia en manos de aficionados. Período de confusión y búsqueda que acaba prácticamente con la década. La sublevación de Galán y García Hernández, las elecciones de abril de 1931, señalan el principio de una época distinta. Llega a las tablas, ya no sólo al libro, lo que pudo ser un nuevo teatro español: se estrenan Divinas palabras, Bodas de sangre, El hombre deshabitado, La corona, La sirena varada211.

En su discurso Max Aub hace, en efecto, como si el teatro español hubiera evolucionado en la línea de las obras aquí señaladas. Les atribuye a los colegas de su generación obras que nunca han escrito, utilizando para ellas títulos de otros escritores, títulos de otras obras suyas,   —128→   variantes de otros títulos o hasta títulos inventados, pero siempre con una gracia y una argucia difícil de superar. El caso de Alberti es muy ilustrativo. Hablando de El hombre deshabitado, estrenado en 1931, dice que es la obra más importante de aquellos tiempos y que se acusa de no haberla repuesto, para añadir literalmente:

Tampoco su autor me insinuó hacerlo. Pero tal vez se acuerde demasiado de los desaforados gritos que lanzó al final de la obra y que no están totalmente de acuerdo con su actual ideología. Lo cierto es que su obra señalaba un camino nuevo que no siguió nadie, ni él siquiera212.



Aquí Aub no sólo se refiere a las palabras agresivas «¡viva la podredumbre de la actual escena española!», con las cuales Alberti atacó al final del estreno al teatro burgués, también alude al general abandono de la línea experimental, vanguardista y a la buena posición de un acomodado Alberti. Luego Aub se refiere a otros éxitos como La Gallarda y La lozana andaluza, haciendo un juego con la cronología, ya que La lozana andaluza, una adaptación de la famosa novela del renacentista Francisco Delicado, no se publicaría sino en 1963, siete años después de su discurso de ingreso. Puede ser que Alberti, en una España republicana, hubiera escrito esta obra antes de 1956; pero también es una prueba más de la tardía fecha de composición del folleto. Algunos de los títulos que siguen a continuación se refieren a la biografía de Alberti, como, por ej., María Teresa, mi amor o El caballero del Puerto, mientras que otros títulos son modificaciones irónicas de títulos clásicos como La fuerza del desafío (Cervantes, Castro, Rivas), El bastardo (Lope) o El galán más tierno (Lope, Matos Fragoso). Todos estos títulos prestados de otros tiempos, no sólo forman un rico juego intertextual, también le dan una apariencia de verdad al manuscrito, a la vez que parecen indicar la trayectoria que Aub hubiera querido imponerle al teatro español de los cuarenta y cincuenta: un teatro abierto a las innovaciones europeas, aunque inspirado en el folklore y en la historia de España, con refundiciones de obras clásicas y populares como comedias, autos sacramentales etc. En vista de que, según Aub, nadie siguió en la línea experimental   —129→   de El hombre deshabitado o los también citados El público y Así que pasen cinco años, la alternativa parece ser el camino señalado por Las Misiones Pedagógicas, La Barraca y El Búho. No es la literatura experimental, ni tampoco la literatura de cariz social, sino más bien la materialista por la cual apuesta Aub213. El teatro de Aub mismo también se integra dentro de esta corriente. En su discurso de contestación dice Chabás lo siguiente sobre dos dramas de nuestro nuevo académico:

Todos recuerdan -acaba de reponerse la obra- el éxito que lograron Margarita Xirgu y Enrique Borrás con el estreno, hace veinte años, de Espejo de avaricia, en tres actos, y el de Erwin Piscator con la dirección de escena de San Juan, en 1937, tragedia de la que ya entonces se dijo cuanto había que decir214.



Max Aub, que al final de su vida se quejó en entrevistas con cierta regularidad de no haber estrenado nunca, es decir nunca con compañías comerciales, irrumpe en el escenario imaginario con dos obras sorprendentes. Espejo de avaricia es una farsa, escrita a finales de los años veinte215, y se inscribe dentro de la tendencia deshumanizadora de aquel entonces. San Juan es una tragedia casi existencialista, que no data de 1937, sino de 1943, mientras la acción transcurre en un día de 1938 (!). Su técnica perspectivista es muy semejante a La Numancia de Cervantes216. Las dos obras tratan de problemas de conciencia y demuestran la inmersión de Max Aub en las fuentes del teatro clásico: burlesco en el primer caso, trágico en el segundo.

Los ejemplos de Alberti y de Aub son ilustrativos para los otros dramaturgos   —130→   comentados en el discurso de Aub: García Lorca, Miguel Hernández, Manuel Altolaguirre, José Bergamín, Pedro Salinas, Paulino Masip y Claudio de la Torre, todos académicos, por más señas. Los únicos dramaturgos comentados que no ingresaron en su Academia son Casona, Rivas Cherif y León Felipe. Caso especial lo forman los Machado que, según Aub, ofrecieron póstumamente Donde no está su dueño y El que presto promete, obras que se estrenaron en 1953 y 1954 respectivamente. También hace Aub mención de dramaturgos como Jardiel Poncela, Muñoz Seca, Luca de Tena y López Rubio; autores todos que no ha querido comentar por hacer trabajos que, según dice, poco tienen que ver con su concepto de teatro, que no es sólo dar placer y contento. Más llamativa, sin embargo, es la ausencia en este panorama del teatro deseado de un dramaturgo y académico: José María Pemán. Pero ello quizás se deba al hecho de que probablemente a éste no le hubiera gustado lo que Aub dice al final de su discurso acerca de las posibilidades de jóvenes como Buero Vallejo y Sastre:

El estado actual del teatro en España abre las esperanzas a los jóvenes y les da las facilidades que nosotros quisimos (y no encontramos tan a pie llano) gracias a la liberalidad de un estado acogedor y tolerante con las expresiones artísticas, sean las que fueren, sabiendo que no hay mejor política para el hombre y la realidad de España217.



Estas palabras suenan hoy en día algo utópicas, a la vez que dogmáticas. Corresponden a las ideas expuestas por Aub en su Proyecto de estructura para un Teatro Nacional de 1936, cuyo texto incorpora el autor casi enteramente en el discurso de contestación de Chabás. Pero, por otra parte, yo me pregunto si esta actitud casi dictatorial de Aub con respecto a dramaturgos ligeros, que luego resultarían ser casi todos de derechas, es la más apropiada en un texto que traza la evolución de un teatro posible sin Guerra Civil y sin franquismo. ¿Quién dice que estos dramaturgos no hubieran ido por otros caminos si España hubiera seguido siendo República? Y quién dice que la generación de Cela, Delibes y Buero Vallejo no hubiera reaccionado en contra de una generación asentada que ya desde más de veinte años buscaba su inspiración en la historia, en el folklore y en refundiciones de los clásicos?

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Llegado al final de esta conferencia no quiero tratar de contestar estas preguntas, tan abiertas y falsas como el genial folleto que acabamos de comentar. Al terminar uno se pregunta hasta qué punto la ficción, o mejor dicho, la realidad utópica o mental puede superar a la llamada realidad histórica, ya que a casi nadie le interesaría consultar una enciclopedia o un libro que describiera la realidad de los ocupantes de los sillones de la Real Academia Española, mientras que la lectura del discurso de Aub, y sobre todo de la lista llena de argucia que acompaña ese discurso, nos supone una exigencia de indagación acerca de quiénes habrían sido, podrían ser, son miembros de la Academia. El juego metaficticio de Aub le obliga al lector preguntarse constantemente por la relación problemática entre ficción y realidad. Pero, es más: en línea con Borges y con el desconstructivismo, el lector del discurso de Aub, en su función de consumidor activo, ha de recrear y redactar el texto de nuevo, al hacerlo confluir con otros textos de su propia experiencia literaria. Así, el lector desorientado se convierte en un creador que se ve inmerso en una lucha casi edípica con el texto de su precursor218. Pero mientras el lector serio recrea y redacta un texto lúdico que divierte y enseña, el autor original, en tanto que autor comprometido, se queda con unos deseos sin satisfacer, y sin sillón en la Academia. ¿Es importante?



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ArribaAbajoMax Aub y la invención de una Academia Española

Eleanor Londero


«No me cabe en la cabeza -me da vueltas- ver que el Secretario General de la Academia me traiga a cuento en el Diccionario Histórico que dirige. ¿Qué hice, Dios mío?»


(La gallina ciega, p. 217)                


Raymond Radiguet sostenía que las vanguardias comienzan siempre de pie y terminan invariablemente sentadas (se refería, claro está, a los sillones académicos). Esta aserción que, en general, el tiempo y los hechos parecen haber refrendado, se reveló falsa en un caso. Existió, en efecto, un vanguardista que aun transponiendo los umbrales de una academia logró mantenerse de pie.

El 12 de diciembre de 1956, la Academia Española celebró solemne sesión pública para dar posesión de su plaza al Excmo. Sr. D. Max Aub, que sucedía a D. Ramón del Valle-Inclán. Como es usual en estas ocasiones, el recipiendario debía pronunciar un discurso inaugural al que habría de seguir la consueta respuesta de bienvenida por cuenta de la corporación. «Señores Académicos -comenzó-: estas primeras palabras son para agradeceros el honor de haberme llamado a colaborar con los más ilustres españoles en cuidar la lengua que hablamos». Preciso es reconocer que este proemio, lejos de incurrir en manidas retóricas, describía una situación exacta. Las personalidades allí reunidas eran verdaderamente ilustres y además, caso único en la historia de las Academias, gozaban de la prerrogativa de ser inmortales no sólo de nombre (como sus homónimas francesas) sino de facto. Baste pensar que, entre esta selecta concurrencia, se contaban Federico García Lorca, Miguel Hernández, Manuel Altolaguirre, Pedro Salinas y Juan Chabás para colegir que nunca Academia alguna pudo ostentar inmortales de mayor prestigio.

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El discurso pronunciado por el flamante académico se titulaba El teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo, y su contenido correspondía fielmente al título: un lúcido análisis de lo que el teatro español hubiera podido ser si no hubieran mediado «las tinieblas de nuestro tiempo». Adelantémonos a aclarar que esas tinieblas comprendían no sólo la situación del teatro español en 1956, sino la de la Academia misma; y comprendían asimismo los asesinatos de Lorca y Hernández, los muertos en el exilio, el exilio y, detrás de todo ello, la guerra perdida. Veremos luego que esas tinieblas habían llegado a ofuscar un arco de tiempo que, lejos de detenerse en 1956, abarcaba también los años 70.

Aparentemente, la única prueba tangible sobre la existencia de un académico llamado Max Aub sería el discurso impreso por él mismo. Conviene, pues, que nos detengamos brevemente en esta prueba. A cuanto resulta del pie de imprenta, el discurso fue editado en una Tipografía de Archivos de Madrid, en 1956. La primera página lleva como encabezamiento la fórmula Academia Española y ostenta en su parte inferior el inconfundible logotipo con el lema «Limpia, fija y da esplendor». Dos detalles importantes saltan inmediatamente a la vista: la Academia aparece desprovista del epíteto de Real, mientras su escudo está rematado por una simple corona mural. Se trata, por tanto, de una institución republicana. Resulta innecesario llamar la atención sobre la incongruencia manifiesta entre estos datos y la fecha de impresión. Desde cierta perspectiva, ello bastaría para invalidar la autenticidad no sólo del contenido del discurso, sino también de las circunstancias que le sirven de marco. Desde otra, en cambio, la falsedad material del discurso no confutaría necesariamente su verdad lógica ni, mucho menos, su plausibilidad. Lo situaría, simplemente, en el campo de la ficción.



Es casi un tópico afirmar que los conceptos de verdad, de autenticidad y de identidad no pueden ser definidos prescindiendo de sus contrarios. Como tampoco pueden explicarse la mentira, lo falso o la condición de diferente sin aludir forzosamente a aquéllos. Esta correlación es tan evidente que Eco no vacila en calificarla de circular219. Por lo general, cuando hablamos de lo falso solemos entender lo que no es verdadero.   —135→   Así comprendida, esta noción adquiere un valor negativo puesto que va asociada a una falta de verdad y, consiguientemente, a una idea de degradación. De allí que asuma, en este caso, una connotación moral. Sin embargo, no todo lo falso puede ser no verdadero en el sentido anterior. Una falsa alarma de terremoto, por ejemplo, se refiere más bien a algo que no sucedió, pero que podría suceder en cualquier momento. Lo falso deja aquí un resquicio a la virtualidad. En el campo de la ficción220, las cosas se complican aún más. Si definiéramos como falso sólo lo que no es verdadero, todo el arte estaría comprendido en esta definición. Con lo cual, aparte de cometer un error de apreciación, no habríamos predicado demasiado sobre el arte. Para obviar en parte esta dificultad contamos con otra noción igualmente compleja: la de verosimilitud. Gran parte de lo que hoy en día definimos como ficción se basa en lo que Aristóteles entendía por verosímil. Para este filósofo, lo verosímil encuentra su apoyo en una suerte de substrato depositado en la mente humana y constituido por la tradición, la opinión corriente, el criterio mayoritario, etc. En una palabra, la verosimilitud aristotélica no se refiere a lo que efectivamente sucede, sino a lo que el público acepta que pueda suceder, aun cuando contradiga la realidad histórica o científica. Por consiguiente, las obras que no contradicen lo que el público considera posible estarían sustentadas sobre la verosimilitud y no sobre la verdad221.

Otra ayuda validísima nos viene del campo de la semántica modal. Esta corriente, inspirada en la lógica formal anglosajona, trata de definir la existencia poniéndola en relación con una serie de mundos virtuales. Para ella, el ámbito en que efectivamente vivimos no sería el «único» sino sólo uno más dentro de los tantos mundos posibles presentes en el universo. Estas especulaciones parten de la revisión del modo con que la lógica -desde Aristóteles en adelante- representa los mecanismos de conexión entre un sujeto y un predicado. Pero, en particular, la semántica modal estudia las posibilidades de aplicación de los criterios de verdad o falsedad a entidades y situaciones no reales; por ejemplo, a las entidades de ficción. La legitimación de los mundos imaginarios como ámbitos que funcionan -desde el punto de vista lógico- igual que los de la   —136→   ciencia, proviene del filósofo norteamericano Nelson Goodman. Según Goodman, ambos se construyen usando sistemas simbólicos que, en el plano lógico, son idénticos. De ahí que nuestros criterios de valoración deban ser necesariamente similares.

A su vez, Thomas Pavel parte de este presupuesto para idear sus «ontologías híbridas», en las cuales coloca los mundos elaborados por la ficción222. Su tesis es extremamente interesante, a mi juicio, por varios motivos. En primer lugar, porque cuestiona los límites entre lo real y lo no real partiendo de la declaración de incapacidad de la lógica para discriminarlos. En segundo lugar, porque parte de la realidad concreta reconociéndola como referente también de lo imaginario. En efecto, su crítica al estructuralismo, a la deconstrucción o a la intertextualidad se apoya en la convicción de que un texto literario no habla solamente de sí, ni de sus relaciones y modalidades internas, sino que, para crear su mundo de invención, usa mecanismos referenciales y lógicos idénticos a los utilizados por los textos no ficcionales para describir la realidad. En consecuencia, los mundos posibles lo son única y exclusivamente porque están referidos, en gran parte de sus aserciones, al mundo concreto. Pero, además, la tesis de Pavel es interesante porque postula la inutilidad de fijar criterios de verdad o falsedad para juzgar el contenido de partes aisladas de una obra de invención. Por tanto, la verdad global de un texto literario no estaría supeditada a la mayor o menor veracidad de cada uno de sus enunciados, sino que resultaría del entero conjunto. Y ello, en razón de que los textos literarios, como sabemos, poseen más de un nivel de significados223.



Estas aclaraciones han sido necesarias porque, a mi modo de ver, Aub se vale de mecanismos referenciales idénticos para describir la realidad y lo imaginario. El texto que ahora nos ocupa es un ejemplo más de la sistematicidad de esta práctica. Ahora, bien, la aceptación de una verdad lógica comporta el reconocimiento de la validez de determinadas convenciones iniciales. Las premisas de un silogismo, aunque falsas, llevarán, si aceptadas, a una conclusión que será lógicamente verdadera.

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El mundo de invención que Aub crea en este texto, nos invita a reconocer una premisa inicial materialmente falsa: que la guerra civil no sucedió nunca. A esta premisa corresponden una serie de circunstancias que también son materialmente falsas: la admisión en la Academia, la Academia misma, la presencia de algunos muertos o la pervivencia de la República. Pero, nada de esto invalida la sustancial veracidad del conjunto, puesto que lo falso no afecta sino un nivel de significado y, precisamente, el menos importante. Para obtener el efecto deseado -esto es, suscitar en el lector una impresión de veracidad global que prescinda de la presencia de los elementos no verdaderos-, Aub se mueve con un sistema referencial sustentado no ya en datos concretos, sino en el valor que su interpretación puede conferir al todo. A mi juicio, es el nivel axiológico el que otorga verdad al conjunto. Aquí, la Academia ficticia no es sólo la institución que pudo haber sido y no fue224, sino fundamentalmente el valor que se atribuye a una idea de lo que esa institución y esa cultura debía haber sido y todavía debe ser. En consecuencia, el referente no es tanto la Academia, cuanto el sentido que Aub asigna a la condición de intelectual en todo ámbito institucional de cualquier época o lugar.

El discurso consta de dos partes que se complementan. En la primera, Aub finge hablar directamente para describir la situación utópica de un teatro -una cultura-, donde todo se ha realizado según un generoso designio. Así, Lorca y sus amigos siguen escribiendo teatro, y éste es de una calidad tal que puede permitirse el lujo de convivir pacíficamente con el de Luca de Tena, Jardiel Poncela o Muñoz Seca. Al fin, estos también «honradamente ganan sus vidas con sus trabajos» (p. 17). No sólo: en esta leal competencia existe un público selectivo que habrá de preferir siempre lo mejor. En la segunda parte, Aub finge hablar por boca de Chabás; y, en efecto, las palabras iniciales son las que el propio Chabás le dedicara en 1952, en su Literatura española contemporánea. Es probable que, como dice Pérez Bazo, Aub quisiera tributar así un homenaje al amigo muerto 17 años antes225. De nuevo se mezclan aquí datos   —138→   verdaderos con circunstancias falsas. Pero el tono se ha modificado. Si bien la ironía continúa, la inclusión de la dedicatoria a Azaña del Proyecto de estructura para un teatro nacional y la larga cita de Lessing que lo encabezaba indicarían que Aub consideraba en 1971 perfectamente válidas aquellas ideas. Aquel Proyecto partía de la convicción de que la cultura, y por ende el teatro, es un problema inherente al Estado y, por tanto, no puede quedar librado al arbitrio individual. Como observa justamente Aznar Soler, cuando fue presentado en 1936 había puesto «el dedo en la llaga de ciertas insuficiencias de la política cultural republicana»226, y terminó definitivamente confinado al olvido con el advenimiento del fascismo. Su inclusión en el fingido discurso de bienvenida de Chabás demuestra hasta qué punto Aub lo consideraba actual. El cambio de colocación de la cita de Lessing, que ahora cierra el discurso de Chabás, transforma la ejemplaridad de aquellas palabras en admonición y da sentido a todo lo que precede, puesto que habla de los responsables de las tinieblas: «En todas partes existen gentes que juzgan a los demás según ellos mismos, y no ven en útiles proyectos sino segundas intenciones» (p. 31). Pero ello en sí mismo no sería grave si se mantuviera limitado al campo de la opinión. Lo grave es cuando esa opinión pretende imponerse a costa de la eliminación física de quienes disienten con ella. La Academia y la cultura ideales son, por el contrario, aquellas «... donde no dan el tono gentes de esa calaña, donde los ciudadanos bien intencionados que forman la mayoría puedan mantenerlos a raya, y no dejar el interés general a merced de sus cábalas, y los proyectos patrióticos en lucha con su malicia y su tontería» (p. 31).



Por último, cabría preguntarse por qué Aub imaginó, en 1971, un discurso que incluía fragmentos de un texto de 1936; y, sobre todo, por qué fingió dirigirlo a la institución que no sólo se erige en presunta depositaria de la pureza del idioma, sino que representa el ámbito por antonomasia de la conservación. Si bien es cierto que la intención irónica   —139→   es evidente, también lo es que este mecanismo elusivo propone un preciso mensaje. Sería posible, tal vez, advertir aquí las huellas de un cierto espíritu vanguardista al que Aub se mantuvo siempre fiel. Al menos, en lo que atañe a la manera de entender la misión de las vanguardias y de concebir la cultura y el papel del intelectual. Creo que muchas de las circunstancias que habían contribuido a generar esas ideas subsistían todavía en los años 70. Me refiero, por ejemplo, a la creciente fractura entre el lenguaje y la realidad, entre las palabras y las cosas. De ahí el rechazo de Aub a formalizar la propia visión del mundo en estructuras jerárquicas rígidas, que se descubren incapaces de garantizar un sentido verdadero al discurso o de contribuir al bien o a la felicidad de la existencia humana. Para colmar las grietas de esa fractura es preciso ampliar los límites del conocimiento permitiendo la inclusión de lo virtual y lo posible, pero sin renunciar a lo racional. No en vano, por otra parte, Aub defendió siempre la validez de una de las tendencias de las vanguardias -el primer cubismo-, en cuanto capaz de realizar esa síntesis. Mainer ha señalado cómo el carácter lúdico, lejos de agotarse en sí mismo, se orienta al aprovechamiento de una serie de posibilidades críticas y de apertura a la comprensión de lo real. Y ha subrayado, asimismo, el peso que Aub concedía al impulso ético presente en una semejante concepción de la vanguardia227. Esa preocupación es la que hacía postular al pintor Torres Campalans la necesidad de dar con «el sentido moral de lo que se pinta». Se trata de una vanguardia asumida como ética en la medida en que es capaz de mantenerse coherente con su objetivo inicial: cambiar el mundo y no limitarse a una simple, segura y autocomplaciente revolución literaria.

En la Academia imaginada por Aub, este cambio se ha realizado sin violencias y sin exclusiones. La situación es moralmente perfecta: una institución que ha recuperado su sentido verdadero y donde la convivencia es posible en virtud de la tolerancia, la razón y la pervivencia de los valores más altos. Se podría objetar que, de hecho, esos valores fueron sistemáticamente pisoteados en el curso de la historia. Sin embargo, hubo quienes intentaron ponerlos en práctica y mantenerlos. No fue   —140→   posible por los motivos que todos conocemos. Pero ¿es ello una razón suficiente para no seguir proponiéndolos?

La nueva cultura que España presenta cuando Aub la visita en su último viaje -y La gallina ciega es un claro testimonio- es la que ha hecho propio el ethos degradado de un mundo típicamente moderno y en vías de ulterior modernización. Ese ethos, que postula el vacuo eclecticismo de la modernidad en nombre de la razón, está sustentado en una paradójica irracionalidad y en el más exclusivo individualismo. La insistencia con que proclama la muerte de las ideologías constituye, de por sí, una formulación ideológica suficientemente reveladora. Únicamente el rechazo de un ethos semejante podrá permitirnos un punto de vista racional y moralmente sostenible desde el cual juzgar y actuar228. Creo que Aub no sólo había entendido la urgencia de ese rechazo, sino que lo puso en práctica en el único modo que estaba a su alcance y que podía resultar efectivo: la denuncia en la ficción y la propuesta, a través de ella, de un mundo de invención, si no formalmente, al menos lógicamente verdadero. Para ello, tuvo que recurrir a lo falso, pero sólo como medio, jamás como fin. «Hacer de la verdad mentira, para que no deje de ser verdad», decía, refiriéndose al arte, por boca de Torres Campalans. Lo cual, en definitiva, es siempre una proposición moral.





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ArribaAbajoRimozione storica, alterazione del reale e finzione ne El teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo

Veronica Orazi


Che cos'è El teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo? Si tratta di un opuscolo contenente il Discorso pronunciato da Max Aub il 12 dicembre 1956 in occasione del suo ingresso nella Real Academia Española, seguito dal Discorso di risposta di un membro appartenente alla medesima, in questo caso Juan Chabás -amico di Aub e critico letterario-, come e consuetudine al momento dell'accoglienza di un neofito. Come lo stesso titolo suggerisce il Discorso di Aub verte sul teatro e più specificamente sulla situazione, sul panorama teatrale spagnolo durante il ventennio 1936-56. L'opuscolo risulta pubblicato alla fine del '56 a Madrid e confezionato dalla tipografia de Archivos di calle Salustiano Olózaga 1.

Questo almeno e quanto a prima vista saremmo portati a credere.

Ma scorrendo le prime righe del testo ci rendiamo subito conto di quanto ampia sia la divaricazione tra dati oggettivi, riconducibili ad una realtà di fatto ed elementi di finzione, aspetti e situazioni fittizi, creazione dell'autore.

Non esiste dunque nessun Discorso perché Aub non fece parte della RAE, tanto meno quindi esiste un discorso di risposta.

Ma su cosa si fonda dunque la situazione presentata dall'opuscolo, il Discorso che qui ci interessa analizzare? Quale è il fulcro attorno al quale si impernia l'intero testo e che fornisce i presupposti per il suo sviluppo? A ben pensarci il punto di partenza, la funzione artisticocreativa, che costituisce il dato essenziale e senza il quale e impossibile concepire il testo nel suo complesso, la struttura costitutiva soggiacente all'opera, trova il suo presupposto fondamentale ed imprescindibile in un atto di rimozione storica.

L'autore rimuove, asporta -non annulla o cancella o ignora- un evento storico, creando così i presupposti per il proprio intervento personale sul corso degli eventi storici realmente accaduti.

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L'atto di rimozione storica operato da Aub interessa un evento che ha profondamente segnato le vicende personali dell'autore, ma non solo: la storia di un intero popolo e della nazione spagnola, della sua vita in ogni suo aspetto: umano, storico, politico, sociale e naturalmente culturale.

Aub rimuove la Guerra Civile spagnola. Il presupposto di tutta l'opera è infatti lo sradicamento del conflitto dal panorama storico della Spagna che l'autore ci descrive. Ma se la rimozione è operata a livello storico è evidente che le sue conseguenze scompaiono ad ogni livello della vita del paese (dal punto di vista umano: niente morti, distruzione, dolore; dal punto di vista socio-politico: niente esili, niente dramma delle due Spagne; dal punto di vista culturale). La rimozione di un evento storico così importante e determinante per la vita globale del paese e dei suoi abitanti e che informò di sé lo sviluppo successivo delle vicende del l'intera comunità che ne e stata coinvolta genera un vuoto evenemenziale, uno spazio storico sconosciuto -poiché la storia ha seguito altri sviluppi- dal quale l'autore parte per la realizzazione del suo panorama «storico». Questo spazio quindi viene a costituire, si configura come il campo d'azione, la 'scena' diremmo quasi -e come calza in questo caso l'uso del termine!- all'interno della quale Aub muove gli elementi che compongono il suo Discorso e quello di risposta di Chabás, rigettando almeno idealmente l'orrore e l'assurdità della guerra, con le sue innumerevoli e molteplici conseguenze in cui è la Spagna che perde -comunque-, dal punto di vista umano, sociale, politico, culturale.

Ma il motivo d'interesse si ingigantisce quando ci avviciniamo al testo: ci aspetteremmo quasi una finzione utopica in cui, eliminata la guerra, tutto si configurasse come sogno delirante, come fuga finalmente irreversibile dalla realtà spiacevole, sommamente spiacevole, nell'affermazione vana di un surrogato felice ed illusorio. Ma è proprio in questo momento che Aub -come sempre- ci sorprende: procedendo nella lettura del Discorso identifichiamo tre diversi livelli di approccio al reale o almeno alla realtà che l'autore ci descrive: la sua realtà in qualche modo ed in parte -e vedremo poi come ed in che termini- astorica.

Lo spazio generato dalla rimozione storica della Guerra Civile appare articolato in tre insiemi -diremmo, prendendo in prestito espressioni del campo matematico- due dei quali originari ed un terzo secondario, generato per intersezione dei due principali.

-Un primo insieme è costituito da fatti ed avvenimenti reali, senza   —143→   che si percepisca in essi alcuna modificazione operata dall'immaginazione dell'Autore. Aub quindi non rifugge la realtà per rifugiarsi in una dimensione illusoria, ma conserva alcuni punti di riferimento saldamente ancorati alla realtà di fatto in quanto oggettivi, rispondenti al reale corso storico degli eventi. Alcune delle notizie che l'autore ci fornisce corrispondono alla realtà storica passata. L'autore in questi casi non interviene con intenti modificatori ma ripropone una realtà concreta ed oggettiva, della quale comunque si serve in seguito secondo i suoi fini e scopi: anch'essa infatti, come parte costituente del testo, partecipa alla composizione del tutto che il Discorso rappresenta, viene inserita a fianco di altri elementi ed in alcuni casi, come vedremo successivamente, si coniuga insieme all'aspetto opposto, quello più specificamente fittizio, originando la terza categoria di riferimento.

Questo primo approccio descrittivo genera un insieme costituito da elementi corrispondenti alla storia reale, alla realtà. Pensiamo ad esempio a:

a) Federico García Lorca autore de La casa de Bernarda Alba, Así que pasen cinco años, El público.

b) Manuel Azaña Presidente della Repubblica e scrittore.

c) Aub pubblica nel 1936 a Valencia a proprie spese il Proyecto de estructura para un Teatro Nacional y Escuela Nacional de Baile dirigido a su Excelencia el Presidente de la República Don Manuel Azaña y Díaz, escritor.

Questi dati corrispondono ad un referente storico oggettivo, ad una realtà scevra da ogni tipo di intervento riconducibile al piano della finzione da parte dell'autore, almeno a livello costitutivo perché, come vedremo più oltre, la loro presenza nel testo li rende funzionali -anzi imprescindibili in quella commistione di reale/immaginario che qui ci interessa sottolineare -alla costituzione della struttura profonda del Discorso.

-Il secondo tipo di approccio al dato storico è caratterizzato dall'intervento mistificatore dell'autore. Ci troviamo nell'ambito della finzione, con l'inserzione di fatti, situazioni ed elementi fittizi, irreali. Si tratta dell'ambito della pura invenzione: la creazione immaginaria di realtà contingenti non rispondenti al vero, che entrano nel testo accanto a quelle reali ed oggettive in parte scomparse, a seguito della funzione iniziale di rimozione storica che ha lasciato un vuoto evenemenziale che secondo intenzionalità precise, come precedentemente accennato,   —144→   l'autore colma e connota secondo le proprie finalità espressive. Esempi del genere ce li forniscono alcuni fatti riportati dall'autore che sono puramente frutto della sua immaginazione:

a) Aub viene accolto nella RAE;

b) presenza, per l'occasione, del Presidente della Repubblica;

c) Aub direttore del Teatro Nacional dal 1940;

d) drammi di Unamuno presenti ogni anno nel repertorio del Teatro Nacional;

e) assistono al discorso di Aub: Federico García Lorca, Pedro Salinas, Juan Chabás, Miguel Hernández, Manuel Altolaguirre (già deceduti all'epoca), Jorge Guillén, Luis Cernuda, Rafael Alberti (che non fecero mai parte della RAE);

f) al Teatro Nacional rappresentazione di opere greche e straniere tradotte da Miguel de Unamuno, Juan Ramón Jiménez, Madariaga, Salinas, León Felipe;

g) la situazione del teatro in Spagna offrirebbe speranze per i giovani, grazie alla liberalità dello Stato tollerante nei confronti di qualunque espressione artistica;

h) a Barcellona rappresentazioni teatrali in catalano, a Valencia in valenziano.

Situazioni tutte che non lasciano adito a dubbi circa la loro fallacia. Risultano perciò immediatamente collocabili in una dimensione di pura fiction, non esistendo alcuna attinenza storica con la reale situazione della Spagna di quegli anni, come il lettore percepisce senza esitazione.

-il terzo tipo di dati che affollano il testo è rappresentato dall'insieme di intersezione originato dal sovrapporsi parziale dei due tipi precedentemente indicati. Cioè a dire: Aub ci presenta dati che sono caratterizzati da un fondo di realtà, che non si discostano totalmente dal reale opponendosi alla situazione contingente oggettiva, ma introducono o meglio applicano ad una base realistica, ad una veridica realtà di fondo elementi fittizi, appartenenti all'ambito della pura finzione, della mistificazione ideale del reale. La divaricazione tra ideale -ciò che è frutto della creazione dell'autore- e reale non è totale. Questa terza categoria referenziale e costituita dunque da elementi in cui si coniugano aspetti reali e fittizi. Si viene a creare uno spazio, una dimensione intermedia a metà strada tra il reale e l'immaginario che intenzionalmente l'autore interseca, intessendo fili che corrispondono variamente all'uno   —145→   o all'altro aspetto, aderendo di volta in volta alla dimensione reale o fittizia. Pensiamo ad esempio a fatti come:

a) l'attribuzione a Lorca -dal '42- di tragedie bibliche: Amar y no amar, El tercer Isaac (vedi l'auto sacramental di Calderón, El primero y segundo Isaac), La noche de Baltasar (sempre di Calderón, La cena del rey Baltasar), Moisés y Orfeo (Calderón, El divino Orfeo); inoltre alcune commedie: Manos blancas ofenden (Calderón, Las manos blancas no ofenden), El duelo de las damas (Calderón, También hay duelos en las damas);

b) l'attribuzione a Rafael Alberti de Los esclavos de sí mismos (Mira de Amescua, El esclavo del demonio), El caballero del Puerto (riferimento a Puerto de Santa María dove l'autore era nato nel 1902), María Teresa mi amor (riferimento alla moglie dell'autore María Teresa León), El bastardo (Lope, El bastardo Mudarra);

c) l'attribuzione a Miguel Hernández de El desdén agradecido (Lope o Moreto, El desdén con el desdén), El murciano valeroso, La villana de Orihuela (Tirso de Molina, La villana de Vallecas; Lope, La villana de Getafe);

d) l'attribuzione a Manuel Altolaguirre di quattro drammi storici: Llama al pecho, Competencias de amor y odio, El comunero sin tacha, Tristezas de Belisa o Cada uno lo que pueda (Lope, Los melindres de Belisa, commedia di cappa e spada);

e) l'attribuzione ad Antonio Machado di Donde no está su dueño, postumo, del '53;

f) l'attribuzione a Manuel Machado de El que presto promete, postumo, del '54.

g) l'attribuzione a Bergamín di Tormento -di Benito Pérez Galdós-, trasformato in balletto con musica di Strawinsky e de El ángel exterminador di Buñuel, in realtà opera cinematográfica;

h) l'attribuzione a Cipriano Rivas Cherif delle opere teatrali Mi prima María, El O de la O, Don Ramón alquimista, El boticario y la religiosa (Echi di Arlequín mancebo de botica di Baroja);

i) nella risposta di Chabás i primi cinque paragrafi riproducono quasi alla lettera il testo di Vida de verdad, parte dedicata a Max Aub nel cap. XXXIV sui drammaturghi giovani nella Literatura española contemporánea (1898- 1950), pubblicata da Chabás nel '52. Adattato alle circostanze di fiction, modificato cioè in base all'alterazione del reale attuata a seguito della rimozione storica della Guerra Civile. Ignora la   —146→   produzione teatrale aubiana durante e dopo il triennio '36-'39, soffermandosi invece sulla sua fittizia attività di direttore del Teatro Nacional. Alterazioni del reale in cui traspare, agli occhi del lettore attento, il richiamo allusivo ad opere di autori del teatro classico spagnolo -come abbiamo visto: Calderón, Mira de Amescua, Lope, Tirso de Molina; o ad altri autori ancora: Pérez Galdós, Baroja; infine anche ad un regista come Luis Buñuel. Od il riferimento a dati biografici relativi all'autore in questione -luogo di nascita, nome della consorte-.

L'autore questa volta ammicca al lettore: se precedentemente, prospettando realtà evidentemente inesistenti, frutto della sua fantasia e della sua creatività, rendeva la divaricazione tra reale ed immaginario di immediata percezione, senza possibilità di equivoco, ora l'allusività si fa più sottile, meno evidente.

Di tanto in tanto fanno però capolino nel testo alcuni elementi particolari, forse ascrivibili alla prima categoria, quella cioè comprendente quegli elementi reali, rispondenti al vero, la cui aderenza alla realtà oggettiva e totale: si tratta di opinioni personali di Aub, così almeno potremmo definirle. Sono infatti l'enunciazione del pensiero personale dell'autore, senza alcuna connotazione funzionale specifica all'interno dell'opera. In esse semplicemente, ma forse e di importanza determinante, l'autore esprime liberamente il proprio pensiero. Consideriamo per esempio asserzioni come:

a) l'elogio di Valle-Inclán;

b) la qualità degli spettacoli ed i teatri, le sale sono «la única moneda que da el valor, al día, del estado de una nación»;

c) «no hay nada más pedajoso que un autor queriendo estrenar». Dunque le tre categorie di riferimento individuabili nel testo, all'interno delle quali si raccoglierebbe la totalità dei dati fornitici dall'autore, sono:

1) il reale, gli elementi oggettivamente corrispondenti alla realtà storica, così come sappiamo che è accaduta. L'aderenza al vero è ovviamente totale nel caso degli elementi che costituiscono questo insieme.

2) il fittizio, ciò che è frutto dell'inventio dell'autore, gli elementi di finzione che, numerosissimi, rileviamo nel testo. È evidente che in questi casi tutti i dati che costituiscono l'insieme sono totalmente discosti dalla realtà, la divaricazione tra dato fornitoci e realtà oggettiva è totale, inerendo i dati presentatici solo ed unicamente alla dimensione immaginaria ed irreale.

  —147→  

3) identifichiamo poi, procedendo nella lettura del Discorso, un insieme di intersezione all'interno del quale sono compresi quegli elementi narrativi la cui aderenza al vero ed alla finzione è assolutamente paritaria: in essi convivono infatti aspetti reali ed immaginari. La realtà risulta alterata, modificata mediante l'inserzione, l'accostamento di aspetti, di dati o particolari irreali, non corrispondenti al vero. Non si tratta come è evidente di un falso storico nella sua totalità, ma dell'alterazione, della manipolazione di fatti e notizie reali mediante la combinazione con elementi relativi alla finzione, producendosi così una commistione di entrambe le dimensioni, reale e fittizia. In questi casi le due categorie vengono a contatto, convivendo all'interno dello stesso dato su cui l'autore ha fatto pesare il proprio intervento, manipolando in parte la realtà evenemenziale oggettiva.

Due sarebbero quindi, come preannunciato più sopra, gli insiemi originari (rispettivamente reale e finzione) a cui si sommerebbe il terzo insieme (alterazione del reale) generato dall'intersezione dei due originari.

Questi tre piani prospettici creano uno spazio mentale all'interno del quale il fruitore dell'opera si muove procedendo nella lettura. Alternativamente si presentano infatti prospettive realistiche, corrispondenti al vero, a ciò che è realmente accaduto; prospettive fittizie in cui la finzione di una realtà inesistente convive accanto al dato oggettivo; infine una terza visuale prospettica caratterizzata da una commistione di ciò che conosciamo e riconosciamo come storicamente vero assieme a quanto individuiamo come fittizio, frutto della spinta creativa immaginifica dell'autore. Abbiamo già definito in qualche modo questa terza categoria, ma forse è bene sottolineare come questo ulteriore piano prospettico, a meta strada tra i due che lo determinano -la realtà e la finzione-, ammicchi continuamente al lettore attento ed in formato che riconosce in esso la distorsione, l'adattamento della realtà oggettiva alla finzione, alle esigenze ed alle finalità espressive dell'autore.

Questi tre piani distinti amplificano la loro funzionalità a significare, poiché non si pongono nel testo in maniera monolitica, fissa, ma al contrario si alternano, spesso si susseguono in modo incalzante a brevissima distanza, si intersecano in un altalenare continuo, nell'incessante movimento del passaggio da una categoria all'altra, da una dimensione all'altra, originando nella compattezza magistrale del testo   —148→   una serie di venature semantiche, di cambiamenti di prospettiva che costituiscono la struttura portante e soggiacente all'opera.

I piani prospettici che ci vengono presentati dall'autore quindi si alternano velocemente, più volte all'interno dello stesso enunciato, della stessa frase. Questa continua variazione prospettica conferisce al Discorso una snellezza, una natura composita di estrema espressività. È tale la rapidità nel passaggio da un piano all'altro e realizzata con tale delicatezza compositiva che il lettore difficilmente percepisce al primo impatto la natura così sottilmente complessa del testo in una visione d'insieme. L'autore ricorre all'uso dei tre piani prospettici nelle loro molteplici mutazioni e nel loro alternarsi come se cambiasse il fondale di un palcoscenico, con tale maestria e sveltezza da riuscire a creare un gioco di specchi così perfetto che nasconde la costruzione, la struttura costitutiva del testo, rendendo evidente ma non immediatamente percepibile la sua pluridimensionalità. Come in un gioco magico di apparizioni e sparizioni le tre categorie si alternano cedendo il passo l'una all'altra nello svolgersi del Discorso.

Se in questo modo speriamo di aver risposto alla domanda iniziale, e cioè che cos'è El teatro español sacado a luz de las tinieblas de nuestro tiempo? ci resta ora da rispondere ad un altro e senza dubbio più impegnativo quesito: qual'è il significato, il messaggio implicito nell'opera?

L'analisi del testo realizzata dovrebbe aiutarci in questo senso e fornirci gli elementi necessari per l'identificazione delle intenzionalità precise dell'autore a questo proposito; dovrebbe consentirci di cogliere il vero significato profondo del Discorso che qui ci interessa prendere in considerazione.

Il presupposto dell'opuscolo, come abbiamo visto, è la rimozione storica della Guerra Civile spagnola. Questo atto genera uno spazio storico privo di qualunque condizionamento evenemenziale relativo al conflitto ed alle sue conseguenze e consente quindi all'autore di popolare e connotare il panorama venutosi a creare in maniera del tutto libera da obblighi di aderenza al fatto storico, come ad esempio il riferimento a realtà tanto pesanti come gli esiti, gli sviluppi -variamente intesi- di un conflitto fratricida.

L'autore si trova improvvisamente libero di agire sugli avvenimenti realmente accaduti. In che modo si comporta, potendo usufruire di questa possibilità illimitata di gestire e costruire il corso degli eventi? Abbiamo visto che nel testo si realizza la compresenza, la commistione   —149→   di reale e fittizio, in alcuni casi coniugati assieme per originare la terza categoria di elementi che rappresentano l'alterazione della realtà da parte dell'autore. La realtà dunque risulta modificata, ma non rifiutata: si tratta di tutti quegli elementi riconducibili alla categoria dell'alterazione della realtà storica oggettiva mediante l'inserzione, l'accostamento di aspetti fittizi a fatti reali ed oggettivamente rispondenti al vero. Sono accolti elementi riconducibili alla sfera del reale, che Aub non esclude in toto, ne modifica sistematicamente, mantenendo al contrario dati realistici in cui l'aderenza al vero resta completa. Risulta allora, a nostro avviso, che da parte dell'autore non esiste il rifiuto della realtà nel suo complesso, ne la volontà di negare o rinnegare il dato storico nella sua totalità. Come precedentemente sottolineavamo Aub rimuove 'solo' ed unicamente la Guerra Civile, mantenendo il resto del panorama storico, ovviamente modificato in seguito ed a partire da questa rimozione. Non c'è volontà di negazione del reale, non c'è rifiuto della realtà storica, ne costruzione di una realtà totalmente fittizia, immaginaria, completamente avulsa e slegata da quello che è stato il corso degli eventi così come storicamente lo conosciamo. Tanto meno quindi c'è un atteggiamento creativo che può essere identificato come fuga dalla realtà di fatto, come creazione utopistica di un surrogato sostitutivo poco probabile.

D'altra parte non si rilevano toni di acredine, atteggiamenti ed espressioni caratterizzati da veemenza eccessiva; non penseremmo quindi unicamente ad un taglio ed a finalità di satira (politica, sociale, ecc.) o di denuncia dai toni esacerbati che, d'altro canto, difficilmente ci potremmo attendere dall'autore, sempre e comunque sottile nella sua complessità infinitamente variegata e differentemente connotata, composto, sopra le righe, diremmo, pur essendo il suo messaggio complesso ed estremamente articolato. Piuttosto ironico che sarcastico o satirico. Pur tuttavia è evidente la presa di posizione dell'autore nei confronti della situazione politica -ma non solamente- della Spagna franchista, così come la componente ludica nell'evocazione di un panorama storico-culturale in cui si insinua -se non irrompe- il gioco di finzione ed alterazione del reale. Questi due aspetti -l'impegno politico, la dimensione ludica- ritornano con frequenza nell'opera aubiana, dichiaratamente in alcuni casi, in maniera più sottile in altri: costituiscono comunque una corda che vibra costantemente nell'intimo dell'autore.

Ci coglie talvolta il sospetto che le sfumature ironiche, le allusioni   —150→   vagamente beffarde non rappresentino lo scopo precipuo del Discorso, ma un veicolo, un canale di comunicazione, la conseguenza intenzionale del contrasto tra realtà oggettiva ed assunzione a testo di situazioni contingenti in netto contrasto con essa e riconducibili all'universo della finzione229. Il genio di Aub proprio ed anche in questo si rivela: nella sua espressività, nell'esemplificazione nel testo di un messaggio, di informazioni la cui comunicazione e delegata non solamente agli aspetti più superficiali ed immediatamente percepibili ma specialmente alla struttura soggiacente ai testi, che cogliamo con l'osservazione attenta della loro natura caleidoscopica e pluri-dimensionale. La grandezza dell'autore poggia anche su questa capacità di significazione estremamente sottile, anche nei casi in cui -e con quale frequenza ciò si verifica all'interno della sua produzione artistica!- il messaggio è connotato in maniera forte, carico di valori ed ideali che coinvolgono irrimediabilmente e segnano in modo profondo il lettore o lo spettatore, il fruitore comunque dell'opera aubiana.

Ma cerchiamo di individuare i limiti temporali all'interno dei quali collocare la composizione dell'opera, fatto questo che come vedremo di seguito può essere di grande importanza nel determinare l'intenzionalità precisa dell'autore in relazione al significato ed alla funzione del testo.

Come accennato precedentemente la risposta di Chabás al discorso pronunciato da Aub riproduce quasi alla lettera i primi cinque paragrafi di Vida de verdad, parte dedicata a Max Aub nel capitolo XXXIV dedicato ai drammaturghi giovani nella Literatura española contemporánea pubblicata nel '52. È evidente che Aub interviene modificando il testo ed adattandolo in base alle alterazioni della realtà che gli eventi storici reali subiscono a seguito della rimozione della Guerra Civile. In base al carteggio tra i due amici che possediamo sappiamo che Aub conosceva il testo di Chabás già dal '50, posto che questi gliene aveva inviata una   —151→   copia pregandolo di occuparsi della pubblicazione del volume in Messico.

Ecco identificato quindi un primo termine a quo, oltre il quale non possiamo retrocedere. Per quanto riguarda poi l'identificazione di un termine ad quem, secondo i biografi l'opuscolo sarebbe stato pubblicato dall'autore nel 1971, un anno prima della sua morte. Risulterebbe così che il testo sarebbe stato ideato, composto e pubblicato nell'arco del ventennio '50-'71.

Ora nulla ci vieta di accreditare l'ipotesi secondo la quale la stesura del testo risalirebbe effettivamente alla meta degli anni '50, posto che l'autore ci presenta in esso il panorama teatrale del ventennio '36-'56 a seguito della rimozione storica.

Un fatto subito ci colpisce: Aub avrebbe tenuto chiuso in un cassetto il Discorso durante quindici anni prima di pubblicarlo. Tutto ciò è ammissibile ed in qualche modo conciliabile con l'ipotesiche attribuisce al testo unicamente valore di satira, critica e sfogo, denuncia? A nostro avviso no. Ciò infatti contraddirebbe l'essenza stessa, la natura del testo: la satira, la denuncia devono essere immediate. Come è possibile dunque che l'autore dopo aver steso il testo con intenzionalità di questo genere lo nasconda per ben quindici anni, per pubblicarlo poi un anno prima della sua morte?

A nostro avviso la spiegazione e un'altra, come altra e l'interpretazione che del testo suggeriamo. Saremmo infatti propensi a considerare l'opera come un atto liberatorio da collocare per la stesura intorno alla metà degli anni '50 e per la pubblicazione alla fine della vita dell'autore, nel 1971 appunto, momento in cui l'impegno e la componente ludica del Discorso assumono valore di ulteriore testimonianza di militanza.

Atto liberatorio che trova ragione di esistere in alcuni fatti contingenti e nella risonanza che essi ebbero presso lo stesso Aub. Nel '54 muore Chabás, al quale l'autore era legato da profonda amicizia e con il quale rimase in contatto epistolare nonostante la distanza -Aub si trovava in Messico, Chabás a Cuba, accomunati nell'esilio-. Da quindici anni l'autore è esiliato in Messico; la situazione della Spagna dopo tre anni di conflitto e quindici di dittatura non lascia presagire certo un'inversione di tendenza nella vita complessiva -e di conseguenza anche culturale- del paese. È da questi presupposti e dall'ovvia eco che essi produssero nell'intimo dell'autore che nasce il testo che qui ci interessava analizzare. Aub concede a se stesso una parentesi liberatoria (pensiamo   —152→   al momento della stesura, alla meta degli anni '50), meglio, impone quasi il suo atto liberatorio a sancire -alla fine della sua vita- la volontà di affermare il sopravvento della Libertà sulla realtà così drammaticamente presente della Guerra Civile e delle sue conseguenze (naturalmente il riferimento e alla pubblicazione dell'opuscolo nel '71). Parentesi, come dicevamo, all'interno della quale operare la rimozione storica che gli consentirà di costruire un panorama diverso, reinserendo elementi della realtà, modificandone altri in virtù della scomparsa del conflitto, inventandone altri ancora in un gioco prospettico sommamente complesso. Non fuga quindi ma auto-concessione e volontà di affermazione di un momento di libera zione dal dramma di una vita e di un'interanazione, presa di posizione contro una realtà tanto pesante, a ribadire quell'impegno nella lotta che sancisca la libertà dello spirito. Concepito in un momento di difficoltà interiore, di tensione psicologica, lasciato poi in un cassetto per molti anni, Aub pubblica il documento alla fine della pro pria vita; un anno prima di morire rende pubblica la sua parentesi liberatoria.

Con quest'atto il testo si arricchisce di un messaggio ideale che si appella all'impegno, veicolato dalla dimensione ludica, in quell'affermazione della libertà dello spirito considerata origine di tutte le altre liberta, sconfiggendo definitivamente nelle sue intenzioni quello che potremmo definire il nemico nazionale della Spagna intera: la Guerra Civile. In un ultimo e per questo ancor più significativo appello contro quanto il conflitto aveva rappresentato e creato, nell'affermazione di ciò che il panorama culturale spagnolo -ma non solamente- sarebbe stato secondo le premesse che precedettero immediatamente la guerra -e pensiamo a Federico García Lorca direttore de La Barraca, ad Alejandro Casona direttore della sezione teatrale delle Misiones Pedagógicas, a Cipriano Rivas Cherif direttore del teatro sperimentale La T. E. A., a Gregorio Martínez Sierra che al Teatro Eslava di Madrid aveva iniziato un' innovatrice campagna di teatro d'arte, ecc. -e che furono travolte, come d'altra parte ogni aspetto della vita nazionale e delle vicende di tutta la popolazione, dal dramma della guerra.

Da un momento di tensione interiore, forse anche di difficoltà, nasce -quindici anni dopo- con la decisione di pubblicare l'opuscolo, l'ennesima affermazione di volontà di salvaguardia e difesa di quella libertà dello spirito che tanto significò per l'autore; ultimo e   —153→   pi potente -forse- messaggio per i suoi contemporanei come per le generazioni a venire.

Esemplificato in quella dimensione parallela che la produzione di un falso concretizza.

Come sottolineava Arturo del Hoyo nel prologo al Teatro completo dell'autore: «a lo largo de toda su obra se advierte una constante apelación y defensa de la libertad, de la libertad en letras grandes»230, e quale libertà maggiore, quale più alta volontà di affermazione del proprio pensiero dell'arrogarsi il diritto, sommo atto di liberazione, di operare una rimozione storica che renda finalmente giustizia ad un popolo, ad un'intera Nazione per il dramma che il conflitto ha rappresentato?