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Alessandro VI e la prima acculturazione americana

Giuseppe Bellini





La scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo avviene in un propizio periodo ispanico. Regnano, infatti, nella Castiglia e in Aragona i re Cattolici e il papato è retto nuovamente da uno spagnolo, il papa Borgia, Alessandro VI, il quale, giunto al soglio di San Pietro nel 1492, vi permarrà fino al 1503, anno della sua morte.

Il grande evento ha quindi il suo avvio e la consacrazione sotto il segno iberico, anche se è un italiano, meglio un genovese, a realizzarlo; un genovese ormai iberizzato, ma non dimentico delle sue origini, come del resto non le dimenticheranno gli spagnoli. Gómara non avrà scrupoli, infatti, di porlo duramente in rilievo nella sua Historia general de las Indias, quando afferma che i re, al suo ritorno in Spagna dopo il primo viaggio, nel confermargli la fiducia, nominandolo ammiraglio delle Indie, dandogli uno scudo nobiliare e ribadendo i privilegi concessi, lo ammonirono anche che «se hubiese de allí adelante mansamente con los españoles que los iban a servir tan lejos tierras»1, vale a dire che stesse bene attento, perché le terre da lui scoperte non erano sue e la gente che vi si recava contava tra i sudditi regi2.

La folgorante notazione del Diario colombiano in data 12 ottobre 1492, «A las dos horas después de media noche pareció la tierra»3, rappresenta l'introduzione a un mondo della meraviglia. Esso usciva dalle brume notturne ad opera di un marinaio avventuroso e rendeva concreto un sogno, un'utopia di secoli. Ha ragione O'Gorman quando afferma che l'America fu un'invenzione europea4. L'America fu, come scrive Domínguez Molinos, più volte sognata5.

Sappiamo bene come Colombo interpreti a prima vista il mondo antillano con il quale viene a contatto: un paradiso di gente buona, bella e innocente, che va in giro nuda come Adamo ed Eva, benché presto debba ricredersi, anche se mai la natura lo delude: la Fernandina è un'isola «muy verde y muy llana y fertilísima», vi si coglie panizo tutto l'anno, gli alberi sono «muy disformes de los nuestros», con rami di varie maniere su un medesimo tronco6; la Marigalante presenta, nelle parole di Álvarez Chanca, in occasione del secondo viaggio colombiano, «tanta espesura de arboleda que era maravilla»7; la Guadalupe li accoglie da lontano con una spettacolare cascata d'acqua, «como si cayera del cielo»8.I pesci poi, nelle parole di Colombo, «son tan disformes de los nuestros, qu'es maravilla» , hanno «las más finas colores del mundo», azzurri, gialli, rossi e di ogni colore, «y las colores son tan finas, que no hay hombre que no se maraville y no tome gran descanso en verlos»9; inoltre, afferma di aver veduto balene, ma anche sirene. Né la meraviglia americana si esaurirà, una volta affrontato il continente, testimone primo Cortés nelle sue Cartas de relación.

Le difficoltà colombiane nelle Antille non valgono a cancellare l'immagine euforica datane in un primo tempo e presto diffusasi in Europa e ancor oggi resistente. Ma la questione politica si era imposta subito con grande urgenza, non tanto allo scopritore, quanto ai sovrani spagnoli, i quali, per proteggersi dalle mire dei portoghesi, ormai avviati stabilmente sulla via delle Indie circumnavigando l'Africa, ricorsero al papa spagnolo, della grande famiglia valenzana dei Borgia. Le relazioni con lui non erano certo ottime al momento dell'impresa colombiana. Vi erano stati dissidi con i pontefici già nel 1482, quando Sisto IV aveva preteso di nominare un suo nipote alla sede vescovile di Cuenca. I re Cattolici10, nel loro programma di accentramento dei benefici ecclesiastici, avevano opposto un netto rifiuto, rivendicando la propria autorità di proposta. La minaccia di convocare un concilio, che avrebbe coagulato l'opposizione al papa, diede ai sovrani spagnoli la vittoria e fu nominato vescovo il loro candidato, Alonso de Burgos, cappellano della regina.

Con Alessandro VI si ripropose il conflitto, in quanto il papa era intenzionato a nominare alla sede arcivescovile di Valencia il proprio figlio, Cesare Borgia. A ciò si aggiungeva la politica papale ostile al re di Napoli, Fernando d'Aragona, figlio di Alfonso il Magnanimo e quindi cugino del re Cattolico11. Fu comunque un pretesto, perché lo stesso Alfonso si era già accordato con il re di Francia, Carlo VIII, per un'eventuale sua campagna contro il regno di Napoli, e la politica papale era anch'essa favorevole ai francesi, essendo giunto Alessandro VI al trono pontificio grazie alle manovre del cardinale Ascanio Sforza, fratello del filo-francese duca di Milano, Ludovico il Moro.

Ciò che interessava ai re Cattolici era di essere loro i proponenti dei candidati ai benefici ecclesiastici, ma verso la meta del 1492 essi decisero strategicamente di esaudire i desideri del papa a proposito del figlio. Da allora i rapporti furono cordiali, e anzi i re ispanici trassero vantaggio dalla situazione mutata, sia con l'aggiudicazione della parte di mondo scoperto e da scoprire verso occidente, sia con l'affermazione del Patronato regio sulla Chiesa di quelle che sarebbero state chiamate le Indie. Che cosa avesse avuto in cambio Alessandro VI non sappiamo, ma forse può essere non azzardato supporre che qualche sostanzioso vantaggio per sé e per la famiglia ne dovesse trarre.

Come è noto tre furono le bolle pontificie relative all'America. I portoghesi avevano avuto dal pontefice Niccolò V, con la bolla Romanus Pontifex, dell'8 gennaio 1455, la conferma di tutte le concessioni precedenti12. Già nel 1436, infatti, il re del Portogallo, Don Duarte, aveva sostenuto, in una lettera al pontefice di allora, che, poiché tutta la terra apparteneva a Dio, al papa era stato trasmesso il potere su tutto l'orbe, e ciò che si veniva a possedere per sua espressa concessione, «de speciali licentia et permissione Dei possideri videbuntur»13.

Il problema per la corona di Castiglia era quindi dato dal «titolo» al possesso delle terre scoperte da Colombo e di quelle da scoprire. Il ricorso al papa, avvenuto con tutte le cautele del caso, per non insospettire i portoghesi e per batterli sul tempo, motivò un breve di Alessandro VI, del 3 maggio 1493, subito sostituito, per l'insoddisfazione dei re Cattolici, dalla bolla del 4 maggio, con lo stesso incipit: Inter cetera14. Fu un vero e proprio atto di donazione delle terre scoperte o da scoprire, ad occidente, oltre una linea che da polo a polo passava a cento leghe ad ovest delle Azzorre, già portoghesi.

Le difficoltà con i vicini lusitani portarono a una nuova bolla, la Eximiae devotionis, del luglio 1493, nuova copia della prima Inter cetera, come ben spiega Morales Padrón, «en la que se comunicaba y aclaraba que se le otorgaba a Castilla los privilegios, gracias, libertades e inmunidades y facultades que se le habían concedido a Portugal en anteriores documentos»15.

Era il definitivo superamento del trattato di Alcáçovas, del 4 settembre 1479, con cui si era posto fine alia guerra di successione per il regno di Castiglia, con la rinuncia di ogni ulteriore pretesa da parte di Alfonso V, re del Portogallo. Per tale trattato i portoghesi si impegnavano a non intervenire più nella questione delle Canarie, isole dell'arcipelago scoperte e da scoprire, riconosciute agli spagnoli, mentre i re Cattolici riconoscevano al Portogallo il possesso, conquista e commercio nelle isole atlantiche di Madeira, delle Azzorre e di Capo Verde, nelle terre e isole che ulteriormente dovessero scoprire, dalle Canarie in giù verso il golfo di Guinea, oltre al diritto di conquista del regno di Fez, nell'Africa del Nord.

I tentativi di infrazione del trattato nell'Atlantico furono duramente repressi dal Portogallo. La Radulet afferma16 che detto trattato portava alla soluzione di Tordesillas. In realtà furono la Inter cetera e la scoperta di Colombo, nel primo viaggio di ritorno, di una nuova rotta a Ovest, a portare al nuovo trattato. Il 4 giugno 1493, infatti, Spagna e Portogallo, dopo lunghi negoziati, firmavano un accordo per il quale si dividevano il mondo scoperto e da scoprire, ponendo come linea divisoria un meridiano corrente a 370 leghe a ovest delle isole di Capo Verde: le terre a occidente di detto meridiano sarebbero appartenute alla Castiglia, e il Portogallo assicurava ai castigliani il libero passaggio attraverso il mare che considerava suo.

Ma torniamo alla Inter cetera nella sua definitiva redazione. Essa pone le basi non solo del diritto castigliano al possesso delle Indie, ma dell'atteggiamento ufficiale verso gli abitanti del continente. Il testo parla chiaro: si tratta dell'esaltazione della fede cattolica e dell'espansione della religione cristiana: «ut Fides Catholica et Christiana Religio nostris praesertim temporibus exaltetur, et ubilibet amplietur et dilatetur, animarumque salus procuretur, ac barbarae nationes deprimantur, et ad fidem ipsam reducantur»17.I grandi meriti della reconquista venivano celebrati, in particolare la conquista di Granada18; era giusto, quindi concedere a chi aveva compiuto tale impresa il compito di propagare la fede nelle isole e nella terraferma ancora ignote, «ut illarum incolas et habitatores ad colendum Redemptorem nostrum et fidem catholicam profitendam reduceretis»19.

Colombo è celebrato adeguatamente nella sua prima impresa, accettata la sua versione riguardo agli indigeni nudi e buoni, quindi ben disposti a ricevere l'istruzione cattolica20, ma già si fa allusione alle ricchezze che lo scopritore affermava di avervi trovato: «aurum aromata et aliae quam plurimae res pretiosae diversi generis, et diversae qualitatis reperiuntur»21. La donazione è fatta, si sottolinea, «motu proprio, non ad vestram vel alterius pro vobis super hoc nobis oblatae petitionis instantiam sed de nostra mera liberalitate, et ex certa scientia ac de Apostolicae Potestatis plenitudine»22. Il papa si assumeva quindi tutta la responsabilità dell'atto, mettendo al riparo da ogni accusa i re Cattolici, ma i portoghesi non erano poi tanto ingenui da credervi.

Il comportamento di Colombo nelle isole antillane sarà, in realtà, ben lontano dal tradurre in pratica un qualsiasi impegno evangelizzatore, nonostante quanto scrive nella lettera inviata ad Alessandro VI nel febbraio del 150223. Le sue preoccupazioni vanno alle ricchezze, in particolare all'oro, di cui sappiamo vi era invece scarsa presenza. Di fronte agli indigeni l'atteggiamento suo e degli spagnoli è certamente duro, anche se le accuse del padre Las Casas nella Historia de la destrucción de las Indias sono da accogliere con precauzione. Nazioni «barbare» le aveva definite Alessandro VI nella Inter cetera, ma Colombo e i suoi si comportarono presto con i nativi come se fossero esseri unicamente da sfruttare. Il risultato fu una serie di rivolte, quindi la repressione e alla fine la loro rapida scomparsa.

Dovevano giungere gli ordini religiosi, in primo luogo i francescani e i domenicani, perché iniziasse in qualche modo un'evangelizzazione che in primo luogo sarebbe convenuto rivolgere agli stessi spagnoli, piuttosto che agli abitanti delle isole. Lo attesta Las Casas, quando riferisce della predica accusatoria di frate Antonio de Montesinos, la terza domenica d'Avvento del 1511, nella cattedrale di Santo Domingo, che fu motivo della sua decisione di rinunciare all'encomienda paterna e di farsi frate. Il predicatore non si era fatto scrupolo di riprendere duramente gli encomenderos per il barbaro comportamento verso i nativi, minacciandoli delle pene dell'inferno. A distanza di anni ancora echeggiava in Las Casas l'apocalittica reprimenda, se la evocava con emozione nella sua Historia de las Indias24.

Che l'impegno evangelizzatore non preoccupasse in modo particolare i colonizzatori delle isole antillane a poco a poco raggiunte, penetrate e ripartite tra di loro, è un dato di fatto, in parte giustificato anche dalla scarsa presenza di religiosi. D'altra parte le stragi di Colombo, quelle del ribelle Roldán, l'ulteriore strage di Ovando, con l'impiccagione e il rogo di ottantaquattro caciques e della regina Anacaona, ormai pacifica tributaria degli spagnoli, sono la testimonianza di una condotta non certo esemplare, come del resto non esemplare era stata quella del nobile Michele da Cuneo nel suo comportamento con la camballa regalatagli dallo scopritore, da lui accompagnato nel secondo viaggio: con le cattive era riuscito a domarla e a farla sua, e soddisfatto scriveva a Girolamo Annari, nell'ottobre 1495, che da allora in avanti essa si era comportata come se fosse stata «amaestrata a la scola de bagasse»25.

E ancora, è a tutti noto che Cristoforo Colombo tentò un commercio di schiavi, cosa non sorprendente all'epoca, progetto naufragato per l'opposizione della regina Isabella, ma anche per la poca resistenza fisica degli indigeni, come pure attesta il citato da Cuneo, ponendo sull'avviso l'amico26. La condizione, comunque, degli indigeni delle Antille fu, nella sostanza, ugualmente quella della schiavitù, o se vogliamo del servizio coatto, anche se, come ricorda Cari Ortwin Sauer, dalla Spagna giungevano istruzioni e ammonimenti, nel senso che gli indios erano sudditi della Corona e quindi avevano come tali gli stessi diritti e doveri degli altri sudditi e «se les podía exigir que trabajasen, pero solamente en condiciones favorables, en forma limitada y a cambio de un salario justo»27.

I re Cattolici non cessavano di attenersi, infatti, allo spirito della Inter cetera, ma anche reagivano ad un evento, quello della schiavitù dei nuovi popoli, non previsto come fatto commerciale e procedente come tale da un'iniziativa sfuggita al loro controllo, che contraddiceva le istruzioni impartite in data 29 maggio 1493, per la cui esecuzione avevano inviato al seguito di Colombo frate Boil, e cioè che si trattassero «muy bien e amorosamente» gli indigeni, «sin que les fagan enojo alguno, procurando que tengan los unos con los otros mucha conversación e familiaridad, haciéndose las mejores obras que ser pueda; [...] é si caso fuere que alguna ó algunas personas trataren mal a los dichos indios en cualquier manera que sea, el dicho Almirante, como Visorrey é Gobernador de sus Altezas, lo castigue mucho por virtud de los poderes de sus Altezas que para ello lleva»28. La mancanza di controlli rendeva nulle le disposizioni, ma occorre distinguere tra l'intenzione della corona e la condotta dei colonizzatori.

La situazione non era destinata a cambiare sensibilmente nei primi anni della conquista del continente americano. Fra Toribio de Benavente, il noto «Motolinía», o «Povero», lo denuncia nella sua Historia de los Indios de la Nueva España, dando notizia di un frequente intervento divino contro gli sfruttatori dell'indigeno29. Egli considera come una delle piaghe del Messico la condotta violenta di coloro che, di bassa estrazione e spesso criminali, si erano imposti ai signori locali e li sfruttavano, appropriandosi pure dei loro schiavi, che sottoponevano a un ritmo vertiginoso di vendite, con relativa marchiatura a fuoco in volto da parte di ogni nuovo padrone30.

Quale acculturazione potessero promuovere individui in genere rozzi e dati alla violenza e allo sfruttamento è difficile stabilire per le Antille. Tuttavia il mondo antillano finì inevitabilmente per europeizzarsi, almeno per quanto riguarda gli usi, i costumi, l'edilizia, l'urbanistica, e soprattuto l'ingresso di animali -cavalli, asini, muli, vacche, maiali, galline, pecore, capre, né mancarono gatti e cani, e anche topi, passeggeri clandestini delle stive-, poiché nell'Española e nel resto delle Antille non ne esistevano di grandi proporzioni31, e di piante -frumento, riso, vite, ceci, arance- portati dall'Europa32. Alcune piante non diedero risultati, come il frumento e la vite, mentre prosperarono gli alberi da frutta e si riprodussero favorevolmente gli animali tanto che, ad esempio, per i cavalli e i muli, le isole antillane costituirono un prezioso centro di rifornimento per le spedizioni sul continente.

Vi è chi sostiene che l'importazione di piante e animali avvenne a vantaggio degli indigeni33; nella realtà tale importazione fu motivata da ragioni strategiche e di sostentamento anzitutto degli spagnoli, i quali si erano trovati fin dall'inizio della scoperta -e si ritroveranno spesso durante la conquista del sud dell'America-, senza soverchie possibilità di sfamarsi, o con prodotti commestibili che la traversata oceanica finiva per non rendere più tali. Fu quindi un'europeizzazione di europei, rispondente soprattutto ai bisogni e alle abitudini loro, in quanto gli indigeni non ne subirono che il riflesso, e del resto presto scomparvero.

Il radicamento nelle isole antillane, dopo la conquista delle maggiori di esse, dalla Española, a Portorico e Cuba, si manifestò nella costituzione di un governo, retto all'inizio dai Colón, ma controllato per quanto possibile dal potere regio con propri funzionari, che in varie occasioni vennero a conflitto con lo scopritore e con i suoi successori. Dove gli spagnoli si stabilivano fondavano pueblos. Nel tempo, nell'Española fondarono, oltre alla Isabela, presto sostituita da Santo Domingo, -rifondata nel 1502 e trasferita nel 1504 sul lato opposto del rio Ozama-, una dozzina di città, che poco a poco presero forma secondo un'urbanistica che tendeva a innovare quella ispanica, nel senso di maggior spazio e razionalità, con preferenza per una pianta quadrangolare34, e che si arricchirono man mano di costruzioni in muratura.

Già per il luogo e per l'epoca si presentava imponente il palazzetto (1614) dell'ammiraglio Diego Colón nella capitale dell'isola, in realtà piccola cosa se raffrontato alle costruzioni principesche della penisola, e fin dai primi decenni si incominciarono a costruire conventi e chiese, come il convento dei francescani a Santo Domingo (1510) e dei mercedari (1514)35, e ospedali, quello di San Nicolás de Bari nella stessa capitale, iniziato nel 1533. La cattedrale, primate delle Indie, fu fondata nel 1523 e sostituì la costruzione provvisoria del 1501; come osserva Ramón Gutiérrez, essa rappresenta una sintesi culturale, in quanto vi si ritrovano gli stili che trionfarono in Spagna, dalla struttura gotica della crucería, alla facciata plateresca -attribuita all'architetto Rodrigo Gil de Liendo, autore pure del monastero della Merced e della chiesa di San Francesco, di cui solo si conservano le rovine-, dall'ornato di stile isabellino, alla finestra mudéjar del presbiterio; il tutto dà a quest'opera un carácter precursor, in quanto «marca el eslabón inicial de la arquitectura en América»36, la cui caratteristica è una maggiore libertà, che poi nel continente, a contatto con le grandi civiltà americane, azteca, maya e inca, subirà il profittevole contagio dell'arte e del gusto locali. In ambito militare, le principali città costiere delle Antille saranno in seguito fortificate con imponenti opere, realizzate in massima parte dall'ingegnere italiano Giovanni Battista Antonelli, cui si deve tutto il sistema difensivo caraibico, da Cartagena de Indias a Cuba37.

La nuova società che si presentò nelle Antille, dopo gli anni della scoperta e della conquista, fu una società dominante di bianchi, agli inizi presa esclusivamente da una realtà di sopravvivenza. La diffusione della cultura, in principio una cultura materiale, fu al suo servizio, ma non esclusivamente. Le spedizioni erano composte in gran parte di contadini e di artigiani, che sapevano bene il loro mestiere, e comunque ognuno doveva ingegnarsi, onde provvedere alle proprie necessità.

La cultura vera e propria ebbe una penetrazione lenta, ma non mancò, fin dall'inizio della conquista delle isole antillane, un interesse scientifico verso le popolazioni raggiunte. Cristoforo Colombo già dal secondo viaggio dava incarico a frate Ramón Pane di studiare la lingua, la religione, gli usi e i costumi degli indigeni dell'Espanda. La Relación acerca de las antigüedades de los indios, terminata nel 1498, costituisce, come afferma l'Arrom, la «piedra angular» degli studi etnologici per l'area antillana, una delle opere classiche dell'antropologia americana38.

Diffusori efficaci della cultura, a partire dalle Antille, furono gli ordini religiosi, attraverso l'organizzazione dei loro conventi, che contemplava scuole non solo di catechismo, ma di arti e mestieri, più tardi anche di studi superiori, che autorizzavano all'apertura di corsi universitari o addirittura di vere e proprie Università, alcune delle quali rimaste famose. A Santo Domingo, nel 1505, frate Juan Suárez fondava nel convento francescano un colleg io a tale scopo, e nel 1513, come ricorda l'Henríquez Ureña, la corona emanava una disposizione perché si insegnasse latino a indios selezionati per intelligenza39.

Nel 1538 il collegio dei domenicani di Santo Domingo divenne Università Pontificia di Santo Tomás de Aquino, la prima d'America, anche se México e soprattutto Lima, ancor oggi ne contestano il primato, adducendo, come Maticorena Estrada, che solo il 23 febbraio 1558 ricevette la real cédula di fondazione, mentre México l'aveva avuta il 21 settembre 1551 e Lima ancor prima, il 12 maggio dello stesso anno40. Per secoli, tuttavia, fondandosi sul dato cronologico di avvio, l'Università dominicana difese il suo ruolo di «Atene del Nuovo Mondo»41, anche se nel 1540 era stata costituita, sempre nella capitale, sulla base del collegio fondato anni prima dal vescovo Sebastián Ramírez de Fuenleal42, l'Università di Santiago de la Paz, con beni donati da un «opulento» colonizzatore, don Hernando de Gorjón.

La preoccupazione per la cultura fu uno dei meriti maggiori del «colonialismo» ispanico. L'altro fu quello di aver posto in discussione il diritto di conquista, anche se diede luogo a curiosi atti esteriori, come il «requerimiento», che sembrò la soluzione ai problemi dibattuti dai domenicani nella Giunta di Valladolid del 1512 circa la «justa guerra» e il dominio su gente libera per diritto naturale. Ancora la Inter cetera torna ad essere punto di riferimento, poiché se il papa, in quanto rappresentante di Dio in terra, era padrone del mondo e aveva concesso ai re Cattolici le Indie, la corona aveva il pieno diritto di reclamarne il possesso, prima per via pacifica -l'assurdo «requerimiento», appunto-, poi con la forza, così che «a los que fuesen presos los podía dar por esclavos», secondo quanto opinava il «bachiller» Enciso43.

Nessun altro paese europeo, divenuto possessore di colonie, espresse mai preoccupazioni morali simili a quelle della Spagna circa i territori e le popolazioni conquistate; preoccupazioni che portarono alla difesa del diritto naturale alla libertà da parte dei popoli e alla negazione del potere di disporre del mondo da parte del pontefice e del diritto di proprietà da parte dell'imperatore. Las Casas fu un agguerrito sostenitore di questa contestazione, né lo fu meno il padre Francisco de Vitoria. Il problema morale si fece così drammatico, sulla scia delle denunce del padre Las Casas44 e le argomentazioni del de Vitoria45, che l'imperatore, ad un certo momento, sembrò pensare seriamente a ritirarsi dalle terre americane, cosa che non gli avrebbero certo permesso i rappresentanti dei molti interessi che ormai si erano creati e i conquistatori. Le conseguenze, comunque, furono le Leyes Nuevas, esempio luminoso della preoccupazione dello stato spagnolo per la difesa dell'indio, anche se la realtà in molti casi si rivelò diversa.

La conquista dell'impero azteco lasciò presto in secondo piano le isole antillane, base ormai, soprattutto Cuba, decaduta la Española, per il lancio di imprese sul continente americano. La cultura di segno europeo-ispanico vi si diffuse in un ambito civile estremamente diverso da quello caraibico, segnato da grandi civiltà. Ricordiamo lo stupore di Díaz del Castillo di fronte alla capitale azteca, elevantesi dalle acque, visione che paragonava a quelle fantastiche dell'Amadis46, e l'ammirazione di Cortés per l'organizzazione del mondo in cui si addentrava, le costruzioni e le opere idrauliche, ma anche per le meraviglie di giardini ricchi di fiori, di piante, di alberi e di uccelli dai colori meravigliosi47.

Per quanto attiene ai primi centri della nuova cultura nella regione messicana, siamo appena al 1523 quando frate Pedro de Gand, parente di Carlo V, dota i conventi da lui fondati di una scuola per adulti, aperta ai membri della nobiltà indigena, dove religiosi versati nelle varie discipline insegnavano, oltre alla dottrina cristiana, humanidades e musica. Un centro di alta cultura fu il collegio di San Francisco, nella capitale, retto dal citato Pedro de Gand, ma il religioso non dimenticava neppure le classi meno abbienti; perciò istituì nei conventi scuole professionali di arti e mestieri, in cui si insegnava anche disegno, pittura e scultura. Né trascurò la medicina e fondò nella capitale messicana un ospedale, che fu il primo centro d'insegnamento medico in America.

Quella di Pedro de Gand non fu una iniziativa isolata di cultura; molti religiosi vi si dedicarono, e lo attesta l'impegno di studio delle civiltà con le quali entravano in contatto, il fiorire di vocabolari e di grammatiche delle varie lingue indigene, le relazioni sulla storia e le civiltà locali, esempio straordinario di studioso il francescano Bernardino de Sahagún, autore di una monumentale Historia general de las cosas de Nueva España, e lo stesso vescovo Diego de Landa, cui si deve la fondamentale Relación de las cosas de Yucatán.

Il primo vescovo di México, frate Juan de Zumárraga, fondò un seminario indirizzato alla preparazione dei religiosi indigeni da destinare all'evangelizzazione, e un viceré illuminato, Antonio de Mendoza, preoccupato per la sorte della società meticcia che si andava formando, istituì nella capitale della Nueva España un collegio d'istruzione ad essa rivolto. Anni dopo, nel 1576, sempre a México, frate Antonio de la Vera Cruz avrebbe fondato il gran colegio de San Pablo e promosso l'istituzione nella capitale e in altre città del vicereame di biblioteche consistenti. Lo stesso Zumárraga, introduttore nel 1535 a México della prima stamperia, diretta dal bresciano Giovanni Paoli -in un primo tempo dipendente dai Cromberger di Siviglia-, aveva lasciato la sua biblioteca, di più di quattrocento volumi, al colegio imperial de Santa Cruz di Tlatelolco, fondato nel 1536, esempio che doveva essere seguito in epoca più tarda, nel 1646, dal vescovo e viceré Juan de Palafox y Mendoza, che dotò il seminario di Puebla de los Ángeles di una biblioteca di più di dodicimila volumi, appartenenti a discipline e lingue diverse.

A fini evangelizzatori fu particolarmente coltivato il teatro. Fra Toribio de Benavente, che fu anche autore teatrale, ne dà estesa notizia nella Historia de los indios de la Nueva España. Si trattava di rappresentazioni all'aria aperta, con intervento non di rado di masse di attori, come ne La toma de Jerusalén, dove comparivano eserciti di cristiani e di turcos, ossia infedeli. Si creavano pure ampi spazi «meravigliosi», come ne La caída de nuestros primeros padres, dramma per il quale fu ricostruita una sorta di paradiso terrestre, «con diversos árboles con frutas y flores, de ellas naturales y de ellas contrahechas de pluma y oro», e ancora una gran varietà di uccelli, ma anche di animali vivi, taluni feroci, come quell'ocotochtle che dà motivo all'umorismo del frate, il quale ricorda come colei che rappresentava Eva si fosse salvata dai suoi morsi in quanto l'animale «de bien criado, desvióse», cavaliere, quindi, ma questo avveniva, dichiara il frate, perché «era antes del pecado, que si fuera después, no tan en hora buena ella se hubiera allegado»48.

La cultura della Nueva España si andò nutrendo immediatamente di poesia rinascimentale italiana, attraverso il veicolo ispanico. Gutierre de Cetina fu il diffusore dell'italianismo nella capitale49, che avrebbe dato poeti di grande rilevanza nell'età barocca, tra essi Sor Juana, e Bernardo de Balbuena, autore del luminoso elogio di México nella Grandeza Mexicana (1604): una città opulenta, splendida di giardini pensili, di acque, di belle dame e cavalieri, dove regnava eterna primavera.

Grandi architetture di palazzi e di chiese arricchirono presto le città, opera di artisti venuti dalla Spagna, ma che si avvalevano anche di artisti e di mano d'opera locale: la cattedrale di Cuemavaca, del 1531, in gotico decadente; la chiesa mudéjar di San Francisco, a Tlascala, la facciata plateresca di San Agustín (1539), ad Acolmán, con la parte centrale in stile plateresco, la herreriana chiesa di San Jerónimo, a México, un'infinità di chiese a Puebla, a Mérida, a Chiapas, con caratteristiche anche difensive, di luoghi fortificati. La grande cattedrale di México fu iniziata nel 1563 e la sua costruzione si sarebbe protratta per due secoli e mezzo. Il barocco avrebbe presto preso il sopravvento.

Quanto alla pittura -sembra che il primo pittore lo avesse portato al suo seguito Cortés- e alla scultura lignea, di affermata tradizione ispanica, operarono nelle cattedrali e nei conventi pittori e scultori meticci e spagnoli, seguendo la corrente europea, ma dando apporti non di rado originali. La pittura messicana, ad esempio -come farà la scuola pittorica di Quito (1534), poi quella di Lima, per il trasferimento del fondatore, il pittore napoletano Angelino Medoro, nella capitale del Perù-, «dulcificó, por sustanciación de su temperamento antiguo», come nota il Castedo, «el tremendismo español»50.

Nel resto dell'America, o almeno nei centri di maggior rilievo, quelli dell'ex impero incaico, l'acculturazione si svolge seguendo, più o meno, le stesse linee, ma il suo momento più alto lo trova nel secolo XVII, con il trionfo del barocco. Gli inizi sono in qualche modo più lenti e difficili, dato il divario temporale nell'attingere le nuove terre continentali andine e delle coste del Pacifico, in realtà periferiche rispetto al crogiolo in cui si veniva formando la nuova civiltà di segno ispano-americano, tra il Mediterraneo caraibico e i mondi azteca e maya.

Anche qui, ben presto, la presenza della cultura rinascimentale, permeata di italianismo, si afferma nella poesia attraverso l'ariostismo de La Araucana, di Ercilla, e il petrarchismo di cui si fa diffusore, a partire dal 1570, Enrique Garcés con le sue traduzioni del poeta italiano51. L'Academia Antártica di Lima diviene il centro culturale di maggior prestigio52, ma siamo già sulla fine del secolo XVII e l'argomento supera i limiti cronologici del nostro programma.

Mi sono, infatti, limitato agli inizi della presenza ispanica in America, partendo dalla Inter cetera di Alessandro VI, per puntualizzare solamente come essa metta in moto un movimento di acculturazione che parte dal proposito evangelizzatore. Ciò avviene in tutto il resto del continente, avvertendo che, pur accettando caratteri delle culture locali, gli spagnoli non potevano che diffondere in primo luogo la propria cultura.





 
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