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Abajo

Il «Teatro fantastico»

Ermanno Caldera





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ArribaAbajoUna nuova idea della «spettacolarità»

Verso la metà dell'Ottocento, il teatro di magia sembra aver smarrito quelle energie residue che ne avevano determinato l'ultima, sorridente stagione, fra il 1829, l'«annus mirabilis» della Pata de cabra, e il 1843, in cui Hartzenbusch mandò in scena il suo terzo lavoro del genere, Las Batuecas. Ironico nei confronti della sua stessa materia, allegorico e moraleggiante, questo teatro aveva ormai esaurito quella spinta che gli aveva assicurato tanta vitalità nel corso del Settecento; per sopravvivere aveva dovuto non solo trasformarsi in parodia di se stesso, ma perfino sopprimere la tradizionale figura del suo protagonista: il mago, che ormai più nessuno poteva accettare come l'equivalente o il sostituto dello scienziato, aveva così dovuto lasciare il posto a entità più astratte mentre le operazioni magiche venivano piegate in direzione essenzialmente comica.1

Era una strada senza vie di uscita; infatti, sfruttate le ultime risorse, il teatro di magia languiva. Non era propriamente morto, visto che qualche pieza nuova o tradotta entrava ogni tanto a far parte dei repertori, ma non era in grado di soddisfare una domanda che rimaneva pressante. In proposito, Joaquín Álvarez Barrientos cita l' Advertencia che Vicente Lalama premetteva nel 1849 alla sua rielaborazione dell' Anillo de Giges, nella quale sottolineava una forte   —8→   divergenza fra le esigenze del pubblico e la relativa infecondità dei commediografi:

La gran escasez que tenemos de comedias de magia y la suma dificultad que se nota en adaptar a nuestra escena las del repertorio extranjero, nos hicieron recurrir a las de nuestro antiguo teatro...2



In effetti, possiamo facilmente supporre che Pistanza del sogno e della spettacolarità, che aveva costituito la motivazione più profonda del successo delle commedie di magia, non fosse estinta ma che non venisse adeguatamente appagata né dalla commedia contemporanea, ancorata alla realtà e vincolata al costumbrismo, né dal dramma in cui, al lato sí di una rêverie storicizzante, non compariva che assai di rado un interesse vivacemente spettacolare.

Quando invece, eccezionalmente, come accadeva nel Tenorio (al quale non era certo estraneo un influsso del teatro di magia) la scena si animava con un sia pur moderato «meraviglioso», il successo e la partecipazione del pubblico aumentavano in modo considerevole.

Certo, gli spettatori della metà del secolo scorso -e maggiormente dell'epoca seguente- assai poco avevano che vedere con quelli cui si erano rivolti Cañizares o Salvo y Vela: uno spettatore borghese e smaliziato aveva sostituito l'ingenuo «rústico de la chupa parda» immortalato da Iriarte3.

Per la gioia degli occhi di un siffatto spettatore non si potevano più offrire i voli di attori appesi a grossi canapi o gli infiniti trucchi operati dall'onnipresente tramoya; o almeno non questo soltanto. Gli si dovevano offrire anche, e, verso la fine del secolo, soprattutto, quadri raffinati e ricchi di fantasia, in cui il piacere fornito dal   —9→   dinamismo delle macchine -certamente insopprimibile- risultasse almeno in parte subalterno rispetto a quello della contemplazione estetica.

Parimenti, non si sarebbe più accettato un testo raffazzonato (come quelli di tante opere settecentesche), composto esclusivamente come supporto del gioco di tramoya: si voleva, al contrario, che il testo, recitato e cantato, fosse all'altezza delle squisite realizzazioni scenografiche.

Consapevoli di tali esigenze, alcuni drammaturghi -Zumel, Valladares, Olona, Liern, Delgado- tentarono di soddisfarle e diedero così vita a una nuova stagione teatrale, che chiamerò per comodità «di magia» ma che forse sarebbe più proprio chiamare «di fantasia», la quale, a dire il vero, sembra che, a tutt'oggi, non abbia ancora chiuso i battenti.

La nuova formula consisteva anzitutto nel ricupero della magia come elemento serio e drammatico, in opposizione ai toni comici e beffardi delle ultime elaborazioni. Ma l'operazione -che si svolse gradualmente e con forti concessioni alla comicità nelle sue prime realizzazioni- veniva condotta su di un piano di raffinatezza letteraria e artistica, che rappresentava l'unica via di uscita per rendere accettabile un tale ricupero a un pubblico ormai totalmente scettico in materia. In altri termini, l'unico modo per non far respingere una commedia di magia era quello di trasformare la magia stessa in un pretesto per uno spettacolo raffinato ed elegante.

Soprattutto uno spettacolo equilibrato, in cui testo e operatività scenografica si pareggiassero e che anzi, con l'accostamento assiduo di parti cantate e parti recitate, realizzasse quel sogno di spettacolo totale che già avevano confusamente accarezzato i commediografi settecenteschi4.

Nella ricerca della funzionalità del testo, i nuovi scrittori seguivano in realtà le orme dei predecessori più immediati, da Grimaldi   —10→   a Hartzenbusch, ma vi aggiungevano un accento di ostentata letterarietà da quelli logicamente evitato a causa del tono giocoso delle loro commedie. Basterebbe por mente all'intenso lirismo che pervade molte delle nuove opere, alla ricca polimetria -determinata pure dalle particolari esigenze delle parti cantabili-, alla selettività del lessico e via dicendo.

Nonostante l'equa distribuzione fra recitazione, canto e scenografia, quest'ultima tuttavia tende sempre più a rappresentare l'elemento più caratterizzante di questo teatro e certamente quello più ricco di attrattiva sullo spettatore. Senonché ora, come si accennava, la preferenza va più alla bellezza statica che si offre alla contemplazione di chi assiste che non ai repentini cambi di scena; cosicché il sogno che nel secolo XVIII era suggerito in gran parte dal veloce movimento delle macchine, ora -e tanto più quando prevarrà il clima estetizzante del modernismo- è piuttosto affidato alle funzioni evocatrici di mondi fantasiosi esercitata da un'opportuna disposizione di foros, forillos e rompimientos5.

«Fantástico» -forse pure per influsso del Tenorio che Zorrilla aveva appunto definito «drama religioso-fantástico»- è non casualmente il termine che domina nelle didascalie della seconda metà del secolo scorso (ma con propaggini nel nostro), mentre le descrizioni dell'apparato scenico si fanno sempre più minuziose.

Le realizzazioni pratiche, di cui sono rimaste testimonianze importanti e numerose (si vedano le deliziose «maquetas» realizzate dall'Institut del Teatre di Barcellona) seguono, anche se con qualche libertà, le indicazioni degli autori, ma sempre ne realizzano lo spirito, concedendo largo spazio agli elementi di fantasia6.

Naturalmente, nel corso di oltre un secolo (è l'arco di tempo in cui si muovono le indagini contenute in questo volume), assistiamo   —11→   a evoluzioni e mutamenti del gusto. Lo stesso distacco dalle formule romantiche si realizza senza scosse, cosicché la pienezza delle conquiste scenografiche si raggiungerà soltanto verso la fine del secolo scorso; continuerà peraltro ad essere elemento di fondamentale importanza al principio dell'attuale, ma l'interesse al riguardo comincerà a scemare per lasciare il posto a opere in cui il testo riafferma una sua preponderanza. In Benavente, in Casona, in Sastre, l'elemento magico o, forse meglio, fantastico, non è altro che lo spunto per una creazione allegorica il cui fondo è la meditazione sui problemi interiori dell'uomo. Il teatro di magia raggiunge così una sorta di rarefazione intellettualistica che potrebbe decrètarne la morte. O l'inizio di un ciclo nuovo.




ArribaAbajoPer una «cartelera» otto-novecentesca

Per quanto concerne i contenuti, persiste l'eliminazione della figura del mago e della maga, la cui comparsa in scena è veramente un avvenimento d'eccezione; ma neppure il genio che li sostituiva nella commedia romantica sopravvive. Si ricorre ora ai personaggi delle fiabe (Perrault e i fratelli Grimm sono ormai largamente diffusi) e soprattutto a quel diavolo che, dopo Calderón e le prime opere settecentesche, era scomparso quasi totalmente dal teatro di magia.

Forse anche per influsso dei culti esoterici e dello spiritismo in voga, a partire dal secondo Ottocento, il diavolo è protagonista o personaggio di un'infinità di opere: vero, finto, immaginario, talvolta ridotto a metafora, talaltra confinato nel solo titolo, compare in ogni modo, lasciando intendere che evidentemente rappresentò per lungo tempo un elemento di notevole attrazione.

Da principio, si nota una qualche esitazione o forse cautela nell'introdurre questo personaggio, che si preferisce considerare come il prodotto della credulità o della finzione: non dunque un vero diavolo compare sulla scena, ma un essere che tale appare a menti ingenue o impressionabili. All'incirca come accadeva con i maghi   —12→   sul finire del Seicento e al principio del Settecento prima che si inaugurasse la grande stagione del teatro di magia7.

Inoltre, vuoi per rendere la trama più credibile, vuoi per un adeguamento alla voga dei drammi storici, spesso si colloca la vicenda nel passato, come peraltro già avevano fatto Hartzenbusch, Bretón e Rivas, ma con maggiore plausibilità.

Ecco pertanto che Carlos García Doncel e Luis Valladares y Garriga compongono nel 1845 Los hijos de Satanás o El diablo está en Cantillana, immaginando che a Cantillana appunto, nel 1537, la credulità popolare dia luogo alla celebre frase proverbiale. Nello stesso anno, il primo dei due autori crea una situazione analoga con El diablo y la bruja, rappresentato al Teatro del Príncipe la vigilia di Natale. L'anno seguente, Luis Olona ripropone una vicenda consimile con El diablo nocturno, mentre pochi anni dopo, nel 1849, un altro García Doncel, Juan questa volta, compone con le stesse caratteristiche El demonio familiar, ambientato nel Seicento; l'anno seguente, Francisco Camprodón manda in scena un finto diavolo che opera all'epoca di Filippo V (El diablo en el poder); segue infine, nel 1852, El donativo del diablo, che la Avellaneda colloca in Svizzera, a Friburgo, «corriendo el primer tercio del siglo XV».

II timore per i sorrisi di sufficienza del pubblico che forse stava alla base di questa ricerca di razionalità dovette essere tuttavia rapidamente superato se già nel 1849 il diavolo appare come personaggio reale del «drama fantástico de magia» intitolato La campanilla del diablo di Valladares Saavedra, Sánchez Garay e Vicente Lalama (il quale ultimo cercava evidentemente di ovviare in qualche modo alla lamentata carenza di commedie di magia originali) e nel «drama de magia y espectáculo» di Cipriano López Salgado, Siete castillos del diablo. Si prosegue su questa linea con La cola del diablo, zarzuela di Luis Olona rappresentata il 21 dicembre 1854, e l'anonima traduzione El diablo de plata (1859), cui seguono El caballo del diablo, «drama fantástico» di Lorenzo Valdés (1860),   —13→   El castigo de la impiedad y Luzbel predicador (1864) («refundición», ad opera di Calixto Boldun, di El mayor contrario amigo), Batalla de diablos (1865) di Zumel, Un pacto con Satanás (1868) di Antonio María Ballester, El anillo del diablo (1871) ancora di Zumel, la «zarzuela fantástica» Los amoríos del diablo (1871) di Ramón Navarrete, Las catacumbas infernales (1872) di Gamayo, la «rondalla catalana» Mefistófeles (1877) di Vicens Baruta y Valls.

Nel Novecento, l'interesse per il diavolo sembra ridursi, ma non scompare affatto, tanto che già nel 1903 ci imbattiamo nell'operetta El guardapiés del diablo di Cocat e Criado, cui seguono Las píldoras del diablo (1915) di Alfredo Pallardó, una Mefistófela (1918) di Benavente, El diablo (1920), traduzione di Fernández Gutiérrez e altri da Molnar, Los cuernos del diablo (1927) di Dicenta e Paso (hijos), Satanelo (1930) di Muñoz Seca, Otra vez el diablo (1935), «cuento de miedo» di Alejandro Casona, il sainete Mi mujer, el diablo y yo (1963) di Llopis, Margot y el diablo di Pemán (1965), El cubilete del diablo (1974) di Agustí, per finire nel 1985 con El trino del diablo di Alberto Miralles.

Non perciò cessa del tutto il filone primitivo che presenta il diavolo come frutto dell'immaginazione e della credulità, che peraltro conferisce ugualmente alle opere un certo carattere fantasioso. Al riguardo, si possono ricordare La selva del diablo (1851) di Luis Olona, Las garras del diablo (1856) di Pérez Escrich, l'entremés di Sansón Carrasco El diablo alcalde (1854), El diablo (1861) di Alejandro Rinchán, Con el diablo a cuchilladas (1864) di Narciso Serra (da notarsi che colui che finge d'essere il diavolo è qui nientemeno che Carlo V), Entre clérigos y diablo (1870) di Zorrilla, ed El pozo del diablo (1894) di Juan Redondo y Menduña. Si tratta pertanto di un filone che, allo stato delle ricerche, pare dunque esaurirsi in ambito ottocentesco.

In parecchie altre opere, il diavolo compare solo nel titolo, per lo più come una sorta di apposizione o di espressione idiomatica: El castillo del diablo, traduzione di V. Balaguer (1849); La encrucijada del diablo (1854), ¡Satanás!! (1854), La piel del diablo   —14→   (1855), tutte e tre del fecondo Ramón de Valladares y Saavedra; El tesoro del diablo (1855) di Alverá e altri; La casa del diablo (1858) di José Olona; El diablo en el espejo di A. M. Ballester (1868); El corresponsal del diablo (1875) di Ceballos; Lucifer (1888) di Sinesio Delgado; El comodín del diablo (1890) di Rodríguez Fernández; El diablo en el molino (1891) di Cuarterero e Vigarva; El tercer demonio (1908) di Jacinto Grau; El diablo con faldas (1909 a Madrid, dopo un esordio a Buenos Aires) ancora di Delgado; Satanás (1913) di J. Antonio Ramos; Entre la cruz y el diablo (1932: il titolo riecheggia uno analogo di Rubí) di Halma; El demonio de la bruja di Onieva (1939).

Tanti richiami al diavolo sono l'indice di un gusto dominante che sospinge gli autori a coniare titoli di sicura attrazione. Si pensi che a breve distanza si rappresentarono due opere intitolate El soplo del diablo: la prima, di Emilio Mozo de Rosales, al Teatro del Circo il 5 maggio 1866, la seconda, di Ricardo Medina y Solonguren al Teatro Español il 24 aprile del 1869. In entrambe si trattava di una semplice frase fatta, ma è significativo che ritornasse in cosí poco tempo.

Altrettanto significativo, mi pare, è il fatto che, quando Ginard de la Rosa e altri pensano di drammatizzare, nel 1895, El estudiante de Salamanca, intitolano il dramma El estudiante endiablado e che, nel 1927, Joaquín Montaner porti in scena un immaginario figlio di Don Giovanni che chiama non casualmente El hijo del demonio. Ugualmente interessante è la presenza del diavolo in Jesús y el diablo (1899) di Zulueta e Marquina, una sorta di sacra rappresentazione incentrata sulle tentazioni di Cristo.

Non mi è stato possibile verificare i contenuti di alcune altre opere i cui titoli contengono riferimenti al diavolo. Mi limito perciò a indicarle come ulteriore conferma di un gusto diffuso fino ai nostri giorni; Don Juan Trapisonda o El demonio en una casa (1850) di Juan Alba y Peña, La casa del diablo (1854) di Emilio Bravo, l'anonima La chota del diablo (1891), De la piel del demonio (1898) di Ricardo Civera, El oro del diablo (1930) di Leandro   —15→   Navarro, El demonio del teatro (1942) di Benavente, El demonio tiene ángel (1953) di Ángel Zúñiga, El ajedrez del diablo (1954) di J. Calvo Sotelo, Un diablo que se llama Leopoldo (1954) di Ruiz Castillo, El juez y los demonios (1954) di González Haba, El ventano del diablo (1955) di Gasset, Yo, demonio (1977) di Elías Amezaga Urlezaga.

Se, nella congerie della produzione otto-novecentesca, l'unica, o quasi, guida possibile è rappresentata dai titoli, è tuttavia immaginabile che, date le premesse, il diavolo compaia in numerose altre opere, senza che il titolo lo denunzi: potrei citare, come esempi quasi fortuiti, il Pacto de Cristina di Corrado Nalé Roxlo e La barca sin pescador di Casona, entrambe del 1945.

Uno spazio minore ma non trascurabile occupa la strega, figura che il romanticismo aveva posto in auge, soprattutto grazie al Trovador, e che trovava ampia risonanza nelle credenze popolari. È un personaggio sostanzialmente ignoto al teatro di magia tradizionale, anche se non gli si può negare una rassomiglianza con le celebri maghe settecentesche, Marta la Romarantina, Juana la Rabicortona e via dicendo. Senonché ora assume, drammaticamente autentici o comicamente parodiati, i lineamenti torvi delle varie brujas o hechiceras (non a caso questi termini sostituiscono l'antico di mágica) perseguitate dall'Inquisizione o dal fanatismo popolare.

Anche in questo caso, pare che, in un primo momento, l'intento principale dei commediografi sia quello di farsi beffe della credulità e della superstizione, presentando finte streghe che si divertono alle spalle degli ingenui, a partire, fin dal 1843, dalla vivace Bruja de Lanjarón di Rodríguez Rubí, per passare a La hechicera di Navarrete del 1854, a La bruja Celestina o Turris Burris di Carlos Calvacho del 1879; con le solite propaggini novecentesche, dalla catalana La casa de les bruixes di Joseph Ciurana i Maijó, rappresentata nel 1900, a La casa de la bruja che Pilar Millán Astray compose nel 1932; né poteva mancare un sainete, El estudiante bruja, che porta la data del 1849.

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Parallelamente si sviluppa il filone opposto delle streghe e della stregoneria immaginate dalla fantasia popolare che attribuisce a fenomeni paranormali eventi che trovano invece una loro spiegazione naturale. Vi si collocano La hechicera di Rubí (1852), L'embruixada di Víctor Mora (1924), che l'autore definisce «drama rústec de passions» e che potrebbe ricordare la dannunziana Figlia di Jorio, e Las brujas, del 1932, composta da Luis Chamizo. Rientra parzialmente in questa categoria El tesoro de la bruja (1906), scritta in collaborazione da Granés, Polo e Quilis, in cui si narra l'uccisione di una creduta strega e la lotta per impossessarsi del suo tesoro.

Non molto dissimili sono le commedie a sfondo storico nelle quali la strega -o, eccezionalmente, un mago o stregone che in ogni modo è chiamato «hechicero»- appare perseguitata a causa del fanatismo e della superstizione: con queste caratteristiche Malli scrive nel 1861 El hechicero y la fortuna che definisce «comedia de magia» e situa ai tempi di Pelayo; Alejandro Mac Kinlay colloca la «comedia poética» La embrujada (che curiosamente segue a meno di due mesi l'omonima opera catalana di Mora) nella Siviglia del secondo Seicento; Eduardo Navarro Gonzalvo crea, per la sua Hechicera, rappresentata -si afferma- «con éxito extraordinario» nel 1893, lo sfondo storico della Scozia nell'anno 1740; infine una ripresa assai recente di questo tipo di opere è rappresentata da Las brujas de Barahona di Domingo Miras (1980).

Totalmente orientato in direzione fantastica, con streghe autentiche, è invece un certo numero di piezas, tra le quali spiccano quelle dovute alle penne illustri di Zumel (La montaña de las brujas, 1872), di Martínez Sierra per il maestro Falla El amor brujo, 1915), di Valle Inclán El embrujado, 1931) e di Dieste El circo embrujado, 1934)8. Ad esse vanno accostate alcune altre di autori meno noti: la «rondalla» di Rocamora, La bruixa del Gorch-Blau (1913), il monologo La bruixa (1918) di A. Fuster Valldeperas, La princesa embruixada di Manila (1981) e Revolta de bruixes di   —17→   J. M. Benet (1976), tradotta e rappresentata nel 1980 nella versione castigliana di Motín de brujas; tutti, come si vede, in area catalana.

D'altra parte, l'interesse per il meraviglioso e il fantastico è talmente diffuso che tutti i personaggi della mitologia fiabesca entrano a popolare il teatro degli ultimi centoventi anni: fate, folletti, genietti, fantasmi e via enumerando. Una «comedia de magia», tradotta e «arreglada», nel 1848, Hadas o la cierva del bosque, anonima, sembra inaugurare una serie che annovera El duende di Luis Olona (1ª parte: 1849; 2ª parte: 1851), El genio de las minas de oro di Valladares y Saavedra (1856), Un duende di López Fortún (1863), una farsa anonima del 1866 El ¡Quién vive!!! o el duende, El palacio de los duendes (1910) di Sinesio Delgado (nelle tre ultime opere citate, i folletti non sono che la solita finzione per una beffa) e la «comedia fantástica» El hada de los sueños (1920) di Velasco Zazo.

In quest'ambito, certamente la più nutrita è la schiera dei fantasmi, presenti nelle opere o talvolta soltanto nei titoli a partire dalla fine del secolo scorso, evidentemente per influsso dello spiritismo che all'epoca cominciava appunto a diffondersi in maniera rilevante.

Spesso, anche in questa fattispecie, si tratta di pura finzione o di ingenua credulità, come nella commedia El fantasma de los aires, composto da Ruesgo, Lastra e Prieto nel 1887 e definito «melodrama cómico-lírico fantástico de gran espectáculo inspirado en Verne» o nella «fantasía melodramática» che Miguel Mihura e Ricardo González intitolano El fantasma (1910) o in un secondo El fantasma composto da Antonio Hoyos y Vinent tre anni dopo o in una terza commedia dallo stesso titolo di Eduardo Sainz Noguera che appartiene presumibilmente agli anni Trenta9; o, infine, sul versante catalano, sempre attivissimo in questo campo, ne La fantasma de Sant Telm di E. Marriera Fonts (1898).

A volte il fantasma è autentico; altre, più spesso, non è che un nome confinato nel solo titolo. Certo, in quest'ultimo caso, sarebbe   —18→   fuor di luogo parlare di teatro di magia e la stessa definizione di teatro fantastico, nonostante l'affinità etimologica, sembra attagliarsi assai poco. Mi pare tuttavia che la seguente lista di titoli, in cui compare il vocabolo, anche se a volte (ma non sempre) con valore metaforico, stia a indicare una esplicita tendenza verso il meraviglioso nonché, evidentemente, l'intento di far leva su di un elemento di attrazione per il pubblico. Ecco dunque alcune opere: El castillo del fantasma (1868) di Gutiérrez de Alba, El fantasma de la aldea (1878) di Julián Castellanos, El fantasma de la esquina di Jackson Cortés e altri (1897), Los fantasmas (1909) di Viérgol, La fantasma del bosque, sainete del Padre mercedario Manuel Sancho (1913), Fantasmas di Linares Rivas (1915), El fantasma di Martí Orberá (1919), El tren fantasma di González del Castillo (1927: traduzione), Nuestro fantasma di Armiñán (1958), Un fantasma con jipijapa di Ruiz de la Fuente (1967), El fantasma del castell di Carmen Suque i d'Espina (1975) e infine il recentissimo Ejercicios para ahuyentar fantasmas di Fernando Almena (1983).

Un discorso analogo si applica facilmente a termini che si muovono nel campo semantico dell'incantesimo e della magia. Già nel 1842 ci si imbatte in un «baile histórico y fantástico» intitolato La encantadora o El triunfo de la Cruz, il cui autore è un certo Bartholomin; poco dopo, nel 1853, Ventura de la Vega -ormai drammaturgo consacrato- componeva La cisterna encantada, seguito da Francisco Manzano Oliver con Los encantos de una flor (1859), definita esplicitamente «comedia de magia»; definizione che ricompare per La selva encantada di Lumbreas e Lalama (1861), per La princesa encantada di Ventura de la Vega (1875) e per El anillo mágico di Ruiz Valle (1883), al cui lato si dovrebbe ricordare pure El lápiz mágico di Palomino de Guzmán, dello stesso anno.

Ma si dovrebbero ancora aggiungere varie altre opere, talvolta di nomi famosi: La venta encantada di Bécquer, tratta dal Quijote (1859), La copa encantada di Benavente (1918), Medea la encantadora di Bergamín (1963). Tra i professionisti del teatro fantastico occorrerebbe ricordare, in quest'ambito, Zumel con El torrente milagroso   —19→   (1883) e la «zarzuela fantástica» di Sinesio Delgado El talismán prodigioso (1908), popolata dai protagonisti del Faust goethiano.

Come è agevole dedurre da questa veloce e incompletissima rassegna, i soli titoli già stanno a indicare, di per sé, una produzione particolarmente ampia di opere che, a livelli diversi, gravitano nell'ambito della letteratura fantastica. Soprattutto mettono in evidenza una certa sostanziale fedeltà, se non ad aspetti specifici dell'antico teatro di magia, a motivi e figure propri della tradizione magica. Ed è forse attraverso questi diavoli, queste streghe, questi folletti, queste fate che il teatro fantastico del secondo Ottocento con le sue diramazioni novecentesche, pur risultando per molti versi innovativo, si ricollega alla tradizione. Lo prova anche il fatto che, sebbene partecipi a gusti e tendenze comuni a tutta l'Europa contemporanea, le sue realizzazioni si manifestano quasi sempre in ambienti e situazioni peculiarmente ispanici.

Naturalmente una rassegna che prenda le mosse dai titoli è destinata a lasciare in ombra un'ampia zona di produzione. D'altro canto, di quali altri mezzi di orientamento ci si può giovare per scoprire l'opera di carattere magico-fantastico nell'enorme pletora di una produzione teatrale che conta migliaia e migliaia di piezas? Certo, ci può soccorrere il riferimento a drammaturghi noti come scrittori di opere del genere: Zumel, Delgado, Olona, Valladares, Liern, alcuni dei quali saranno oggetto di un'indagine specifica. È pure abbastanza agevole scoprire, nella produzione di scrittori celebri, le opere che ci interessano, data la maggiore accessibilità e divulgazione delle relative informazioni bibliografiche: e infatti si possono annoverare i nomi di Benavente, Casona, Dicenta, Campoamor, Pemán, Sastre, qui citati in maniera incompleta e al cui repertorio si potrà rivolgere l'investigatore che voglia ampliare le ricerche; ma possiamo ugualmente essere certi di aver dimenticato qualche illustre cultore di questo genere teatrale.

Infine non resta che il soccorso di una qualche intuizione e di qualche scoperta fortuita.

Grazie alla concomitanza dei diversi elementi, posso dunque aggiungere   —20→   un'ulteriore circoscritta lista di opere che rientrano nel tipo di teatro di cui ci stiamo occupando, sebbene i loro titoli raramente ne denunzino l'appartenenza.

Vorrei anzitutto ricordare le due opere di magia di Sánchez del Arco, entrambe abbastanza nel solco della tradizione: Urganda la desconocida (1845) e Tula (1854), la quale ultima già si fregia della definizione di «drama fantástico». Ancora alla metà del secolo scorso appartiene La mesa giratoria o La fuerza del magnetismo (1853) di J. J. Nieva e Suricalday, la quale non è altro che la solita beffa giocata ai creduloni.

Un posto di eccezionale importanza occupa, nella seconda metà dell'Ottocento, il teatro catalano, cui si è fatto spesso riferimento. Poiché tuttavia se ne tratta specificamente in un saggio di questo volume, basti qui ricordare i nomi di Ángel Guimerà e Joan Capmany: di quest'ultimo è impossibile non citare almeno di sfuggita Lo rellotge del Montseny, «zarzuela fantástica» rappresentata nel 1878 con travolgente successo e destinata a convertirsi in modello ineludibile.

È questo, peraltro, il momento di maggior fioritura del genere fantastico anche in zona castigliana, come attestano le numerose opere non solo dei più celebri scrittori che si sono citati, ma anche di altri di minor fama che, come abbiamo visto, popolano le scene spagnole di fine secolo. La loro intenzione di comporre opere appartenenti al genere magico-fantastico risulta efficacemente posta in rilievo dalle definizioni che si preoccupano spesso di apporre al titolo delle loro piezas. Alle numerose definizioni che ho avuto modo di citare nelle pagine precedenti, vorrei ora aggiungerne alcune altre che ci aiutano a individuare l'appartenenza dell'opera al genere, di là dal titolo scarsamente indicativo.

Una «zarzuela fantástica» scrive Rafael García Santiesteban (El Potosí submarino, 1870); una «tragedia mágico caballeresca de guassa» esce l'anno seguente dalla penna di Rosendo Arus y Ardería, col titolo La Llucia dels cabells de plata; Eloy Perillán Buxón compone un «melodrama fantástico» El maldito o El río de oro (1887); una «bufonada lírico-fantástica» di Gabriel Merino sale alle scene   —21→   nel 1894 col titolo di El muñeco; un «melodrama de magia» di Felipe Pérez y González, intitolato Mujer y ruina o Mariquita Stoi que ardo è pubblicato nel 1895; chiude, per così dire, il secolo, La estatua de brillante di Presa de Rojas e García González (1897), definita in maniera più modesta e tradizionale «comedia de magia».

Nel nostro secolo sembra venir meno l'amore per le definizioni ad effetto e non di rado ci si imbatte nella vecchia dicitura «comedia de magia». Tali sono definite El anillo del Rajá di Amador Gómez (1915), nonché La Cenicienta (1919) e La noche iluminada (1928) di Benavente. «Intriga de miedo y misterio» definisce invece Moreno Monzón la sua opera ¡Jonathan! El monstruo invisible (1944), mentre Sastre include la definizione nel titolo stesso: Tragedia fantástica de la gitana Celestina (1982), dove mi pare che l'aggettivo indichi la persistenza di un gusto ormai antico, tanto più curiosa in quanto affiora in uno scrittore palesemente e intenzionalmente anticonformista. Per concludere l'elenco, si dovrebbero infine aggiungere due opere che appartengono di pieno diritto al genere in esame: La casa de los espantos (1921) che l'autore, Antón del Olmet, non si preoccupa di definire e Los magos de Rubens di León (1923), denominata semplicemente «zarzuela».

Non mancano naturalmente traduzioni e rielaborazioni: alcune già sono state citate. Tra le più significative, vale la pena menzionare Dicha por un anillo. Mágico rey de Lidia con cui Lalama tentava, nel 1849, di rilanciare il teatro di magia; La nueva pata de cabra di Valladares y Saavedra (1850) la quale non fa altro che sbiadire, involgarendolo, il capolavoro di Grimaldi, e un nuovo «arreglo» di Lalama, questa volta condotto su di un modello francese, della leggenda faustiana: Fausto o Luchas del bien y del mal (1861), che l'autore definisce «drama de magia»10.



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ArribaAbajoUn pioniere: Enrique Zumel

Sebbene gli esiti più recenti del teatro di magia (Benavente, Casona, Pemán, Sastre) ci conducano assai lontano dal romanticismo, le loro premesse si realizzarono, verso la metà del secolo scorso, all'insegna di quella continuità innovatrice -se vogliamo usare un termine più impegnativo, di quel tradizionalismo- che ha notevolmente caratterizzato, in ogni tempo, le lettere ispaniche. Come infatti il teatro di magia settecentesco aveva preso le mosse da quello calderoniano11, così quello tardo-ottocentesco si innesta sul tronco della drammaturgia romantica, per allontanarsene, ovviamente, ma in maniera lenta e graduale fino ad acquisire quel profilo che starà a sottolineare l'avvento di un orientamento nuovo.

Emblematica, sul piano di questa transizione, è l'opera di Enrique Zumel12, ingegno fertile anche se non particolarmente originale, che, nell'ambito di una produzione teatrale assai vasta, annovera una decina di «comedias de magia».

In effetti, la sua prima opera di questo genere (e una delle prime del suo intero repertorio, il che sta a indicare una certa vocazione), che si colloca significativamente alla metà del secolo (1849), è una sorta di rielaborazione in chiave fantastica di spunti provenienti dal dramma romantico, particolarmente dal Tenorio, il cui debutto risaliva a cinque anni prima. Essa si presenta, fin dal titolo, con una mescolanza di motivi propri della maniera tardo-romantica (El himeneo en la tumba o La hechicera: un titolo veramente «folletinesco»!) e di preannunzi di formule innovatrici condensate in quella definizione di «drama fantástico», dove compare quell'aggettivo-chiave destinato a riaffiorare continuamente, fino -come si è visto- a Sastre.

Nella premessa poi, l'autore rivelava inconsciamente quella vocazione scenografica inseparabile da ogni autentico commediografo   —23→   «de magia»: comunicava infatti di aver tratto lo spunto da romanzo del Visconte d'Arlincourt ma di aver aggiunto i personaggi comici di Resbalón e Quirica «con el objeto de que den tiempo a los tramoyistas para disponer los trastos necesarios».

Ridotta all'essenziale, la trama racconta l'amore di Elvira per Oscar, un crociato che tutti credevano morto e che ora torna dalla Palestina e che, per uno strano giuramento, non dovrà dire «Ti amo» a nessuna donna se non dopo il matrimonio. Per le insistenze di Elvira, istigata dalla «hechicera» Marta (nome fatidico!) rompe il giuramento e un fulmine l'abbatte. Ma evocato da Elvira nel «panteón» in cui è sepolto, ricompare e i due si sposano. Elvira esclama:


      contigo voy
a unirme en la tumba helada,


mentre un angelo annunzia:


Cesó ya vuestra tristura;
terminó el mal de los dos;
y para mayor ventura,
¡pasáis de la sepultura
a la presencia de Dios!


Precisa infine la didascalia conclusiva:

sube una elevación con Óscar, Elvira y el Ángel pausadamente, música angélica mientras baja el telón.


Come si può in parte desumere da questi brevi cenni, l'opera trabocca di stereotipi romantici: l'amore impossibile che procede oltre la morte, la gelosia vendicatrice (la fattucchiera Marta è una certa Alicia che era stata abbandonata da Óscar)13, un trovatore innamorato, gli sfondi medievali (il ritorno del crociato, il castello di San   —24→   Telmo in cui dimora Elvira, il «panteón»), con i loro richiami all'Alfredo di Pacheco, al Trovador di García Gutiérrez e soprattutto al Don Juan Tenorio. È anzi pensabile che Zumel abbia intenzionalmente sfruttato l'onda del successo del drama di Zorrilla, particolarmente viva in quegli anni e che per questo ne abbia quasi plagiato il finale, col sepolcreto, le nozze nella tomba, il morto che rivive, la «música angélica» e quella serie di rime in-ura destinate a evocare il Tenorio anche allo spettatore più distratto.

In questo contesto, la magia è un di più, un'aggiunta non funzionale anche se notevolmente «aparatosa»: Zumel, ancora inesperto, tenta la strada del ricupero del teatro di magia in chiave di letterarietà ma l'incombenza dei modelli gli impedisce la fusione dei due elementi.

Nella seconda commedia, molto più tarda (fu rappresentata al Teatro de Novedades il 15 novembre del 1869), Zumel tentò di superare l'«impasse», sacrificando fabula e intreccio a tutto vantaggio della spettacolarità: Batalla de diablos è tutta tramoya, essenzialmente a fini comici, su di una trama esilissima. Nuovamente ambientata nel castello di Sant'Elmo all'epoca di Riccardo Cuor di Leone, l'opera narra la storia di un amore contrastato (dai diavoli) fra Gabriel ed Elvira la quale, trasformata in una vecchia repellente, ritorna giovane e affascinante quando il suo amato pronunzia per caso -come nella Redoma encantada di Hartzenbusch- le parole talismaniche.

È tutta una variopinta girandola di trasformazioni e di giochi di macchine alle spalle del gracioso Peñasco, con forti striature comiche fornite soprattutto dai diavoli umanizzati e ridicoli. II testo si riduce così a una serie di episodi destinati a fungere da supporto alle operazioni magiche, ma in compenso si carica di letterarietà grazie a una cura formale che si manifesta, fra l'altro, in una ricca varietà di toni che trova il suo corrispettivo nella variatissima polimetria. Versi come


Mis ojos derraman fuego
que en líquidas perlas brota


(II, 7)                


  —25→  

¡Me habláis con tal expresión;
con tan seductor acento,
que con latido violento
palpita mi corazón!


(III, 4)                


scelti a caso fra i molti possibili, rappresentano una novità sostanziale in questo tipo di teatro, e ancora una volta indicano la sua parentela con il dramma romantico.

Tre anni dopo, con La isla de los portentos (rappresentata al Teatro de los Bufos il 15 febbraio 1868), tratta dalle Mille e una notte e definita «disparate cómico inverosímil», Zumel trovò finalmente la formula della nuova commedia di magia: una fiaba bella e rasserenante, un gioco forse, che veniva incontro alle istanze di una società desiderosa di evasione. In questo senso, si riappropriava delle motivazioni profonde che avevano determinato il successo della commedia di magia settecentesca, rinnovandole secondo lo spirito dei tempi. Cosicché, se i vari lontani provinciali di Móstoles avevano sognato la redenzione sociale14, il pubblico di un secolo fa veniva ridotto a immaginare un mondo edenico di giustizia, di pace e di organizzazione. In effetti, nell'«isla de los portentos» in cui approdano alla fine i protagonisti, tutto è pace patriarcale: tutti lavorano e si aiutano fraternamente, non esiste ambizione («mal infecundo / que mata a la sociedad») né avidità. La virtù domina incontrastata.


porque da la educación
la conciencia del deber


(III, ult.)                


E Alifas che sposerà il futuro re dell'isola, Alajú, programma:


¡Ni vasallos, ni rey!
Amor al prójimo sea
nuestro lema.


(ibidem)                


  —26→  

Una frase che, alla vigilia della «Gloriosa», dovette sembrare carica di significato.

Ma è interessante notare come a questa visione idillica si giustapponga il quadro finale, in cui appare riversata la fervida utopia dell'industrialismo nascente. Conclude il mago Quinquinati:


¡Para más ostentación
no falte una aparición
digna del bello ideal!


Appare così un «gran panorama»:

magnífica ciudad en medio de los mares; buques que entran y salen, astilleros, lanchas, tren de ferro-carril, todo lo que indique la opulencia, la riqueza y el trabajo.


(ibidem)                


Ritornano i diavoli in due opere successive, El anillo del diablo, rappresentata l'8 maggio 1871 al Teatro Variedades, e La leyenda del diablo, che debuttò al teatro Martín il 18 aprile 1872: evidente concessione al gusto dell'epoca, visto che la loro funzione è del tutto marginale. Ritornano pure influenze romantiche, ma provenienti ora da ambiti più specifici: è la Pata de cabra quella di cui si avverte la presenza, ravvisabile non solo nel fatto che il talismano costituisce il perno della vicenda, ma anche in una serie di episodi e di situazioni che, soprattutto nella prima opera, rasentano il plagio15

Ma essenzialmente Zumel prosegue, perfezionandolo, sul cammino intrapreso con La isla de los portentos: attribuire funzionalità   —27→   all'evento magico, trasformare l'opera in un grande gioco ricco di illusione e di spettacolarità, curare attentamente l'eleganza testuale.

Certo rimangono tracce dello scetticismo romantico nei confronti della magia, che spingono lo scrittore a usare le operazioni magiche in senso prevalentemente comico. Valgano alcuni esempi tratti dall'Anillo, dove i giochi di tramoya appaiono con una frequenza eccezionale:16

se transforma la estatua en dragón; por la boca salen seis furias que apalean a los criados y huyen; después siguen pegando a Pánfilo.


(I, 5)                


oppure:

Al mirarse aparece en el espejo la cara de un burro. Va a subir a la cama que se transforma en elefante que lo levanta en la trompa.


(II, 9)                


Per non parlare di un'infinità di altre trasformazioni ridicole, spesso annotate rapidamente:


Tira del cajón y sale muy largo;
un queso de bola [...] se transforma en calavera;
un ramillete [...] se transforma en orinal;


(ibidem)                


o, infine, del solito gioco, già collaudato dalla Pata de cabra e ripetuto all'infinito da Zumel, dell'oggetto che sfugge o si trasforma o viene sostituito appena un personaggio si avvicina per impossessarsene.

Tuttavia non manca, di tanto in tanto, lo scenario suggestivo e fastoso, «fantastico» per usare la terminologia dell'epoca, anch'esso   —28→   secondo una certa tradizione del teatro di magia ma che ora, alla luce degli sviluppi futuri, appare chiaramente anticipatore. Così al finale dell'Anillo, dove i due innamorati sono sottratti, per virtù del talismano, al rogo cui li aveva condannati l'Inquisizione:

La hoguera se convierte en el templo del amor: todo el teatro en salón chinesco: los trajes de los amantes serán fantásticos, desapareciendo los sambenitos: los Inquisidores se transforman en ninfas: en el mismo templo entre vivos resplandores aparece el ÁNGEL. Bengalas.


(III, ult.)                


Del pari la Leyenda si conclude con un'apoteosi simile:

Gloria: en un grupo de nubes el Ángel: Ninfas con alas de mariposas en caprichosos grupos. Melodía en la orquesta.


(IV, 16)                


Pochi anni dopo La leyenda del diablo, Zumel compì, con la La montaña de las brujas (Teatro Martín, 7 ottobre 1872), un tentativo poco felice di reinterpretazione della magia in chiave realistica, immaginando che certe apparizioni di fantasmi e di scheletri non fossero altro che un trucco escogitato a spese di contadini ingenui: probabile reminiscenza del Zapatero y el rey.

Più riuscite appaiono invece le due opere successive, in cui l'autore raggiunge un notevole equilibrio fra le varie componenti. Assistiamo infatti a un ricupero del testo anche sul versante contenutistico, cosicché la trama viene ad acquisire un suo peso nel sistema complessivo della pieza. Contenuto, forma e scenografia (cui si deve aggiungere pure l'importante componente musicale, che in questa sede è giocoforza trascurare) si pareggiano dunque in uno spettacolo compatto, ricco di interesse e non scevro di un certo impegno ideologico.

Si tratta de La hija del mar (Teatro Martín, 18 aprile 1873) ed El talismán de Sagras (Teatro Martín, 20 aprile 1878).

La prima, dal titolo vagamente calderoniano, presenta una lotta tra una fata buona, la Dama blanca, che protegge la giovane Aurora,   —29→   e la cattiva, certa Willy, che, in odio al padre della fanciulla reo di averla abbandonata, la perseguita.

La seconda sembra ricalcarne le linee essenziali, dal momento che anche qui si scatena una lotta fra una strega gelosa, Alkatay -che aspira inutilmente all'amore di Rugiero- e il saggio Nakor il quale, grazie a un talismano ricuperato nella città magica di Sagras, sottrae il giovane alla male arti della «hechicera».

Entrambe sono ovviamente storie d'amore che si concludono con la felicità della coppia protagonista (Aurora-Rodulfo e Blanca-Rugiero). Ed è un amore romantico, che suggerisce gesti di fedeltà eroica, che non vacilla neppure dinanzi al sacrificio e alla morte.


¡Renunciar a Blanca! ¡oh!


grida Rugiero alla perfida Alkatay,


¡jamás! ¡La muerte primero!
¡Mátame, le adoro! A ti,
mujer fatal, te desprecio.


(El talismán de Sagras, VI, 19)                


Ma se questi e altri versi sottolineano una persistente acquiescenza ai moduli del romanticismo, è parimenti avvertibile la presenza di una nuova sensibilità, che tende a emblematizzare «hechiceros» ed «hechiceras» in simboli di atteggiamenti psicologici. Non solo infatti gli operatori di magia ingaggiano fra loro una lotta che è fra bene e male, fra amore e odio, ma talvolta possono incarnare simboli assai più impegnativi. È il caso soprattutto della Willy de La hija del mar che ossessiona il Marchese, padre di Aurora, col rimorso e col dubbio, fin quasi a tramutarsi nella personalificazione dell'uno e dell'altro: è lei infatti che ne raffrena e raggela ogni impulso affettivo, instillando in lui il dubbio perverso che Aurora non sia sua figlia. È una figura interessante che, pur non possedendo i lineamenti sinuosi di Leocadia ne La duda di Echegaray, in certo modo la preannunzia con un quarto di secolo d'anticipo.

Forse grazie a questa più intensa problematica, le operazioni   —30→   comiche di magia occupano in queste due opere meno spazio che nelle precedenti; anzi, la magia spesso tende a lasciare il campo al dipanarsi logico degli avvenimenti. Si direbbe che ora il drammaturgo, pur senza eliminare i giochi della tramoya, aspiri piuttosto a creare un'atmosfera magica attraverso le suggestioni scenografiche. Ad esempio, nel I atto de La hija del mar, annota:

el obelisco se transforma en terraza, y en él una gran concha formando un carro tirado por golfines; en la que aparece la Dama blanca; los peñascos se transforman en olas de mar; transparentes en la superficie y se ven las Nereidas como sostenidas entre el agua, en posiciones voluptuosas [...] Bengala verde. Música.


(I, 10)                


Se, in questo caso, assistiamo ancora a una trasformazione che si suppone di origine magica (ma è evidente che l'interesse è tutto spostato sul quadro in sé), in uno successivo ci si affida esclusivamente a un incanto scenografico affatto statico:

Jardín u oasis fantástico; flores y árboles imaginarios; pájaros de brillantes plumajes; radiante de luz y con toda la belleza que ocurra a la fantasía del pintor. Grupos de Sílfides y Silfos en todas actitudes, formando cuadro que complete la decoración.


(II, 5)                


Talvolta una breve didascalia indica, in ogni modo, un'intenzione di straniamento:

Lago pintoresco iluminado por la luna. La orquesta toca un preludio; despuès de una pausa salen.


(El talismán, II, 8)                


In altri casi, la descrizione di un mondo immaginario è consegnata invece a una didascalia lunga e minuziosa, indice di una profonda preoccupazione scenografica:

La ciudad de Sagras inundada: se ven a través del agua los edificios que tendrán la construcción fantástica del Indostán y de la Persia: una torre elevada con brillante cúpula sobresale del agua, así como los remates de los edificios. Se verán   —31→   pagodas, miradores, galerías y minaretes, todo lleno de flores de loto y plantas acuáticas. Desde la mutación, música: baile de ranas de colores caprichosos y brillantes: concluido el baile, las ranas huyen y pasan por el agua varios cocodrilos y peces feroces: después sale a flor de agua una piragua en que va Nakor defendiéndose con una lanza de los cocodrilos y monstruos que le embisten: la piragua llega a la torre: Nakor, entra por una ventana: la piragua marcha: a poco de entrar Nakor, huyen los cocodrilos: gran fuerte de orquesta: ruido de aguas que caen: el agua empieza a bajar: de cada ventana, mirador o hueco se ve caer una cascada: todo alumbrado por vengalas.


(Id. III, 13)6.                


Il sogno tuttavia non può più essere totale come accadeva nel secolo XVIII: la realtà urge a volte e penetra anche in questo mondo ovattato. Nel Talismán, il gracioso Sensible finisce in una specie di inferno quevedesco dove incontra il Rey que rabió, il rey Perico, El otro, Pateta, Marta, Pero Grullo, Vargas, Agrages e perfino... Veredes, oltre a «las de Villadiego», la dueña Quintañona e l'anima di Garibay. Ebbene, al suo ritorno racconta, fra le altre cose, che un ministro infernale minacciava i diavoli troppo agitati, di dichiararli «cesantes» e che, a «palabra tan tremenda», tutti quanti «humildes / inclinaron las cabezas» (IV, 15). La «cesantía», si sa, era lo spauracchio di tutti i funzionari del tempo, che i toni comici del racconto non riuscivano certo a esorcizzare. In ogni modo, con maggior serietà viene cantata la decadenza dei tempi:


Hoy el mundo está perdido
todo es bulla y confusión
[...]
Los gobiernos son feroces,
las discordias lo son más;
los petardos se repiten
asustando sin cesar
[...]
Hay secuestros, hay ladrones,
hay intrigas por demás ecc.


(III, 9)                


  —32→  

Uno spettacolo così ricco, «ou tout se tient», non si ripeterà più nella storia di Zumel drammaturgo di magia. Il più tardo El torrente milagroso infatti (Teatro Martín, 7 aprile 1885) non è altro che la ripresa del dramma storico romantico con l'aggiunta di una magia scarsamente funzionale: ricordo dei «dramones» del principio del secolo, con il «calabozo», nonché il salvataggio dalle acque (come nel Valle del torrente), del Don Álvaro («¡Soy como el ciego que logra / ver con delicia suprema / la luz del sol un momento / y se torna a las tinieblas!»; II, 11), della Conjuración de Venecia, con il dialogo amoroso nel «panteón», è una storia d'amore in cui intervengono, fronteggiandosi, la malvagia «hechicera» Maravilla e la Hada de Bien.

Più rigorosa, nella sua brevità di atto unico, è forse l'ultima fatica del genere: El cintillo prodigioso, rappresentato al Teatro Martín il 25 novembre del 1893. Definito «cuento fantástico» (e l'aggettivo, al solito, riaffiorerà nelle didascalie: «Jardín fantástico: la Reina de las Hadas aparecerá en alto, en trono fantástico», sc. 15), è la consueta vicenda di amori contrastati e di un talismano conteso: una storia breve, epidermica, che pare tradire un interesse ormai languente.






ArribaCommedie di magia di Zumel citate

  • El himeneo en la tumba o La hechicera, drama fantástico [...], Madrid, Bibl. dram. Lalama, Imprenta Lalama, 1849.
  • Batalla de diablos, Madrid, Rodríguez, 1865.
  • La isla de los portentos, cuento mágico de las mil y una noches, disparate cómico inverosímil, Madrid, Rodríguez, 1868.
  • El anillo del diablo, comedia de magia, Madrid, Rodríguez, 1871.
  • La leyenda del diablo, comedia de magia, Madrid, Rodríguez, 1872.
  • La montaña de las brujas, Madrid, Rodríguez, 1872.
  • La hija del mar, comedia de magia, Madrid, Rodríguez, 1873.
  • El talismán de Sagras, melodrama de magia, Madrid, Rodríguez, 1878.
  • El torrente milagroso, drama fantástico de gran espectáculo, Madrid, Rodríguez, 1883.
  • El cintillo prodigioso, cuento fantástico, Madrid, Rodríguez, 1893.


 
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