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A colloquio con l’umanità di Van Gogh

Rinaldo Froldi



Nelle sale del Palazzo Reale di Milano.

Inaugurata ieri la mostra del grande pittore Olandese che gli italiani potranno finalmente studiare ed amare per conoscenza diretta.

Il sottosegretario alla P. I. alla vernice

Milano, 23 febbraio.

Nel pomeriggio alle ore 17, nei saloni del Palazzo reale, il sottosegretario alla Pubblica Istruzione, sen. Vischia, ha inaugurato, con l'intervento di autorità italiane e olandesi, la Mostra di Van Gogh.

Il rappresentante del Governo, davanti ad un folto pubblico di giornalisti e critici italiani e stranieri, ha tracciato un profilo della figura del grande artista olandese, affermando che la Mostra sta a rappresentare una altra prova dei profondi legami culturali che uniscono l'Italia e l'Olanda, quale pegno d'una più stretta e sempre più feconda intesa fra i popoli dell'Occidente.

La Mostra sarà aperta al pubblico domattina alle 10.





Una delle accuse che più fequentemente si lanciano contro l'arte moderna è quelle d'essere arte povera di valori umani, preoccupata soltanto di cerebrali funambolismi, chiusa in un arido gioco di impegni formali. E ció può essere vero per molte forme d'arte che si presentano come vuota rielaborazione di motivi già cercati o scoperti; è meno vero quando la ricerca anche se non risolta plenamente, è sincera e spontanea; non è assolutamente vero nel caso di certe grandi figure dell'arte moderna che nella loro attività artistica hanno espresso tutte le loro ansie, le loro speranze, la palpitante umanità di un'anima che sente e di una mente che pensa, raggiungendo si nuovi valori formali ma affermando, nello stesso tempo, vivi motivi lirici.

Fra i moderni pittori, forse colui che ha maggiore richezza di valori umani è l'olandese Vincent Van Gogh, la cui vita bruciata nel breve spazio di trentasette anni, si presenta sotto il segno crudele di un destino ostinatamente avverso e la cui pittura sembra emergere, splendido fiore, da una desolazione infinita. La ginestra leopardiana, emergente dalle ceneri del Vesuvio, è una immagine-simbolo che sorge spontanea a raffigurare quella ch'è stata l'arte di Van Gogh nel mezzo della sua vita.

Van Gogh, già da fanciullo, nel nativo paese di Groot-Zundert (era venuto alla luce il 30 marzo 1853) rivelò un carattere ed una sensibilità eccezionali: volontieri s'isolava dai compagni per vivere, a contatto della natura, la vita elementare che pochi sentono il bisogno di vivere. Pensieroso, chiuso, sembrava prediligere quei muti colloqui che le anime grandi stabiliscono solo con se stessi perchè non possono trova e chi li ascolti.

Al collegio ove fu mandato dal padre, pastore protestante, per studiare, non si acquistò le simpatie degli insegnanti che lo giudicarono inadatto agli studi (ed effettivamente lo era, per il suo istinto di libertà insofferente della norma) nè quelle dei compagni che non comprendevano quel solitario fanciullo, dalla rossa testa pensosa, tanto triste.

Tolto dal collegio ed avviato all'attività commerciale, il giovane Vincent ebbe il primo contatto con il mondo dell'arte: divenne infatti commesso di una casa d'arte de L'Aia e con tale ufficio fu successivamente a Londra e Parigi ma quivi, nel maggio del 1875, si congedó, stanco di quel lavoro che lo obbligava a dei continui compromessi con una vana e spesso ignorante clientela dal pessimo gusto.

Ma intanto egli aveva conosciuto molto della vita: soprattutto aveva conosciuto la maggior verità della vita stessa: il dolore. A Londra s'era follemente innamorato di Orsola, la figlia della sua padrona di casa, che - già ad altri promessa- rifiutò il suo amore. Vincent conobbe la disperazione. Orsola era stata la prima proiezione dei suoi ideali a lungo meditati nel chiuso della coscienza: nell'amore egli aveva creduto per un attimo di poter realizzare tutto se stesso: la delusione lo volse verso: ideali religiosi: Vincent sentì che quello che non poteva trovare nell'amore di una donna, doveva cercarlo nel bene operato solo per se stesso e pensò dedicarsi ad un'opera di apostolato fra i poveri e gli umili. Eccolo predicare agli operai dei sobborghi di Londra, trasferirsi ad Amsterdam per studiare teologia e divenir pastore come suo padre, poi a Bruxelles a seguiré un corso di evangelizzazione pratica, poi nel Borinage, umilissimo tra gli umili minatori a dividere con loro lo scarso pane e le stesse vesti (cederà ad altri le sue e si vestirà di tela di sacco), a fare opera di assistenza spirituale fra quei meschini spesso costretti a vivere in condizioni disumane. Egli stesso abita una capanna di legno che da più parti è aperta al vento e all'acqua. Nel Borinage non può resistere a lungo; s'ammala e torna due o tre volte alla casa paterna ma, due o tre volte, appena guarito, per quel luogo di pena e di dolore riparte.

Quivi nascono i primi suoi disegni. Ma Vincent non ha tecnica alcuna e quando, nei contatti sempre più amari con una gente che stenta a comprenderlo, sente svanire in lui la vocazione religiosa e decide d'abbandonare quella terra infelice, l'esigenza artistica si fa più forte e l'invoglia ad imparare disegno e prospettiva. Eccolo studiare per suo conto a Bruxelles per poi tornare alla nuova casa parterna di Etten ove implanta il suo primo studio. Gli è accanto il fratello Theo che d'ora, in poi gli sarà vicino, a volte di persona, sempre spiritualmente. (Le lettere scritte da Vincent al fratello sono una viva testimonianza e ci danno insieme la storia dell'anima e della pittura sua).

Un nuovo infelice amore per una cugina vedova lo fa fuggire da Etten: va a L'Aia ove studia presso il pittore Mauve. Un giorno, infastilito per i continui esercizi accademici propostigli dal maestro, afferra una testa di Apollo che doveva servirgli da modello, e l'infrange al suolo. È un gesto d'aperta ribellione contro il convenzionalismo dell'arte: poco dopo ne compirà uno più clamoroso contro i convenzionalismi della morale: accoglie in casa una donna di strada, madre di cinque figli e con lei convive. Nel gesto vi è qualcosa di tristemente disperato e di profondamente pietoso. La donna è indegna e gli sperpera il denaro che il fratello Theo gli manda: alla fine Theo stesso riesce ad allontanare la sciagurata. In questo tempo Vincent dipinge quadri dai toni scuri, lugubri, dalle deformazioni disumane.

Nel 1885 egli è ad Anversa ove ha, da alcune stampe, la rivelazione della pittura giapponese: n'è affascinato e da quel momento muta la sua pittura. Nel 1886, a Parigi, studia profondamente gli impressionisti e la sua arte fa un altro passo innanzi. Ormai Vincent ha conquistato plenamente se stesso. Non gli resta che muovere verso la terra del suo sogno, quella che il suo genio sente necessaria, verso l'assolata calda Provenza ove il giallo è il colore che domina, sotto il cobalto del cielo.

Ed eccolo, assorbito da una attività spasmodica, dipingere, dipingere e dipingere quasi avesse coscienza che la morte è vicina: pittura che è ansiosa ricerca di infinito, sforzo di decifrare quel mistero dell'esistenza che già altre volte, per altre vie, aveva infelicemente tentato di scoprire.

In Provenza, mosso da una umanissima esigenza, pensa di costituire con altri artisti l'«Atélier du Midi» ma solo Gauguin risponde al suo invito.

Il contatto con Guaguin è una nuova amara esperienza: in una pittura diversa dalla sua, Van Gogh crede di scoprire i limiti della sua stessa pittura: riaffiora, prepotente, quel complesso di inferiorità che sin da piccolo l'aveva minato. Depresso, esasperato, un giorno scaglia un bicchiere d'assenzio contro il compagno; il giorno dopo l'insegue con un rasoio in mano. Poi il gesto folle: quasi per punirsi si taglia, con un colpo di rasoio, una orecchia.

È il segno del precipitare della crisi: ora la sua vita sarà un tormentoso curarsi, sperare di guarire e ricadere. C'è una sola parentesi serena: il soggiorno a Auvers-sur Oise presso il buon dottor Gachet; ma proprio qui, il 27 luglio 1890, l'estrema pazzia: uscito solo nella campagna, si spara un colpo di pistola al petto: sanguinante ha la forza di trascinarsi a casa dove muore due giorni dopo.

Negli ultimi tempi non aveva smesso di dipingere: nei brevi e frequenti momenti di lucidità aveva dipinto con una sicurezza e un dominio di sè impressionanti. E qui sta la sua grandezza: Van Gogh dal torbido di una sofferenza vissuta con la profondità che solo certe anime, tutte piegate nella meditazione, sono capaci di avere distaccandosi dai molteplici compromessi della vita, s'è sollevato ad un mondo più alto ove ha operato attratto da una necessità impellente, consumando in se stesso ogni energia, logorandosi disperatamente sino all'annullamento.

Perenne stato angoscioso di una esistenza che non poteva se non concludersi là dove l'angoscia si risolve: nella morte.

La mostra delle opere di Van Gogh che ieri s'è aperta al Palazzo Reale di Milano, darà a noi italiani, che ancora non conosciamo direttamente il grande pittore olandese, la possibilità di studiarlo ed amarlo nella sua arte. Di quest'ultima parlerò in un prossimo articolo: ora ho voluto solo presentare l'uomo-Van Gogh, anima in tormento, espressione anticipata nella storia di una condizione drammatica umana che sarà soprattutto dei nostri infelici anni.



imagen del texto original.

«Gazzetta Padana», núm. 48 (24 febbraio 1952)





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