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L'antiparadiso di Michele da Cuneo

Giuseppe Bellini


Università di Milano



Di fronte alla visione pervicacemente paradisiaca del mondo americano, affermata nel suo Diario de a bordo da Cristoforo Colombo e ribadita in successivi documenti, tra essi la Relazione che invia dall'Española ai Re circa il suo terzo viaggio, dove afferma di aver trovato nella Tierra de Gracia il Paradiso terrestre -«[...] mas yo muy assentado tengo el ánima que allí, adonde dije, es el Paraíso Terrenal, [...]»1-, si oppone tutta una serie di interventi di altri autori, tesi a demitizzare e anzi a demonizzare il mondo recentemente scoperto.

Citiamo solo, tra gli incaricati dal navigatore genovese di uno studio più profondo delle terre e delle popolazioni scoperte, il dottor Diego Álvarez Chanca, medico al seguito di Colombo, la cui lettera-relazione risale a un'epoca che si suole situare tra la fine del 1493 e l'inizio del 14942. Del personaggio si interessa lo scopritore, presso i Re Cattolici, dalla città della Isabela, quando il 30 gennaio 1494 affida ad Antonio Torres un Memorial relativo al suo secondo viaggio e mette in rilievo la «gran diligencia e caridad» del dottore «en todo lo que cumple a su oficio»3. Benché attratto dalla singolarità della natura, verso gli indigeni il Chanca ha un atteggiamento di deciso ripudio. Tutto ciò che li riguarda, vita, alloggiamento, aspetto físico, costumi, è negativo. Egli ritiene che, più che esseri umani, essi siano esseri bestiali, il che sarebbe dimostrato anche dal modo animalesco di nutrirsi: «comen quantas culebras é lagartos é arañas é quantos gusanos se hallan por el suelo; ansí que me parece es mayor su bestialidad que de ninguna bestia del mundo»4.

Il passo dall'estrema idealizzazione colombiana alla estrema bestializzazione è brevissimo. Osserva esattamente il Gerbi, a questo proposito, che senza che siano ancora giunti né domenicani né gesuiti e neppure esistano gli «Encomenderos» l'indio è già fatto simile alla bestia: «La fame cronica dell'indigeno, il suo inevitabile «comer sucio» lo respingon lontano dalla civile umanità agli occhi dell'arguto e oblioso dottore»5. «Oblioso» per lo studioso italiano, in quanto egli stesso dimentico della fame patita durante la traversata oceanica, quando forse «una buona fricassea di lucertole e serpenti»6 avrebbe anche potuto piacergli.

Ben diverso sarà l'atteggiamento di Ramón Pané, frate gerolomita, che con attenta passione investigò i miti, la religione, le antichità degli indigeni dell'Española. La sua Relación, che conosciamo solo attraverso citazioni del Las Casas nella Historia apologética de las Indias e nel testo italiano che accompagnava la Vita dell'Almirante, scritta da Fernando Colombo ed edita a Venezia nel 15717, è un documento di straordinario rilievo in questo senso. È interessante notare come nello studio delle origini indie il Pané dia spazio considerevole al fantastico, riportando la leggenda con semplicità e intensa poesia. Ma l'attenzione del frate va in particolare alla cultura degli indios, alle loro leggi e al sistema mnemonico di tramandarle attraverso il canto. Dalla volonterosa indagine di Ramón Pané sorge un mondo culturale che Colombo non aveva avuto il tempo di cogliere, preso da tutt'altri imperativi, tra essi toccare quante più terre possibile e cercare in esse ricchezze. Anche il mondo interiore degli indigeni è scandagliato, attraverso le credenze, l'animismo, la religione, il culto degli idoli, il tutto con estrema serietà di investigatore, anche se non manca, «en passant», di porre in rilievo «los grandes engaños que de éstos reciben»8.

Comunque, quanto all'animismo il frate non sembra stupirsene, se lo presenta con naturalezza a proposito della fabbricazione degli idoli di legno, in un dialogo intimo tra l'uomo e le cose9. Il «realismo magico», di cui è permeata l'opera narrativa di Miguel Ángel Asturias, rivela in Pané un remotissimo precursore.

Ma per tornare al tema che ci interessa, quello della visione demitizzata dell'America, già nei primi anni della scoperta, di fronte alla visione mitica di Colombo, è interessante rileggere il documento del savonese Michele da Cuneo, relativo al secondo viaggio dello scopritore, al quale partecipò. Di questa seconda impresa il Diario colombiano non è pervenuto e proprio per questo il testo diaristico del Da Cuneo ha un valore storico ancor maggiore.

Com'è noto, Michele da Cuneo scrive la relazione del suo viaggio con Colombo su richiesta dell'amico, pure savonese, Gerolamo Annari. Il 26 setiembre 1495 quest'ultimo gli aveva scritto per avere notizie dettagliate, e in attesa di dargliele direttamente, il Da Cuneo, come egli stesso afferma, gli aveva inviato «breve risposta, pensando fra pochi iorni esser cum epso voi»; ma non avendo potuto mandare ad effetto il suo proposito, il 15 ottobre stende la lunga relazione De Novitatibus Insularum Oceani Hesperii Repertarum a Don Christoforo Columbo Genuensi10.

A noi non interessa ripercorrere minutamente, qui, le tappe del viaggio colombiano attraverso il testo italiano, bensí di rilevare l'insostituibilità del documento, non solo per la storia delle imprese colombiane, ma in particolare per l'atteggiamento dell'autore di fronte al mondo americano appena scoperto. Che se, nelle linee fondamentali dello stupore, dell'entusiasmo davanti alle bellezze naturali ripete, con minore efficacia, certo, l'atteggiamento di Colombo, già manifestó nel Diario del primo viaggio, è tuttavia molto più disincantato, più crudo e cinico di fronte all'indigeno. Di «spericolato cinismo» parla, esattamente, il Firpo11. E certamente Michele da Cuneo era un «osservatore lucido e quasi distaccato»12, ma più ancora un disincantato osservatore, che non si lasciava trasportare dalla fantasia.

Dello scritto rileverò, perciò, passi significativi che permettono di avere una visione più vicina alla realtà di quanto non fosse quella colombiana, ma anche accentuatamente negativa. La vita degli indigeni è ciò che più interessa all'italiano. Egli vi privilegia due figure, quella della donna, della quale sente l'attrazione sessuale, e quella del cannibale, che naturalmente ripudia per la barbarie. Con assoluta indifferenza egli riferisce dei «prelevamenti» di uomini e di donne fatti un po' dovunque arrivino le navi di Colombo, ma non manca di sottolineare che in un'isola abitata dai «Camballi» o cannibali -i caribes in lotta contro i più miti popoli antillani-, alla quale l'Ammiraglio porrà nome Santa María de Guadalupe, «presero femine 12 bellissime e grasissime, de età de anni 15 in 16», e con esse «dui garzoni del dicto tempo», dei quali lo colpisce il fatto che «aveano tagliato il membro genitale infino al ventre», cosa che suppone fatta loro dai cannibali di cui erano prigionieri, «a ciò non se mischiassino cum loro mogliere, o saltim per ingrassarli e poi manzarli»13. Gli spagnoli, ad ogni modo, prendono i poveretti per mandarli «per un mostro»14 al Re.

Il conto in cui il Da Cuneo tiene l'indigeno -è vero che si trattava di cannibali- è rivelato dall'assoluta mancanza di scrupoli con cui egli soddisfa le sue voglie su una donna del luogo e dall'innocenza, che per noi è cinismo, con cui racconta all'amico l'avventura, avuta in una delle isole chiamate Once Mil Vírgenes:

«[...] Essendo io ne la barca presi una Camballa belissima, la quale il signor armirante mi donó; la quale avendo io ne la mia camera, essendo nuda secondo loro costume, mi venne voglia di solaciar cum lei. E volendo mettere ad execuzione la voglia mia, ella, non volendo, me tractó talmente cum le ongie, che non voría alora avere incominciato. Ma cosí visto, per dirvi la fine de tutto, presi una corda e molto ben la strigiai, per modo che faceva cridi inauditi, che mai non potresti credere. Ultimate, fussimo de acordio in tal forma, che vi so dire che nel facto parea amaestrata a la scola de bagasse. [...]»15.



Michele Da Cuneo intende, quindi, l'indigeno alla stregua di un animale, o quanto meno di un giocattolo vivo. Del resto, come cose sono trattati tutti gli indios. Si veda con quale indifferenza il savonese riferisce del concentramento forzato di 1600 persone -capi di bestiame si dovrebbe dire-, «tra maschi e femine», onde scegliere tra esse «anime 550» da caricare sulle caravelle in partenza per la Spagna, il 17 febbraio 149516. Quanto ai rimanenti, distribuzione gratuita: «del resto che avanzavano, andò uno bando che, chi ne voleva, ne prendesse a suo piacere: e cossí fu facto»17.

Ciò nonostante ne avanzarono ancora «da 400 circa a li quali fu data licencia de andare dove voleano»18; tra loro vi erano molte donne «che aveano li figlioli a pecto» e che al pari degli uomini si diedero alla fuga «como persone disperate», abbandonando sul terreno i figli19.

Il gentiluomo savonese, senza per nulla rendersi conto della crudeltà di aver incluso nel mucchio anche donne con figli ancora da latte, sembra meravigliarsi grandemente, invece, per un esempio che, evidentemente, ritiene di grande barbarie: la mancanza di preoccupazione da parte della madre per la propria creatura, alla quale antepone la propria salvezza personale. Ma pochi passi più avanti il Da Cuneo mostra nuovamente un incredibile cinismo, quando pondera il ridotto valore della merce umana indigena portata in Spagna:

«[...] e como a Dio piaque, li venti a velle si poseno sì boni che passassimo da l'isoléa di Baluchen perfino a la isola de la Madera in giorni 23. Ma essendo noi pervenuti nel mare di Spagna, morirno de li dicti Indiani, credo per lo insolito aere più fredo che il loro, persone circa 200, li quali getassimo nel mare. La prima terra che vedessimo, fu cavo de Spartelli, e assai tosto poi instrassimo in Cadexe; nel quale loco discaricassimo tutti li schiavi, li quali erano mezo malati. Per vostro aviso, non sono òmini da fatica, e temono molto il fredo, né etiam, hanno longa vita»20.



Già ho detto che gran parte dell'attenzione di Michele da Cuneo è volta ai cannibali. L'argomento doveva, del resto, fare impressione sul destinatario della sua relazione, quindi egli si sofferma con compiacimento su questo tema, sottolineando la bestialità del vivere, la crudeltà, ma anche, curiosamente, la mancanza in essi di libidine, «la qual cosa forse li procede perché mangiano male»21, benché noti come sia generale, anche tra i non cannibali, la sodomia. Il «vicio inmundo», sempre additato poi negli indios come segno massimo di degradazione, fors'anche più infamante, in sostanza, del cannibalismo, è già rilevato dal Da Cuneo, anche se egli scarica i peccatori della coscienza di una colpa. Infatti, afferma che gli indios non sanno «se fanno male o bene»22. Più direttamente il savonese ne rende responsabili i cannibali, ai quali, come reprobi, si possono addurre evidentemente tutte le colpe:

«Abiamo indicato che questo maledetto vicio sii proceduto in dicti Indiani da dicti Camballi, perciò che, como vi ho dicto sopra, sono òmini più feroci, e che, subjugando li dicti Indiani e mangiandoli, per vilipendio etiam li abiano facto quello excesso, il quale poi procedendo sia cresiuto de Tuno in l'altro»23.



Alcune osservazioni di Michele da Cuneo sono molto prossime allo scientifico, altre solamente curiose, e perciò sempre interessanti. Trattando sempre dei cannibali egli nota che essi presentano una singolare unità lingüistica24, del resto già sottolineata anche da Colombo nel suo primo viaggio, nonostante la difficoltà di intendere gli indigeni e di farsi intendere: è la nota «lingua delle isole» dei linguisti, dalla quale sono passati nello spagnolo, e dallo spagnolo in altre lingue europee, numerosi vocaboli25.

Tra le osservazioni curiose isoleremo quella relativa alla carne umana, di cui sono ghiotti i cannibali. Il Da Cuneo asserisce che la carne di maschio è migliore di quella di femmina: «Li quali Camballi, quando prendeno de dicti Indiani, li mangiano come noi li capreti, e dicano che la carne del garzone è assai migliore che quella de la femina»26.

Quanto alla riproduzione, essa avviene nella più completa, e selvaggia, s'intende, libertà: eccettuando le sorelle «tutto il resto è comune»27. Ed è certo per la bestialità del vivere e per il nutrimento che questi esseri hanno vita non lunga: «Dicti Camballi e Indiani, a nostro parere, vivono poco; non abiamo visto orno, il quale a nostro iudicio passi l'età de 50 anni»28. Paragonarli a bestie è facile, perché come queste, oltre tutto, dormono in terra, salvo i signori, i «cací», che «dormeno tuti suso lenzuoli de cotone, li quali signori onorano grandissimamente e riveriscono»29.

Il Da Cuneo osserva che la vita delle donne, al contrario di quella degli uomini, è dura: «Le femine sono quelle che fanno tutto; li òmini solo attendeno a pescare e a mangiare»30.

La curiosità, o meglio, le qualità eccellenti di osservatore del savonese lo portano a osservare attentamente e a catalogare tra mangerecci e no i frutti americani. La descrizione è sempre minuta. Michele da Cuneo è anche il primo a descrivere il mais, ma con scarso entusiasmo, perché «non è tropo bono per noi. Ha sapore de gianda»31. Del pari descrive la maniera di fare il pane dalla manioca32, ed è un'altra primizia.

Quanto alla fauna, dagli uccelli ai pesci, agli animali a quattro zampe -come già Colombo è colpito dai cani muti- la descrizione è anch'essa minuta, accurata, entro le sue scarse conoscenze scientifiche. Egli è comunque il primo, come gli riconosce il Gerbi33, a tentare una sia pur grossolana sistemazione della natura delle Indie, così che la sua lettera afferma il primato in questo campo sulle Decadi di Pietro Martire.

Anche l'oro e la sua ricerca sono temi presenti nella relazione del savonese, ma per porre in rilievo la scarsità dei risultati ottenuti. Nonostante ciò, il Da Cuneo deve esser rimasto piuttosto soddisfatto, malgrado tutto, della sua avventura antillana, tanto più che ne era tornato. Da nobile qual'era, e ligure, aveva avuto da Colombo un trattamento particolare; più di una volta l'ammiraglio lo aveva onorato, con regali -ricordiamo la Camballa- o dando nome a promontori e isole34. Non stupisce, perciò, che il savonese ricambiasse lo scopritore di devota ammirazione, che manifesta anche nella sua relazione quando scrive, con orgoglio di campanile: «Ma una cosa voglio io ben che sapiate, che, al mio poco vedere, poi che Genoa è Genoa, non è nato uno omo tanto magnanimo e acuto del facto del navicare como il dicto signor armirante; [...]»35.

Nonostante la meraviglia della natura, Michele da Cuneo costruisce nella sua relazione all'amico Gerolamo Annari soprattutto un «antiparadiso». L'entusiasmo di Colombo è ben lontano: il savonese è spirito più realistico e comunque uomo chiaramente del suo tempo, per il quale l'ordine delle cose, le categorie di giudizio rimangono quelle che sono. Non spira nella sua lettera la poesia, certo involuntaria, degli scritti colombiani, e tuttavia essa è di stimolante lettura, anche per osservare come l'utopia dello scopritore abbia avuto cortissima vita, e ciò nonostante il continuo risorgere nel tempo. Tra il 1494 -testo del dottor Chanca- e il 1495 -testo del Da Cuneo- l'America, quella fino al momento raggiunta, ossia le Antille, perde i contorni magici della prima visione colombiana e va affermandosi come regno del tenebroso e del deforme, dell'animale. Le basi della polemica che appassionerà, pro o contro, il secolo XVIII stanno già nei primi documenti americani; quelle negative affondano particularmente nella relazione del nobile savonese.





 
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