Selecciona una palabra y presiona la tecla d para obtener su definición.

  —67-68→  

ArribaAbajoPedro Fernández de Navarrete. Testi poetici inediti e rari

Giovanni Caravaggi


Universidad de Pavía

Un poeta estremegno, non ancora studiato in modo soddisfacente, Cristóbal de Mesa, svolse un ruolo di protagonista nella rievocazione di una felice «tertulia» ispanica raccoltasi a Roma verso la fine del Cinquecento intorno alla figura ormai declinante di Torquato Tasso106. Il prestigio di Cristóbal de Mesa deriva non tanto dalla qualità della sua produzione lirica o drammatica o epica, che raramente s’innalza sopra il livello artigianale di un’operazione «mimetica» coscienziosa e canonica, quanto piuttosto dal valore probatorio delle sue testimonianze, che consentono spesso il restauro di parti mancanti entro un affresco storico-letterario dalle vaste dimensioni.

Memorialista preciso, malgrado una tendenza comprensibile a valutare   —70→   enfaticamente gli anni trascorsi presso la Curia romana, egli riflette infatti in molti suoi versi, per lo più attraverso un sistema di tenui allusioni indirette, le vicende di un gruppo entusiasta di discepoli che si sforzavano di trasferire ella lingua castigliana i modelli poetici tassiani. L’apparente genericità dei suoi riferimenti e il suo vezzo di evitare le annotazioni realistiche non trovano solo una giustificazione estetica, poiché occorre tener presente che i destinatari delle ricordanze di Mesa sogliono essere gli stessi compagni della brigata giovanile (o almeno i superstiti), attempati ormai, talora anche affermati, e certo non immemori degli avvenimenti menzionati in modo così vago.

Una delle Rimas che C. de Mesa pubblicó a Madrid nel 1611 (apud Alonso Martín) viene appunto dedicata Al Canónigo Pedro Navarrete, Capellán de Su Magestad107. Già il titolo permette d’identificare il personaggio, su cui Mesa riversa la sua nostalgica emozione, con Pedro Fernández de Navarrete, Canonico di Santiago, cappellano e segretario «de Sus Magestades y Altezas», attivo consigliere e statista apprezzato, la cui influenza si estendeva anche fuori della corte per la funzione che ricopriva di «consultor del Santo Oficio de la Inquisición». Nel 1611 egli non aveva ancora pubblicato né i trattati politici né le traduzioni di Seneca, a cui soprattutto è affidata oggi la sua reputazione; ma occupava già una posizione che Cristóbal de Mesa, deluso e scontento, doveva considerare più che ragguardevole, soprattutto in confronto alla propria, che era ormai quella degli infiniti «pretendientes» cortigiani, almeno da quando aveva perduto la protezione del duca di Feria.

Personalità vivace ed acuta, Pedro Fernández de Navarrete viene ancora ricordato come uno dei pochi intellettuali che seppero intuire le cause della decadenza ormai incipiente, e che tentarono d’indicare qualche rimedio, talvolta abbastanza utopistico, ma talora invece assai realistico; infatti si schierò con Juan de Valverde Arrieta, Martín González de Cellorigo, Benito de Peñalosa y Mondragón, Miguel Caxa de Leruela, Sancho de Moncada, Juan Márquez e qualcun altro, nel sostenere la necessità di potenziare le attività agricole della penisola e di frenare l’emigrazione e l’inurbamento dei contadini, per puntellare una economia ormai in sfacelo.

I suoi Discursos políticos apparvero per la prima volta a Barcellona nel   —71→   1621 (apud Sebastián de Cormellas), ma l’edizione più nota delle sue opere è quella madrilena di poco successiva108: Conservación de monarquías y discursos políticos sobre la gran Consulta que el Consejo hizo al Señor Rey don Felipe Tercero, Madrid, Imprenta Real, 1626, varie volte ristampata. La 5ª edizione (Madrid, Tomás Albán, 1805) indude alla fine anche la Carta de Lelio Peregrino a Estanislao Borbio, privado del Rey de Polonia, cioè il trattatello del «perfecto privado» apparso con lo stesso titolo nel 1625 a Madrid (Impr. Real). Dalla 5ª ed. procede il testo più accessibile ai nostri giorni, compreso in una raccolta pregevole: Obras de don Diego de Saavedra y Fajardo y del Licenciado Pedro Fernández Navarrete, Madrid, B.A.E., t. XXV, 1853 (rist. Madrid, 1947), dove appare anche (pp. XIX-XXI) una breve Advertencia introduttiva, con un giudizio critico assai sintetico.

Dalla Imprenta Real madrilena uscirono inoltre, nel 1627, le sue traduzioni dei Siete Libros de L. A. Seneca, che pure conobbero un notevole successo editoriale (Madrid 1629, 1789, 1884, 1929, 1931, 1943, ecc.), e sono ancor oggi disponibili nel volumetto nº 389 della popolare «Colección Austral» (Séneca, Tratados morales). Completano poi il quadro della produzione finora attribuitagli le Aprobaciones che figurano nei Preliminares di varie opere sottoposte alla sua censura fra il 1615 e il 1630.

Appare stranamente esigua la bibliografia critica relativa a questa interessante figura di statista e di scrittore, su cui grava da vari decenni un giudizio negativo espresso da Américo Castro con l’abituale foga polemica ma con inconsueta parzialità109. L’illustre storico riteneva che la «ignorancia» degli avvenimenti, unita ad una «candidez racionalista», avrebbe portato P. Fernández Navarrete ad una interpretazione tendenziosa della realtà ispanica, analizzata secondo i modelli esistenziali impostisi nella casta dominante (casta ovviamente «única», dopo l’espulsione delle altre). Simile al cervantino «loco de la casa del Nuncio», egli avrebbe confuso la realtà con il suo sogno utopico, proponendo   —72→   un progetto riformistico di carattere meramente restaurativo. Con tutti i limiti che in effetti può rivelare il pensiero politico di P. Fernández Navarrete, il giudizio espresso da A. Castro esige una riflessione anche di carattere metodologico, poiché estrapolando alcuni passi da contesti più vasti è facile deformare la prospettiva di un autore e attribuirgli opinioni tendenziose.

Per esempio, il Discurso XLVI («A lo que ayudaría también reformar algunos estudios de gramática») individua con molto acume le conseguenze nefaste della disoccupazione intellettuale prodotta dall’eccessivo affollamento delle scuole di «gramática» (oggi si chiamerebbero Facoltá di Lettere), ed auspica una rigorosa riforma di tali studi, troppo rilassati e non più in grado di garantire a tutti lo sbocco professionale desiderato. Si trata indubbiamente di una denuncia coraggiosa e chiara, almerio nella sostanza, costellata però di rilievi secondari talora discutibili e perfino strampalati, come certe stravaganze etimologiche («Minerva quasi minuens nervos»), o come la nostalgica allusione ad una Spagna bellicosa e fiera, «ruda y falta de letras», tutta proiettata nello sforzo di «echar de sí el pesado yugo de los sarracenos». Questi particolari non possono venir assunti, per estensione, a testimonianza di una posizione ideologica reazionaria, senza il pericolo di disconoscere gli aspetti positivi, in realtà assai consistenti, e la ricchezza di sfumature, in realtà assai apprezzabile, della critica di P. Fernández de Navarrete alle istituzioni. Né si può correttamente ammettere solo alla fine della ultima nota dedicata all’autore110, che «La obra de Fernández de Navarrete debería ser meditada por cuantos entienden en el gobierno de los pueblos hispano-portugueses».

Perfino le notizie biografiche relative a Pedro Fernández de Navarrete sono assai limitate; il più consistente tentativo di esplorazione degli archivi si riduce alla scarna documentazione raccolta da Cristóbal Pérez Pastor111, che nei riportare alcuni dati sulla prima stampa della Carta de Lelio Peregrino... fornisce anche tre Notas biográficas di qualche interesse, la prima relativa a una procura del domenicano Alonso Navarrete al fratello Pedro per l’incasso presso la tesorería reale di una somma destinata ad un gruppo di missionari in partenza per le Filippine, e le altre due relative al testamento ed all’atto di morte dello stesso Pedro Fernández de Navarrete:

  —73→  

«a.- Poder de Fr. Alonso Navarrete, dominico residente en la corte, a su hermano el Lic. Pedro Fernández Navarrete, canónigo de Santiago y capellán de S.M. para cobrar de Diego de Vergara Gaviria, receptor de S.M., 135 ducados que S.M. manda se le den para llevar 30 religiosos a Filipinas. Madrid, 20 de marzo de 1609 (Juan Sánchez, 1608-9, p. 91).

b.- Testamento del Lic. Pedro Fernández Navarrete. Madrid, 21 de marzo de 1628. (Diego Ruiz de Tapia, 1628, Iº).

c.- Partida de defunción: 1632, marzo 13. «El Licenciado Pedro Fernández Navarrete, Secretario del Serenissimo Infante Cardenal, Canónigo de Santiago... hizo testamento, y se mandó enterrar en Santo Tomás...» (Arch. parroquial de San Martín).

Ma queste scarne note si possono arricchire almeno per cuanto riguarda le prime esperienze letterarie dell’autore, che possono anche essere illustrate concretamente con l’appoggio di testi inediti. Innanzitutto qualche altro dato, concernente la formazione giovanile di Pedro Fernández de Navarrete, può essere reperito proprio all’inizio dell’epistola poetica di Cristóbal de Mesa, dalla quale risulta che il destinatario aveva trascorso un periodo della propria esistenza a Roma:


Los años corren ya tres veces siete,
después que os tuvo el Cardenal Colona
por Secretario, docto Navarrete.
Que vuestras letras, partes y persona
estimava con gran razón por dignas  5
de que os dé Febo la inmortal corona.
Pues entre las naciones peregrinas,
que en la Reyna de todo el Universo
obras hazían toscanas y latinas,
las del ingenio vuestro en prosa y verso  10
os davan fama en la romana corte
de espíritu gentil y estilo terso;
teniendo todos por sujeto y Norte
al Cardenal Ascanio, señor vuestro,
en cuyo honor no hay pluma que se acorte,  15
y al Cardenal Gonzaga, escritor diestro,
y al sin par milanés Conde Pomponio,
y al gran Torquato Tasso por maestro;
dando varios ingenios testimonio
que estava Roma como quando A[u]gusto  20
con victoria bolvió de Marco Antonio.
El duque Cesarino de buen gusto
—74→
los hombres eruditos estimava,
dándoles el lugar devido y justo.
En la Minerva Don Gonzalo estava,  25
era Escobar del Conde secretario,
el Guarneli a Farnesio cortejava.
Todo lo acaba y muda el tiempo vario:
Aguirre, Lucas López, Neila, Heredia
con nosotros tratavan de ordinario.  30
Acuérdome de aquella gran tragedia
al de Feria y de Sesa embaxadores,
que tomó de la noche más que media;
que a los amigos, vuestros servidores,
nos hizistes merced de darnos puerta,  35
y no de los assientos los menores.
Parece que quedó Roma desierta,
faltando Ascanio, el único Mecenas
de la gente que casi toda es muerta,
padre de las humanas letras buenas,  40
que a los buenos ingenios dió buen pago,
sugeto singular de heroycas venas.
Vos venistes de Roma a Santiago
contentandoos con una calongía;
yo, que deví nacer en día aziago,  45
gon el de Feria vine a Lombardía.
Él se fué a Francia, yo me vine a España,
a pretender por diferente vía...



Ammettendo che il computo di Mesa sia esatto, come di solito è dato di verificare, e che il testo sia stato composto alla fine del primo decennio del sec.XVII (cioè un po’prima del 1611, data della stampa madrilena), il ventennio indicato nell’esordio riporta verso il 1590, giusto gli anni a cui Mesa suole riferirsi con esplicite allusioni nelle numerose evocazioni del proprio soggiorno romano112. L’epistola delle Rimas riferisce dunque un insieme di particolari che s’incastrano perfettamente con quelli desumibili da altri versi dello stesso autore; e dalla collazione testuale si è visto emergere un fitto tessuto di relazioni letterarie fra numerosi poeti «in erba» e un saldo vincolo di amicizia e di ammirazione che li univa al Tasso113.

  —75→  

Il dato più consistente che spicca dai versi citati sopra riguarda il legame di dipendenza che vincolava P. Fernández de Navarrete al Cardinal Ascanio Colonna e quello più generico, ma sempre significativo, che lo vincolava a una triade ilustre, il cardinale Scipione Gonzaga, il conte Pomponio Torelli e soprattutto il maestro comune, Torquato Tasso. Anche per le notizie relative a questi eminenti personaggi della cultura romana di fine secolo si rinvia ad indagini anteriori114, ricordando solo che Ascanio Colonna, figlio di Marcantonio, il trionfatore di Lepanto, si era formato in Spagna, alle Università di Salamanca e di Alcalá de Henares, ed aveva ricevuto il cappello cardinalizio nel 1586. I suoi contatti con P. Fernández de Navarrete possono dunque essere iniziati proprio in quegli ambienti accademici castigliani (e più specificamente in Alcalá de Henares, come si vedrá confermato attraverso altre allusioni); l’amicizia dovette presto originare il rapporto di dipendenza. Ma un altro dato di notevole importanza riferito da Mesa riguarda l’opera creativa del «docto secretario» Fernández de Navarrete, che brillava nella cerchia dei letterati della curia papale non solo per le sue profonde conoscenze, ma anche per un’apprezzata produzione, sulla quale occorre compiere un’indagine, non fosse altro che per sottrarla all’oblio in cui è caduta.

Un presupposto da scontare concerne l’attendibilità delle testimonianze di Mesa. Conviene subito precisare che i riferimenti storici ricavabili dal contesto poetico delle sue Rimas sono quasi tutti confermati da testimonianze esterne. Nel caso specifico, oltre a quanto già detto, si possono rinvenire le prove del soggiorno romano di Baltasar de Escobar, segretario di don Enrique de Guzmán, conte di Olivares, ambasciatore spagnolo presso la corte papale, poi viceré di Sicilia e in seguito di Napoli115. Il legame fra Alessandro Guarnelli e il cardinal Alessandro Farnese è confermato dal sonetto del Tasso: «Per te di novo la pietate e l’armi», e in particolare dalla didascalia che lo precede: «Loa il S.r Alessandro Guarnello, traduttore de l’ Eneida di Virgilio, paragonando l’opera sua con quelle de’Greci, et il Cardinale Farnese suo Sig.re con Augusto»116. Può essere documentata senza difficoltà la coincidenza di due ambasciatori spagnoli presso la corte papale nella primavera del 1592, uno itinerante, don Lorenzo Suárez de Figueroa, duca de Feria, l’altro di nomina   —76→   recente, don Antonio de Cardona y Córdoba, duca de Sesa y Soma, subentrato al conte di Olivares117. L’attività poetica di un folto gruppo di spagnoli residenti in Roma verso il 1590-91 viene attestata anche da due interessanti raccolte di rime sacre, dovute al fervido proselitismo dei padri della Minerva, e in particolare di Juan Bru de la Madalena:

-Obras spirituales de diversos en prosa y en verso en el día y fiesta de S. María Madalena... En Roma, en la estampa de Domingo Basa. 1591.

-Excellentias de Santa María Madalena recogidas de la fiesta que le hizo en Roma el P. F. Joan Bru de la Madalena su siervo el año de MDXCI... En Roma, en la stampa de Bartholomeo Bonfandino. 1591.

Fra la numerosa collaborazioni vi spiccano le liriche di Baltasar de Escobar, Miguel López de Aguirre, Antonio de la Parra, Lucas López de Villareal, Antonio de Oquendo e infine Pedro Fernández de Navarrete, per citare solo i nomi più significativi118.

Ecco dunque una prima conferma concreta di esperienze poetiche compiute in anni giovanili dall’illustre statista a cui Cristóbal de Mesa dirigeva l’accorato rimpianto. Proprio le Excellentias... consentono il ricupero, non certo eccezionale, di due testi di fattura apprezzabile:

-Sátira del licenciado Pedro Fernández de Navarrete: «Si mi satiricante pluma el filo / contra el ingrato sisador tuviera...» (ff - 58-61).

-Égloga del licenciado Pedro Fernández de Navarrete: «A la falda de un monte, en un collado, / antes que huviese la esmaltada aurora...» (ff. 74-77).

Ma una silloge assai più consistente di testi attribuiti al «docto Navarrete», una quarantina di sonetti, è reperibile poi in una fonte inedita di considerevole importanza, un Cancionero dell’inizio del sec.XVII, appartenente alla Biblioteca dell’Accademia dei Lincei di Roma (fondo Corsini nº 970, Coll. 44-A-21). Manoscritto dalla grafia chiara ed elegante, cartaceo, misura mm.205 x 148, consta di carte II + 271 + 1 (di cui 270 utili), e reca nel frontespizio (f.II r) il seguente titolo, di mano moderna: Raccolta / Di / Varie Poesie / in / Lingua Spagnuola. Ma la raccolta vera e propria si arresta al f. 195 r., poiché dal f. 195 v. al f. 270 v. compare una Traductión / de los libros de Ovi- / dio de arte a- / mandiSi   —77→   alguno en este pueblo es ignorante / del arte del amor, mi verso lea...»)119.

Il Cancionero corsiniano, per la qualità e il numero dei testi che raccoglie, si può collocare fra le più ricche sillogi manoscritte del primo Seicento; ne aveva dato notizia, in modo assai vago, Marcelino Menéndez y Pelayo in una delle sue Cartas de Roma120. La prima testimonianza del canzoniere, che ha per titolo La uida de los pícaros / de Liñan («Como diestro cosmógrapho que raia / los estadios, distancias, passos, millas»), fu utilizzata da Adolfo Bonilla y San Martín nell’edizione critica di quel poemetto121, costituita sulla base di quattro redazioni distinte, le cui varianti appaiono nell’aparato (dove C indica per l’appunto il nostro manoscritto). Un’altra testimonianza dello stesso florilegio, la Carta de la corte de Roma di Baltasar de Escobar («Corren, Señor Abad, los años nuebe / y la fortuna, que nos traxo a Roma...») è già stata utilizzata dallo scrivente122.

I sonetti attribuiti a Pedro Fernández de Navarrete vi compaiono accanto a testi di Pedro Liñán de Riaza, Luis Gaytán, il padre Tablares, fray Melchor de la Serna, ed altri minori, tra cui un Diego Navarrete (ff. 63r - 69r) che potrebbe essere parente del nostro. Molte liriche figurano adespote, pur essendo in alcuni casi di sicura attribuzione (Hernando de Acuña, Francisco de Figueroa, ecc.); alcuni degli autori menzionati gravitarono nell’orbita della Curia papale o trascorsero lunghi soggiorni in Italia con funzioni diverse (servizio militare, impiego   —78→   di segreteria o altre mansioni cortigiane), tanto che dal punto di vista socio-letterario l’antologia non manca di una specifica coerenza, e merita anche sotto questo aspetto uno studio particolareggiato.

Ai sonetti di Pedro Fernández de Navarrete s’impone per la loro stessa natura la classificazione canonica (amorosi, sacri, di circostanza) che riflette gli orientamenti comuni a gran parte della lirica del tardo Rinascimento. Mancando precisi termini interni di datazione, sembra possible proporre solo una generica ipotesi di sviluppo cronologico, attribuendo in linea di massima i primi, per il loro costante riferimento ad Alcalá de Henares o a luoghi limitrofi, all’ epoca della formazione universitaria del «licenciado», quelli refigiosi e spirituali per lo più al tempo del soggiorno romano, come del resto sembra confermare la breve raccolta già menzionata delle Excellentias... Gli altri andranno ricondotti di volta in volta alle specifiche occasioni da cui furono originati. Si seguirá comunque, almeno per il momento, l’ordine in cui sono documentati dal manoscritto, che potrebbe riflettere l’ordine dell’autografo o del l’antigrafo.

In linea generale si può sottolineare uno sfruttamento manieristico del codice poetico petrarchesco nei sonetti amorosi; un’adesione altrettanto elaborata ai miti e agli schemi della finzione pastorale si rivela poi nei sonetti bucolici, spesso accoppiati attraverso l’espediente delle risposte «per le rime»; i sonetti religiosi, che presumibilmente sono i più tardivi, mostrano già la presenza rilevante di concettismi compiaciuti e di ricercatezze retoriche.

Ma una suddivisione eccessivamente schematica non giova sempre alla comprensione del testo, poiché introduce compartimenti rigidi che non trovano riscontro nella realtà poetica. Il sonetto iniziale potrebbe provarlo concretamente. Qui infatti l’immagine d’apertura sfrutta una formula ricorrente nella lirica amorosa (sia aulica che popolare); basti come esempio il rinvio a Luis Barahona de Soto, «Vuelve esos ojos que en mi daño han sido...»; Rodrigo de Robles Carvajal, «Vuelve, enemiga, la serena frente...»; Álvaro de Alarcón, «Vuelve las sacras luces a mi llanto...»; Anónimo del Cancionero Musical de Medinaceli, «Vuelve tus claros ojos...», ecc. Il sonetto allude però alla rivolta delle Fiandre, ormai quasi domata (v. 9); dovrebbe quindi essere posteriore al 1579 (patto di Arras) e anteriore al 1585, in cui viene espugnata Anversa dal generale Alessandro Farnese (Roma 1545 - Arras 1592), a conclusione di una serie di campagne militari travolgenti. I vv. 3 e 4 alludono probabilmente alle vittorie spagnole di Malines, Villebruk, Courtrai, Maestricht, Oudenarde, e alla riconquista delle principali città fiamminghe   —79→   (1575-1583). I vv. 5 e 6 si riferiscono perciò ad Alesandro Farnese, che peraltro era nipote e non genero di Filippo II, in quanto figlio di Ottaviano Farnese e di Margherita d’Austria (o di Parma), figlia illegittima di Carlo V. Tuttavia anche attraverso il suo legame matrimoniale con doña María di Portogallo, figlia di don Duarte (fratello del re Juan III), Alessandro Farnese risultava imparentato (non però genero, in senso stretto) con Filippo II, che in prime nozze aveva sposato l’infanta portoghese donna Maria Manuela (figlia del re João II). I son. II e III sono collegati strettamente, e pur non portando alcuna indicazione di paternità, sono attribuibili a Pedro Fernández de Navarrete per la posizione che occupano nel manoscritto (per questo motivo si considera attendibile l’attribuzione allo stesso autore dei sonetti X, XI, XIX, XL, che peraltro risultano imparentati con gli altri anche da concreti rapporti interni). Nel son. II si esaltano le stigmate di S. Francesco; il verso finale rappresenta lo sfruttamento «a lo divino» di un’espressione allusiva utilizzata paremiologicamente in contesti molto differenti. La banalità lessicale sembra riscattata da un incipiente impegno concettistico. Il son. III rappresenta uno sviluppo del precedente, esasperandone il motivo principale con compiacimento retorico (si vela la doppia «derivatio» della conclusione). Il tema conobbe una diffusione di «tipo tradicional», con ripercussioni in ambito colto, come testimoniano, fra tante, le glosas raccolte da Damián de Vegas123 a commento della seguente redondilla «ajena»:


Tal sello impreso traéis,
Francisco, en vos, que pregunto
si sois Cristo o su trasunto,
porque se le parecéis.



Il rifiuto della memoria dolente si esprime nel son. IV ricorrendo nelle quartine a strutture enfatiche tipiche del petrarchismo manieristico. L’archetipo di questa tradizione si trova nel son. CCLXXIV del Canzoniere, «Datemi pace, o duri miei pensieri: / non basta ben ch’Amor, fortuna e morte...», ma non è da escludere la mediazione di J. Boscán, «Dejadme en paz, ¡o duros pensamientos! / Básteos el daño y la vergüenza hecha...». Le terzine si stemperano invece in reminescenze idilliche favorite dall’evocazione paesistica.

Un’antitesi ampiamente dibattuta dalla poesia cancioneril ricompare nel son. V, dove muerte e vida si oppongono ai vari livelli che la polisemia   —80→   consente. L’impianto enfatico e le aspre invettive di VI richiamano il sonetto della gelosia attribuito a Garcilaso (XXXIX, «¡Oh celos, de amor terrible freno...!»), che insieme al sonetto di Lomas Cantoral «O celos de amadores duro freno» ed all’anonimo «Celos de amor horrible y duro freno» del Cancionero General de 1554, ha una nota fonte sannazariana («O gelosia d’amanti orribil freno...»)124.

Molto scorretto, e a tratti irrecuperabile, risulta il son. VII, che per l’allusione del v. 5 pare ascrivibile all’epoca della formazione universitaria in Alcalá de Henares. L’interpretazione suscita molti dubbi; equivoca non è solo la rima dei vv. 2-3, ma anche la significazione profonda. Dall’insieme traspare un’aspirazione catartica, anche se rimane ambigua la via che dovrebbe condurre alla liberazione dalla «prigionia». Le terzine, e in particolare i versi conclusivi implicano il concetto cristiano del riscatto dalla colpa.

Anche il son. VIII sovrappone due codici poetici distinti, quello petrarchesco e quello pastoril, secondo un procedimiento intensamente praticato dalla Diana di Montemayor in poi. L’organizzazione anaforica predominante collega questo sonetto al filone petrarcheggiante (ma con ascendenze virgiliane ed oraziane) delle antitesi fra situazioni (geografiche, psicologiche, ecc.) estreme; cfr. il son. CXLV del Canzoniere, «Pommi ove il sole occide i fiori e l’erba...»125; fra le varianti spagnole di maggior interesse sembra opportuno menzionare, come probabili intermediari, il sonetto di Don Diego Hurtado de Mendoza «Ora en la dulce ciencia embebecido...» e quello di Gregorio Silvestre «Ahora me derribe la fortuna...». L’identità di Clarinda rimane celata dalla finzione bucolica. La lunga lista di coppie «pastoriles» cinquecentesche (Salicio-Galatea, Nemoroso-Elisa, Melibeo-Marfiria, Vandalio-Dórida, Silvano-Silvia, Damón-Galatea, ecc.) si arricchisce dunque di una nuova testimonianza.

Una risposta per le rime segue nel son. XI, che anzi complica l’artificio iterando l’intera parola finale di ogni verso. L’abilità (ammesso che così si voglia definire uno sforzo a tratti faticoso) sembra consistere soprattutto nell’evitare la banale ripetizione delle immagini nella rigorosa corrispondenza delle singole componenti dei due sonetti.

  —81→  

Analoga convenzione metrica collega i son. X e XI, con forzature espressive talora stucchevoli. Vi si continua la sovrapposizione di codici letterari eterogenei, poiché la alabanza delle qualità ineffabili della persona amata mostra echi un po’ sbiaditi della lode stilnovista e petrarchesca, ma si configura attraverso lo scambio poetico fra Menandro e Clarinda, la coppia «pastoril» già menzionata.

Il procedimiento si ripete nei son. XII e XIII, dove tuttavia la consonanza delle rime non allude più all’armonia di una relazione amorosa, bensì alle affinità spirituali di un sodalizio antico. La finzione bucolica, altrettanto impenetrabile, cela ovviamente qualche evocazione autobiografica di un época giovanile ormai lontana, probabilmente gli anni universitari salmantini. Se Menandro è il poeta stesso, dietro il nome di Bireno o di Siralvo (o forse di Lisardo, che compare nei son. XIX e XX) si potrebbe celare Ascanio Colonna. La formula dell’esordio di Bireno ricalca quella di Diego Hurtado de Mendoza (un poeta evidentemente molto caro a Fernández Navarrete), «Tiempo fue ya que amor no me trataba».

L’occasione del son. XIV viene espressa dalla didascalia. Destinataria non è ovviamente la celebre poetessa, figlia di Frabrizio, Connestabile di Napoli, bensì l’omonima, figlia di Marcantonio, l’eroe di Lepanto, dal 1577 vicerè di Sicilia (morto a Madrid nel 1584), e di Felicia Orsini; era quindi sorella del Cardinale Ascanio, protettore di Pedro Fernández de Navarrete: andò sposa a Don Luis Enríquez de Cabrera y Mendoza, duca di Medina de Rioseco, 8º Almirante Mayor di Castiglia, da cui ebbe due figli, Juan Alonso Enríquez de Cabrera y Colonna, erede del titolo, e Ana Enríquez de Cabrera y Colonna.

Secondo il gusto del petrarchismo cinquecentesco, il son. XV instaura un sistema complesso di correlazioni plurimembri; per quanto riguarda gli esordi spagnoli, si potrà ricordare Gutierre de Cetina («Si son nieve, oro, perlas y corales...», nel son. «Si tantas partes hay por vuestra parte...»), da collegare naturalmente al suo modello italiano, l’Ariosto («Son di coraffi, perle, avorio e latte...», nel son. «Se senza fin son le cagion ch’io v’ami...»), secondo l’attenta indagine di D. Alonso126.

  —82→  

Un sonetto di circostanza è anche il XVI, contro un frate che si può identificare, grazie alle perspicaci ricerche di J.L. Gotor, con «el Frayle Benito», ossia fray Melchor de la Serna127.

Nel son. XVII viene inaugurata una riflessione spirituale, attraverso la rassegna di valori contrapposti personificati da due figure femminili embiematiche. Per il culto della Maddalena, si veda anche la precedente nota 118128 e le notizie a cui si riferisce.

Il son. XVIII potrebbe essere incluso nella serie bucolica De Clarinda a Menandro, già esaminata, ma non è provvisto di alcuna didascalia giustificatoria nè di risposta parallelistica. Per la formula dell’ esordio, si vedano le osservazioni al son. I. Anche i son. XIX e XX sono collegabili alle allegorie bucoliche già esaminate; non è facile individuare il compagno di gioventù celato sotto il nome di Lisardo, che pare destinato a rilevanti imprese belliche (allusione forse alla spedizione del’ Invincible Armada?) e a missioni importanti a Roma; niente esclude che si tratti dello stesso amico e protettore Ascanio Colonna. Certo alia corte papale molti spagnoli potevano vedere riversarsi in quei momenti la cornucopia dell’abbondanza!

Il son. XXI include uno sviluppo interessante della metafora petrarchesca della navigazione perigliosa nel mate delle passioni, che tanta fortuna ha conosciuto nella poesia castigliana, da J. Boscán in poi129.

Il son. XXII, maigrado il guasto testuale, è costruito secondo il sistema dei versi «cum auctoritate», che si diffusero in area romanza soprattutto a partire dal sec. XII (ma con antecedenti alessandrini di rilievo) e giunsero alla lirica rinascimentale sia attraverso il petrarchismo (Garcilaso, son. XXII, «Con ansia estrema de mirar qué tiene...», con citazione finale di un verso del Petrarca), sia attraverso gli stessi Cancioneros castigliani130. La citazione evangelica serve ovviamente a   —83→   porre in evidenza il significato spirituale che il poeta vuole attribuire all’evocazione.

La stessa tecnica viene esasperata nel son. XXIII, che, come annota la didascalia, giustappone (in modo non sempre brillante) i capoversi di testi molto eterogenei, di autori noti ed anonimi; solitamente l’incipit è riportato con esattezza, ma talora viene lievemente modificato per adattarsi ad una minima connessione logica con gli altri. Le citas illustri vanno dall’Epistola I del Lib. III di Boscán (v. 13), alla canzone IV e al son. XV di Garcilaso (vv. 11 e 12), a una lirica di Francisco de Figueroa (v. 6), alle terzine del Lib. III della Diana di Montemayor (v. 7), ecc.; fra i romances, sono leggermente deformati «Dardanio con el cuento de un cayado» (v. 3), apparso nel Cancionero llamado Recreo de Amadores, por Pedro Hurtado, Valencia, 1569, nº 20, e «Hero del alta torre do mirava» (v. 4), nel Cancionero General, Anversa, 1557, f. CCCC, e nel Cancionero llamado Flor de Enamorados, Barcelona, 1562, nº 134.

Nei son. XXIV e XXV si ripete l’esperienza della glosa poetica, con l’inserimento finale di una stessa espressione che sancisce in termini paremiologici l’ampio dibattito sul tema dell’ illusione fugace. Per entrambi i sonetti si possono segnalare riferimenti testuali interessanti sul doppio piano tematico e stilistico: da un lato, un filone procedente dal Bembo («Sogno che dolcemente ma hai furato...»), attraverso J. Boscán («Dulce soñar y dulce congojarme...») Cetina («Ay, sabrosa ilusión, sueño suave...») nonché («Ay, falso burlador, sabroso sueño...»), J. de Montemayor («Oh dulce sueño, dulce fantasía...») e Lomas Cantoral («Oh dulce sueño, oh dulce acertamiento...»), e dall’altro una linea di sviluppo tradizionale che risale alla Canzone I di Ausias March («Axí com cell qui.n lo somni.s delita...») e viene approfondita in particolare dallo stesso Boscán («Como aquel que en soñar gusto recibe...») e da Diego Hurtado de Mendoza («Como el hombre que huelga de soñar...»).

Aggregandosi idealmente ai due anteriori, il son. XXVI riprende la meditazione amareggiata sulla vana evasione mentale dai ristretti contorni della realtà; la stessa canzone di Ausias March, st. III («Plagués a Déu que mon pensar fos mort...») si può considerare all’origine di una complessa serie di riflessioni poetiche affini, da J. Boscán («Oh si acabase   —84→   mi pensar sus días...») a Diego Hurtado de Mendoza («Si fuese muerto ya mi pensamiento...»), a Herrera («Pensé, mas fue engañoso pensamiento...»), Pedro Laynez (« Peligroso atrevido pensamiento...»), per giungere poi fino a Lope de Vega («Dulce, atrevido pensamiento loco...»), a Góngora («Dulce contemplación del pensamiento...») e ben oltre.

L’esordio del son. XXVII s’ispira ad una formula ottativa di stampo bucolico; ma il faticoso sviluppo della seconda quartina el’antitesis stentata delle due terzine rivelano un impaccio formale nell’adattamento degli schemi tradizionali.

Nel son. XXVIII si percepisce un’eco vaga delle evocazioni petrarchesche del paesaggio delineato intorno alla figura de Laura (cfr. particolarmente il son. CCXLIII «Fresco, ombroso, fiorito e verde colle...»), ma si tratta ormai di un esordio manieristico.

Il son. XXIX ripropone con minime varianti grafiche il IV, e probabilmente la sbadataggine deve essere imputata al copista; comunque vengono eliminati ora alcuni errori della trascrizione precedente.

Il son XXX sovrappone gli artifici concettistici propri dei Cancioneros alla contemplazione estatica della bellezza della donna amata, complicando formalmente la tipica rassegna petrarcheggiante di particolari decantati di ogni attributo concreto (belle mani, bel corpo, dolce viso, ecc.).

Il son. XXXI si pone in evidenza per la rigorosa disposizione anaforica delle quartine e per l’estensione complessa dell’unico periodo, dalla costruzione sintattica abilmente rapportata alle strutture metriche. Anche le rime equivoche ne rilevano l’artificiosità. Le opposizioni dei tipo guerra-pace, tristeza-allegria, via lunga e pericolosa-cammino sicuro e piano, note-giorno, sono facilmente riconducibili alle antitesi che compaiono per es. nel Canzoniere petrarchesco, son. CXXXIV «Pace non trovo e non ho da far guerra».

Nel son. XXXII vengono a loro volta contraposti, con un gioco di parole non molto felice, i sospiri d’amore e l’estremo «sospiro» esalato dall’anima, in un’ulteriore svolgimento dell’abusato scambio cancioneril tra vita e morte.

Il son. XXXIII appartiene alla serie bucolica, pur mancando di espliciti   —85→   riferimenti al destinatario. La prima terzina risulta oscura, ma il testo sembra corrotto.

Il son. XXXIV trasfigura in termini scanzonati e picareschi la delicata favola di Endimione, che Gaspar de Aguilar doveva svolgere in agili quintillas e che più tardi Marcelo Díaz Callecerrada avrebbe dilatato prolissamente in tre canti.

Il son. XXXV, per il suo carattere encomiastico, si stacca dalle serie precedenti e va collegato a qualche vicenda biografica che sarebbe da precisare con l’apporto di fonti esterne più esplicite.

Per l’incalzante iterazione anaforica e anche per qualche coincidenza tematica (cfr. per es. v. 3), il son XXXVI si avvicina al son. XCV di Boscán, già citato («Dulce soñar y dulce congojarme...»), senza che si possa peraltro intravvedere l’intenzione di una glosa vera e propria.

Il son. XXXVII sembra prospettare una situazione maliziosa affine a quella del son XXII di Garcilaso («Con ansia estrema de mirar qué tiene...»), ma la risolve con la solennità ostentata di un gesto rituale. Invece nel son. XXXVIII, abbandonata ormai la malinconica vena elegiaca, prende forma attraverso il dialogo concitato e drammatico con la morte, il tema del desengaño e della rinuncia, che acquista nei testi seguenti una fisionomia mistica più marcata. Infatti i son. XXXIX-XLII, omogenei e coerenti nel loro siancio trascendente, rivolgono un’accorata invocazione di conforto all’amore divino, a cui aspira ormai l’anima delusa dagli affetti terreni. La vena spiritualistica di questo gruppo è confermata poi dall’ Égloga «a lo divino» (XLIV), che evoca l’incontro fra il Cristo e la Maddalena, dopo la Resurrezione, e in parte anche dalla Sátira contro Giuda Iscariota (XLIII), dove tuttavia predominano gli stilemi dell’invettiva sarcastica.

I quattro sonetti della Resurrezione non sono attribuibili a Pedro Fernández de Navarrete se le abbreviazioni nella didascalia del f.99v. devono intendersi (come tutto fa ritenere) la sigla dell’autore; e poiché al f. 16r. compariva una Carta general de amor de Gaetán («Camilla, porque se vea / en quán diuersos sabores...»), si può avanzare l’ipotesi che il Gaetán della Carta e il non meglio identificato L.G. dei sonetti in questione siano la stessa persona, vale e dire il toledano Luis Gaytán, già noto soprattutto come traduttore del Giraldi Cinzio131. Comunque i   —86→   quattro sonetti sono qui riprodotti in appendice al corpus poetico esaminato, a titolo comparativo.

Una rassegna cosi sommaria non ha certo pretese di completezza, ma aspira soprattutto a rilevare le coordinate culturali e stilistiche da cui è definita l’esperienza poetica di Pedro Fernández de Navarrete; se ne può dedurre che il campionario inedito trasmesso dal manoscritto corsiniano è collocabile dignitosamente nella più illustre tradizione della lirica spagnola del tardo Rinascimento, e merita quanto meno una menzione per l’elaboratezza delle scelte.

Nella riproduzione dei testi sono stati mantenuti gli arcaismi e le oscillazioni degli usi grafici, poiché la loro fenomenologia potrebbe risultare utile ad una ricerca specifica; sono state conservate anche le contaminazioni fra le abitudini della scripta ispanica e le consuetudini italiana, che lasciano intravvedere una probabile esecuzione italiana della raccolta. Solo in casi di un possibile equivoco d’interpretazione si è preferito effettuare un restauro. Gli errori corretti e i mutamenti suggeriti vengono giustificati nell’apparato, e così pure le ragioni di ogni altro intervento o semplicemente le proposte di emendamento. Le integrazioni compiute sono indicate dalla parentesi quadra, le espunzioni dalla parentesi rotonda. Con la sigla C verrà designato il manoscrito 970 del fondo Corsini della Biblioteca dei Lincei, con la sigla E il testo delle Excellentias... menzionato sopra.

- I - (C.f. 80r.)

Soneto de P[edr]o Navarrete


    Buelue al monarcha uniuersal del mundo,
Flamenco ayrado, los indignos ojos,
y uerás de claríssimos despojos
enriquecido su poder fecundo.
    Mira del yerno el braço sin secundo  5
que ha de quebrar tus uélicos antojos
y el premio de tan ásperos enojos
verás librado en el lugar profundo.
    Y pues te ves colgado de un cauello
y al disponer del largo cielo plugo  10
descubrirte el remedio de tu suerte,
—87→
    somete agora al amoroso yugo
del cuerpo y alma el uno y otro cuello,
qu’el que te llama no querrá tu muerte.

3. ms. despoios; 4. ms. enrequecido; 5. ms. braco; 8. ms. luguar, 9. ms. tu ues.



- II - (C.ff. 80v.)

81r. Soneto a S. Fr[ancis]co


    Sancto admirable, si mi flaco aliento
con tu licor animas y dispones,
entre aquessas seráficas legiones,
donde tú habitas, uolará mi acento.
    Batió sus alas por el franco viento f. 81 r.  5
el portador de los diuinos dones,
que en pies y manos y costado pones
con que le ygualas en merecimiento.
    El Serafín fue digno de traellos,
de reciuillos tú, y en ambos uisto  10
el poder grande de la mano diestra
    del que se sella en ti con cinco sellos;
si soys de un paño, dígalo la muestra,
que so el sayal ay al, y él es Christo.

13. ms. pano; 14. ms. saial.



- III - (C.ff. 81r. - 81v.)

Soneto al mesmo S[anc]to


    Si del sayal humilde el tosco manto
del seráphico sancto se vistiera,
Christo al mesmo Francisco pareziera
y Christo pareciera ser el Sancto.
    Y llegara el dudar de aquesto a tanto  5
que si en la Cruz Francisco se pusiera, f. 81 v.
todo el christiano suelo le tuuiera
por el Reparador de nuestro llanto.
—88→
    ¡Dichoso Sancto, en quien la estampa pura
de Christo está estampada de tal suerte  10
que qual sea original en duda viene!
    De Christo es la señal, y esta figura
con estas llagas dió a la muerte muerte
y a la captiuidad captiua tiene.

12. ms. senal.



- IV - (C. ff. 81v. - 82r.)

Soneto de P[edro] N[avarrete]


    ¡Baste, no más, amor, ya no más, gloria!
¿Para qué a un afligido nueua pena?
¿Qué injusto fuero o (qué) injusta ley ordena
representarme la passada historia?
¡Baste también, deja(d)me ya, memoria!  5
No quieras acordarme la cadena
con que enlaçado estuue y mi alma llenaf. 82 r.
de mil glorias y de una bien notoria.
    Bien lo sauen las fuentes desta tierra,
testigos de mi gozo sempiterno  10
do alguna noche fui resplandeciente,
    y el aura fresco de la fría sierra
nos ayudó soplando suauemente
y Hebro que será testigo eterno.

7. ms. enlacado; 13. ms. ajudo.



- V - (C. ff. 82r. - 82v.)

Soneto de P[edr]o N[avarre]te


    No es la causa mayor deste accidente,
señoras, el estar flaco y des[h]echo,
ni verme en este pobre y duro lecho
desamparado, mísero y doliente.
—89→
    Otro más fuerte mal es el que siente  5
mi alma, con el qual me abrasó el pecho;
otra fiebre hay mayor, que sin derecho
sosegarme un momento no consiente.
    Un fuego, un cáncer y una dura muerte, f. 82 v.
muerte plugiera a Dios porque acauara,  10
mas yerro en esto, que mejor es uida
    por padezer en ella triste suerte,
sin el temor de la fortuna abara,
que al humilde no daña su caída.

8. nel ms. la seconda sillaba soprascritta; 11. ms. meior; 14. ms. dana.



- VI - (C. ff. 82v. - 83r.)

Soneto de P[edr]o Na[varre]te


    Díme ¿adó llegarán tus tyrannías,
injusto amor, adó tus desconciertos?
si al rústico pastor en los desiertos
a la amorosa lucha desafías,
    si en el neuado ualle y sierras frías  5
prendes, tyranno amor, tus fuegos ciertos,
si acá y allá tus bienes son inciertos
¿hasta quándo as de estar en tus porfías?
    Sangriento lobo, harpía ponçoñosa,
¿quándo te(s) as de cansar de tanto(s) daño(s)  10
y tanto mal como me tienes hecho?
    Pues trace tu costumbre prodigiosa f. 83 r.
contra mí, como suele, algún engaño,
que a todo tengo presto humilde el pecho.

3. ms. discretos; 6. ms. prende; 9. ms. ponconosa; 10. ms. danos; 14. ms. tenga.



  —90→  

- VII - (C. ff. 83r. - 83v.)

Soneto de P[edr]o Na[varre]te


    Mientras pisan tus pies la tierra digna
donde tus bellas manos hazen raya(s),
y la luz pura de tus ojos raya
antes que el sol la celestial cortina,
    esta captividad alcaladina,  5
donde el más fuerte corazón desmaya,
mira, y al hado que nos da la baya
(antes que el sol la celestial cortina).
    Verás que nacen tan terribles males
de estar ausente de tus dulces bienes,  10
y mejora en los tuyos uida y suerte.
    Muébate a esto lo que en todo vales
y que bamos perdidos si no vienes f. 83 v.
a deffendernos del poder de muerte.

1. ms. pierna; 8. erronea ripetizione del v. 4; 11. ms. meiora...tuios.



- VIII - (C. ff. 83v. - 84r.)

Soneto de P[edr]o Na[varre]te

De Menandro a Clarinda


    Ora, Clarinda, muestres coronada
de uerde lauro tu gloriosa frente,
ora tu canto suene dulcemente,
ora cantes endechas congojada,
    ora tu pluma en alto leuantada  5
en verso heroico las historias quente,
ora te ampares de la siesta ardiente
en pláticas gustosas empleada,
    ora nos muestre el cielo lo que puedes,
ora nos cubra parte de las partes,  10
que la menor de todas basta a todo,
—91→
    todo es, Clarinda, desplegar las redes
que amor nos tien[d]e con secretas artes,
que suya es la imbención y suyo el modo. f. 84 r.

7. ms. ciesta; 8. ms. emplaticas.



- IX - (C. f. 84r.)

Soneto de P[edr]o Na[varre]te

En respuesta de Clarinda a Menandro


Con razón tiene Apollo coronada
de sagrado laurel tu illustre frente,
pues canta en ti tan graue y dulcemente
que suspendes al alma congojada.
Con voz sonora eterna y leuantada  5
la i[n]mortal fama tu grandeza quente,
y en quanto alumbre al mundo el sol ardiente
viua en tus alabanças empleada.
Tan grande es tu valor y tanto puedes
que la menor que vemos de tus partes  10
muestra de quanto bien da el cielo al todo;
y antes podrán coger el biento en redes
y el ancho mar medir con ciertas artes
que auer para alabarte sciencia o modo.

11. ms. el todo.



- X - (C. f. 84v.)

Soneto a Clarinda


    Igual en discreción y en hermosura
y sin igual en todos los estremos,
bella Clarinda, en quien tan claro vemos
milagrosos excessos de natura;
    diuina estampa donde se figura  5
lo que ni veen los ojos ni entendemos;
y assí tus cosas más por fe sauemos
que por sciencia de humana criatura.
—92→
    No digo que eres una entre las nueue,
sino que todas nueue en ti se encierran  10
y que tañó tu cifra el sacro Apollo.
    Tu diuino licor las almas mueue,
las Musas por tu musa se destierran
y quedas sola como Apollo solo.

7. ms. fee; 13. ms. mussas.



- XI - (C. ff. 84v. - 85r.)

Soneto de Clarinda


    Si qual la bella Diosa de hermosura
suspendieran el mundo mis estremos
y quanto auiso en los nacidos vemos f. 85 r.
obrara en mí la pródiga natura,
    para te celebrar se me figura  5
quan poco los humanos entendemos;
de ti, pues, cante lo que no sabemos
ángel diuino y no mortal criatura.
    Y si eloquencia mora entre las nueue,
si [e]spíritu en su dulce verso encierran,  10
si no has enmudecido al rubio Apolo,
    tú eres sólo el objeto que los mueue
para cantar tan alto que destierran
quanto el sol mira fuera de ti sólo.

4. ms. afrara; 9. ms. Y se; 11. ms. Appollo; 12. ms. obiecto.



- XII - (C. ff. 85r. - 85v.)

Soneto de P[edr]o N[avarret]e

De Bireno a Menandro


    Tiempo vi yo, Menandro, que solías,
quando el amor nos tuuo más conformes,
por las riueras del sagrado Tormes
juntar tus cabras con las bacas mías.
—93→
    Tornaron los alegres dulces días f. 85 v.  5
en sospechas y en odios tan disformes
que me es fuerça pedirte que me informes
quién ha turuado nuestras alegrías.
    Mi hato, mi ganado, mi cauaña
siempre fué tuyo y yo tu fiel amigo,  10
tanto como Siraluo ganadero,
    gloria y honor de quanto el Tajo baña
y sin segundo en merezer contigo,
aunque en tiempo y amor yo soy primero.

14. ms. soi.



- XIII - (C. ff. 85v. - 86r.)

Soneto del dicho en re[s]p[ues]ta


    Al tiempo, o mi Bireno, que solías
hazer tus gustos con mi fe conformes,
en las riueras del sagrado Tormes,
eran de un ser tus glorias con las mías.
    Ya para my tornaronse estos días  5
noches obscuras, de la luz disformes;
de amor quiero, o Bireno, que te informes
quien huuo de enturuiar tus alegrías. f. 86 r.
    De tu Bartola pisas la cauaña,
siéndote ella leal y amor amigo,  10
y buscas atán triste ganadero
    que estas riberas con sus ojos baña;
baste saber, Bireno, que contigo,
las leyes guardo del amor primero.

8. ms. que huie.



  —94→  

- XIV - (C. ff. 86r. - 86v.)

Soneto de P[edr]o N[avarret]e al casam[ient]o de la S[eño]ra Dona Vitoria Colona


    Syendo en voz rabiosa destroncada
desta coluna la primer victoria,
con lástima, que aun dura en la memoria,
de nuestra España triste y despojada,
    otra del mesmo tronco leuantada  5
de Italia vino a dar a España gloria,
mas cortó de su vida transitoria
Atropos el estambre delicada.
    Tras estas dos tormentas de fortuna,
da el cielo a Enrríquez la victoria rica f. 86 v.  10
por quien ánimo cobra el bando hispano.
    Porque el áncora junto esta Colunna
tercer Victoria a España pronostica
del Belga, del Ynglés, del Africano.



- XV - (C. ff 86v. - 87r.)

Soneto de P[edr]o N[avarret]e


    Rayos del cielo verdadero oriente,
soles que en él salís, arcos triumphales,
lirios, rubíes, perlas orientales,
marmol neuado, fábrica excellente,
    dezid, cauellos, díme, altiua frente,  5
ojos del cielo, cejas celestiales,
mexillas, boca y cuello, siendo tales
que os alaua callando el que más siente,
    ¿quién en la perfection desas faciones
rayos, oriente, soles, arcos uellos,  10
lirios, perlas y mármol pone el sello?
—95→
    La nariz uella en cuias perfecciones f. 87 r.
gozan su perfección frente, cabellos,
ojos, cejas, mexillas, boca y cuello.

5. ms. cauollo... dimi; 6. ms. ceyas; 9. ms. quen oyr; 14. ms.maxillas.



- XVI - (C. ff. 87v.)

Soneto de P[edr]o Nau[arre]te


    Gordo predicador, frayle arrogante,
rodezno de molino con antojos,
leuanta el sobrecejo, abre los ojos,
prosista malo y mal metrificante.
    No me des ocasión a que discante  5
tus no muy limpios tratos, tus antojos;
mira no lleue amor de ti despojos,
que no te llamaré frayle obseruante.
    ¡Haz en tus obras lo que al mundo enseñas,
dexa essa grauedad y fantassía,  10
apártate de hazer tantas quimeras!
    Si no te has de apartar, busca dos dueñas
que rezen seys rossarios cada día,
dexa para los mozos las terneras.

9. ms. Has.



- XVII - (C. ff. 87v. - 88r.)

Soneto de P[edr]o Na[varre]te


    Si Porcia enlaça en sus madejas de oro,
Madalena enriqueze la cadena;
si Porcia al llanto con rigor condena,
en biendo a Madalena cessa el lloro. f. 88 r.
    Si Porcia anubla el celestial thesoro,  5
Madalena al instante lo serena;
si Porcia prende, libra Madalena;
[si a Porcia quiero, a Madalena] adoro.
—96→
    Si Porcia enciende el libre pensamiento,
Madalena al capitulo da consuelo;  10
si Porcia hiere, Madalena sana.
    Si Porcia al alma quita el alimento,
Madalena le da manjar del cielo;
y assí con Porcia y Madalena gana.

4. ms. Madelena; 7-8. lacuna nel ms., che salda per errore: «si P. prende libra M. adoro».



- XVIII - (C. ff. 88r. - 88v.)

Soneto de P[edr]o Na[varre]te


    Remontado pastor, buelue a tu apero,
buelue, pastor, no temas el castigo,
que el amor que te tengo es fiel testigo
si más que tu querer y gusto quiero.
    Víte de mis amores presionero,  5
mostráuaste leal, y amor amigo,
y agora huies porque yo te sigo
y el lazo rompes del amor primero. f. 88 v.
    Buelue, cruel, y mira mis ouejas
que a tu siluo otro tiempo obedecían,  10
y escucha el mío, que él podrá mouerte.
    Pon remedio, pastor, a estas quexas,
aduerte a las que el pecho y alma embían,
si no gustas oyr las de mi muerte.

[De Clarinda a Menandro?]

8. ms. cazo.



- XIX - (C. ff. 88v. - 89r.)

Soneto de Menandro a Lysardo


    Yo me acuerdo, Lysardo, que solías,
con dulce lyra del amor templada
y la pluma del mesmo amor cortada,
passar la[s] noches y gastar los días.
—97→
    Por tu Lisarda en puro amor ardías,  5
tu pluma en celebrarla vi occupada
que en esto estaua entonces empleada,
porque solo su gusto pretendías.
    Mas ya, Lisardo la s[eñe]ra fama
te está aguardando con su rostro uello  10
por leuantarte a más heroica suerte. f.89 r.
    Mira que el Dios beligero te llama
para que oprimas del Dragón el cuello
y rasgues del león el pecho fuerte.

(allusione alla spedizione dell’Invencible?)

9. ms. abbrevia, per errore di lettura, s. ra.



- XX - (C. ff. 89r. - 89v.)

Soneto de Menandro a Lysardo


    No rebuelues, Lisardo, atrás los ojos
ni escuchas de Lisarda el llanto triste,
ni al Tajo miras, que de luto viste,
viendo que ya le faltan tus despojos.
    Rehusa de tu gusto los antojos  5
y con heroyco pecho les resiste;
verás, docto Lisardo, que consiste
encubierta la flor en los abrojos.
    Endereza la vista hazia delante;
verás que el manso mar te está llamando  10
y que en solo esperarte se recrea.
    Verás que el Tiber con amor bastante
te quida, en sus riberas aguardando,f. 89 v.
y el cuerno ha derramado de Amaltea.

8. ms. abroyos.



  —98→  

- XXI - (C. ff. 89v.)

Soneto del mismo a Nuestra Señora de Monsarate


    En jubeniles años engañado,
por esse mar que se nauega amando
con fragil barco anduue porfiando
de un norte y vientos más de mil colgado(s).
    Vi sus mudangas quando brama ayrado  5
qual bestia encadenada, y víle quando
por más peligro está risueño y blando;
supe qu’es ser dichoso y desdichado.
    Al fin ver este puerto me consuela
como quien del Oceano o Tirreno  10
aporta alegre a tan dichosa sierra.
    Aquí cuelga la naue antena y bela,
sagrada sierra, que en angosto seno
la que enserró en el suyo a Dios encierra.



- XXII - (C. f. 90r.)

Soneto del mesmo


    O quantos daños, quantas desbenturas,
o gran flaqueza del primer bocado,
ya que afligido y miserable estado
truxo a las racionales criaturas.
    Los animales a sus abenturas  5
buscan el común pasto acostumbrado,
qual fresca selua, qual hermoso prado,
qual agrios bosques, qual montañas duras.
    Passan el curso de su vida quieta,
no temen tiempo, hado ny fortuna,  10
ni aguardan a su suerte el quando o como.
    Sólo el mismo hombre se subjecta
a aquesta banidad tan importuna,
pues «non in solo pane viuit homo».

14. ms. cum solo; si restaura la lezione di Mat. 4.4: «Non in solo pane vivit homo».



  —99→  

- XXIII - (C. ff. 90r. - 90v.)

Soneto del mismo. De principios


    Marfira sus ouejas repastaua,
miraua Tisue el pecho traspassado,
Dardanio con el quento del cavado f. 90 v.
Ero de un alta torre lo miraua.
    Y aquel noturno belo desdoblaua  5
sobre neuados riscos leuantado
passaua Amor su arco desarmado
en el tiempo que Amor me regalaua.
    No las armas, amor, impressas canto
a ti, Belissa, dulce ánima mía,  10
el aspereza de mis males quiero.
    Si quexas y lamentos pueden tanto
el que sin ti bibir ya no querría;
muera del mal, señora, con que muero.

3. ms. quanto; 7. ms. desermado; 13. ms. senti.



- XXIV - (C. ff. 90v. - 91r.)

Soneto del mesmo. Glosa


    Sy la [e]sperança es sueño del que bela,
de cuya idea aquella ymagen biba
entreteniendo el llanto y pena esquiba
da al pensamiento alas con que buela;
    sy aqueste Nefecto al corazón consuela  5
y del fiero dolor a ratos priua, f. 91 r.
¿quál será aquel que luego le derriba
de tanto bien donde su mal recela?
    ¿Quál duro hado, qué maligna estrella
turba la luz del bien de mi memoria  10
dexando al cuerpo con tan graue carga?
—100→
    ¿Quién me deuide de mi nimpha bella
para que sólo quede de mi gloria
la vida corta y la esperança larga?

5. ms. aquesta.



- XXV - (C. ff. 91r. - 91v.)

Soneto del mesmo. A la mesma Letra. Glossa


    Bien como aquel que en sueño sepultado
la fantasma o visión con quien pelea
le representa en lo que más dessea
el dulce fin que gran tiempo ha esperado;
    asy yo, de mi bien tan apartado,  5
belando, la esperança me rodea
y hace que despierto atiente y vea
lo que mi alma tanto ha deseado. f. 91 v.
    Mas ay, misero yo, que desconcierto
es confiar de un sueño tan liuiano  10
que como pessadilla el cuerpo carga;
    pues si quiero tratar como despierto,
[h]allo, si acasso estiendo allí la mano,
la vida corta y la esperanza larga.

11. ms. passadilla.



- XXVI - (C. ff. 91v. - 92r.)

Soneto del mesmo


    Pienso y encuentra el pensamiento en cossas
tan amargas al gusto y al sentido
que torna atrás, temiendo ser perdido
por tan ásperas vías peligrosas.
    Muebe después las alas presurosas  5
por otra parte do algún dulce hauido
mas eterno amargor ella escondido
quales la [e]spina entre purpúreas rosas.
—101→
    Piensa boluer (boluer) y de tan lexos mira
el lug(u)ar do partió, que desconfía  10
del lug(u)ar donde piensa asegurarse. f. 92 r.
    Sigue la amarga y dolorosa vía
mas antes que la acabe a de acabarse
la poca parte con que el alma aspira.



- XXVII - (C. ff. 92r. - 92v.)

Soneto del mesmo


    Verde en qualquier saçón, siempre de flores
olorosas y varias esmaltado
te veas, fresco y deleitoso prado,
albergo de tan fieles amadores.
    Y tú, Hebro gentil, que con herrores  5
bibes, lejos alfín de tu cuydado,
enrrequesciendo el mar Tirreno amado
serás siempre de nimphas y pastores.
    Si del fresco o del agua calurosa
o sediento amador parte quisiere,  10
corteses le seréis ambos, os ruego.
    Mas si de amor leal ageno fuere,
en lug(u)ar de[l] aliuio y del reposo
halle en vuestra frescura eterno fuego. f. 92 v.

6. ms. legos; 12. ms.amador (per attrazione dal v. 10).



- XXVIII - (C. f. 92v.)

Soneto del mesmo


    Diuino puesto adonde amor dichoso
me bió primero con alegre cara,
fresca selua do el cielo su luz clara
mostró y los rayos de mi sol hermoso;
—102→
    en ti al nacer del día venturoso  5
la claridad de Julia y su luz clara
me besitaba alegre, en la abara
y oscura noche, el resplandor precioso.
    Sus ojos en el día soles bellos
de noche estrellas claras de mi gloria  10
en ti criaban plantas olorosas.
    Y pues faltó ya el cielo y sol con ellos,
falte el verdor y sola la memoria
me quede entre esperanças dolorosas.

3. ms. del; 9. ms. solos.



- XXIX - (C. ff. 92v. - 93r.)

Soneto del mesmo


    Díme ¿adó llegarán tus tyrannías,
injusto amor, adó tus desconciertos? f. 93 r.
si al rústico pastor en los disiertos
a la amorosa lucha desafías,
    si en el neuado valle y sierras frías  5
prendes, tyranno amor, tus fuegos ciertos,
si acá y allá tus bienes son inciertos
¿[h]asta quándo as de estar en tus porfías?
    Sangriento lobo, harpía ponçoñosa,
¿quándo te as de cansar de tanto daño  10
y tanto mal como me tienes hecho?
    Pues trace tu costumbre prodigiosa
contra mi, como suele, algún engaño,
que a todo tengo puesto humilde pecho.

[ripete il nº VI, con minime varianti]

10. ms. dano; 14. cfr. VI, 14. presto.



  —103→  

- XXX - (C. ff. 93r. - 93v.)

Soneto del mesmo


    Blancas y hermosas manos que colgado
traéis de cada dedo mi sentido,
hermoso y uello cuerpo que escondido
tenéis a todo el bien de mi cuidado,
    diuino y dulce gesto que penado f. 93 v.  5
tenéis mi coraçón después que os vido,
¿por qué ya no boráis de buestro oluido
al que de sí por vos viue oluidado?
    Bolued con tierno pecho ya, Señora,
aquessos oyos llenos de hermosura;  10
sacad esta vuestra alma a dulce puerto.
    Mirad que me es mil años cada ora;
y es mengua que quien vió vuestra figura
muera ya tantas vezes siendo muerto.



- XXXI - (C. ff. 93v. - 94r.)

Soneto del mesmo a la ausencia


    Ya que me desuié que no deuía
de quien morir tubiera por más sano,
ya que yo hize con mi propria mano
guerra a mi paz, tristeza a mi alegría,
    ya que por larga y peligrosa vía  5
el camino troqué seguro y llano,
ya que en castigo de respeto llano
vino mi noche en medio de my día, f. 94 r.
    al cielo ruego, si jamás fue parte
a mouer su piedad hombre mesquino,  10
pues la muerte me cerca y no la [h]uyo,
    que esta parte del alma que acá vino
buelua adonde quedó la mejor parte:
yrá el cuerpo a su zentro y ella al suyo.

11. ms. uio; 12. ms.suio.



  —104→  

- XXXII - (C. ff. 94r. - 94v.)

Soneto del mesmo a los suspiros


    Estos suspiros que del pecho mío,
por darle vida, tan a priesa salen,
no es posible entenderse lo que balen
si yo no digo adonde los embío.
    Amor lo saue y de fortuna fío  5
qu’ellos y el mundo a dedo me señalen;
mas como en fama y en valor me ygualen,
yo y mis suspiros cobraremos brío.
    Salgan, vayan y vengan diligentes;
lleben y traigan fuego a su medida, f. 94 v.  10
que de sus manos mi salud espero.
    Pues ni haré pazes con la vida
ni mi dolor disculpa con las gentes
[h]asta que el alma dé por mí el postrero.

4. ms. seyo; 6. ms. senalen; 12. ipometro, anche ammettendo che in haré l’h primaria si opponga alla sinalefe; forse haré [yo].



- XXXIII - (C. ff. 94v. - 95r.)

Soneto del mesmo


    Así, pastor, de tu pastora veas
los rayos de oro con su luz ardiente
mirar piadosos en su eburnea frente
escritto el fin dichoso que deseas;
    que mientras por la selua te passeas,  5
si la fuerza de amor te lo consiente,
ajeno de otro algún inconueniente
de tu Menandro aquesta duda leas.
    Dizen que el Dios de amor ciego y desnudo
parió en recina lo que fue engendrado  10
en el agua por madre deste ciego.
—105→
    Díme, pastor amigo, ¿cómo pudo
de amor, no auiendo amor, ser incitado? f. 95 r.
¿o cómo, siendo de agua, parió fuego?

10. il verso scorretto rende oscura la terzina.



- XXXIV - (C. f. 95r.)

Soneto del mesmo


    Quando tramonta el sol hacia el ocaso
estaua Endimión al sol hechado,
de su hermana la Luna tan prendado
que no daua sin Luna solo un paso.
    Mirando embebecido al cielo rasso  5
le dixo: «doña clara, si cuidado
tienen los dioses del humano estado,
¿por qué no cuidas tú del mal que paso?»
    La virgen boba, sin razón menguante,
de los gustos de amor al suelo vino,  10
que no es possible ser mudable y buena.
    Pasola Endemión y en cuero deante
passara, con su chuco masculino
por ver a la triforme puta y llena.

2.sol X suelo? cfr. 10; 8. ms. cudais.



- XXXV - (C. f. 95v.)

Soneto al Almirante de Aragón


    Salga el lucero que el triunfante día
ciñó de rayos tu blasón sagrado,
que siendo de los tuyos eclypsado
tu virtud te será tu buena guía.
—106→
    Por ti el Gen(t)í1 se viste de alegría  5
por ti el Tajo [y] el Ebro es imbidiado,
y por ti el Yndio mar más celebrado
que por el oro que en sus senos cría.
    Que si no pudo la fortuna darte
el gran bastón del paternal rebaño,  10
en su patria y la agena sin segundo,
    mirando tu balor nueuo y estraño
concedido le fue para premiarte
hallar estraño reino y nuebo mundo.



- XXXVI - (C. ff. 95v. - 96r.)

Soneto del mismo


    Dulce clauel de mano tan diuina
a mi baxeza dado en este suelo,
dulce penar y dulce desconsuelo, f. 96
pues mereció tan alta medicina.
    Dulce ymitar la aurora matutina  5
con su color de rubicundo yelo,
clauel que al corazón clauas sin duelo
clauo encubierto en flor de clauellina.
    Dulce clauel, de ti vayan ornadas
las ziteras de aquellas nuebe diosas  10
que en el Parnaso viuen coronadas.
    Las damas y las nimphas más graciosas
de ti hagan guirnaldas muy preciadas,
no de laurel, de mirto ny de rosas.

13. ms. girnaldas mui.



- XXXVII - (C. ff. 96r. - 96v.)

Soneto a una cayda


    Descubiertas las bellas crenchas de oro
y los neuados cuellos descubiertos,
vi los tesoros de Natura auiertos
viendo de nimphas un hermoso coro.
—107→
    Ybas por medio dellas por thesoro f. 96 v.  5
de hermosura do están mis bienes ciertos;
aunque con rayos iban encubiertos,
vi a sus raios los ojos que yo adoro.
    Quise mirarle más y embe[be]cido
di de un peñasco abaxo y la memoria  10
bastó a poner al Tybre tan remoto
    que no fui de sus aguas ofendido;
y assi por testimonio desta historia
cuelgo esta tabla que te ofrezco en voto.



- XXXVIII - (C. ff. 96v. - 97r.)

Soneto a la muerte en dialogo


    ¿Con qué hieres, cruel? - Con el pecado;
¿Porqué te teme el hombre? - Por su vida.
¿Dó causas más enojo? - A la partida.
¿A quién das mayor pena? - Al descuidado.
    ¿Quién te recibe bien? - Quien me ha esperado.  5
¿Quién te espera mejor? - Quien no me oluida.
¿Cómo sueles venir? - Sin ser sentida. f. 97 r.
¿Porqué vienes ansí? - Por dar cuidado.
    ¿Por dónde te conozen? - Por mi nombre.
¿Y qué figura tienes? - Esa tuia.  10
Pues di: ¿Quién eres tú? - Quien ser solía.
    ¿Dónde es tu auitación? - Donde está el hombre.
¿Dónde sueles cogerle? - En su alegría.
¿Escapará si huiere? - Aunque más huia.
    Y porque aquí concluía:  15
Soy la muerte, doy vida y soy aquella
de quien tiembla la más subida estrella.



  —108→  

- XXXIX - (C. ff. 97r. - 97v.)

Soneto al Sanctiss[im]o Sacram[en]to


    Amor ordena de mi baxo estado
suba, Señor, y alcanze un ser diuino,
pues tomaste mi carne, y yo, aunque indi(g)no,
contigo trueco y salgo auentajado.
    O rico y gloriosissimo bocado,  5
que como y gusto y más me engolosino
y viuo y me transformo en ti contino, f. 97 v.
qu’el alma del amante es el amado.
   Señor, perdona, que de mí conciuo
un nuebo y encendido atreuimiento  10
de beuerte la sangre y comer viuo.
    Tú sólo hartas el deseo hambriento,
hartura de mi alma en que reciuo
gracia, sabor, esfuerzo y nuebo aliento.

4. ms. auentajado; 11. ms. cuuerte.



- XIL - (C. ff. 97v. - 98r.)

Soneto a Cristo


    Esposo y Redemptor del alma mía,
qué dulce soys, qué blando y qué gustoso,
qué manso, qué benigno y qué amoroso,
qué lleno de consuelo y alegría.
    Por vos es de la muerte el agonía  5
descanso, quietud, gloria y reposo;
el ánimo afligido es muy gozoso
si va con una cruz en compañía.
    El yugo es amoroso, dulce y blando, f. 98 r.
el alma con la carga va ligera  10
por yr hazia su patria caminando.
—109→
    Ningún trauajo siente en la carrera,
porque la van riendo y alentando
los ayres de la eterna primauera.

12. ms. trauayo.



- XLI - (C. f. 99r.)

Soneto de P[edr]o N[avarre]te al amor diuino


    Cristo Jesús, ardiente enamorado,
que por amor al suelo decendiste
y tanto al hombre por amor subiste
cuanto tú por amor fuiste auajado;
    Diuino amor, dichoso ser amado,  5
pues por amor de carne te vestiste
y a Dios mortal y al hombre Dios heciste,
subiendo tanto a nuestro baxo estado;
    ¿quál tigre estraña, desdeñosa fiera
no se enterneze y se der[r]ite amando  10
a quien al hombre tubo amor tan fuerte?
    Que aquello que la muerte no hiciera,
amor lo hizo al proprio Dios matando;
y assí más puede amor que no la muerte.



- XLII - (C. ff. 99r. - 99v.)

Soneto del mismo a Cristo


    -«¿Por dónde podré entrar a más prouecho,
amoroso Jesús crucificado?»
-«Mas díme tú ¿por dónde no hallas vado f. 99 v.
que todo estoy por ti ventanas hecho?
    Abierto por mil partes tengo el pecho,  5
rasgadas las entranhas y el costado,
y mi celebro todo traspassado
con puntas de las culpas que tú has hecho.
—110→
    Abierto [h]allarás por qualqu[i]er parte:
allega, entra y coge a mano[s] llenas  10
el bien de mis heridas tan estrañas.
    Demanda, mira, ¿qué podrá negarte
el que te da la sangre de sus benas,
la vida, [el] corazón y las entrañas?



- XLIII - (E. pp. 58-61)

Satira / del Licenciado / Pedro Fernández de Nauarrete


    Si mi satiricante pluma el filo
contra el ingrato sisador tuuiera
como conuiene al maldiciente estilo,
    un duplicado corte de tixera,
en las fragas templado de la Corte,  5
el aleuoso ludas conociera,
    que sin guiarme por el claro norte
del socorro de Clío y de Thalía,
supiera hazer de sus maldades corte.
    Y el viejo gruñidor que presumía  10
de hazer conbite al que gouierna el cielo,
sin las leyes saber de cortesía,
    començara a tener de oy más recelo
para no murmurar de pecadores,
teniendo bien porque llorar su duelo.  15
    Di pues de tu combite los primores,
iniquo auaro, ya que así condenas
el que haze Madalena en sus amores.
    Zelador del honor, ¿porqué te penas,
en ver que tu diuino combidado p. 59  20
haze en tu casa el bien a manos llenas?
    Grande honrra fuera tuya, bien mirado,
poder decir tenías a tu mesa
quien alma y cuerpo limpia de pecado.
—111→
    Mas como tu malicia sólo pesa  25
del mundo vano los dañados fueros,
del bien ageno con dolor te pesa;
    y tú, que entre los doce compañeros
sólo tienes la cara con dos hazes,
y en ser traidor has puesto tus hazeros,  30
    despenseraco hambriento ¿porqué hazes
alarde de tus tratos, mal nacido,
que sólo de robar te satisfaces?
    Condenas al vnguento por perdido,
que a Christo vngió, y es sólo porque trapas  35
de vender al vnguento y al vngido.
    De la misericordia sacas trapas,
mas como las entiende tu maestro,
en tus trampas y enrredos más te enlaças.
    Si en el sisar te [h]as hecho ya tan diestro,  40
y en este vnguento no tienes ganancia,
lugar tendrás de vsar tu mal siniestro.
    ¿De dónde te ha nacido esa arogancia?
¿Cómo te arrojas, necio, a dar consejo,
siendo el h[i]jo mayor de la ignorancia?  45
    De mansa oueja vistes el pe[l]lejo,
siendo en los hechos vna bestia fiera, p.60
y en todo buelbes al resabio aniejo.
    No hauer nacido muy mejor te fuera
que nacer por ministro de la muerte,  50
del que gouierna la sublime esfera.
    Llamado fuiste d’él: o buena suerte,
si fueran qual debían tus actiones;
mas sólo se encaminan a perderte.
    Tienes en la auaricia tus pasiones,  55
y cómo es la raíz de todos daños,
dañadas son tus falsas intenciones;
—112→
    por la ancha senda vas de tus engaños,
trocando el summo bien por un contento
durable no, pues dura pocos años.  60
    Harás sobre riquezas fundamento,
pero caerse [h]a el fragil edificio
porque está sobre arena su cimiento.
    Desnuda aquí la ropa y el oficio
de apóstol sacro, las insignias deja,  65
pues traças [de] dexar el exercicio;
    sorda tendrás la una y otra oreja
sin que a ese duro coraçón maluado
le ablande o rrompa del temor la reja.
    No bastará a sulcar agudo arado  70
las malezas que ha puesto la cudicia,
en ese risco de tu pecho thlelado.
    Mira aleue la [e]spada de iusticia
que está con gran rigor amenazando p.61
el castigo cruel de tu malicia.  75
    Irte [h]as de culpa en culpa despeñando,
[h]asta el oscuro abismo del infierno,
do con la eternidad irás penando
la culpa immensa con castigo eterno.

10. E. grunidor; 13. E. comencara; 35 e 37. E. tracas; 36. E.el ungido; 39. E. en lacas; 68. E. coracon; 70. E. na bastara.



- XLIV - (E. pp. 74 - 77)

Egloga / del Licenciado / Pedro Fernández de Nauarrete


    A la falda de un monte, en un collado,
antes que huuiese la esmaltada Aurora
su cara en el Oceano bañado,
    con la guía de amor una pastora
buscando va un pastor, cuya belleza  5
como de esposo y de señor adora.
—113→
    Búscale, no le halla y luego empieça
un tierno llanto de dolor mouido,
faltándole el aliento una gran pieça.
    Dize: «¿Dónde te ascondes, Rey de vida,  10
siendo mayor que el mesmo firmamento?
Pastor y Rey, ¿adónde es tu manida?
    María soy, partí en tu seguimiento,
esposo amado, y el amor me obliga
a no poder tener sin ti contento.  15
    Yo soy a quien el dulce lazo liga
de tu diuino amor; ¿porqué te ascondes,
si no te pesa de que yo te siga?
    Si al amor que me mueue correspondes,
¿porqué executas tan cruel sentencia? p. 75  20
Pues que te llamo, ¿cómo no respondes?
    Estos que fueron ante tu presencia
ojos, fuentes son ya que dan tributo
al mar mayor de amor por esta ausencia.
    No se verá de hoy más mi rostro erixuto  25
vestir [d]e negro traje a mi [e]speranza
y al negro corapón de triste luto;
    no podrá el tiempo en esto hazer mudança;
si no te hallo, mi bien y mi alegría
¿dó está puesta mi bienauenturança?»  30
    Aquí cesó en las lágrimas María,
que boluiendo la vista al monumento,
un hortelano vió, que allí assistía.
    Él preguntó la causa del lamento
y ella con el dolor que la espolea  35
sin temor da razón de su tormento;
—114→
    no la detiene el miedo que se vea
que en busca va de su pastor querido,
que no hay temor que enfrene a quien dessea.
    Dando tras un gemido otro gemido,  40
dixo: «¿Quién ha robado la hermosura
del alto cielo? ¿Quién me la ha escondido?
    Díme, assí gozes la mayor ventura
que desseas, señor, si acaso viste
sacar un cuerpo d’esta sepoltura.  45
    Muéuate a compassión ver d’esta triste
el gran dolor, pues mouerá su llanto p.76
las duras peñas do piedad no assiste».
    C.- «Si esse que buscas le desseas tanto,
dame las señas dél; será possible  50
dar quiça algún aliuio a tu quebranto».
    M.- «Es el que busco en todo incomprehensible;
no le podrá pintar pinzel humano,
sólo el suyo podrá, que [e]s infalible.
    Busco un Rey y Pastor, de cuya mano  55
cuelga el cielo, la tierra y Parayso,
que manda en cielo, en tierra, en monte, en llano.
    Rey es que, siendo rey, la muerte quiso
por dar la vida con su propria muerte
al vasallo que erró con poco auiso».  60
    C.- «Si, como dizes, es de alteza tanta
éste que buscas, ¿qué haze en este huerto
do no se halla alguna fértil planta?».
    M.- «A penas la razón de aquesso acierto,
mas ya que le mató la culpa ajena,  65
amélo biuo y amarélo muerto».
    C.- «¡María amada, amada Madalena!»
M.- «Maestro de mi alma, por quien biuo,
con tu voz sola se acabó mi pena.
—115→
   Mi pena cessa y el dolor esquiuo,  70
el llanto queda, qu’el amor lo causa,
y a tus pies, Christo amado, me derribo».
    C.- «Detente agora y haz María pausa p. 77
en tocarme, que al padre aun no he subido
y de tu llanto ya cessó la causa.  75
    Parte luego, y darás a mi escogido
rebaño nueuas de que me [h]as hallado».
M.- «Yo yré a dezir la dicha que he tenido».
    Y en esto Madalena se [h]a apartado
y parte con ligero y presto buelo  80
a publicar que vió resucitado
al grande mayoral de tierra y cielo.

7. E. empieca; 9. E. pieca; 27. E. coracon; 28. E. mudanca; 50. E. quica; 78. E. Co., forse alludendo a un coro? Ma con l’invito dei vv. 76-77 è coerente una risposta della Maddalena.



4 sonetti di dubbia attribuzione

- I - (C. ff. 99v. - 100r.)

Soneto a la Resurrección de I.g.


    Este es el infinito deseado
para infinita enmienda prometido;
aquest’aquel que siendo el offendido
se dispuso a pagar como culpado.
    Este [es] el hacedor enamorado  5
de su hechura y della escarnecido; f. 100 r.
aqueste el templo santo destruido
en sólo un día, en tres rehedeficado.
    Este es el vencedor de nuestra guerra,
que aprisionado el enemigo fuerte  10
ha despojado la infernal manida.
—116→
    Aqueste de quien cantan cielo y tierra,
que si muriendo destruió la muerte,
resusitando reparó la vida.



- II - (C. ff. 100r. - 100v.)

Soneto a la Resurrección


    Dexó la carne sola, fría y yerta
una alma libre, vengadora, altiua,
cuando le plugo que la piedra biba
fuese hospedada de la piedra muerta.
    Su viuo raio el resplandor despierta  5
entre el de la teniebla esquiba
abre, entra, desata la cautiua
gente, dexando la prisión disierta.
    Brama Demormogón, Megera grita, f. 100 v.
por sus cauernas va Plutón huyendo,  10
Sísifo en su peñasco se conuierte.
    ¿Quién pudo ser que hizo tal estruendo?
Sólo el que, siendo muerto, resucita
por que muriendo dió muerte a la Muerte.

6. ipometro e lacunoso; forse el [horror] de...



- III - (C. ff. 100v. - 101r.)

Del mismo a la Resurrección


    Al tiempo que el Artífice del cielo
se desnudó de la mortal corteza,
vistió en su nombre manto de tristeza
el soberano auitador de Delo.
    Temió el abismo, estremecióse el suelo,  5
las piedras ablandaron su dureza,
el mar dió sentimiento en su braueza
y el sacro templo en el rompido velo.
    Mas ya que embuelto en traxe glorioso
de la p[i]edra sellada sale agora,  10
el mar se amansa, el cielo se recrea;
—117→
    el sol muestra su rostro luminoso, f. 101 r.
el suelo canta, el ynfierno llora,
y el templo viste su meior librea.



- IV - (C. ff. 101r. - 101v.)

Del mismo a la Resurrección


    Aquel diuino amante que pudiera
dar con un «fiat» general consuelo;
aquel fuerte Sansón que sin recelo
con su muerte mató la sierpe fiera;
    Aquel que, tinta en sangre lavandera,  5
venció muriendo al vencedor del suelo;
aquel glorioso capitán del cielo
que se cargó la iniquidad primera;
    Aquel que en la batalla abrió camino
al cielo por la senda de su pecho,  10
pagando el suio a la naturaleza,
    y muestra su poder, su ser diuino,
pues pone fin, resucitando, al hecho
a que baxó de la sublime alteza. f. 101 v.