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Arriba- VII -

Il labirinto magico di Maladrón


1.- La narrativa di Miguel Ángel Asturias si aggira continuamente tra il mito e la realtà. Dalle remote Leyendas de Guatemala (1930), che entusiasmarono Paul Valéry per il loro carattere di «poema-sueño-fantasía»576, alle opere di maggior impegno che seguirono, fino alle più recenti, tale atmosfera si definisce e si chiarisce ulteriormente, passando ora per punte eminenti di fusione mitorealtà, com'è il caso di Hombres de maíz (1949), che inaugura concretamente, per la sua novità strutturale, il «nuovo romanzo»577, ora cedendo, invece, alle più vive esigenze del reale, in un impeto di denuncia quale si può osservare ne El Señor Presidente (1946), nella trilogia «bananera» -Viento fuerte (1949), El Papa verde (1950), Los ojos de los enterrados (1960)- e nell'estremamente sofferto Week-end en Guatemala (1956). Ma già ne Los ojos de los enterrados, pur così pregno di partecipe rivolta contro la disperata condizione guatemalteca, ricollegandosi ai miti e alle «brujerías» dei due precedenti volumi della trilogia, alle mitologie astrali e al sostrato ora poetico, ora orripilante delle nascoste presenze operanti nell'animo popolare -in Hombres de maíz578- e dando a tutti questi elementi un rilievo preminente, indicava un'esigenza tormentosa di riaggancio più diretto e totale a un clima mitico e magico dal quale la narrativa di Asturias era scaturita, e con essa tutta la sua opera, dalla poesia al teatro. L'attrazione irresistibile della prima matrice si manifestava attraverso il gioco d'invenzione di una fervida fantasia creatrice indio-barocca, non tanto ne El Alhajadito (1961), che pure rappresenta un significativo punto d'incontro tra il clima del passato -quello delle Leyendas- e le pungenti nostalgie del presente, quanto piuttosto in Mulata de tal (1963), libro che qualifica per una nota di magia, nuova e antica al tempo stesso, un periodo di rinnovato vigore dello scrittore guatemalteco, in cui la fantasia e la parola si manifestano in esiti del tutto eccezionali579.

I libri seguiti a Mulata de tal sono fermamente situati nel clima che il romanzo ha inaugurato, ma con un'originalità di fondo che li qualifica anche sul piano del sentimento, come progressiva marcia di avvicinamento alla regione più intima e sentita. Nella poesia, Clarivigilia primaveral (1965) torna ai temi della civiltà maya e della sua concezione cosmogonica580; nel teatro, Torotumbo (1969) -atto unico tratto dall'omonimo racconto di Week-end en Guatemala-, pur pregno d'impegno politico e umano, dà risalto al fondo mitico del Guatemala581; nella narrativa, le leggende de El espejo de Lida Sal (1967) paiono suggellare in modo definitivo l'incontro col mondo mitico e magico meso-americano, in una fusione armoniosa di piani temporali, in cui il passato si attualizza e il presente sfuma i suoi confini in note volutamente vaghe, ripetendo il clima delle origini del mondo.

Le prime pagine del «Pórtico» immettono, programmaticamente, in una dimensione intima e favolosa del mondo guatemalteco, realtà-sogno, sorta di paradiso ancorato stabilmente in regioni valide del sentimento, al disopra del fluire del tempo. I piani della realtà e del sogno si fondono, come già nelle Leyendas de Guatemala, ma con un vigore creativo che fa tesoro dei raggiungimenti anche di Mulata de tal, e che attesta la maturità di Asturias attraverso il lungo arco di tutta la sua creazione artistica.

Nella prospettiva di «paisajes dormidos», sui quali piove una «Luz de encantamiento y esplendor», spicca il «País verde»:

«País de los árboles verdes. Valles, colinas, selvas, volcanes, lagos verdes, verdes, bajo el cielo azul sin una mancha. Y todas las combinaciones de los colores florales, frutales y pajareros en el enjambre de las anilinas, Memoria del temblor de la luz. Anexiones de agua y cielo, cielo y tierra. Anexiones. Modificaciones. Hasta el infinito dorado por el sol»582.



Il contatto col Popol-Vuh è di nuovo evidente583, ma lo splendore del paradiso terrestre creato dagli dèi progenitori e descritto nel libro sacro dei «quiché» è originalmente accentuato da Asturias, attraverso tinte di luminosa trasparenza, toni caldi di colori sulla gamma verdeoro, che trasformano in materiali preziosi gli elementi della natura, siano essi cose, vegetali, animali, uccelli o rettili. Le metafore e le definizioni di unicità del mondo descritto, sottolineano il carattere magico e irrepetibile del Guatemala, paradiso terrestre e celeste al tempo stesso, fusione di realtà e di magia, in un tempo senza tempo. La serie delle notazioni, rese in frasi brevi, tende a sottolineare il valore del dettaglio; le ripetizioni aggettivali, le esclamazioni raccolte, rendono la condizione extra-umana di tale mondo; il rapido succedersi delle serie verbali dà vita interiore intensa a un paesaggio apparentemente addormentato nello splendore della sua bellezza, nel quale, al contrario, ogni cosa vive, ha voce e movimento. Le menzioni di vegetali e di animali, l'allusione ad età geologiche, a uragani celesti, la nota policroma degli uccelli, la presenza delle vestigia illustri di una civiltà remota, l'accento posto sui minerali e sulle pietre preziose, che recano in sé la suggestione delle civiltà sepolte, quelle pre-colombiane, delle quali hanno finito per divenire simbolo, accentua il clima magico in cui si confondono le età. Il tempo, indifferenziato ed eterno, domina enigmaticamente il paradiso, nel quale l'uomo torna ad essere la misera creatura che i progenitori fabbricarono per il proprio piacere egoista. Le varie leggende raccolte nel libro non lo smentiscono.

L'opera che segue ai racconti de El espejo de Lida Sal, il romanzo Maladrón (1969), ribadisce, col clima di magia, il valore del richiamo che su Asturias esercita una ben individuata regione spirituale, quella del mondo pre-colombiano, ma con incidenze continue nel presente, per la portata delle conclusioni. Il ritorno decisivo e ormai disarmato al mito, se da una parte supera gli accenti di crudo realismo denunciatario, non fa tacere nello scrittore il fondamentale impegno, che è poi espressione logica della sua moralità. In Maladrón il peso della realtà è sempre meno ingombrante: essa appare sfumata nell'invenzione fantastica, ma non per questo meno presente. Il tempo dell'azione è quello remoto della fine del mondo indigeno maya-quiché e della conquista spagnola, ma le implicazioni di tale fatto appaiono assai attuali. Se nelle Leyendas de Guatemala Asturias aveva inteso ricreare il composito mondo indo-ispanico del Guatemala, librato tra l'epoca della conquista e il tempo attuale, in ima sorta di radiografia intima della complessa anima della sua gente, e, a distanza di tempo, in Mulata de tal, accentuando i caratteri barocchi e magici di Hombres de maíz, aveva fissato le peculiarità e i conflitti di un universo che vedeva sul punto di soccombere e di scomparire di fronte all'avvento della civiltà meccanizzata, in Maladrón risuscita il clima di tragedia in cui il paradiso indigeno soccombe di fronte alle forze ispaniche, ma contemplando anche la tragica e poetica pazzia del nuovo venuto, che lo muove lungo i sorprendenti cammini del mondo conquistato, alla vana ricerca di realizzazione dei suggestivi miraggi nei quali improvvisamente, e con cieca tenacia, ha creduto.

Le intenzioni dello scrittore sono chiaramente denunciate nel sottotitolo del libro, «Epopeya de los Andes Verdes». Il clima de El espejo de Lida Sal ha continuità immediata, ma il «País verde» è visto non più come paradiso magico solamente, bensì col rimpianto e la nota di sofferta tragedia del paradiso perduto, distrutto nella sua intatta purezza dall'avvento di «seres de injuria», gli spagnoli conquistatori, venuti da «otro planeta» a sconvolgere la pace di un «mundo de golosina», popolato di genti tranquille, di «venados» e di «pavos azules». Un mondo mitico e magico, situato in un tempo remoto, con tutti i richiami suggestivi del bene scomparso584.

Come sempre, nei romanzi di Asturias occorre fare attenzione alle epigrafi. In quella che precede le prime pagine di Maladrón è riassunto il clima spirituale in cui si svolge l'indagine dello scrittore. Ciò che a prima vista sembrerebbe non del tutto esatto è il sottotitolo del romanzo, «Epopeya de los Andes Verdes», poiché tale epopea occupa solamente i primi sette capitoli del libro, per un totale di 49 pagine sulle 217 che costituiscono l'edizione bonaerense. Il romanzo parrebbe, perciò, soffrire di un certo squilibrio, in quanto si presenta come formato da due parti non dichiarate, di dimensione diversa e di diversa intenzione: nella prima, la più breve, prende consistenza l'epopea del popolo Mam; nella seconda, la parte maggiore, è narrata l'odissea di alcuni spagnoli che inseguono il sogno di scoprire la congiunzione degli oceani, uno dei tanti miti che affascinarono e mossero i conquistatori. Un taglio così netto tra le due parti del libro non sembra giovare alla sua unità, che avrebbe potuto essere maggiore se Asturias avesse lasciato da parte il sottotitolo585. Benché, in fin dei conti, anche questo sia un particolare abbastanza trascurabile, che Maladrón fa dimenticare agevolmente. Che di epopea si tratti è evidente: dapprima l'epopea dei vinti, che sfocia in tragedia, quindi quella di alcuni animosi spagnoli, la cui fine assume anch'essa i colori della tragedia.

2.- La struttura di Maladrón rivela un'elaborazione che conduce a risultati frequenti di particolare valore nell'ordine di vari motivi, che vanno dalle descrizioni paesaggistiche allo studio della tragedia umana, alla nota di compiaciuto umorismo. Il valore del romanzo sta soprattutto nell'originalità e nella genuinità con cui, nei numerosi dialoghi dei protagonisti ispanici e di Zaduc, adoratore del «Maladrón», viene ricreato l'idioma castigliano del tempo della Conquista, al quale si aggiungono l'esperienza e la felicità creativa di un dominatore consumato della lingua, artefice eccezionale che si diletta del neologismo e dell'aggettivazione inedita. Inserito nella prosa di Asturias, di così particolare segno evocativo e poetico, il castigliano del secolo XVI non costituisce una stonatura. Lo scrittore lo vivifica, infatti, costantemente, con l'apporto della propria invenzione, facendolo straripare dal dialogo ai brani descrittivi, agli interventi personali, liberandolo da ogni sapore archeologico. Lo scrittore stesso ha sottolineato il valore particolare del libro in questo senso, come apporto di stile e soprattutto di lingua586. Egli ha denunciato addirittura l'abuso idiomatico che commette, versando nelle pagine di Maladrón tutto lo spagnolo che conosce, arricchito d'indigenismi, di arcaismi, in una reazione decisiva al movimento di impoverimento della lingua -così si è espresso- ora in auge nell'America latina. Perciò l'«uso y abuso del idioma con toda la mano y toda la manga larga». A questo reca un contributo determinante la lezione dei grandi prosatori ispanici, di Quevedo, ma particolarmente di Cervantes, dal quale Asturias afferma di aver appreso ad aggettivare e che proclama «el genio que ha logrado colocar los adjetivos mejor», facendo speciale riferimento all'insuperabile esempio della lettera a Dulcinea. Agli scrittori del «Siglo de Oro» riconosce di essere debitore per la «lujuria», la «magia» della lingua, ma non minore è il suo debito verso taluni esponenti della «Generazione del '98», Baroja in particolare, «que nos da esa idea anàrquica de la lengua». Al mondo indigeno risale, tuttavia, il barocchismo che si manifesta in tutta l'opera di Asturias -«si yo tengo algún barroco es por esa forma indígena»-, come talune peculiarità stilistiche, che si concretano nel parallelismo, nella moltiplicazione sillabica, nell'allusione, in quel dire le cose come per sotterfugi: «nada dice directamente el indígena, sino a través de subterfugios»587. La struttura stessa di Maladrón nel succedersi dei brevi capitoli di cui si compone, nell'aprirsi sulla descrizione di un mondo fuor del comune, si ricollega alla forma e al clima dei testi sacri mayaquiché, ma con un accento che già preannuncia, nel destino autunnale della natura, la fine di un mondo:

«Al final del verano, entre la tempestad de hojas secas que el viento del Norte arrebata, muele contra las piedras y reduce a polvo [...], cada hoja sedienta se enrolla sobre el pedúnculo para pincharse y morir; al final del verano, entre la pavesa del sol y la tostadura de la helada, campos y monte marchitos devorándose en la perspectiva de ocres, jaldes, amarillos, parduzcos [...]»588.



Nonostante permanga, sull'inaridire della natura, il verdeggiare eterno della cordigliera -«al final del verano sólo queda verde la gran cordillera flotante como nube sembrada de aéreos pinos, cipreses voladores y cumbres de cuya excelsitud no dan cuenta nieves eternas [...]»589- la visione è di un mondo in agonia. Nella situazione della natura si riflette quella di tutto il popolo Mam nello scontro con gli spagnoli. Si è parlato, per Maladrón, di un «espécimen indiano de dudosa ortodoxia», che verrebbe a continuare, dopo venti secoli scarsi, nell'epica occidentale i poemi omerici, o che almeno in qualche modo si ribella ai «moldes consagrados» di genere e di personaggi590; ma non sembra il caso di ricorrere a parentele così remote e dubbie. Maladrón è, nella sua prima parte, epopea ed elegia, al tempo stesso, del popolo indigeno, in impari guerra contro l'invasore. Lo splendore del mondo di «golosina» sottolinea nel suo tramonto i tratti più caratteristici della tragedia, che è soprattutto tragedia di uomini, di fronte a un mondo esterno e incomprensibile. In questo, Miguel Ángel Asturias si ricollega al clima che domina le predizioni sacre dell'area «náhuatl», alla concezione ciclica del mondo, per la quale l'avvento di ogni nuova età avviene sull'estinzione violenta di quella che l'ha preceduta. Lo scontro tra gli spagnoli invasori e gli indigeni rappresenta concretamente questo momento critico. La crisi si manifesta soprattutto al vertice, tra chi è qualificato a interpretare la storia e il destino del popolo indio. La guerra è tra due mondi diversi, un «Choque de Dioses, mitos y sabidurías»591; non guerra di religione, bensì di magie592. Senonché la concezione magica ha già perduto la sua suggestione presso il «Mam de los Mames»; egli percepisce esattamente che lo scontro è tra una tecnica e mezzi evoluti e una concezione elementare della guerra, superata e non più valida. Caibilbalán ripudia, perciò, la magia, come ripudia la guerriglia, avendo una concezione evoluta -sempre sottolineata da Asturias- di uno Stato civile593. Sulla tragedia del popolo indio, sulla distruzione del mondo meraviglioso, «nube terrenal en que nace el maíz»594, sugli orrori della guerra e il sacrificio degli indigeni, che si lanciano sui ferri nemici per arrestare la distruzione del loro popolo595, domina la natura amletica di Caibilbalán. La sua sfiducia nella magia è sfiducia negli dèi: «El Señor de los Andes Verdes lleva y trae sobre sus hombros, la noche entera, el peso de sus dudas»596. Sono questi dubbi a perderlo; le sconfitte del suo popolo gli saranno imputate ed egli verrà deposto, retrocesso a semplice «taltuza» e confinato nel «País del Lacandón y el mono», un mondo senza tempo, come esiliarlo in un altro pianeta.

Caibilbalán è un eroe sfortunato e già vinto prima della sconfitta materiale. Egli rappresenta un momento nuovo nel mondo indigeno e si perde proprio per la sua capacità razionale. In lui Asturias intende rappresentare la perdita fatale della sua gente. Le grandi masse che si muovono nella guerra, indie e spagnole, sono sfondo idoneo -ricco di luci e di ombre, avvolto nelle fantasmagorie del mito e nei dati magicamente trasformati della realtà- su cui prende risalto la sua natura complessa e intimamente tormentata, la sua categoria eroica. Lo scrittore rende tale complessità disperdendo i dati della sua preoccupazione e del dubbio lungo vari capitoli, fino alla condanna finale. In mezzo stanno i grandi «murales» dove tutto si mescola, uomini e animali, vegetali e cose, realtà e irrealtà. Il risultato è la creazione di un ambiente magico i cui colori, caldi o sfumati, restano inconfondibili nella narrativa ispano-americana.

Per rendere la magia del mondo che intende celebrare Asturias ricorre all'enumerazione, a un'aggettivazione sapiente, alla comparazione frequente. Non di rado egli ricorre anche al contrasto. Al paesaggio autunnale, con germi di rovina ineluttabile, della prima pagina, segue la descrizione delle Ande Verdi, «cerros azules perdidos en las nubes»597, tra «siembras y resiembras de lo bello, flores sean dichas, de lo dulce, frutas sean dichas, dicha sea todo [...]»598. A questo paesaggio di sogno, a quello che si presenta agli invasori, al mondo che gli spagnoli sognano, tra tronchi d'alberi, montagne verdi e oscuri precipizi, al ricordo ingigantito delle bellezze della costa marina, si oppone il paesaggio soffocante e ostile cui è confinato il deposto Signore dei Mam, reso con più immediato contrasto attraverso il ricordo delle Ande Verdi, «su ombligo, su cuna, su juventud, su vida...»599, e un'enumerazione di dettagli ostili, parte integrante del nuovo paese, «su exilio, su vejez de guerrero-taltuza y acaso su muerte»:

«[...] la selva cálida, húmeda, el agua podrida, la sabana sin fin, los micos sociables, los monos peludos, las serpientes de barbas amarillas, los venados, las ciudades de piedra blanca, sin desenterrar, la escalofriante esgrima de los colmillos de los jabalíes, el retemblar de la selva y el atronar de los árboles, palmeras, escobillos, guamales, derribados al paso de las dantas que se abren camino en lo más intrincado del bosque [...]»600.



L'enumerazione minuta di animali, vegetali, insetti, attira Asturias, talvolta, a giochi di parole che, se non aggiungono nulla alla bellezza della pagina, valgono tuttavia a mostrare ancora una volta le capacità inventive, di fantasia e di linguaggio, dello scrittore, il godimento che egli esperimenta nella creazione601.

Il clima indigeno è risuscitato con viva aderenza soprattutto mediante l'adozione di forme espressive tipiche della mentalità aborigena. Nel capitolo sesto il dialogo tra Caibilbalán e i guerrieri, che gli rimproverano il rifiuto della guerriglia, quindi la perdita della nazione, è tutto modellato sull'allusione e sull'impiego, in questo senso, della metafora, sul ricorso alle formule rituali che, tra ripetizioni ed espressioni formali di deferenza, sono già evidenti nel Rabinal Achí, in uno stile che nulla dice direttamente, caratteristico del formalismo indigeno. Il clima tragico dell'epifania del popolo Mam è reso pateticamente attraverso le reiterazioni della lamentazione funebre per l'eroe Chinabul Gemá, caduto in combattimento. L'accento dell'epopea si converte, qui, in quello più toccante dell'elegia e la prosa di Asturias risuscita i ritmi solenni e assai intimi della poesia india, nella celebrazione dell'eroe, che nella sventura trova la sua grandezza. Neruda ha scritto, nel Canto General, che l'uomo è più grande del mare e delle sue isole602; Miguel Ángel Asturias proclama la sua grandezza in accenti non meno profondi, ricreando la suggestione poetica che procede dalle ripetizione rituali proprie dei canti «náhuatl» per gli eroi defunti:

«-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!...

El grito se pierde en la planicie. Es inmensa la planicie, pero es más grande el héroe.

-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!

El grito se pierde en las cumbres. Es inmenso el Ande. Son inmensos los Cuchumatanes, pero es más grande el héroe.

-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!...

El grito se pierde en el cielo. Es inmenso el cielo, pero es más grande el héroe»603.



«[...] Suena el agua subterránea, como si fuera llanto el eco de los pasos del Señor de los Andes Verdes, al ir subiendo con los despojos de Chinabul Gemá hacia lo más alto del país Cuchumatán [...].

-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!...

El grito se pierde abajo en los barrancos. Son inmensos los barrancos, pero es más grande el héroe.

-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!...

El grito se pierde en lo más alto de los Cuchumatanes, mientras sube el cuerpo del héroe en brazos de Caibilbalán, cubierta la faz ensangrentada por el plumaje verde del ave de los libres.

-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá!...

El grito se pierde en las cumbres repetido por el eco, la tempestad y el huracán.

-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá!...

El grito se pierde en el cielo. Es inmenso el cielo, pero es más grande el héroe.

-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!...»604.



L'unicità dell'eroe è resa attraverso la serie delle comparazioni con le espressioni caratterizzanti e mitiche della natura guatemalteca, soprattutto nella menzione del cielo, che conclude i due momenti della lamentazione, a sottolineare le raggiunte categorie divine del defunto.

Il tono dominante di questa prima parte di Maladrón è di piena poesia. Asturias è, qui, ancora una volta il «Lengua» della sua gente; attraverso la sua parola la storia si trasforma in favola, in magia, con toni religiosi. I dati temporali sfumano in un momento vago, le origini della Conquista, che non è necessario né utile fissare in datazioni esatte. La poesia sgorga da ogni parola, fluisce inarrestabile, permeando esseri e cose, fauna e flora. Verrebbe da pensare che questa prima parte del romanzo sia stata concepita prima come poema, quindi prosificata e continuata con la parte che racconta le gesta del gruppo di spagnoli alla ricerca della congiunzione istmica, «dónde según creencias se juntan los Océanos en nupcias de sal blanca, sin igual»605, realizzazione di quella «fábula verdad» che, secondo Pedro Paredes, uno del gruppo, è la caratteristica del mondo americano:

«¡Fábula verdad son estas Indias, islas y tierra firme en que estamos! [...] Tóqueme a mí descubrir el lagrimal por donde los dos mares fluyen, se penetran, se juntan, mezclan sus sales, funden sus colores, reúnen sus peces, aúnan sus corrientes, la del Norte babosa de zargazos, la del Sur amorosa de especias»606.



Se il tono poetico si mantiene anche nella seconda parte del romanzo, nella prima si potrebbero isolare addirittura sequenze ritmiche numerose. Valga come esempio il già citato inizio del libro.

Lo stesso clima di poesia permea la descrizione del mondo guatemalteco, ripetendo l'atmosfera meravigliosa del Popol-Vuh, ma con originalità di cromatismi delicati, che trasformano i dati della realtà in qualche cosa di magico, di sfumato nell'irrealtà:

«Es la nube terrenal en que nace el maíz. El primer grano de maíz que hubo en la tierra. El puma rosado se refugia en sus colinas antes de bajar el tiempo del cielo. Tempestades blancas. Rebaños de témpanos de hielo. Costas y majestad de mar cubierto por glaciares. Espumas salobres y borrascas de látigos de nieve, antes de bajar el tiempo del cielo al fruto, edad del árbol, del cielo al trino, edad del pájaro, del cielo a la palabra, edad del hombre [...]»607.



Tra colori e impressioni di luce e di suono sorge il mondo asturiano, sospeso tra l'atmosfera rituale sacra e la realtà trasformata in magia. L'alba è resa come ai primordi della creazione del mondo, in un clima religioso e solenne in cui vibra un sottile lirismo:

«En los fuegos arden las resinas sagradas. El humo blanco de copal masticado por las brasas se alza a saludar la aurora. Espirales que suben en columnas a sostener el cielo, la belleza del día, sus ámbitos, sus benéficos dones. Orientes rosados, cada vez más rosados, cárdenos al rasgarse las neblinas, de fuego y oro al dibujarse el sol. Poco a poco se alumbran las nubes, las colinas, los árboles. Porosidad de los seres para la luz y la tiniebla. Absorben la luz y la tiniebla, como la esponja el agua. No anochece y ya es oscuro el bosque. No amanece y ya es claro el barranco»608.



Anche il ricordo, che confina col sogno, trasforma le cose in magia. Blas Zenteno -«al que llaman Redoblás, por gigante y hablador»- suscita un mondo di «golosina» per cercar di distogliere i compagni dalla stolta impresa di ricercare la congiunzione degli oceani. Nella descrizione che egli fa del clima e dell'abbondanza di frutti della costa Asturias celebra di nuovo l'unicità del mondo meso-americano:

«[...] clima de pluma de paloma entre palmeras con sombra de pelo de mujer, brisa marina bajo los abanicos de los cocales y a la mano, por el suelo, los cocos, agua y carne de hostia, y las piñas, oro dulce, oro con perfume, y las anonas, piata de sueño, y los plátanos rosados de carne de niño vegetal, y los mangos confitados en trementina, y la caña de azúcar, y los zapotes rojos, y las granadillas, y las tunas, y los nances, y las cerezas, y los membrillos, y los caimitos, y las guayabas, los duraznos, los matasanos y las piñuelas...»609.



La trasfigurazione del reale avviene attraverso una serie di metafore, con le quali Asturias sottolinea le qualità eccezionali di ogni frutto, un succedersi di aggettivi che sollecitano sensazioni di colore, di olfatto e di gusto; l'urenza del mondo americano è accentuata dalla serie anaforica ia cui vengono enumerati i frutti tropicali. Il «mundo de golosina» si presenta totalmente indifeso davanti all'ingiuria della gente venuta da fuori. L'ordine perfetto e primitivo di valori positivi viene distrutto; il paradiso soccombe all'assalto dell'inferno, poiché «¡De otro planeta llegaron por mar seres de injuria...!»610.

3.- La sconcertante epopea dei cercatori della congiunzione degli oceani -«Ellos no querían conquistar, sino descubrir. Descubrir las compuertas en que el Eterno ordena a los dos grandes bueyes azules "¡Juntad vuestros testuces!", y los deja uncidos al istmo que tiene forma de yugo»-611 ha inizio concretamente a partire dal capitolo ottavo. Ángel Rostro, Duero Agudo, Quino Armijo, Blas Zenteno non sono solo personificazioni di quanto di negativo rappresenta la Conquista, ma anche di ciò che di positivo essa significa come spirito d'avventura, capacità di fantasia -la reviviscenza dei miti-, esplicazione di coraggio individuale. Nei protagonisti si compie il primo incantesimo della natura americana sull'europeo. La loro «locura» ha qualche cosa di inevitabile e di voluto al tempo stesso. Gli uomini che si staccano dal grosso dei conquistatori per seguire la chimera della congiunzione degli oceani, sembrano vivere in un mondo fuori del tempo. Le nozioni temporali sono totalmente soppresse; solo un'ultima notizia li raggiunge, quella della caduta della gran fortezza dei Mam. Intorno a loro si spezza ogni legame col mondo concreto dal quale sono venuti. Nel silenzio che li circonda essi sembrano provare il terrore fisico che accompagna chi si perde in terre ignote; il terrore storico dell'uomo che sente recisi i legami col suo passato e si trova solo, in balia delle forze di una natura sconosciuta, sembra ripetersi. A volte i protagonisti dell'impresa oceanica sono assaliti dalla «horrorosa duda de si se habían quedado solos en el mundo, aniñamiento que les cortaba el resuello [...]»612; hanno l'impressione di vivere in una sorta d'incantesimo che accentua la paura, «condenados a ir a pie hasta el fin de los siglos por aquel paraíso de lagos y volcanes [...]»613.

Per rendere un mondo così diverso da quello ispanico, sospeso continuamente tra la realtà e la favola, la cui misteriosa essenza non può attingere chi viene da fuori ed è, in sostanza, «bárbaro» -perché Asturias considera barbari i conquistatori, paragonata la loro rozzezza alla raffinatezza culturale del mondo pre-colombiano, che idealizza-, lo scrittore ricorre a tutta la potenza della sua fantasia, giovandosi ancora una volta della lezione appresa dal surrealismo, ricorrendo agli elementi onirici, alle figurazioni più sconcertanti e, per dir così, «metafisiche». I miti indigeni gli offrono un concreto ausilio, ed egli si attarda con evidente compiacimento su di essi, con risultati assai notevoli di srealizzazione del reale. Il mondo che si presenta ai cercatori della congiunzione degli oceani risuscita in loro le fantasie e le paure del medioevo europeo dal quale sono appena usciti. Il mondo indigeno è popolato di esseri vestiti di colori simbolici incomprensibili «Un hombre tiñoso, tiña de arcoiris, todos los colores del iris en las manos y en la cara, un dedo azul, un dedo verde, otro rojo, violeta la frente, amarillos los párpados, una oreja naranja y otra oreja celeste, se cruzó con ellos en una ciudad desierta, deshabitada [...]»614 -, vi si svolgono riti strani e suggestivi, quelli dei «tremolanti», adoratori del gran Cabracán -vulcano-dio, «supremo hacedor de terremotos»615, degli «oscilantes», che pendono dagli alberi a testa in giù -«frutos con ojos»-616, seminascosti tra le fronde di una «ceiba» enorme, che popolano di «gorjeos semejantes a voces humanas»617. La fantasia medievale degli scopritori crede di vivere gli incantesimi dei libri di cavalleria, vede negli uomini «caballeros desdichados» ai quali occorre portare aiuto per rompere l'incantesimo618.

L'equivoco segna appena la distanza tra un mondo complesso e l'elementarità degli spagnoli. Nell'America che essi calpestano tutto cela il suo significato e, ciò nonostante, o forse proprio per questo, tutto contribuisce a soggiogarli. Non solo gli uomini hanno un «náhuatl», ma ogni cosa parla e si anima. Suggestionati dall'ambiente, anche i cavalli dei conquistatori e quelli dell'ex-pirata Ladrada, ormai nativi del luogo, intessono una lunga conversazione. L'indigena Titil-Ic -«Eclipse de Luna»-619 è l'unico tramite d'intesa tra il mondo indigeno e quello ispanico. Amante di Blas Zenteno, da lei viene il frutto della speranza futura; poiché il figlio che dà alla luce rappresenta la fusione delle due razze. Asturias accetta, quindi, come fatto positivo il meticciato -né poteva essere altrimenti-, vi vede, anzi, l'inizio di una promessa grandiosa. L'indio Gùinakil mormora all'orecchio della donna una frase che risuonerà più volte nel libro: «¡Todo está ya lleno de comienzos!»620. Mentre il padre intesse fantastiche chimere intorno al «vástago de dos razas fundidas ya para siempre como dos Océanos de sangre, nacido en estas Indias de padre advenedizo y nativa madre, bajo un cielo que creía estrenar esa noche todas sus estrellas!»621.

Gli avvenimenti, magici e reali al tempo stesso, si svolgono sulla presenza dominante di un paesaggio che accentua e rende logico il clima meraviglioso che informa tutto il libro. Miguel Ángel Asturias carica le tinte, le sfuma, ricorre ad accostamenti violenti o a gradazioni evanescenti; alla corposità cromatica si oppone la trasparenza. La sua tavolozza si presenta, in Maladrón, eccezionalmente arricchita e anche per questo il romanzo è un sicuro raggiungimento artistico, mentre segna una svolta decisiva, l'affermazione di una nuova età della narrativa asturiana. Lo si può constatare nei seguenti passi:

«Acampaban en las mesetas. Alfombras de ciruelas, gotas de pintura amarilla, gotas de pintura roja, al pie de árboles exhaustos de cargados. No propiamente ciruelos, sino jocotes, ciruelos de por esas tierras, a cual más rico y perfumado»622.



«Neblinas rosas, separándose de los nopales, logradas por el naranja y el azul del alba, formas risueñas de la dicha del día, volaban a quemarse en el resplandor del sol, nube de oro sobre las montañas, o en las hogueras de plata roja del vaho de las aguas del "lodo que tiembla"»623.



«No fatigaba la distancia, sino la geometría. Del claroscuro al claroazul, al claroverde, al claroazulverdeazul, entre lianas y tapices de clorofìlas que caían, independientes de los muros venidos a menos peso al hundir sus reflejos en los espejos del agua abismal, en forma de pliegues de cortinados con ornamentos de cácteas, helechos, orquídeas, hojas pintadas, pájaros, lagartijas, insectos fosforescentes y colgaduras de quiebracajetes que eran como embutidos de trasegar cielo los de bordes azules, de trasegar luz los de bordes amarillos, de trasegar sangre los de bordes rojos...»624.



Anche il mondo sotterraneo partecipa di questi colori magici. La statua vivente del Maladrón -«Señor de nuestra Muerte, intacta, total, nuestra y sólo nuestra»-625, nella grotta dove Ladrada lo sta scolpendo in legno, per ordine degli spagnoli, vede un universo caleidoscopico:

«[...] Torrentes de agujas de agua sola. Sola y poblada de verdeoscuros, verdeazules, verdeclaros. Esmeraldas navegables, a dónde me lleváis, a dónde..., si no quiero irme, quiero morir aquí, ser esqueleto verde y no esqueleto blanco como son los huesos de los que mueren en otras latitudes. Esqueleto verde, costillas de esmeraldas, pelo de algas vibrantes, restos frutales en que los insectos que forman el color verde se embriagan de oscuridad y de misterio...»626.



Nel mondo americano anche la morte assume un aspetto inedito, diverso, comunque, da quello tradizionale; al colore livido della realtà occidentale sostituisce quello di un verde trasformatore e germinativo. Nel nuovo mondo anche il Maladrón -«Hijo legítimo de la materia, Ángel de la Realidad, Señor de las cosas ciertas»627-, sembra non resistere all'attrazione della conservazione, che si concreta in un panteismo continuamente cangiante. L'America verde è un miracolo inesauribile, dove anche i minerali hanno vita e le miniere d'oro sono «piedras de ojos preciosos»628. Al segno della meraviglia, tutto sembra svolgersi fuori del tempo, in una realtà fantastica, vista come attraverso il fumo del tabacco -pianta sacra degli dèi-, che «separa la memoria de las cosas visibles, de los objetos que nos rodean». Ogni cosa si svincola dalle nozioni temporali, così il ricordare le conversazioni che Duero Agudo ebbe con il saduceo Zaduc, sulla nave che li conduceva nelle Indie, e che lo convertì al culto del Maladrón, del pari la realtà del mondo americano, dove gli spagnoli esperimentano la sensazione di un viaggio infinito, senza fine visibile, in una nube di pace senza spazio né tempo, «en el humo de un mundo nuevo, sin tiempo, sin espacio»629.

Con la celebrazione della bellezza paradisiaca del mondo meso-americano e del suo primitivo ordine felice, il motivo dominante di Maladrón è la condanna della conquista spagnola che tale ordine ha distrutto. La visione di una Spagna evangelizzatrice è ripudiata nettamente da Asturias -lo aveva già fatto, del resto, ne La Audiecia de los Confines, celebrando il Padre Las Casas-. Della conquista egli denuncia, in Maladrón, gli aspetti più negativi, la cupidigia e la violenza. Dopo le scene guerresche -non molte, in verità, ma efficaci- della conquista delle Ande Verdi e la sconfitta del popolo Mam, con la presentazione raccapricciante degli orrori della guerra, l'azione bellica non appare più in primo piano; nel suo svolgimento è solo uno sfondo vago e lontano, al di là del panorama verde in cui si muovono i protagonisti. Permane, tuttavia, il suo significato tragico, insieme a un'interpretazione sacra del sacrificio umano: «La guerra sirve para abonar la tierra con seres humanos» 630. La figura del Maladrón ossia di colui che sul Golgota rifiutò la salvezza che il Cristo gli offriva -è il vero Dio della Conquista.

Il tema del Maladrón interessava da tempo Asturias, e nella sua opera compare fin dalle pagine de El Alhajadito, dove era parte di quella realtà-sogno davanti alla quale il giovane discendente degli Alhajados esperimentava vibrazioni intime631. La leggenda del misterioso personaggio agitava il suo animo, pensando a quel 29 febbraio -data fuori del tempo-, giorno del Maladrón, in cui la pretesa di fondere una campana, eccezionalmente preziosa, per glorificare il «Crucificado materialista que no creyó en el Paraíso, Nuestro Verdadero Señor y Padrecito»632, fallì, in quanto risultò priva di voce. Le origini del tema del Maladrón stanno nell'interesse di Miguel Ángel Asturias per la Historia de los heterodoxos españoles di Menéndez Pelayo, ma solo nel romanzo di cui trattiamo prende corpo definitivamente, per condurre alla condanna della Conquista. Le numerose definizioni del Maladrón -dio della realtà senza aldilà, distruttore di ogni speranza umana-, ne vanno configurando la reale sostanza. La maggior parte degli spagnoli recatisi in America erano, afferma Asturias, giudaizzanti e tra di essi era presente un gruppo di adoratori del Maladrón633.

Lo scrittore ha sottolineato634 che il Maladrón se la ride del paradiso in quanto materialista, non per beffa. Ma elevandolo a dio della Conquista egli ne fa un personaggio totalmente negativo, «¡Señor de todo lo creado en el mundo de la codicia, desde que el hombre es hombre!»635. Il rimprovero che Asturias fa costantemente agli spagnoli è di aver ripudiato l'insegnamento di Cristo per diventare, secondo le accuse del Padre Las Casas, che egli fa proprie «tiranos, robadores, violentadores, raptores, predones...»636. Il Maladrón è il Signore della Conquista «en el doble papel de incrédulo y ladrón»637; nella mancanza di dimensione umana sta la sua condanna. Quando Lorenzo Ladrada ne scolpisce la figura lignea per conto di Agudo al fine di obbligare gli indios «tremolantes» a rendergli culto, lo modella a propria immagine e somiglianza, ossia guercio, e lo condanna per l'eternità predicatore della materia:

«[...] tú seguirás despierto enseñando que el hombre es sólo una mezcla de sustancias vivas, hecho no a semejanza de Dios, sino a imagen y semejanza de los metales, los vegetales, los animales, el agua y la tierra que lo componen»638.



La condanna della materia bruta non poteva essere più netta da parte di Asturias, per il quale tutto, anche le pietre, ha un'anima. Il ripudio e la distruzione della croce del Maladrón, l'uccisione di coloro che ne vogliono imporre il culto, da parte degli indigeni, è la condanna dello spirito negativo della Conquista, realizzata al segno della materia. Giiinakil, infatti, proclama:

«-¡No otra cruz! ¡No otro Dios! ¡La primera cruz costó lágrimas y sangre! ¿Cuántas más vidas por esta segunda cruz? ¿Más sangre? ¿Más sufrimientos? ¿Y más tributos? [...] ¡Oro y martirio fueron pagados, sin tasa ni medida, por el Dios de la primera cruz! ¿Por el barbudo de esta segunda cruz, más carne de trabajo y matanzas?... [...]

-¡No habrá segundo herraje ni habrá segunda cruz! Si la primera, con el Dios que nada tenía que ver con los bienes materiales y las riquezas de este mundo, costó ríos de llanto, mares de sangre, montañas de oro y piedras preciosas, ¿a qué costo contentar a este segundo crucificado, salteador de caminos, para quien todo lo del hombre debe ser aprovechado aquí en la tierra?... Si el de la primera cruz, el soñador, el iluso, nos costó desolación, orfandad, esclavitud y ruina, ¿qué nos esperaba con este segundo crucificado, práctico, cínico y bandolero?... Si con la primera cruz, la del justo, todo fue robo, violación, hoguera y soga de ahorcar, ¿qué nos esperaba con la cruz de un forajido, de un ladrón?...»639.



4.- La presenza del Maladrón, il lungo discorrere sulla sua figura e intorno alla sua dottrina, l'improvvisa animazione della scultura lignea e, in piani remoti, quelli della esistenza reale, improvvisamente operanti, il racconto di una trista volontà di ripudio della salvezza, accompagna i protagonisti della ricerca oceanica. Lungo il loro cammino essi affrontano una serie di problemi che qualificano in profondità la condizione umana, tra essi il senso di limite che si coglie nel confronto tra la giovinezza e la sventura della vecchiaia: di fronte alla gioventù, «dueña de tantos caminos», sta la vecchiaia, «con sólo el sendero fatal del más allá que se nos torna cada día, cada hora, cada instante que pasa, en más acá...»640. Sotto il gioco di parole si coglie la serietà di un problema che ricorre con insistenza nell'opera di Asturias. La corsa del tempo fa sfiorire progressivamente le illusioni che, con parole di Antolín Antolinares, «año tras año la vida nos va cortando o bien se nos mueren en el cuerpo»641. L'infelicità del futuro, chiuso a ogni speranza, è sentita particolarmente da Ángel Rostro; egli si vede divenuto nemico di se stesso, perché vuol prolungare la propria vita, al fine di differire una morte senza aldilà: «vuéltome yo mi enemigo, mi contrario, sosteniéndome el vivir por dilatar mi muerte sin esperanza...»642. Il problema dell'esistenza dell'anima è dibattuto, quindi, dal medesimo personaggio, con argomentazioni ed esempi fondati sulla sua professione di soldato:

«Y si en un ejército hay diferencias y contradicciones tenedlo por demasiada probanza de que el alma existe, pues de no hacernos Dios tan grande merced, obedeceríais como irracionales...»643.



Sembra un passaggio di Quevedo, che anche lo stile richiama. Nonostante il suo materialismo neppure Antolinares riesce a distruggere il dubbio intorno all'eternità:

«Empero, la duda se me aposenta y nada por el cuerpo en lo de la eternidad. No me resigno a no tener eternidad, ¡maldita sea!»644.



Benché Duero Agudo tenti una spiegazione materialista -«el hombre tiene eternidad, no como prolongación de su persona, de su unidad, pero sí como prolongación de sus desintegraciones infinitas de la plural armonía de sus secuencias»645-. Dio è anch'esso presenza tormentosa, soprattutto perché «puede decirse de Dios lo que no es, no lo que es»646. La negazione dell'esistenza dell'aldilà è ciò che più fa paura a Zenteno, per il quale il tempo è l'unica cosa incorporea, mentre tutto il resto è «real, material, corpóreo»647. È tanto il dubbio, tanta la paura intorno a questi problemi, che gli adoratori del Maladrón esaltano ed apprezzano del loro dio il coraggio avuto nel resistere a ogni attrazione di permanenza futura, «al no dejarse arrastrar al espejismo del más allá, para erguirse y afirmar ante la muerte que allí acababa todo»648.

La situazione reale del gruppo di spagnoli è riassunta efficacemente da Antolín Antolinares allorché afferma che «Da más miedo la vida que la muerte en los ajusticiados»649, precisamente per la fine miserabile dell'uomo nella materia. La concezione cristiana dell'inferno diviene ben poca cosa di fronte a ciò che attende il materialista. Afferma Duero Agudo:

«A todos, a todos nos arredra no seguir como personas en una segunda vida. El infierno comparado con el absoluto fin que nos espera no es nada. En el infierno, al menos, seguiríamos siendo nosotros»650.



La condanna del Maladrón sta nella solitudine, che procede dall'aver distrutto la speranza nell'eternità: «[...] solo, completamente solo (la soledad de la materia infinita, y él no era más que materia, sustancia, naturaleza) [...]»651 .

In fin di vita Antolín Antolinares torna a pensare all'anima, riconoscendone la qualità suprema:

«[...] el alma qué haría en este caso... alguna mafia... el alma es mafia... es lo mafioso del hombre y por eso vale más alma que cuerpo, ¿más vale mafia que fuerza...? [...]»652.



I protagonisti della ricerca della congiunzione degli oceani si perdono, tra l'affermazione della materia e il tormento del dubbio sull'aldilà. In essi fallisce, simbolicamente, la conquista. Miguel Ángel Asturias ne stabilisce la condanna. L'ultimo ad essere vinto è Antolín Antolinares Cespedillos, sfuggito alla giustizia degli indios «cabracánidas», insieme al figlio bambino, alla concubina, Titillo, e a Lorenzo Ladrada. Il miraggio della scoperta della congiunzione oceanica sembra ad un tratto prendere realtà. Ma da questo momento è come se la pazzia si accentuasse nello spagnolo; smanioso di precedere Ladrada nella comunicazione ufficiale della scoperta, egli fugge per giorni e per notti, finché, distrutto dal «palmito», conclude miseramente un'esistenza che sembra realmente consumarsi nella materia più infima. Miguel Ángel Asturias si attarda compiaciuto a distruggere, in un gioco divertito, il personaggio, presentandolo nel tormento di «retortijones», «pedos» e diarrea653. Quando, alla fine, Ladrada lo ritrova per condurlo nella strana fortezza con sembianze umane che sorge nel deserto -«[...] una fortaleza cuyo frontis semeja la máscara de un guerrero soterrado, no hasta los fosos, sino hasta las fosas nasales, balconadas por pómulos y de lado y lado de la puerta, repujamientos que corresponden a las orejas del casco»654-, la morte è già scesa su di lui. Lo scrittore insiste quevedescamente sui particolari della distruzione organica dell'uomo, con un senso così spietato della miseria umana che ricorda taluni quadri di Valdés Leal, in particolare quello terrificante delle Postrimerías:

«[...] ya había empezado en su vientre el baile de los gusanos diligentes [...] Allí ya se lo estaban comiendo hormigas, mariposones, sabandijas, cascarudos y moscas verdes»655.



Con questa insistenza sui particolari più macabri, sui quali, tuttavia, versa parte della sua magia colorista, lo scrittore mira a rendere il limite infelice dell'uomo, soprattutto di chi non ha ancora risolto il problema tra lo spirito e la materia, tra l'eternità e il nulla.

Maladrón si chiude sulla scomparsa di tutti i protagonisti della «locura» avventurosa della ricerca oceanica. Solo Lorenzo Ladrada, -pirata e assassino, padrone di immense ricchezze dopo aver ucciso il suo padrone, Escafamiranda-, si salva dalla fine generale. Ma in sé egli reca l'infelicità della solitudine, frutto della sua condotta legata unicamente alla materia. La sua ricerca del figlio di Antolinares e della moglie di lui, che vorrebbe tenere con sé, è in funzione della liberazione dalla solitudine «[...] la amaba (Titil-Ic) porque se sentía solo, inmensamente solo en aquel mundo de golosina [...]»656-; il ripudio di Dio e la sfiducia nel demonio lo conducono alla disperazione e alla pazzia, finché, dopo un inutile tentativo di introdurre la propria voce nel dialogo che si svolge, nella cappella del castello-fortezza, tra un Canonico e il defunto Antolinares, accomunati in dissidio nello stesso avello, finisce per abbandonare il teatro di tanti accadimenti, su una «yegua color de sal», dirigendosi verso il mare: «Necesitaba la inmensa soledad del océano»657.

Maladrón conclude, come era iniziato, con una sconfitta: agli inizi del libro è il mondo indigeno a soccombere; alla fine sono gli spagnoli, avventurieri che il mondo americano sembra espellere come per una reazione di rigetto. È la rivincita dell'America sull'Europa; il figlio di Titil-Ic e di Antolinares, ciò che resta di positivo in vista del futuro -«¡Todo está ya lleno de comienzos!»658- viene fatto scomparire dagli indigeni, riscattandolo alla propria razza. Il castello-fortezza surreale dove risiede Lorenzo Ladrada, sembra rappresentare il simbolo di un momento di raccoglimento necessario perché passato e presente possano iniziare un colloquio teso verso l'avvenire:

«El viento sopla por las troneras, mientras al silencio misterioso del ayer y el más allá, se abren las venas de la memoria y sangran recuerdos que seca la calcinada soledad en las estancias, los patios, los sótanos, las torres, sin alma viviente»659.



La frase ricorrente, «¡Todo está ya lleno de comienzos!»660, finisce per assumere un carattere emblematico nel libro. Il mondo indigeno penetra quello ispanico, si prende la sua rivincita, lo sottomette senza ripudiarlo e lo apre, in una raggiunta sintesi, al futuro. Quando Lorenzo Ladrada, unico superstite di quel manipolo di «seres de injuria» venuti dal mare e perdutisi tra le Ande Verdi, si dirige verso la costa oceanica, un altro capitolo si inaugura nella storia d'America, quello del meticciato. Il mondo vinto rivive concretamente fondendosi con quello ispanico, insinuando in esso i caratteri determinanti della propria unicità.

Maladrón è, in definitiva, più che un libro di catastrofi e di rimpianti, un romanzo aperto alla speranza e un'affermazione ulteriore della grandezza del mondo meso-americano in quanto esso rappresenta di valori spirituali. Alla catastrofe che domina tante pagine si oppone la certezza in un futuro di segno positivo. Che non è ancora il presente vissuto dallo scrittore, ma che deve venire, in quanto gli anni seguiti alla Conquista, sulla quale il libro si chiude, non ne hanno posto che le premesse.

La traiettoria di Asturias sembrerebbe concludersi in questo clima delle origini pienamente ritrovato, ma il suo affondare nel labirinto magico che costituisce l'essenza spirituale della sua terra è solo il punto di partenza per l'affermazione di un nuovo momento della sua narrativa. La prodigiosa facoltà di rinnovamento che più volte ho sottolineato661 viene confermata da Maladrón, col quale si apre un nuovo momento di singolare valore nell'opera di questo scrittore662. La prova alla quale la critica lo attendeva, dopo il Premio Nobel, è superata pienamente, e lo dimostra anche il nuovo romanzo Viernes de dolores (1972).





 
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