1.- La narrativa
di Miguel Ángel Asturias si aggira continuamente tra il mito
e la realtà. Dalle remote Leyendas de Guatemala (1930), che
entusiasmarono Paul Valéry per il loro carattere di «poema-sueño-fantasía»576
,
alle opere di maggior impegno che seguirono, fino alle più
recenti, tale atmosfera si definisce e si chiarisce ulteriormente,
passando ora per punte eminenti di fusione mitorealtà,
com'è il caso di Hombres de maíz (1949), che inaugura
concretamente, per la sua novità strutturale, il «nuovo
romanzo»577
,
ora cedendo, invece, alle più vive esigenze del reale, in un
impeto di denuncia quale si può osservare ne El Señor Presidente
(1946), nella trilogia «bananera»
-Viento fuerte
(1949), El Papa
verde (1950), Los ojos de los enterrados (1960)- e
nell'estremamente sofferto Week-end en Guatemala (1956). Ma già ne Los ojos de los
enterrados, pur così pregno di partecipe rivolta
contro la disperata condizione guatemalteca, ricollegandosi ai miti
e alle «brujerías»
dei due precedenti volumi della trilogia, alle mitologie astrali e
al sostrato ora poetico, ora orripilante delle nascoste presenze
operanti nell'animo popolare -in Hombres de maíz578-
e dando a tutti questi elementi un rilievo preminente, indicava
un'esigenza tormentosa di riaggancio più diretto e totale a
un clima mitico e magico dal quale la narrativa di Asturias era
scaturita, e con essa tutta la sua opera, dalla poesia al teatro.
L'attrazione irresistibile della prima matrice si manifestava
attraverso il gioco d'invenzione di una fervida fantasia creatrice
indio-barocca, non tanto ne El Alhajadito (1961), che pure rappresenta un
significativo punto d'incontro tra il clima del passato -quello
delle Leyendas- e le pungenti nostalgie del presente,
quanto piuttosto in Mulata de tal (1963), libro che qualifica per una
nota di magia, nuova e antica al tempo stesso, un periodo di
rinnovato vigore dello scrittore guatemalteco, in cui la fantasia e
la parola si manifestano in esiti del tutto
eccezionali579.
I libri seguiti a Mulata de tal sono fermamente situati nel clima che il romanzo ha inaugurato, ma con un'originalità di fondo che li qualifica anche sul piano del sentimento, come progressiva marcia di avvicinamento alla regione più intima e sentita. Nella poesia, Clarivigilia primaveral (1965) torna ai temi della civiltà maya e della sua concezione cosmogonica580; nel teatro, Torotumbo (1969) -atto unico tratto dall'omonimo racconto di Week-end en Guatemala-, pur pregno d'impegno politico e umano, dà risalto al fondo mitico del Guatemala581; nella narrativa, le leggende de El espejo de Lida Sal (1967) paiono suggellare in modo definitivo l'incontro col mondo mitico e magico meso-americano, in una fusione armoniosa di piani temporali, in cui il passato si attualizza e il presente sfuma i suoi confini in note volutamente vaghe, ripetendo il clima delle origini del mondo.
Le prime pagine
del «Pórtico»
immettono, programmaticamente, in una dimensione intima e favolosa
del mondo guatemalteco, realtà-sogno, sorta di paradiso
ancorato stabilmente in regioni valide del sentimento, al disopra
del fluire del tempo. I piani della realtà e del sogno si
fondono, come già nelle Leyendas de Guatemala, ma con un vigore creativo
che fa tesoro dei raggiungimenti anche di Mulata de tal, e che attesta la
maturità di Asturias attraverso il lungo arco di tutta la
sua creazione artistica.
Nella prospettiva
di «paisajes
dormidos»
, sui quali piove una «Luz de
encantamiento y esplendor»
, spicca il
«País
verde»
:
«País de los árboles verdes. Valles, colinas, selvas, volcanes, lagos verdes, verdes, bajo el cielo azul sin una mancha. Y todas las combinaciones de los colores florales, frutales y pajareros en el enjambre de las anilinas, Memoria del temblor de la luz. Anexiones de agua y cielo, cielo y tierra. Anexiones. Modificaciones. Hasta el infinito dorado por el sol»582. |
Il contatto col
Popol-Vuh è di nuovo evidente583,
ma lo splendore del paradiso terrestre creato dagli dèi
progenitori e descritto nel libro sacro dei «quiché»
è originalmente accentuato da Asturias, attraverso tinte di
luminosa trasparenza, toni caldi di colori sulla gamma verdeoro,
che trasformano in materiali preziosi gli elementi della natura,
siano essi cose, vegetali, animali, uccelli o rettili. Le metafore
e le definizioni di unicità del mondo descritto,
sottolineano il carattere magico e irrepetibile del Guatemala,
paradiso terrestre e celeste al tempo stesso, fusione di
realtà e di magia, in un tempo senza tempo. La serie delle
notazioni, rese in frasi brevi, tende a sottolineare il valore del
dettaglio; le ripetizioni aggettivali, le esclamazioni raccolte,
rendono la condizione extra-umana di tale mondo; il rapido
succedersi delle serie verbali dà vita interiore intensa a
un paesaggio apparentemente addormentato nello splendore della sua
bellezza, nel quale, al contrario, ogni cosa vive, ha voce e
movimento. Le menzioni di vegetali e di animali, l'allusione ad
età geologiche, a uragani celesti, la nota policroma degli
uccelli, la presenza delle vestigia illustri di una civiltà
remota, l'accento posto sui minerali e sulle pietre preziose, che
recano in sé la suggestione delle civiltà sepolte,
quelle pre-colombiane, delle quali hanno finito per divenire
simbolo, accentua il clima magico in cui si confondono le
età. Il tempo, indifferenziato ed eterno, domina
enigmaticamente il paradiso, nel quale l'uomo torna ad essere la
misera creatura che i progenitori fabbricarono per il proprio
piacere egoista. Le varie leggende raccolte nel libro non lo
smentiscono.
L'opera che segue ai racconti de El espejo de Lida Sal, il romanzo Maladrón (1969), ribadisce, col clima di magia, il valore del richiamo che su Asturias esercita una ben individuata regione spirituale, quella del mondo pre-colombiano, ma con incidenze continue nel presente, per la portata delle conclusioni. Il ritorno decisivo e ormai disarmato al mito, se da una parte supera gli accenti di crudo realismo denunciatario, non fa tacere nello scrittore il fondamentale impegno, che è poi espressione logica della sua moralità. In Maladrón il peso della realtà è sempre meno ingombrante: essa appare sfumata nell'invenzione fantastica, ma non per questo meno presente. Il tempo dell'azione è quello remoto della fine del mondo indigeno maya-quiché e della conquista spagnola, ma le implicazioni di tale fatto appaiono assai attuali. Se nelle Leyendas de Guatemala Asturias aveva inteso ricreare il composito mondo indo-ispanico del Guatemala, librato tra l'epoca della conquista e il tempo attuale, in ima sorta di radiografia intima della complessa anima della sua gente, e, a distanza di tempo, in Mulata de tal, accentuando i caratteri barocchi e magici di Hombres de maíz, aveva fissato le peculiarità e i conflitti di un universo che vedeva sul punto di soccombere e di scomparire di fronte all'avvento della civiltà meccanizzata, in Maladrón risuscita il clima di tragedia in cui il paradiso indigeno soccombe di fronte alle forze ispaniche, ma contemplando anche la tragica e poetica pazzia del nuovo venuto, che lo muove lungo i sorprendenti cammini del mondo conquistato, alla vana ricerca di realizzazione dei suggestivi miraggi nei quali improvvisamente, e con cieca tenacia, ha creduto.
Le intenzioni
dello scrittore sono chiaramente denunciate nel sottotitolo del
libro, «Epopeya de los Andes
Verdes». Il clima de El espejo de Lida Sal ha
continuità immediata, ma il «País
verde» è visto non più come
paradiso magico solamente, bensì col rimpianto e la nota di
sofferta tragedia del paradiso perduto, distrutto nella sua intatta
purezza dall'avvento di «seres de
injuria»
, gli spagnoli conquistatori,
venuti da «otro
planeta»
a sconvolgere la pace di un
«mundo de
golosina»
, popolato di genti tranquille, di
«venados»
e di
«pavos
azules»
. Un mondo mitico e magico, situato
in un tempo remoto, con tutti i richiami suggestivi del bene
scomparso584.
Come sempre, nei romanzi di Asturias occorre fare attenzione alle epigrafi. In quella che precede le prime pagine di Maladrón è riassunto il clima spirituale in cui si svolge l'indagine dello scrittore. Ciò che a prima vista sembrerebbe non del tutto esatto è il sottotitolo del romanzo, «Epopeya de los Andes Verdes», poiché tale epopea occupa solamente i primi sette capitoli del libro, per un totale di 49 pagine sulle 217 che costituiscono l'edizione bonaerense. Il romanzo parrebbe, perciò, soffrire di un certo squilibrio, in quanto si presenta come formato da due parti non dichiarate, di dimensione diversa e di diversa intenzione: nella prima, la più breve, prende consistenza l'epopea del popolo Mam; nella seconda, la parte maggiore, è narrata l'odissea di alcuni spagnoli che inseguono il sogno di scoprire la congiunzione degli oceani, uno dei tanti miti che affascinarono e mossero i conquistatori. Un taglio così netto tra le due parti del libro non sembra giovare alla sua unità, che avrebbe potuto essere maggiore se Asturias avesse lasciato da parte il sottotitolo585. Benché, in fin dei conti, anche questo sia un particolare abbastanza trascurabile, che Maladrón fa dimenticare agevolmente. Che di epopea si tratti è evidente: dapprima l'epopea dei vinti, che sfocia in tragedia, quindi quella di alcuni animosi spagnoli, la cui fine assume anch'essa i colori della tragedia.
2.- La struttura
di Maladrón rivela un'elaborazione che conduce
a risultati frequenti di particolare valore nell'ordine di vari
motivi, che vanno dalle descrizioni paesaggistiche allo studio
della tragedia umana, alla nota di compiaciuto umorismo. Il valore
del romanzo sta soprattutto nell'originalità e nella
genuinità con cui, nei numerosi dialoghi dei protagonisti
ispanici e di Zaduc, adoratore del «Maladrón»
,
viene ricreato l'idioma castigliano del tempo della Conquista, al
quale si aggiungono l'esperienza e la felicità creativa di
un dominatore consumato della lingua, artefice eccezionale che si
diletta del neologismo e dell'aggettivazione inedita. Inserito
nella prosa di Asturias, di così particolare segno evocativo
e poetico, il castigliano del secolo XVI non costituisce una
stonatura. Lo scrittore lo vivifica, infatti, costantemente, con
l'apporto della propria invenzione, facendolo straripare dal
dialogo ai brani descrittivi, agli interventi personali,
liberandolo da ogni sapore archeologico. Lo scrittore stesso ha
sottolineato il valore particolare del libro in questo senso, come
apporto di stile e soprattutto di lingua586.
Egli ha denunciato addirittura l'abuso idiomatico che commette,
versando nelle pagine di Maladrón tutto lo spagnolo che conosce,
arricchito d'indigenismi, di arcaismi, in una reazione decisiva al
movimento di impoverimento della lingua -così si è
espresso- ora in auge nell'America latina. Perciò l'«uso y abuso del
idioma con toda la mano y toda la manga
larga»
. A questo reca un contributo
determinante la lezione dei grandi prosatori ispanici, di Quevedo,
ma particolarmente di Cervantes, dal quale Asturias afferma di aver
appreso ad aggettivare e che proclama «el genio que ha
logrado colocar los adjetivos mejor»
,
facendo speciale riferimento all'insuperabile esempio della lettera
a Dulcinea. Agli scrittori del «Siglo de Oro»
riconosce di essere debitore per la «lujuria»
, la
«magia»
della
lingua, ma non minore è il suo debito verso taluni esponenti
della «Generazione del
'98»
, Baroja in particolare, «que nos da esa
idea anàrquica de la lengua»
. Al
mondo indigeno risale, tuttavia, il barocchismo che si manifesta in
tutta l'opera di Asturias -«si yo tengo algún barroco es
por esa forma indígena»-
, come
talune peculiarità stilistiche, che si concretano nel
parallelismo, nella moltiplicazione sillabica, nell'allusione, in
quel dire le cose come per sotterfugi: «nada dice
directamente el indígena, sino a través de
subterfugios»587
.
La struttura stessa di Maladrón nel succedersi dei brevi capitoli
di cui si compone, nell'aprirsi sulla descrizione di un mondo fuor
del comune, si ricollega alla forma e al clima dei testi sacri
mayaquiché, ma con un accento che già preannuncia,
nel destino autunnale della natura, la fine di un mondo:
«Al final del verano, entre la tempestad de hojas secas que el viento del Norte arrebata, muele contra las piedras y reduce a polvo [...], cada hoja sedienta se enrolla sobre el pedúnculo para pincharse y morir; al final del verano, entre la pavesa del sol y la tostadura de la helada, campos y monte marchitos devorándose en la perspectiva de ocres, jaldes, amarillos, parduzcos [...]»588. |
Nonostante
permanga, sull'inaridire della natura, il verdeggiare eterno della
cordigliera -«al final
del verano sólo queda verde la gran cordillera flotante como
nube sembrada de aéreos pinos, cipreses voladores y cumbres
de cuya excelsitud no dan cuenta nieves eternas
[...]»589-
la visione è di un mondo in agonia. Nella situazione della
natura si riflette quella di tutto il popolo Mam nello scontro con
gli spagnoli. Si è parlato, per Maladrón, di un «espécimen
indiano de dudosa ortodoxia»
, che verrebbe
a continuare, dopo venti secoli scarsi, nell'epica occidentale i
poemi omerici, o che almeno in qualche modo si ribella ai «moldes
consagrados»
di genere e di
personaggi590;
ma non sembra il caso di ricorrere a parentele così remote e
dubbie. Maladrón è, nella sua prima parte,
epopea ed elegia, al tempo stesso, del popolo indigeno, in impari
guerra contro l'invasore. Lo splendore del mondo di «golosina»
sottolinea nel suo tramonto i tratti più caratteristici
della tragedia, che è soprattutto tragedia di uomini, di
fronte a un mondo esterno e incomprensibile. In questo, Miguel
Ángel Asturias si ricollega al clima che domina le
predizioni sacre dell'area «náhuatl»,
alla concezione ciclica del mondo, per la quale l'avvento di ogni
nuova età avviene sull'estinzione violenta di quella che
l'ha preceduta. Lo scontro tra gli spagnoli invasori e gli indigeni
rappresenta concretamente questo momento critico. La crisi si
manifesta soprattutto al vertice, tra chi è qualificato a
interpretare la storia e il destino del popolo indio. La guerra
è tra due mondi diversi, un «Choque de Dioses,
mitos y sabidurías»591
;
non guerra di religione, bensì di magie592.
Senonché la concezione magica ha già perduto la sua
suggestione presso il «Mam de los
Mames»
; egli percepisce esattamente che lo scontro
è tra una tecnica e mezzi evoluti e una concezione
elementare della guerra, superata e non più valida.
Caibilbalán ripudia, perciò, la magia, come ripudia
la guerriglia, avendo una concezione evoluta -sempre sottolineata
da Asturias- di uno Stato civile593.
Sulla tragedia del popolo indio, sulla distruzione del mondo
meraviglioso, «nube
terrenal en que nace el
maíz»594
,
sugli orrori della guerra e il sacrificio degli indigeni, che si
lanciano sui ferri nemici per arrestare la distruzione del loro
popolo595,
domina la natura amletica di Caibilbalán. La sua sfiducia
nella magia è sfiducia negli dèi: «El Señor
de los Andes Verdes lleva y trae sobre sus hombros, la noche
entera, el peso de sus dudas»596
.
Sono questi dubbi a perderlo; le sconfitte del suo popolo gli
saranno imputate ed egli verrà deposto, retrocesso a
semplice «taltuza»
e
confinato nel «País
del Lacandón y el mono»
, un mondo
senza tempo, come esiliarlo in un altro pianeta.
Caibilbalán
è un eroe sfortunato e già vinto prima della
sconfitta materiale. Egli rappresenta un momento nuovo nel mondo
indigeno e si perde proprio per la sua capacità razionale.
In lui Asturias intende rappresentare la perdita fatale della sua
gente. Le grandi masse che si muovono nella guerra, indie e
spagnole, sono sfondo idoneo -ricco di luci e di ombre, avvolto
nelle fantasmagorie del mito e nei dati magicamente trasformati
della realtà- su cui prende risalto la sua natura complessa
e intimamente tormentata, la sua categoria eroica. Lo scrittore
rende tale complessità disperdendo i dati della sua
preoccupazione e del dubbio lungo vari capitoli, fino alla condanna
finale. In mezzo stanno i grandi «murales»
dove
tutto si mescola, uomini e animali, vegetali e cose, realtà
e irrealtà. Il risultato è la creazione di un
ambiente magico i cui colori, caldi o sfumati, restano
inconfondibili nella narrativa ispano-americana.
Per rendere la
magia del mondo che intende celebrare Asturias ricorre
all'enumerazione, a un'aggettivazione sapiente, alla comparazione
frequente. Non di rado egli ricorre anche al contrasto. Al
paesaggio autunnale, con germi di rovina ineluttabile, della prima
pagina, segue la descrizione delle Ande Verdi, «cerros azules
perdidos en las nubes»
597,
tra «siembras y
resiembras de lo bello, flores sean dichas, de lo dulce, frutas
sean dichas, dicha sea todo [...]»598
.
A questo paesaggio di sogno, a quello che si presenta agli
invasori, al mondo che gli spagnoli sognano, tra tronchi d'alberi,
montagne verdi e oscuri precipizi, al ricordo ingigantito delle
bellezze della costa marina, si oppone il paesaggio soffocante e
ostile cui è confinato il deposto Signore dei Mam, reso con
più immediato contrasto attraverso il ricordo delle Ande
Verdi, «su ombligo, su
cuna, su juventud, su vida...»599
,
e un'enumerazione di dettagli ostili, parte integrante del nuovo
paese, «su exilio, su
vejez de guerrero-taltuza y acaso su
muerte»
:
«[...] la selva cálida, húmeda, el agua podrida, la sabana sin fin, los micos sociables, los monos peludos, las serpientes de barbas amarillas, los venados, las ciudades de piedra blanca, sin desenterrar, la escalofriante esgrima de los colmillos de los jabalíes, el retemblar de la selva y el atronar de los árboles, palmeras, escobillos, guamales, derribados al paso de las dantas que se abren camino en lo más intrincado del bosque [...]»600. |
L'enumerazione minuta di animali, vegetali, insetti, attira Asturias, talvolta, a giochi di parole che, se non aggiungono nulla alla bellezza della pagina, valgono tuttavia a mostrare ancora una volta le capacità inventive, di fantasia e di linguaggio, dello scrittore, il godimento che egli esperimenta nella creazione601.
Il clima indigeno è risuscitato con viva aderenza soprattutto mediante l'adozione di forme espressive tipiche della mentalità aborigena. Nel capitolo sesto il dialogo tra Caibilbalán e i guerrieri, che gli rimproverano il rifiuto della guerriglia, quindi la perdita della nazione, è tutto modellato sull'allusione e sull'impiego, in questo senso, della metafora, sul ricorso alle formule rituali che, tra ripetizioni ed espressioni formali di deferenza, sono già evidenti nel Rabinal Achí, in uno stile che nulla dice direttamente, caratteristico del formalismo indigeno. Il clima tragico dell'epifania del popolo Mam è reso pateticamente attraverso le reiterazioni della lamentazione funebre per l'eroe Chinabul Gemá, caduto in combattimento. L'accento dell'epopea si converte, qui, in quello più toccante dell'elegia e la prosa di Asturias risuscita i ritmi solenni e assai intimi della poesia india, nella celebrazione dell'eroe, che nella sventura trova la sua grandezza. Neruda ha scritto, nel Canto General, che l'uomo è più grande del mare e delle sue isole602; Miguel Ángel Asturias proclama la sua grandezza in accenti non meno profondi, ricreando la suggestione poetica che procede dalle ripetizione rituali proprie dei canti «náhuatl» per gli eroi defunti:
«-¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!... El grito se pierde en la planicie. Es inmensa la planicie, pero es más grande el héroe. -¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam! El grito se pierde en las cumbres. Es inmenso el Ande. Son inmensos los Cuchumatanes, pero es más grande el héroe. -¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!... El grito se pierde en el cielo. Es inmenso el cielo, pero es más grande el héroe»603. |
«[...] Suena el agua subterránea, como si fuera llanto el eco de los pasos del Señor de los Andes Verdes, al ir subiendo con los despojos de Chinabul Gemá hacia lo más alto del país Cuchumatán [...]. -¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!... El grito se pierde abajo en los barrancos. Son inmensos los barrancos, pero es más grande el héroe. -¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!... El grito se pierde en lo más alto de los Cuchumatanes, mientras sube el cuerpo del héroe en brazos de Caibilbalán, cubierta la faz ensangrentada por el plumaje verde del ave de los libres. -¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá!... El grito se pierde en las cumbres repetido por el eco, la tempestad y el huracán. -¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá!... El grito se pierde en el cielo. Es inmenso el cielo, pero es más grande el héroe. -¡Ojos cerrados de Chinabul Gemá! ¡Ojos cerrados del mam!...»604. |
L'unicità dell'eroe è resa attraverso la serie delle comparazioni con le espressioni caratterizzanti e mitiche della natura guatemalteca, soprattutto nella menzione del cielo, che conclude i due momenti della lamentazione, a sottolineare le raggiunte categorie divine del defunto.
Il tono dominante
di questa prima parte di Maladrón è di piena poesia. Asturias
è, qui, ancora una volta il «Lengua» della sua
gente; attraverso la sua parola la storia si trasforma in favola,
in magia, con toni religiosi. I dati temporali sfumano in un
momento vago, le origini della Conquista, che non è
necessario né utile fissare in datazioni esatte. La poesia
sgorga da ogni parola, fluisce inarrestabile, permeando esseri e
cose, fauna e flora. Verrebbe da pensare che questa prima parte del
romanzo sia stata concepita prima come poema, quindi prosificata e
continuata con la parte che racconta le gesta del gruppo di
spagnoli alla ricerca della congiunzione istmica, «dónde
según creencias se juntan los Océanos en nupcias de
sal blanca, sin igual»605
,
realizzazione di quella «fábula
verdad»
che, secondo Pedro Paredes, uno del
gruppo, è la caratteristica del mondo americano:
«¡Fábula verdad son estas Indias, islas y tierra firme en que estamos! [...] Tóqueme a mí descubrir el lagrimal por donde los dos mares fluyen, se penetran, se juntan, mezclan sus sales, funden sus colores, reúnen sus peces, aúnan sus corrientes, la del Norte babosa de zargazos, la del Sur amorosa de especias»606. |
Se il tono poetico si mantiene anche nella seconda parte del romanzo, nella prima si potrebbero isolare addirittura sequenze ritmiche numerose. Valga come esempio il già citato inizio del libro.
Lo stesso clima di poesia permea la descrizione del mondo guatemalteco, ripetendo l'atmosfera meravigliosa del Popol-Vuh, ma con originalità di cromatismi delicati, che trasformano i dati della realtà in qualche cosa di magico, di sfumato nell'irrealtà:
«Es la nube terrenal en que nace el maíz. El primer grano de maíz que hubo en la tierra. El puma rosado se refugia en sus colinas antes de bajar el tiempo del cielo. Tempestades blancas. Rebaños de témpanos de hielo. Costas y majestad de mar cubierto por glaciares. Espumas salobres y borrascas de látigos de nieve, antes de bajar el tiempo del cielo al fruto, edad del árbol, del cielo al trino, edad del pájaro, del cielo a la palabra, edad del hombre [...]»607. |
Tra colori e impressioni di luce e di suono sorge il mondo asturiano, sospeso tra l'atmosfera rituale sacra e la realtà trasformata in magia. L'alba è resa come ai primordi della creazione del mondo, in un clima religioso e solenne in cui vibra un sottile lirismo:
«En los fuegos arden las resinas sagradas. El humo blanco de copal masticado por las brasas se alza a saludar la aurora. Espirales que suben en columnas a sostener el cielo, la belleza del día, sus ámbitos, sus benéficos dones. Orientes rosados, cada vez más rosados, cárdenos al rasgarse las neblinas, de fuego y oro al dibujarse el sol. Poco a poco se alumbran las nubes, las colinas, los árboles. Porosidad de los seres para la luz y la tiniebla. Absorben la luz y la tiniebla, como la esponja el agua. No anochece y ya es oscuro el bosque. No amanece y ya es claro el barranco»608. |
Anche il ricordo,
che confina col sogno, trasforma le cose in magia. Blas Zenteno
-«al que llaman
Redoblás, por gigante y hablador»-
suscita un mondo di «golosina»
per
cercar di distogliere i compagni dalla stolta impresa di ricercare
la congiunzione degli oceani. Nella descrizione che egli fa del
clima e dell'abbondanza di frutti della costa Asturias celebra di
nuovo l'unicità del mondo meso-americano:
«[...] clima de pluma de paloma entre palmeras con sombra de pelo de mujer, brisa marina bajo los abanicos de los cocales y a la mano, por el suelo, los cocos, agua y carne de hostia, y las piñas, oro dulce, oro con perfume, y las anonas, piata de sueño, y los plátanos rosados de carne de niño vegetal, y los mangos confitados en trementina, y la caña de azúcar, y los zapotes rojos, y las granadillas, y las tunas, y los nances, y las cerezas, y los membrillos, y los caimitos, y las guayabas, los duraznos, los matasanos y las piñuelas...»609. |
La trasfigurazione
del reale avviene attraverso una serie di metafore, con le quali
Asturias sottolinea le qualità eccezionali di ogni frutto,
un succedersi di aggettivi che sollecitano sensazioni di colore, di
olfatto e di gusto; l'urenza del mondo americano è
accentuata dalla serie anaforica ia cui vengono enumerati i frutti
tropicali. Il «mundo de
golosina»
si presenta totalmente indifeso
davanti all'ingiuria della gente venuta da fuori. L'ordine perfetto
e primitivo di valori positivi viene distrutto; il paradiso
soccombe all'assalto dell'inferno, poiché «¡De otro
planeta llegaron por mar seres de
injuria...!»610
.
3.- La
sconcertante epopea dei cercatori della congiunzione degli oceani
-«Ellos no
querían conquistar, sino descubrir. Descubrir las compuertas
en que el Eterno ordena a los dos grandes bueyes azules
"¡Juntad vuestros testuces!", y los deja uncidos al istmo que
tiene forma de yugo»-611
ha inizio concretamente a partire dal capitolo ottavo. Ángel
Rostro, Duero Agudo, Quino Armijo, Blas Zenteno non sono solo
personificazioni di quanto di negativo rappresenta la Conquista, ma
anche di ciò che di positivo essa significa come spirito
d'avventura, capacità di fantasia -la reviviscenza dei
miti-, esplicazione di coraggio individuale. Nei protagonisti si
compie il primo incantesimo della natura americana sull'europeo. La
loro «locura»
ha
qualche cosa di inevitabile e di voluto al tempo stesso. Gli uomini
che si staccano dal grosso dei conquistatori per seguire la chimera
della congiunzione degli oceani, sembrano vivere in un mondo fuori
del tempo. Le nozioni temporali sono totalmente soppresse; solo
un'ultima notizia li raggiunge, quella della caduta della gran
fortezza dei Mam. Intorno a loro si spezza ogni legame col mondo
concreto dal quale sono venuti. Nel silenzio che li circonda essi
sembrano provare il terrore fisico che accompagna chi si perde in
terre ignote; il terrore storico dell'uomo che sente recisi i
legami col suo passato e si trova solo, in balia delle forze di una
natura sconosciuta, sembra ripetersi. A volte i protagonisti
dell'impresa oceanica sono assaliti dalla «horrorosa duda de
si se habían quedado solos en el mundo, aniñamiento
que les cortaba el resuello [...]»612
;
hanno l'impressione di vivere in una sorta d'incantesimo che
accentua la paura, «condenados a ir a pie hasta el fin de
los siglos por aquel paraíso de lagos y volcanes
[...]»613
.
Per rendere un
mondo così diverso da quello ispanico, sospeso continuamente
tra la realtà e la favola, la cui misteriosa essenza non
può attingere chi viene da fuori ed è, in sostanza,
«bárbaro»
-perché Asturias considera barbari i conquistatori,
paragonata la loro rozzezza alla raffinatezza culturale del mondo
pre-colombiano, che idealizza-, lo scrittore ricorre a tutta la
potenza della sua fantasia, giovandosi ancora una volta della
lezione appresa dal surrealismo, ricorrendo agli elementi onirici,
alle figurazioni più sconcertanti e, per dir così,
«metafisiche»
. I miti
indigeni gli offrono un concreto ausilio, ed egli si attarda con
evidente compiacimento su di essi, con risultati assai notevoli di
srealizzazione del reale. Il mondo che si presenta ai cercatori
della congiunzione degli oceani risuscita in loro le fantasie e le
paure del medioevo europeo dal quale sono appena usciti. Il mondo
indigeno è popolato di esseri vestiti di colori simbolici
incomprensibili «Un hombre
tiñoso, tiña de arcoiris, todos los colores del iris
en las manos y en la cara, un dedo azul, un dedo verde, otro rojo,
violeta la frente, amarillos los párpados, una oreja naranja
y otra oreja celeste, se cruzó con ellos en una ciudad
desierta, deshabitada [...]»614
-, vi si svolgono riti strani e suggestivi, quelli dei «tremolanti»
, adoratori del gran
Cabracán -vulcano-dio, «supremo hacedor de
terremotos»615
,
degli «oscilantes»
,
che pendono dagli alberi a testa in giù -«frutos con
ojos»-616
,
seminascosti tra le fronde di una «ceiba»
enorme,
che popolano di «gorjeos
semejantes a voces humanas»617
.
La fantasia medievale degli scopritori crede di vivere gli
incantesimi dei libri di cavalleria, vede negli uomini «caballeros
desdichados»
ai quali occorre portare aiuto
per rompere l'incantesimo618.
L'equivoco segna
appena la distanza tra un mondo complesso e l'elementarità
degli spagnoli. Nell'America che essi calpestano tutto cela il suo
significato e, ciò nonostante, o forse proprio per questo,
tutto contribuisce a soggiogarli. Non solo gli uomini hanno un
«náhuatl», ma
ogni cosa parla e si anima. Suggestionati dall'ambiente, anche i
cavalli dei conquistatori e quelli dell'ex-pirata Ladrada, ormai
nativi del luogo, intessono una lunga conversazione. L'indigena
Titil-Ic -«Eclipse de
Luna»-619
è l'unico tramite d'intesa tra il mondo indigeno e quello
ispanico. Amante di Blas Zenteno, da lei viene il frutto della
speranza futura; poiché il figlio che dà alla luce
rappresenta la fusione delle due razze. Asturias accetta, quindi,
come fatto positivo il meticciato -né poteva essere
altrimenti-, vi vede, anzi, l'inizio di una promessa grandiosa.
L'indio Gùinakil mormora all'orecchio della donna una frase
che risuonerà più volte nel libro: «¡Todo
está ya lleno de
comienzos!»620
.
Mentre il padre intesse fantastiche chimere intorno al «vástago de
dos razas fundidas ya para siempre como dos Océanos de
sangre, nacido en estas Indias de padre advenedizo y nativa madre,
bajo un cielo que creía estrenar esa noche todas sus
estrellas!»621
.
Gli avvenimenti, magici e reali al tempo stesso, si svolgono sulla presenza dominante di un paesaggio che accentua e rende logico il clima meraviglioso che informa tutto il libro. Miguel Ángel Asturias carica le tinte, le sfuma, ricorre ad accostamenti violenti o a gradazioni evanescenti; alla corposità cromatica si oppone la trasparenza. La sua tavolozza si presenta, in Maladrón, eccezionalmente arricchita e anche per questo il romanzo è un sicuro raggiungimento artistico, mentre segna una svolta decisiva, l'affermazione di una nuova età della narrativa asturiana. Lo si può constatare nei seguenti passi:
«Acampaban en las mesetas. Alfombras de ciruelas, gotas de pintura amarilla, gotas de pintura roja, al pie de árboles exhaustos de cargados. No propiamente ciruelos, sino jocotes, ciruelos de por esas tierras, a cual más rico y perfumado»622. |
«Neblinas rosas, separándose de los nopales, logradas por el naranja y el azul del alba, formas risueñas de la dicha del día, volaban a quemarse en el resplandor del sol, nube de oro sobre las montañas, o en las hogueras de plata roja del vaho de las aguas del "lodo que tiembla"»623. |
«No fatigaba la distancia, sino la geometría. Del claroscuro al claroazul, al claroverde, al claroazulverdeazul, entre lianas y tapices de clorofìlas que caían, independientes de los muros venidos a menos peso al hundir sus reflejos en los espejos del agua abismal, en forma de pliegues de cortinados con ornamentos de cácteas, helechos, orquídeas, hojas pintadas, pájaros, lagartijas, insectos fosforescentes y colgaduras de quiebracajetes que eran como embutidos de trasegar cielo los de bordes azules, de trasegar luz los de bordes amarillos, de trasegar sangre los de bordes rojos...»624. |
Anche il mondo
sotterraneo partecipa di questi colori magici. La statua vivente
del Maladrón -«Señor de nuestra Muerte,
intacta, total, nuestra y sólo
nuestra»-625
,
nella grotta dove Ladrada lo sta scolpendo in legno, per ordine
degli spagnoli, vede un universo caleidoscopico:
«[...] Torrentes de agujas de agua sola. Sola y poblada de verdeoscuros, verdeazules, verdeclaros. Esmeraldas navegables, a dónde me lleváis, a dónde..., si no quiero irme, quiero morir aquí, ser esqueleto verde y no esqueleto blanco como son los huesos de los que mueren en otras latitudes. Esqueleto verde, costillas de esmeraldas, pelo de algas vibrantes, restos frutales en que los insectos que forman el color verde se embriagan de oscuridad y de misterio...»626. |
Nel mondo
americano anche la morte assume un aspetto inedito, diverso,
comunque, da quello tradizionale; al colore livido della
realtà occidentale sostituisce quello di un verde
trasformatore e germinativo. Nel nuovo mondo anche il
Maladrón -«Hijo
legítimo de la materia, Ángel de la Realidad,
Señor de las cosas ciertas»627-
,
sembra non resistere all'attrazione della conservazione, che si
concreta in un panteismo continuamente cangiante. L'America verde
è un miracolo inesauribile, dove anche i minerali hanno vita
e le miniere d'oro sono «piedras de ojos
preciosos»628
.
Al segno della meraviglia, tutto sembra svolgersi fuori del tempo,
in una realtà fantastica, vista come attraverso il fumo del
tabacco -pianta sacra degli dèi-, che «separa la memoria
de las cosas visibles, de los objetos que nos
rodean»
. Ogni cosa si svincola dalle
nozioni temporali, così il ricordare le conversazioni che
Duero Agudo ebbe con il saduceo Zaduc, sulla nave che li conduceva
nelle Indie, e che lo convertì al culto del Maladrón,
del pari la realtà del mondo americano, dove gli spagnoli
esperimentano la sensazione di un viaggio infinito, senza fine
visibile, in una nube di pace senza spazio né tempo,
«en el humo de un
mundo nuevo, sin tiempo, sin
espacio»629
.
Con la
celebrazione della bellezza paradisiaca del mondo meso-americano e
del suo primitivo ordine felice, il motivo dominante di Maladrón è
la condanna della conquista spagnola che tale ordine ha distrutto.
La visione di una Spagna evangelizzatrice è ripudiata
nettamente da Asturias -lo aveva già fatto, del resto, ne
La Audiecia de los
Confines, celebrando il Padre Las Casas-. Della conquista
egli denuncia, in Maladrón, gli aspetti più negativi,
la cupidigia e la violenza. Dopo le scene guerresche -non molte, in
verità, ma efficaci- della conquista delle Ande Verdi e la
sconfitta del popolo Mam, con la presentazione raccapricciante
degli orrori della guerra, l'azione bellica non appare più
in primo piano; nel suo svolgimento è solo uno sfondo vago e
lontano, al di là del panorama verde in cui si muovono i
protagonisti. Permane, tuttavia, il suo significato tragico,
insieme a un'interpretazione sacra del sacrificio umano: «La guerra sirve
para abonar la tierra con seres humanos»
630
. La
figura del Maladrón ossia di colui che sul Golgota
rifiutò la salvezza che il Cristo gli offriva -è il
vero Dio della Conquista.
Il tema del
Maladrón interessava da tempo Asturias, e nella sua opera
compare fin dalle pagine de El Alhajadito, dove era parte di quella
realtà-sogno davanti alla quale il giovane discendente degli
Alhajados esperimentava vibrazioni intime631.
La leggenda del misterioso personaggio agitava il suo animo,
pensando a quel 29 febbraio -data fuori del tempo-, giorno del
Maladrón, in cui la pretesa di fondere una campana,
eccezionalmente preziosa, per glorificare il «Crucificado
materialista que no creyó en el Paraíso, Nuestro
Verdadero Señor y
Padrecito»632
,
fallì, in quanto risultò priva di voce. Le origini
del tema del Maladrón stanno nell'interesse di Miguel
Ángel Asturias per la Historia de los heterodoxos españoles di
Menéndez Pelayo, ma solo nel romanzo di cui trattiamo prende
corpo definitivamente, per condurre alla condanna della Conquista.
Le numerose definizioni del Maladrón -dio della
realtà senza aldilà, distruttore di ogni speranza
umana-, ne vanno configurando la reale sostanza. La maggior parte
degli spagnoli recatisi in America erano, afferma Asturias,
giudaizzanti e tra di essi era presente un gruppo di adoratori del
Maladrón633.
Lo scrittore ha
sottolineato634
che il Maladrón se la ride del paradiso in quanto
materialista, non per beffa. Ma elevandolo a dio della Conquista
egli ne fa un personaggio totalmente negativo, «¡Señor de todo lo creado
en el mundo de la codicia, desde que el hombre es
hombre!»635
.
Il rimprovero che Asturias fa costantemente agli spagnoli è
di aver ripudiato l'insegnamento di Cristo per diventare, secondo
le accuse del Padre Las Casas, che egli fa proprie «tiranos,
robadores, violentadores, raptores,
predones...»636
.
Il Maladrón è il Signore della Conquista «en el doble papel
de incrédulo y
ladrón»637
;
nella mancanza di dimensione umana sta la sua condanna. Quando
Lorenzo Ladrada ne scolpisce la figura lignea per conto di Agudo al
fine di obbligare gli indios «tremolantes»
a
rendergli culto, lo modella a propria immagine e somiglianza, ossia
guercio, e lo condanna per l'eternità predicatore della
materia:
«[...] tú seguirás despierto enseñando que el hombre es sólo una mezcla de sustancias vivas, hecho no a semejanza de Dios, sino a imagen y semejanza de los metales, los vegetales, los animales, el agua y la tierra que lo componen»638. |
La condanna della materia bruta non poteva essere più netta da parte di Asturias, per il quale tutto, anche le pietre, ha un'anima. Il ripudio e la distruzione della croce del Maladrón, l'uccisione di coloro che ne vogliono imporre il culto, da parte degli indigeni, è la condanna dello spirito negativo della Conquista, realizzata al segno della materia. Giiinakil, infatti, proclama:
«-¡No otra cruz! ¡No otro Dios! ¡La primera cruz costó lágrimas y sangre! ¿Cuántas más vidas por esta segunda cruz? ¿Más sangre? ¿Más sufrimientos? ¿Y más tributos? [...] ¡Oro y martirio fueron pagados, sin tasa ni medida, por el Dios de la primera cruz! ¿Por el barbudo de esta segunda cruz, más carne de trabajo y matanzas?... [...] -¡No habrá segundo herraje ni habrá segunda cruz! Si la primera, con el Dios que nada tenía que ver con los bienes materiales y las riquezas de este mundo, costó ríos de llanto, mares de sangre, montañas de oro y piedras preciosas, ¿a qué costo contentar a este segundo crucificado, salteador de caminos, para quien todo lo del hombre debe ser aprovechado aquí en la tierra?... Si el de la primera cruz, el soñador, el iluso, nos costó desolación, orfandad, esclavitud y ruina, ¿qué nos esperaba con este segundo crucificado, práctico, cínico y bandolero?... Si con la primera cruz, la del justo, todo fue robo, violación, hoguera y soga de ahorcar, ¿qué nos esperaba con la cruz de un forajido, de un ladrón?...»639. |
4.- La presenza
del Maladrón, il lungo discorrere sulla sua figura e intorno
alla sua dottrina, l'improvvisa animazione della scultura lignea e,
in piani remoti, quelli della esistenza reale, improvvisamente
operanti, il racconto di una trista volontà di ripudio della
salvezza, accompagna i protagonisti della ricerca oceanica. Lungo
il loro cammino essi affrontano una serie di problemi che
qualificano in profondità la condizione umana, tra essi il
senso di limite che si coglie nel confronto tra la giovinezza e la
sventura della vecchiaia: di fronte alla gioventù, «dueña de
tantos caminos»
, sta la vecchiaia, «con sólo
el sendero fatal del más allá que se nos torna cada
día, cada hora, cada instante que pasa, en más
acá...»640
.
Sotto il gioco di parole si coglie la serietà di un problema
che ricorre con insistenza nell'opera di Asturias. La corsa del
tempo fa sfiorire progressivamente le illusioni che, con parole di
Antolín Antolinares, «año tras año la vida nos
va cortando o bien se nos mueren en el
cuerpo»641
.
L'infelicità del futuro, chiuso a ogni speranza, è
sentita particolarmente da Ángel Rostro; egli si vede
divenuto nemico di se stesso, perché vuol prolungare la
propria vita, al fine di differire una morte senza aldilà:
«vuéltome
yo mi enemigo, mi contrario, sosteniéndome el vivir por
dilatar mi muerte sin
esperanza...»642
.
Il problema dell'esistenza dell'anima è dibattuto, quindi,
dal medesimo personaggio, con argomentazioni ed esempi fondati
sulla sua professione di soldato:
«Y si en un ejército hay diferencias y contradicciones tenedlo por demasiada probanza de que el alma existe, pues de no hacernos Dios tan grande merced, obedeceríais como irracionales...»643. |
Sembra un passaggio di Quevedo, che anche lo stile richiama. Nonostante il suo materialismo neppure Antolinares riesce a distruggere il dubbio intorno all'eternità:
«Empero, la duda se me aposenta y nada por el cuerpo en lo de la eternidad. No me resigno a no tener eternidad, ¡maldita sea!»644. |
Benché
Duero Agudo tenti una spiegazione materialista -«el hombre tiene
eternidad, no como prolongación de su persona, de su unidad,
pero sí como prolongación de sus desintegraciones
infinitas de la plural armonía de sus
secuencias»645-
.
Dio è anch'esso presenza tormentosa, soprattutto
perché «puede
decirse de Dios lo que no es, no lo que
es»646
.
La negazione dell'esistenza dell'aldilà è ciò
che più fa paura a Zenteno, per il quale il tempo è
l'unica cosa incorporea, mentre tutto il resto è «real, material,
corpóreo»647
.
È tanto il dubbio, tanta la paura intorno a questi problemi,
che gli adoratori del Maladrón esaltano ed apprezzano del
loro dio il coraggio avuto nel resistere a ogni attrazione di
permanenza futura, «al no
dejarse arrastrar al espejismo del más allá, para
erguirse y afirmar ante la muerte que allí acababa
todo»648
.
La situazione
reale del gruppo di spagnoli è riassunta efficacemente da
Antolín Antolinares allorché afferma che «Da más
miedo la vida que la muerte en los
ajusticiados»649
,
precisamente per la fine miserabile dell'uomo nella materia. La
concezione cristiana dell'inferno diviene ben poca cosa di fronte a
ciò che attende il materialista. Afferma Duero Agudo:
«A todos, a todos nos arredra no seguir como personas en una segunda vida. El infierno comparado con el absoluto fin que nos espera no es nada. En el infierno, al menos, seguiríamos siendo nosotros»650. |
La condanna del
Maladrón sta nella solitudine, che procede dall'aver
distrutto la speranza nell'eternità: «[...] solo, completamente solo
(la soledad de la materia infinita, y él no era más
que materia, sustancia, naturaleza)
[...]»651
.
In fin di vita Antolín Antolinares torna a pensare all'anima, riconoscendone la qualità suprema:
«[...] el alma qué haría en este caso... alguna mafia... el alma es mafia... es lo mafioso del hombre y por eso vale más alma que cuerpo, ¿más vale mafia que fuerza...? [...]»652. |
I protagonisti
della ricerca della congiunzione degli oceani si perdono, tra
l'affermazione della materia e il tormento del dubbio
sull'aldilà. In essi fallisce, simbolicamente, la conquista.
Miguel Ángel Asturias ne stabilisce la condanna. L'ultimo ad
essere vinto è Antolín Antolinares Cespedillos,
sfuggito alla giustizia degli indios «cabracánidas»
, insieme al
figlio bambino, alla concubina, Titillo, e a Lorenzo Ladrada. Il
miraggio della scoperta della congiunzione oceanica sembra ad un
tratto prendere realtà. Ma da questo momento è come
se la pazzia si accentuasse nello spagnolo; smanioso di precedere
Ladrada nella comunicazione ufficiale della scoperta, egli fugge
per giorni e per notti, finché, distrutto dal «palmito»
,
conclude miseramente un'esistenza che sembra realmente consumarsi
nella materia più infima. Miguel Ángel Asturias si
attarda compiaciuto a distruggere, in un gioco divertito, il
personaggio, presentandolo nel tormento di «retortijones»
,
«pedos»
e
diarrea653.
Quando, alla fine, Ladrada lo ritrova per condurlo nella strana
fortezza con sembianze umane che sorge nel deserto -«[...] una fortaleza cuyo
frontis semeja la máscara de un guerrero soterrado, no hasta
los fosos, sino hasta las fosas nasales, balconadas por
pómulos y de lado y lado de la puerta, repujamientos que
corresponden a las orejas del
casco»654-
,
la morte è già scesa su di lui. Lo scrittore insiste
quevedescamente sui particolari della distruzione organica
dell'uomo, con un senso così spietato della miseria umana
che ricorda taluni quadri di Valdés Leal, in particolare
quello terrificante delle Postrimerías:
«[...] ya había empezado en su vientre el baile de los gusanos diligentes [...] Allí ya se lo estaban comiendo hormigas, mariposones, sabandijas, cascarudos y moscas verdes»655. |
Con questa insistenza sui particolari più macabri, sui quali, tuttavia, versa parte della sua magia colorista, lo scrittore mira a rendere il limite infelice dell'uomo, soprattutto di chi non ha ancora risolto il problema tra lo spirito e la materia, tra l'eternità e il nulla.
Maladrón si chiude
sulla scomparsa di tutti i protagonisti della «locura»
avventurosa della ricerca oceanica. Solo Lorenzo Ladrada, -pirata e
assassino, padrone di immense ricchezze dopo aver ucciso il suo
padrone, Escafamiranda-, si salva dalla fine generale. Ma in
sé egli reca l'infelicità della solitudine, frutto
della sua condotta legata unicamente alla materia. La sua ricerca
del figlio di Antolinares e della moglie di lui, che vorrebbe
tenere con sé, è in funzione della liberazione dalla
solitudine «[...] la
amaba (Titil-Ic) porque se sentía solo, inmensamente solo en
aquel mundo de golosina [...]»656-
;
il ripudio di Dio e la sfiducia nel demonio lo conducono alla
disperazione e alla pazzia, finché, dopo un inutile
tentativo di introdurre la propria voce nel dialogo che si svolge,
nella cappella del castello-fortezza, tra un Canonico e il defunto
Antolinares, accomunati in dissidio nello stesso avello, finisce
per abbandonare il teatro di tanti accadimenti, su una «yegua color de
sal»
, dirigendosi verso il mare: «Necesitaba la
inmensa soledad del océano»657
.
Maladrón conclude, come
era iniziato, con una sconfitta: agli inizi del libro è il
mondo indigeno a soccombere; alla fine sono gli spagnoli,
avventurieri che il mondo americano sembra espellere come per una
reazione di rigetto. È la rivincita dell'America
sull'Europa; il figlio di Titil-Ic e di Antolinares, ciò che
resta di positivo in vista del futuro -«¡Todo
está ya lleno de
comienzos!»658-
viene fatto scomparire dagli indigeni, riscattandolo alla propria
razza. Il castello-fortezza surreale dove risiede Lorenzo Ladrada,
sembra rappresentare il simbolo di un momento di raccoglimento
necessario perché passato e presente possano iniziare un
colloquio teso verso l'avvenire:
«El viento sopla por las troneras, mientras al silencio misterioso del ayer y el más allá, se abren las venas de la memoria y sangran recuerdos que seca la calcinada soledad en las estancias, los patios, los sótanos, las torres, sin alma viviente»659. |
La frase
ricorrente, «¡Todo
está ya lleno de
comienzos!»660
,
finisce per assumere un carattere emblematico nel libro. Il mondo
indigeno penetra quello ispanico, si prende la sua rivincita, lo
sottomette senza ripudiarlo e lo apre, in una raggiunta sintesi, al
futuro. Quando Lorenzo Ladrada, unico superstite di quel manipolo
di «seres de
injuria»
venuti dal mare e perdutisi tra le
Ande Verdi, si dirige verso la costa oceanica, un altro capitolo si
inaugura nella storia d'America, quello del meticciato. Il mondo
vinto rivive concretamente fondendosi con quello ispanico,
insinuando in esso i caratteri determinanti della propria
unicità.
Maladrón è, in definitiva, più che un libro di catastrofi e di rimpianti, un romanzo aperto alla speranza e un'affermazione ulteriore della grandezza del mondo meso-americano in quanto esso rappresenta di valori spirituali. Alla catastrofe che domina tante pagine si oppone la certezza in un futuro di segno positivo. Che non è ancora il presente vissuto dallo scrittore, ma che deve venire, in quanto gli anni seguiti alla Conquista, sulla quale il libro si chiude, non ne hanno posto che le premesse.
La traiettoria di Asturias sembrerebbe concludersi in questo clima delle origini pienamente ritrovato, ma il suo affondare nel labirinto magico che costituisce l'essenza spirituale della sua terra è solo il punto di partenza per l'affermazione di un nuovo momento della sua narrativa. La prodigiosa facoltà di rinnovamento che più volte ho sottolineato661 viene confermata da Maladrón, col quale si apre un nuovo momento di singolare valore nell'opera di questo scrittore662. La prova alla quale la critica lo attendeva, dopo il Premio Nobel, è superata pienamente, e lo dimostra anche il nuovo romanzo Viernes de dolores (1972).