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La commedia romantica in Spagna

Ermanno Caldera



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ArribaAbajoPremessa

La causa dello scarso interesse fino ad oggi dimostrato dalla critica per la commedia romantica è da ricercarsi non tanto in una improbabile disattenzione degli studiosi, quanto in una tradizione -forse più vulgata che critica ma in ogni modo invalsa anche a livello di cultura specializzata- che tende a circoscrivere il fenomeno romantico ai languori, alle effusioni del sentimento, agli scoppi della passione, che accetta come componenti essenziali del movimento la malinconia, il dolore, il rimpianto, il sogno e via dicendo; e che pertanto rifiuta di collocare nella medesima prospettiva storica il riso, la battuta allegra, la satira sociale, o più semplicemente le comuni vicende della vita quotidiana.

Nella fattispecie, mentre è pacifica la qualifica di «romantico» attribuita alle tragedie e ai drammi -dell'Hugo, dello Schiller, del Manzoni o, per quanto concerne la Spagna, di García Gutiérrez, di Martínez de la Rosa, del Duque de Rivas, di Hartzenbusch -è ben raro che vengano definite parimenti romantiche le commedie che si scrissero nella stessa epoca, talvolta ad opera degli stessi autori di opere «serie».

Non consta infatti che si siano mai indicati come apertamente inseriti nel romanticismo né Scribe, né Giraud, né Bretón de los Herreros, le cui commedie erano pure ascoltate e applaudite da quelle stesse generazioni le quali, in altre circostanze, amavano piangere sulle dolorose vicissitudini di Ernani, di Adelchi o degli amanti di Teruel. Nel caso specifico della letteratura spagnola si suole anzi relegare al rango di opera non solo «minore» (il che in molti casi risponde a una realtà estetica) ma anche priva di una vera collocazione storica (quando, per esempio, si definisce moratiniana o neoclassica una commedia degli anni Trenta) la produzione comica di autori celebri per i loro drammi appassionati come Martínez de la Rosa, Larra, il Duque de Rivas.

Al contrario, si giudica alla stregua di un capriccio l'eventuale incursione di un commediografo nel campo del dramma sicuramente romantico: valga il caso di Bretón che non esitò, egli stesso, a definire la sua Elena come una momentanea concessione alla moda imperante1. Si tratterebbe insomma di commedie scritte in epoca romantica ma che, non senza contraddizione, non potrebbero considerarsi come propriamente appartenenti alla corrente letteraria da cui l'epoca stessa prese il nome.

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Eppure tanta diffidenza e perplessità nei confronti di un eventuale versante comico dello spirito romantico contrasta con l'interesse che gli stessi teorici riconosciuti del movimento mostrarono per il problema del riso.

Anche a voler prescindere dalla ben nota «ironia romantica» di ascendenza idealistica (la cui presenza lievita tuttavia nel sottofondo degli scritti comici e satirici del primo Ottocento), non è possibile ignorare Kant che al riso dedica alcune pagine della Critica del giudizio, parlandone fra l'altro come di «un'affezione, che deriva da un'aspettazione tesa, la quale d'un tratto si risolva in nulla»2, ossia facendo ricorso a una definizione che pare attagliarsi ottimamente alla commedia; né Richter, il quale -sulla scia di Schelling che pure si era occupato della questione- contrappone il comico al sublime, gettando così le basi di una distinzione, più rigorosa di quella aristotelica, fra commedia e tragedia, ma che, soprattutto, parla esplicitamente di una comicità romantica la quale attinge, a modo suo, quel carattere di infinità che è proprio del movimento3; né infine gli Schlegel, i teorici per antonomasia: Augusto, che identifica lo stato d'animo comico con il desiderio di dimenticare la malinconia e godere della felicità presente, e Federico che proclama l'istanza di veder rappresentato il grande gioco della vita4.

Basterebbero questi pochi cenni per convincerci dell'opportunità e della validità storica di una trattazione dedicata alla commedia romantica, la quale non può non configurarsi come quella in cui gli scrittori, che per varie ragioni sogliamo definire romantici, riversarono, consapevoli o no, le istanze proprie del loro tempo.

In questo caso, infatti, l'aggettivo («romantico») storicizza e sospinge verso un'analisi più interna e più sicura, laddove il sostantivo («commedia») -preso a sé o diluito in una generica collocazione temporale- finirebbe per proporre un fantasma metastorico.

Certo, una qualche definizione del concetto di «commedia» si rende indispensabile per avviare un discorso che abbia un minimo di fondamento; ma, anche in questo caso, la sola metodologia pertinente è quella di un'opposizione, rigorosamente diacronica, fra la commedia e il dramma della stessa epoca. Opposizione invero non   —15→   sempre agevole, a causa della labilità di una linea di demarcazione fra i due tipi di opere teatrali, sebbene non manchino casi in cui la distinzione è intuitiva e immediata.

Egrave; chiaro, per esempio, che fra La Conjuración de Venecia ed El marido en la chimenea, che Martínez de La Rosa scrisse pressappoco negli stessi anni, l'opposizione è totale, grazie al rilevante divario che intercorre fra modelli estremi: la «tragicità» dell'uno e la «comicità» dell'altro sono infatti addirittura paradigmatiche.

Ma logicamente tale distinzione si fa subito meno palese quando ci si sposta verso le zone intermedie; quando, per fare un altro esempio, il raffronto venga istituito con Lo que puede un empleo, opera di fondo serio ma tuttavia percorsa da un'ininterrotta vena di riso, o con La niña en casa y la madre en la máscara, in cui non solo sono pressoché assenti il riso e i toni gioiosi, ma la nota dominante è quella della meditazione e della dolente malinconia. È vero che in questi casi ci soccorre l'autore stesso il quale, definendo comedias le due opere, ci offre almeno la possibilità di collocarci nel suo punto di vista; ma non si può dire che un tale criterio riesca del tutto soddisfacente né che sia applicabile in ogni caso5.

Occorrerà dunque tener conto anche di altri elementi che non siano quelli classici del riso e della giocondità. Più pertinente, sebbene non determinante, può essere il criterio della distinzione per ambienti sociali, poiché è innegabile che i romantici spagnoli (e non spagnoli soltanto) ereditarono dal neoclassicismo la tendenza a collocare per lo più i loro drammi in ambienti elevati e a fare protagonisti delle loro commedie personaggi della media e alta borghesia.

Ma più ancora lo è il criterio della storicità della commedia, a fronte della sostanziale astoricità dei drammi. Questi ultimi, benché «storici» per definizione, si librano infatti nell'atmosfera vaga di una leggenda fuori del tempo e dello spazio; al contrario, la commedia si muove, richiamandola continuamente, nella realtà presente, di cui riproduce gli umori e le istanze, i tormenti e le ubbie. Si tratta di una storicità che, nei momenti di maggior libertà di pensiero, conduce a vere e proprie prese di posizione morali e politiche, mentre, imperando l'oppressione e la repressione, sfocia in una moralità più generica che spesso tiene il luogo di un impegno reso impossibile dalla durezza dei tempi.

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Proprio perché immersa nella storia, la commedia romantica (sulla scia di quella neoclassica che le funge da modello) dibatte problemi, censura vizi, propone soluzioni e comportamenti; in altri termini, si fa eco di talune esigenze proprie dei tempi che il dramma sistematicamente ignorò in quanto si rivolgeva a un'altra sfera di istanze altrettanto incalzanti.

Commedia e dramma venivano dunque a interpretare le due anime del romanticismo: quella cosiddetta «realistica», ricca di impegno politico e civile e insieme raccolta, amante dell'intimità e della semplicità; vagamente conservatrice nella ricerca pseudo-rousseauniana del buon tempo antico; gelosa dei valori tradizionali (trono e altare, patria e famiglia, ma anche amicizia, fraternità, amore) fino al misoneismo e all'oleografia; e quella che potremmo definire «lirica», sognatrice e ribelle; nutrice di cospiratori e di amanti appassionati; proiettata verso un passato vago e indefinito; notturna e lunare quanto quella era diurna e solare.

Ma entrambe le anime ebbero in comune il tormento della comunicazione fra gli uomini, l'aspirazione all'amore puro e disinteressato, il sentimento del fluire del tempo, l'ansia di ricerca di un assoluto e pertanto il rifiuto del compromesso e il trionfo del senso del dovere. Ciò che varia è naturalmente la prospettiva e, per quanto riguarda il teatro, la scelta delle situazioni e dei personaggi che di tali sentimenti e di tali problemi si rendono interpreti. Sotto questo profilo, alla commedia va il merito di aver divulgato l'essenza del romanticismo mostrandone la realizzazione -e pertanto la realizzabilità- ai livelli più quotidiani (non «sublimi», per dirla con Jean Paul) dell'esistenza e, conseguentemente, indicandone certi limiti oltre i quali stanno in agguato la scarsa credibilità dell'eccezionale o la risibile singolarità o, infine, la comicità dell'assurdo.

Due brevi avvertenze

I limiti cronologici di questa indagine sono il 1762, l'anno della Petimetra, e il 1840, l'anno del Pelo de la dehesa e del Cuarto de hora: opere che, nella prospettiva di questo studio, possono assumere il valore di premessa e di conclusione o di punto d'arrivo della commedia romantica. Mi sono permessa una sola incursione nel periodo successivo, per dedicare una qualche attenzione al Don Frutos   —17→   en Belchite; a parte il significato di verifica di talune precedenti asserzioni che attribuisco all'analisi di quest'opera, mi pareva che, senza un richiamo al suo proseguimento, l'indagine sul Pelo de la dehesa sarebbe apparsa monca.

Le due date possiedono anche un significato storico-politico, poiché racchiudono un periodo compreso fra l'ascesa al trono di Carlo III (1759) e l'abdicazione di Cristina (1840): due avvenimenti di non trascurabile portata che dovettero per forza di cose assumere un significato anche nella storia delle idee e della cultura in genere.

Considero il presente saggio alla stregua di un parziale proseguimento del mio precedente lavoro dedicato al dramma romantico. Tralascio pertanto molte considerazioni (soprattutto per quanto concerne l'interpretazione del romanticismo, le teorizzazioni e le refundiciones) che già compaiono in quel libro, al quale naturalmente rinvio.





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ArribaAbajoParte I

Verso la commedia romantica


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ArribaAbajoCapitolo I

Il cinquantennio preromantico (1762-1812)


La commedia propriamente romantica sale alle scene negli anni Venti e Trenta -pur con sostanziose anticipazioni negli anni Dieci- e si identifica soprattutto con l'opera di Bretón de los Herreros, che appunto fra il 1825 e il 1840 offre il meglio di sé.

Ma, a ben guardare, essa è il risultato e lo sbocco di un intenso lavoro di rinnovamento teatrale e di presa di coscienza critica che si snoda durante la fase di maggior produttività del teatro neoclassico: quella che possiamo, grosso modo, racchiudere fra La Petimetra (1762) ed El sí de las niñas (1806), ma che potremmo estendere fino alle soglie del 1812, in cui la nuova situazione politica offre lo spunto a una commedia più profondamente calata nella problematica politica e sociale del tempo.

I neoclassici, nel loro illuministico rifiuto dei convenzionalismi -da quelli della comedia antigua, calderoniana in specie, a quelli delle forme più in voga nel Settecento, commedia lacrimosa, di magia, di grande spettacolo- e nelle loro preoccupazioni riformistiche -che li inducevano a portare sulla scena i problemi della loro società- furono gli iniziatori di un modo nuovo (nuovo rispetto alla tradizione secentesca) di intendere e di realizzare il teatro. E se le attuazioni pratiche furono spesso deludenti, ciò si deve in gran parte al carattere, per l'appunto sperimentale, delle loro opere che non potevano non procedere a tentoni ed erano spesso frenate o fuorviate, nel loro aspetto più propriamente teatrale, dalle pregiudiziali intenzioni riformistiche.

Per tali ragioni, una pieza così fredda e scipita come La Petimetra ci riesce ugualmente di grande interesse grazie alla sua particolare funzione di punto di rottura con la comedia antigua e di apertura verso nuove prospettive. Nicolás Moratín, in accordo con le esigenze dei tempi e secondo un'inveterata consuetudine, chiedeva alle commedie di essere scuola di moralità e molte rimproverava proprio perché non adempivano a tale funzione:

La instrucción moral, que es el alma de la Comedia, pocas son las que la tienen, siendo circunstancia esencialísima.6


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Ma, richiamandosi ad Aristotele, tale moralità faceva discendere dalla vivezza della rappresentazione e da una sorta di contemporaneità dei fatti narrati, che ad essi prestava l'indispensabile credibilità:

Observó Aristóteles, que la representación es una imitación de la realidad, y no como la Historia nos refiere lo passado; sino con más viveza nos hace ver lo presente en el theatro, y haciéndonoslo creer con artificio, nos interesamos más en el suceso, y purgamos las costumbres, y corregimos nuestra vida.7


Proclamava infine -per la sua commedia ma con l'evidente intenzione di formulare una teoria generale- l'esigenza di una cartesiana semplicità della trama e del linguaggio al fine di raggiungere la tanto sospirata verosimiglianza:

No imagine nadie hallar en mi Comedia tantos enredos como en otras, pues el tiempo, ni el parage inmutable no lo permiten, ni fueran verisímiles tampoco. Menos se encontrará aquel estilo sublime, y elegante, pues yo nunca le tuve, ni aunque le tuviere le usara en la humildad de una Comedia.8


Non si tratta, come si può facilmente constatare, di opinioni particolarmente originali che distinguano Moratín padre dalla congerie dei contemporanei che tanti dibattiti svolsero intorno a questioni di teatro. Senonché Moratín, a differenza di quelli, tentò di proporre all'attenzione della critica un'opera programmatica che traducesse in pratica le sue teorie.

Nelle intenzioni dell'autore, La Petimetra doveva precisamente rappresentare un momento di distacco, quantunque moderato, dalla tradizione:

Heme apartado -dichiarava nella nota introduttiva- de los comuníssimos [asuntos] que tenemos, donde todos son enamorados, duelistas, y guapetones, pero tampoco lo he olvidado del todo, por ser del gusto, y carácter, de la Nación (... ) La instrucción Moral está patente, sin que haya multitud de sentencias, por no incurrir en el delito de Séneca.9


Non si può negare che la commedia risponda sostanzialmente a questo   —23→   programma. Lo schema ricalca bensì quello della tradizionale comedia de enredo, ma viene piegato a significati etici, di un'etica sociale (o che tale aspira ad essere) ben consona alla cultura del tempo.

Due galanes -questo, in breve, il contenuto dell'opera- Damián, concentrato di tutti i vizi, nella prospettiva dell'epoca, sociali e personali (è povero, superbo, vigliacco ecc.) e Félix, che, all'opposto, è ricco, coraggioso e via dicendo, corteggiano due cugine in cui si ribadisce lo stesso tipo di opposizione: Jerónima, che è una povera e superba petimetra, e María, che unisce alla ricchezza l'umiltà. Dopo alterne vicende e non pochi equivoci, Félix impalma María, con reciproco giubilo, mentre Damián è costretto a sposare Jerónima, con scorno di entrambi. Secondo la tradizione, convolano a nozze anche il servo e la serva.

Come si vede, le coppie classiche del siglo de oro -galán-dama, contragalán-contradama- sono assunte a campioni di comportamento sociale positivo e negativo10: il matrimonio, di conseguenza, non è più la logica conclusione di un'intensa lotta per la conquista dell'oggetto amato -come accadeva presso i neoplatonici secenteschi- ma il premio o il castigo (sociali anch'essi) dei suddetti comportamenti.

Il grave inconveniente è che Moratín, afferrato dai suoi intenti educativi, non esita, in contrasto con le affermazioni della premessa, a cadere nel «delitto di Seneca» e infarcisce il lavoro di lunghe e noiose tirate moralistiche. Al contempo perde di vista lo scopo principale della commedia che è evidentemente quello di interessare e di divertire, magari anche di far sorridere: uno scopo che gli scrittori del secolo precedente ben di rado avevano dimenticato.

La nuova commedia nasceva dunque aduggiata dal moralismo e troppo scopertamente pedagogica11. Ma indicava una strada lungo il cui percorso il piatto moralismo moratiniano si sarebbe gradualmente mutato in vera problematica, in rappresentazione attenta della   —24→   società, in analisi dei sentimenti; ricuperando, in tal modo, quella carica di interesse che la commedia barocca aveva attinto con altri mezzi. Nel contempo, suggeriva l'impiego di un linguaggio quotidiano, lontano tanto dalla retorica altisonante delle tragedie neoclassiche quanto dall'abusato discreteo delle commedie secentesche12. Infine, lasciava perfino trasparire quel tormento della comunicazione che era destinato a occupare sempre più un posto di rilievo fra le tematiche della commedia ottocentesca. Anticipando tante altre eroine, esclama infatti la protagonista María:


¡Oh, mal haya el que primero
reputó por liviandades
el que las mujeres sientan
y que lo que sientan hablen!


(II, 1, p. 72 c)                


Il programma moratiniano ebbe, com'è noto, l'appoggio ufficiale del governo nella persona del Conde de Aranda: giustamente infatti vi si vedeva un atteggiamento riformistico consono alla politica instaurata sotto Carlo III. Tale appoggio ufficiale apparve in certo modo ribadito quando, circa vent'anni più tardi, venne premiata, in pubblico concorso, la commedia di Trigueros, Los Menestrales (1785), che chiaramente proseguiva sul cammino aperto da Nicolás Moratín.

Trigueros accentuava gli intenti pedagogici e le preoccupazioni sociali del suo predecessore: nella sua commedia presentava un sarto, Cortines, che, ossessionato dall'idea di acquisire in qualche modo la nobiltà, si lascia irretire da un ex calzolaio fintosi barone, al punto da promettergli in sposa la propria figlia. La provvidenziale scoperta dell'inganno lo salva all'ultimo momento e lo redime dalla sua mania. Parallelamente si svolge l'azione di un nobile autentico, ma decaduto e squattrinato, Pitanzos, il quale si convince della necessità di rinunziare alla boria aristocratica e di intraprendere un mestiere13.

  —25→  

Il concetto dominante nella commedia è che


Todo oficio
da honor al que le exerce como honrado


(III, últ., p. 117)                


e che anzi


la nobleza
se funda en la virtud y en el trabajo


(ibidem, p. 120).                


D'altronde Trigueros, nella prefazione all'opera, è assai esplicito al riguardo. Avvertita l'esigenza pregiudiziale di essere «agradable y útil» e premesso che

Este objeto puede conseguirse si se hace en los Dramas una viva pintura de las costumbres perjudiciales, presentándolas por el lado que pueden excitar la risa;


esprime la sua disapprovazione per «el poco aprecio con que se han mirado las Artes y los Artistas» e per quegli artigiani che «por deseo de ser más, descuidan, o desamparan sus oficios»14.

L'intento pedagogico è dunque scoperto e anche qui, come nella Petimetra, soffoca o rallenta l'interesse per l'azione la quale procede a fatica nonostante che l'autore faccia ricorso, per ravvivarla, a elementi coreografici, a musiche e canti e così via15. Ciò che conta tuttavia è che, per la prima volta, un problema sociale incalzante di particolare rilievo16 -ben superiore a quello rappresentato dal fenomeno dei petimetres- costituisca l'essenza di un'opera teatrale.

Da questo momento gli autori fanno a gara a portar sulle scene   —26→   un campionario abbastanza vasto dei vizi che maggiormente impediscono l'armonico sviluppo della società civile: vizi pedagogici, che determinano storture di comportamento; vizi letterari, teatrali in particolar modo, che turbano lo svolgimento della missione propria di ogni attività artistica; vizi che riguardano anche più direttamente la convivenza in seno alla società, come certe distorte concezioni del rapporto fra autorità e libera scelta individuale, o il problema dell'emancipazione femminile e del rapporto fra i sessi.

Nel medesimo tempo, tuttavia, si fa strada in loro la coscienza che il teatro non si può ridurre a una trattatistica di problemi ma che occorre rispettarne la funzione essenziale e i tratti specifici.

La prima lezione in questo senso viene da Iriarte che, fornito di un'autentica sensibilità teatrale (quella che mancava notevolmente ai suoi predecessori), trasforma la tesi didascalica in una vera funzione della commedia. Bersaglio di El señorito mimado (1788) e di La señorita mal-criada (1791) è l'educazione lassista di cui le due commedie intendono mostrare i gravi inconvenienti. Ma l'autore se ne giova per delineare con particolare efficacia alcuni caratteri: nella prima quello del protagonista, Don Mariano, protervo e gelido, senza altro sentimento che quello del proprio benessere; e quella di sua madre, Doña Dominga, cieca nella sua morbosa trepidazione per assecondare il figlio; nella seconda, quello di Pepita, viziata e insofferente di ogni limite che impedisca il libero espandersi dei suoi capricci.

Anche certi espedienti scenici, come raggiri e lettere falsificate, acquistano una loro funzionalità in quanto appaiono bene idonei a suggerire l'idea del mondo furfantesco in cui i due protagonisti si lasciano invischiare.

Il sentimento non fa ancora il suo ingresso in queste opere o vi si affaccia semplicemente; notevole è invece l'assenza del sentimento che si avverte come un greve peso su tutta la commedia e che è il tratto più caratteristico dei protagonisti. E come una pena del contrappasso per questa loro carenza, a entrambi viene negato, in maniera emblematica, l'amore: a Mariano, le dissipazioni e le truffe di cui si è macchiato, nonché i suoi illeciti rapporti con una vedova di dubbia moralità, finiscono per alienare l'amore di Flora che sposerà un giovane dabbene; Pepita, perduto il sedicente Marchese rivelatosi un truffatore, ripiega su quell'Eugenio che prima le riusciva tanto tedioso, ma questi, ormai disilluso, la respinge.

Così la conclusione senza matrimoni -opposta ai consueti finali   —27→   delle commedie «antiche» e destinata a riaffiorare di tanto in tanto nel teatro successivo, soprattutto in Bretón -acquista un significato che va oltre il valore di un originale espediente17.

Nel medesimo tempo prosegue e si rafforza, sulla scia di Trigueros e parzialmente di Moratín padre, la figura del furfante, sulla quale l'ottimismo illuministico scarica la porzione di male esistente nella società e nella cui condanna vede, con sollievo, il ristabilimento della giustizia e dell'ordine razionale. La parte che nella Petimetra era svolta da Damián e nei Menestrales dallo pseudo barone Rafa, trova rispettivamente i suoi interpreti nel finto Marqués de Fontecalda della Señorita mal-criada e nello stesso protagonista del Señorito mimado.

Gemello del cattivo consigliere o del tiranno delle tragedie contemporanee, questo personaggio ne ripete, a lo burgués, i caratteri fondamentali: usurpatore di titoli, truffatore, produttore di false testimonianze, è mosso esclusivamente da interessi economici e finanziari e attenta ai beni patrimoniali di onesti cittadini.

Egrave; un grave elemento di disturbo su cui non stenta ad abbattersi la mano di una giustizia che, come si addice a uno stato ordinato, prima o poi raggiunge il colpevole: il truffatore de La Señoritascompare dalla scena afferrato dal Tío Pedro e da Bártolo che lo vanno a consegnare alla giustizia; Mariano con i soci è scoperto grazie alla diligenza dell'alcalde del cuartel e il giudice lo condanna a due anni di esilio; nell'opera di Trigueros l'alcalde era entrato direttamente in scena per arrestare Salteras-Rafa.

Si tratta di una figura destinata a una lunga fortuna nel periodo successivo e che ben presto verrà ripresa da Leandro Moratín il quale ne farà il protagonista del suo Barón.

A Iriarte, d'altronde, Moratín figlio guardava come al primo artefice di quel rinnovamento teatrale che egli giudicò, a un certo momento, indifferibile18. Diceva del Señorito mimado:

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Si ha de citarse la primera comedia original que se ha visto en España, escrita según las reglas más ensenciales que han dictado la filosofía y la buena crítica, esta es.19


L'opera di Iriarte rispondeva, in effetti, alla definizione, ormai classica, che Moratín diede della commedia e che vale la pena di trascrivere, dal momento che ad essa parvero ispirarsi, direttamente o indirettamente, tutti i commediografi fino alla metà del secolo XIX:

Imitación en diálogo (escrito en prosa o verso) de un suceso ocurrido en un lugar y en pocas horas entre personas particulares, por medio del cual, y de la oportuna expresión de afectos y caracteres, resultan puestos en ridículo los vicios y errores comunes en la sociedad y recomendados por consiguiente la verdad y la virtud.20


A questa definizione lo scrittore faceva seguire poi una serie di spiegazioni e di messe a punto che sottolineano ancor meglio la rispondenza di esse con la situazione reale del teatro dei suoi tempi e dell'epoca immediatamente successiva.

Così, nel contrapporre tragedia e commedia, mette in evidenza la storicità e la contemporaneità degli argomenti affrontati da questa ultima:

La comedia pinta a los hombres como son, imita las costumbres nacionales y existentes, los vicios y errores comunes, los incidentes de la vida doméstica.21


Più avanti indica nella borghesia il ceto sociale di cui si devono portare sulla scena non solo le situazioni ma perfino il linguaggio:

Busque en la clase media de la sociedad los argumentos, los personajes, los caracteres, las pasiones, y el estilo en que debe expresarlas.22


In questo modo sanzionava una situazione di fatto ormai invalsa e indicava la linea cui ci si sarebbe costantemente attenuti. La commedia come imitazione di vita borghese non era certo un'innovazione   —29→   in senso assoluto: in fondo poteva anche essere il proseguimento, aggiornato s'intende, della comedia urbana o de capa y espada. Rimane però il fatto che rivolgersi al ceto medio significava, in quello scorcio di tempo, operare una scelta politica; collaborare non solo a quel processo di ristrutturazione sociale ed economica in atto sotto i ministri illuminati di Carlo III e IV -di cui la borghesia era l'elemento propulsore- ma anche alla costruzione di quel ciudadano che era nei voti generali e che sarebbe stato il pernio della Costituzione del 1812.

Ma significava anche compiere fra il pubblico una selezione del tutto ignota al teatro del siglo de oro: da questo momento la tragedia, e il dramma che ne è l'erede, si rivolgeranno al grosso pubblico, quello che cerca le emozioni forti e si lascia facilmente trasportare nel mondo della fantasia e della leggenda; al contrario, la commedia sarà particolarmente destinata a quella parte del pubblico borghese (la più raffinata ed esigente) che non solo vi ritrovava i propri problemi, le proprie aspirazioni e via dicendo, ma che era la sola in grado di accoglierne, e capirne, il messaggio, gustarne le finezze e condividerne o, a ragion veduta, rifiutarne le soluzioni.

Naturalmente tutto ciò implicava una scelta di contenuti e perfino di un certo genere di comicità che avrebbe condizionato le strutture stesse della commedia. Si trattava infatti di affidare all'opera la difesa di taluni valori tipici della borghesia illuminata, blandendone tanto il conservatorismo quanto il riformismo: il matrimonio affrontato con consapevolezza23, l'educazione severa ma rispettosa della dignità personale, la conciliazione fra autorità e libertà, il culto del benessere, la saggia amministrazione, la lotta agli sperperi e simili.

D'altra parte comportava anche la rinunzia non solo alla risata grossolana e alla satira violenta di tipo molieresco ma anche a quella comicità in universali che i teorici tedeschi andavano segnalando come prerogativa della commedia contemporanea. All'inizio dell'Ottocento, Richter, accogliendo la definizione schlegeliana-schellinghiana della comicità come «rappresentazione della libertà ideale e infinita»24, definiva a sua volta infinitamente grande il regno del riso   —30→   e il comico come «il godimento o la fantasia e poesia dello spirito totalmente svolto in direzione della libertà»25 e vedeva nelle singole situazioni comiche l'allegoria di ogni comportamento umano26.

Moratín, al contrario, proponeva quella comicità limitata (particolare anziché universale) che nasce dalla rappresentazione di difetti contingenti, propri della società in cui vive il commediografo e visti nella prospettiva del benessere e del progresso di tale società. Affermava:

Debe pues ceñirse la buena comedia a presentar aquellos frecuentes extravíos que nacen de la índole y particular disposición de los hombres, de la absoluta ignorancia, de los errores adquiridos en la educación o en el trato, de la multitud de las leyes contradictorias feroces, inútiles o absurdas, del abuso de la autoridad doméstica y de las falsas máximas que la dirigen, de las preocupaciones vulgares o religiosas o políticas, del espíritu de corporación, de clase o paisanaje, de la costumbre, de la pereza, del orgullo, del ejemplo, del interés personal; de un conjunto de circunstancias, de afectos y de opiniones que producen efectivamente vicios y desórdenes capaces de turbar la armonía, la decencia, el placer social, y causar perjudiciales consecuencias al interés privado y al público.27


Le cinque commedie di Moratín sono l'applicazione fedele di questo programma: pertanto, se quelle dei predecessori manifestavano ancora, perfino nei titoli, una certa tendenza alla tipologia di gusto molieresco, le sue aspirano a presentare situazioni concrete proprie del mondo in cui egli vive. Situazione sbagliate, s'intende, affinché il pubblico sia stimolato a chiedere la riforma degli istituti cui si riferiscono.

El vieio y la niña descrive un matrimonio sbagliato a causa di un'erronea concezione dei rapporti umani che spinge il vecchio Don Roque a sacrificare la giovane Isabel al suo egoismo e alla sua sciocca gelosia; La comedia nueva presenta una commedia sbagliata a causa di un'erronea concezione estetica. Le altre tre descrivono casi di fidanzamenti sbagliati; per un'errata visione sociale, El barón, in cui Tía Mónica, mossa dall'ansia di raggiungere la nobiltà, sta per sospingere la figlia Isabel nelle braccia di un avventuriero; per l'errore di un'educazione ipocrita, La mojigata ed El sí de las niñas; ma anche, quest'ultima, per una smoderata aspirazione all'ascesa   —31→   nella scala sociale e per una concezione dei rapporti umani non dissimile da quella del Viejo y la niña.

Ma alla base di tutto sta una prospettiva economica antisociale che spinge a forme indebite di arricchimento, anche a costo del più puro sentimento amoroso. Si tratti di un furfante come il tutore di Isabel nel Viejo y la niña o come il finto barone, di egoisti come Don Martín o Doña Irene, sempre ci si trova dinanzi a oppressori interessati e avidi che mietono le loro vittime tra giovani indifesi e bisognosi d'amore28. Così una problematica sociale in piena armonia con gli interessi del tempo (epoca di economisti, di precapitalismo industriale, di stimolo agli investimenti e alla costituzione di patrimoni) s'inserisce in una prospettiva sentimentale; situazione certamente non ignota ai predecessori ma per la prima volta ravvivata da uno stretto rapporto di funzionalità. Soprattutto, ora l'amore è il reattivo che pone allo scoperto la negatività di certi comportamenti sociali; e pertanto è lotta, è perfino dramma intensamente sofferto.

Leandro Moratín, il campione del neoclassicismo spagnolo, apre in questo modo la strada verso il romanticismo; taluni dei suoi eroi rivelano già i lineamenti, smussati, sia pure, e un tantino imborghesiti, dei contemporanei Werther e Ortis. Nel Viejo y la niña (in cui sembra riaffiorare la tragedia degli amanti di Teruel, quasi cinquant'anni prima della celebre riesumazione compiuta da Hartzenbusch), i dialoghi concitati fra Juan e Isabel potrebbero figurare degnamente in un'antologia del romanticismo29: vi dominano la coscienza dell'ineluttabilità del destino e dell'impossibilità di reprimere l'amore che insorge contro tutte le imposizioni e le convenzioni; la rabbia impotente della vittima che si tramuta nel desiderio di uccidere il vecchio tirannico; il rimpianto delle ore felici, dei sogni tramontati.

Basterebbe citare i versi in cui Juan si ribella contro il destino:


¿Cómo quieres que se oculte
el amor que nos inflama?
—32→
¿Cómo quieres que yo pueda
tolerar, viendo logradas
por otro felicidades
que sólo a mi destinabas
que sólo yo merecí?


(I, 11, p. 61);                


o quelli in cui esprime il sentimento di un tempo irricuperabile:


Si te quise,
si en nuestros años primeros
éramos los dos felices,
pasó como sombra y sueño;
ya sólo la muerte aguardo.


(II, 11, p. 107)                


Sono gli stessi accenti che gli Spagnoli risentiranno, dopo diversi decenni, sulla bocca di Macías o di Diego Marsilla e che ritornano, anche se con minore estensione, tredici anni dopo, nel Barón; quando, per esempio, Isabel riconosce, che l'ostinazione del Barone a volerla sposare è irriducibile e Leonardo esclama:

LEONARDO
Cuando sea
tanta y este medio falte,
otros eficaces quedan.
ISABEL
¡Duros, sangrientos!
LEONARDO
Quien ama 25
como yo, todo lo intenta.

(I, 13, pp. 285-286)                


Il tema, assente nella Mojigata (dove tuttavia il desiderio di Don Martín di mandare la figlia in convento per ereditare in suo luogo è la causa del comportamento ipocrita e sciocco di una fanciulla che, a modo suo, si ribella contro la repressione del suo bisogno d'amore), è ripreso nel Sí de las niñas in toni più sommessi, dal momento che la ribellione si ritrae dinanzi al sentimento di obbedienza e di rispetto per l'autorità. Ma l'idea di fondo rimane, forse anche più incalzante: è affermato a tutte lettere il diritto dell'amore ad avere il sopravvento sugli egoismi e sui gretti calcoli30.

  —33→  

Ma se, nel Sí de las niñas, il conflitto fra l'amore e l'interesse non si configura come ribellione, si riflette però in una dolorosa incomunicabilità che afferra e imprigiona i protagonisti.

Non solo infatti ogni forma di colloquio fra Paquita e Don Diego è resa impossibile dalla continua interposizione di Doña Irene; ma perfino nei suoi incontri con Carlos a Paquita riesce estremamente difficoltoso esprimersi. Fra i due si erge l'invisibile diaframma di una società ostile che interrompe o disturba la comunicazione.

La situazione diviene emblematica nell'atto terzo durante il discorso che Doña Francisca pronunzia alla finestra: lo spettatore ode solo le sue parole, come se si trattasse di un tentativo di dialogo continuamente frustrato. D'altronde, nonostante il desiderio manifestato esplicitamente dalla fanciulla («Sí, yo quiero saberlo de su boca de usted», II, 2, p. 607), il messaggio non viene formulato a viva voce ma affidato a un biglietto che, simbolicamente, va smarrito.

Con la sua adesione ai problemi che in quel momento interessavano la società (problemi economici, matrimoniali, etico-giuridici) e ad altre istanze più profonde che investivano il mondo dei sentimenti -anche queste di piena attualità- Moratín creava così una commedia impegnata più completa e più ricca di aperture di quelle dei suoi predecessori.

Ma, come quelle e più di quelle, era una commedia senza riso e perfino senza sorriso, se si toglie un certo increspar di labbra per malinconia o per tenerezza che si intravede nell'ultima opera. Non si può dire che sia totalmente assente la comicità, che si annida soprattutto negli inani sforzi dei meschini egoisti di servirsi degli altri per il raggiungimento dei propri scopi; ma non fa ridere, irrita soltanto.

Il riso Moratín lo ritrovò solo nella satira letteraria della Comedia nueva, con la quale inaugurava un filone che di tanto in tanto sarebbe affiorato nella letteratura teatrale successiva.

Il fatto è che il suo riformismo, altrove più cauto, qui diviene apertamente innovatore e che, se le altre quattro commedie possono anche essere interpretate in chiave di lotta contro certe convenzioni sociali, qui la reazione contro il convenzionalismo letterario è accesa e senza debolezze; perciò la risata sgorga aperta e allegra all'udire le sciocchezze di Don Hermógenes e di Don Eleuterio.   —34→  

Leandro Fernández de Moratín portava dunque a completezza il genere della commedia impegnata avviato da suo padre, indicando due strade: quella dei lavori seri, problematici, riguardanti i rapporti fra gli uomini e le questioni del vivere civile; e quella della satira letteraria, più allegra e scanzonata.

Lungo queste direttrici si andrà collocando una lunga schiera di scrittori, direttamente o indirettamente influenzati da Moratín, anche se ciascuno di essi, naturalmente, arrecherà un suo contributo personale soprattutto nella duplice direzione di un maggiore impegno o di più ampie concessioni al piacere del riso.

Il passo compiuto da Moratín figlio appare tanto più notevole se si raffrontano le sue opere con quelle di scrittori contemporanei come Forner, Mor de Fuentes, Arellano, Isusquiza o Gálvez de Cabrera, i quali tutti appaiono, per vari motivi, ancor legati a schemi tecnici e mentali ampiamente superati dall'autore del Sí de las niñas. E tuttavia anche in questi commediografi compaiono di tanto in tanto aspetti suscettibili di maggiore sviluppo e aperture verso nuove concezioni estetiche e, per così dire, ideologiche. Cosicché anch'essi, sia pure in forma episodica, apportano un loro non indifferente contributo alla formazione di quella rinnovata coscienza teatrale che costituisce la piattaforma su cui si eleverà la commedia romantica.

Indicazioni in questo senso provengono perfino da quel plagiario Andrés de Mendoza che affidò agli attori de Los Caños del Peral la sua Lugareña orgullosa, precedendo di alcuni giorni la rappresentazione del Barón che egli, giudicandolo opera «deforme en todas sus partes» (così nell'Advertencia premessa alla commedia), aveva inteso rielaborare.

Rifacimento maldestro, persegue tuttavia lo scopo (che qui interessa segnalare) di rendere più odioso e volgare il protagonista (uno pseudo marchese che, nel primo atto, è presentato mentre tocca il petto di Isabel e ne riceve uno schiaffo) e la protagonista più virtuosa (è una figlia esemplare, devota fino all'eroismo verso la madre che intende sacrificarla), in modo da attingere toni patetici.

Meno legato a modelli moratiniani è Forner, il quale scriveva la sua Escuela de la amistad o El filósofo enamorado nel 1796, quando Moratín aveva composto soltanto El viejo y la niña ed El Café; è dunque assai probabile, considerata anche la personalità dell'autore, che la commedia nascesse libera da influenze moratiniane. Pertanto certe affinità, come la presenza di un furfantesco Marqués de la   —35→   Espina, regolarmente scoperto e ammonito dal giudice, sono da riportarsi a influssi di Trigueros e di Iriarte, di cui si sono visti i riflessi sullo stesso Moratín. Certe altre potrebbero invece far pensare a un'influenza di Forner su Moratín, come la polemica contro le nozze dettate dalla vanità che conduce, anche qui, all'esaltazione dell'amore puro:


el amor, el dulce amor
desconocido en tan baxos
corazones...


(II, 6, p. 18)                


Ma l'impianto dell'opera richiama ancora gli antichi enredos, con le loro trovate comiche e i loro effettismi. Come in certe commedie di Lope, due giovani innamorati, Inés e Fernando, organizzano un trucco per eludere il tentativo del fratello della fanciulla, certo Don Silvestre, di sposarla al fatuo ma ricco Marqués de la Espina. Si tratta di far chiedere la mano di Inés -naturalmente per finta- da un amico di Fernando, il cinquantenne filosofo Don Felipe che, essendo assai ricco, ottiene l'assenso dell'avaro fratello. Senonché, nei suoi contatti con Inés, l'anziano, schivo filosofo è colto a tradimento da un sentimento amoroso da cui egli credeva di essere affatto immune. I conseguenti equivoci, complicati da un gesto criminale del Marqués, non impediscono, in ogni modo, le nozze dei due innamorati.

Il tono nuovo, in certa misura preromantico, è rappresentato essenzialmente da quell'innamoramento insospettato di Don Felipe, col quale sembra che si voglia affermare che l'amore è più forte anche della condotta più razionale.

Ma risuonano pure accenti vivamente appassionati che, alla stregua di quelli già rilevati in Moratín, non disdirebbero in un dramma romantico. Tale il giuramento di fedeltà pronunziato da Inés:


¡Esposa yo de otro! Y tú
¡lo pronuncias! ¡ah! primero
faltará la luz del día,
que en mí falten los esfuerzos
para mantener constante
la fe de mis juramentos.


(I, 2, p. 3)                


  —36→  

Tale la sua proclamazione di libertà:


libre nací, y te prometo
que en mi libertad mi hermano
nunca exercerá su imperio.


(I, 1, p. 2)                


Ma il sottofondo ideologico è ben radicato in posizioni illuministiche, come dimostrano le polemiche contro il concetto tradizionale dell'onore («ese honor maldito»)31; le rivendicazioni della dignità femminile32; l'esaltazione, attraverso la descrizione ampia e perfino minuziosa della figura del buon giudice, di una sana amministrazione della giustizia33; il biasimo nei confronti della «gente culta» perdigiorno e la parallela apologia di quella «tosca», la quale


se afana
para el ocioso regalo
de esa caterva insensata;


(III, 5, p. 29)                


e infine la derisione del linguaggio sofisticato del corteggiamento amoroso, che comporta l'approvazione di un parlare semplice e chiaro.34

L'impegno di Forner si ramifica dunque in questa fitta serie di temi che si inseriscono o, più spesso, semplicemente si giustappongono alla trama. Sotto quest'aspetto, Forner si discosta dalla linea inaugurata da Don Nicolás, che affidava la problematicità al corpus della commedia; pertanto, pur rivelando comprensione delle esigenze proprie del tempo, non seppe, in fondo, tradurle in viva sostanza teatrale.35

Caratteristiche analoghe, sebbene in forma assai più semplicistica, presenta El celoso y la tonta (1803), in cui l'autore, Dámaso de Isusquiza,   —37→   non si perita di sfruttare i più triti espedienti del teatro barocco, portando in scena tapadas e disfrazadas de varón36 e giocando con gli equivoci conseguenti. Anche lui, tuttavia, sente l'esigenza di un qualche impegno ideologico e la soddisfa con discussioni intorno alla gelosia e all'onore che, a quanto ne risulta, dovrebbero essere interpretati in maniera meno ossessiva. Che è poi, in certo senso, la morale di questa scialba commedia, in cui Nicasio, dopo aver tentato in ogni modo di sottrarre la fidanzata, l'ingenua lugareña Isabel, alla vista di tutti, organizza un trucco per far sposare il rivale Jacinto in modo da eliminarne la concorrenza; ma, senza rendersene conto, finisce per dargli in sposa la sua stessa fidanzata.

Queste due ultime commedie attestano anche l'insorgenza di un interesse verso tipi umani un poco fuori della norma (i quali certamente contano fra i loro ascendenti i figurones secenteschi) di cui lo scrittore si compiace di cogliere le reazioni psicologiche: del filosofo misantropo di fronte all'amore, del geloso dinanzi agli inevitabili contatti con i propri simili.

Di un tale interesse fanno mostra parecchie commedie, tutte raggruppate nel brevissimo giro dei primi tre o quattro anni del secolo. In alcuni casi si tratta di una tipizzazione astratta e poco credibile; in altri si avverte invece la presenza di una certa intenzione di realismo che potremmo definire curioso.

Fra i primi si possono annoverare certe opere di María Rosa Gálvez, tra cui è emblematico El Egoísta (1804), una composizione a mezza strada fra la commedia di costume e quella lacrimosa: il protagonista Sydney è talmente lineare nel climax del suo egoismo da risultare un manichino: indifferente a moglie, figlio, amante, aspira solo a una sistemazione economica per cui non esita a propinare un veleno alla moglie per poterne ereditare le sostanze. Ma poiché il farmacista, insospettito, non solo aveva sostituito il veleno con un più innocuo vomitivo, ma aveva anche denunziato il cliente, questi è infine giustamente arrestato.

Né approda a molto il tentativo della Gálvez di dargli una qualche consistenza storica definendolo o, meglio, facendolo autodefinirsi un   —38→   «petimetre» («sobre todo / quererme a mí mismo; ésta / es la gran filosofía / de un petimetre»: I, 11, p. 147): il personaggio rimane nel limbo delle astratte personificazioni.

Un'analoga collocazione spetta a Los figurones literarios, nonostante che qualche trovata non infelice ravvivi qua e là il lavoro; ma i vari personaggi che vi campeggiano non sono che la personificazione di diverse manie: Panuncio e Cilindro della fisica; Esdrújulo della poesia classica; Epitafio dell'antiquariato; Evarista della politica e il Barón de la Ventolera della moda e dell'esterofilia.

In quest''ultimo personaggio e nell'esile trama (Isabel, promessa da Panuncio, suo zio, al fatuo barone, sposerà invece l'amato cugino Alberto) serpeggia quella vena satirica nei confronti della moda e dell'afrancesamiento, che è forse l'unica forma di impegno che conobbe la Gálvez.37

Altri tipi di mania presenta Arellano nella sua Fulgencia (1801): si tratta ora della caccia e della pittura, impersonate rispettivamente da Don Matías e da Don Gerónimo. Del loro fanatismo approfittano facilmente i due soliti furfanti i quali aspirano alla mano di Fulgencia e Rosa, figlie del primo. Dopo il consueto provvidenziale intervento di un giudice che smaschera gli imbroglioni, Fulgencia sposerà il solito amato cugino.

Anche Arellano, come già Forner e forse sulla scia di quest'ultimo, si preoccupa di inserire, magari un po' a forza, nel puro divertissement della sua opera, considerazioni etico-sociali che le conferiscano un qualche peso ideologico. Per questo si rivolge all'inesauribile tema dell'onore e soprattutto del duello che giudica profondamente inattuabili e indegni del secolo illuminato.38

  —39→  

Ma se se gli apporti della Fulgencia alla costruzione di un nuovo teatro sono complessivamente poco consistenti, non si può tuttavia passare sotto silenzio il fatto che, probabilmente per primo, Arellano introdusse nel repertorio spagnolo quella figura di vedova giovane e piacente -così diversa dalle beatas del siglo de oro- che, destinata a lunga fortuna, avrebbe trovato il suo coronamento nella Marcela di Bretón. Spetta ad Arellano l'averne definita la figura con quella mescolanza di fresca bellezza e di saggia autorevolezza che ne costituiscono la principale fonte di seduzione. Dice infatti, a proposito di Fulgencia, la sorella Rosa:


Estas viudas aunque queden
en la edad la más expuesta,
...........................................
al punto que quedan libres,
cierta autoridad ostentan,
y se producen lo mismo
que un filósofo de Grecia...


(III, p. 93)                


E se non riuscì a farne un personaggio né vivo né molto interessante (in lei prevale l'aspetto moralistico e sermoneggiante) indicò per lo meno il cammino che altri avrebbe percorso39.

Quella concretezza del personaggio fuori della norma che non seppero attingere né la Gálvez né Arellano, conseguì invece Mor de Fuentes attraverso un opportuno processo di storicizzazione, introducendo il tipo della mujer varonil, cioè di un caratteristico prodotto dei tempi.

José Mor de Fuentes pubblicò nello stesso anno, 1800, due commedie: El calavera e, appunto, La mujer varonil: entrambe volte, come si deduce dai titoli stessi, alla rappresentazione di «caratteri».

  —40→  

Senonché nella prima finiva per presentare, nel protagonista Rodrigo, più che un calavera, il solito odioso furfante che, falsificando una lettera, riesce per un momento ad allontanare un certo Don Gonzalo dalla fidanzata Inés -alla cui mano Rodrigo aspira- finché opportuni chiarimenti ristabiliscono verità e giustizia e, con esse, il legittimo amore40. La vicenda, convenzionale e fuori del tempo, contribuisce a privare il personaggio di Rodrigo di una qualsiasi consistenza vitale. Al contrario, La mujer varonil appare ben collocata nel tempo, con i suoi dibattiti intorno alla funzione sociale della donna, alla sua esigenza di cultura e alla parità dei sessi. Mor naturalmente ne approfitta per esporre il suo punto di vista, che è quello di un moderato riformismo: è favorevole a che le donne sappiano «cultivar su entendimiento / con lecturas agradables» ma ritiene che in fondo le sole «scienze» femminili siano


coser, hilar, hacer media,
y sazonar el puchero;
o a lo más, lo más, bordar
sus zapatos y pañuelos.


(I, 8, p. 48)                


Collocandosi in questa prospettiva -tradizionale e popolare e pertanto di sicuro successo sulle platee- gli è facile rilevare la comicità della sua protagonista che ha progettato di «apprendere tutte le scienze» (I, 8, p. 47), che ama cavalcare, che disprezza il vestirsi alla moda e che, infine, vorrebbe diventare «torero».

Tuttavia, oltre a questo sfruttamento del tema a fini comici, Mor non sa troppo procedere e pertanto non è in grado di attribuirgli funzionalità nella trama. Questa è infatti un banalissimo intreccio che gira intorno alla coppia oppositiva maschile Jacinto -Marqués del Río e a quella femminile Felisa- Leonor e che, dopo vari equivoci, si conclude con le nozze fra il Marchese e Felisa. In questa vicenda, Leonor, la mujer varonil, stenta logicamente ad assumere il ruolo di protagonista; per cui la commedia, pur rivelando una più aggiornata coscienza teatrale rispetto a quelle della Gálvez o di Arellano, rimane sul piano delle buone intenzioni scarsamente realizzate.

  —41→  

Il tema femminista è ripreso in una pieza anonima, El anciano y los jóvenes, che, rappresentata per la prima volta nel 1807, conobbe varie riprese negli anni seguenti. Qui l'autore biasima, per bocca di Isabel, la riluttanza verso la cultura femminile da parte di certi uomini, i quali vorrebbero che la donna


sea una tonta, y que esté
siempre mano sobre mano.


(I, 7)                


Il tema compare tuttavia solo fuggevolmente accanto ad altri: la libertà delle fanciulle nella scelta dello sposo, la negatività morale del duello,41 il rispetto per i vecchi -i quali tutti sono, al solito, inseriti occasionalmente nella trama.

Questa è un interessante sviluppo del motivo moratiniano della rivalità amorosa fra zio e nipote. Un certo Don Pedro, per impedire che Isabel sia sottratta al nipote Carlos, usa lo stratagemma che già si è visto nel Filósofo enamorado: ne chiede egli stesso la mano. Carlos, ignorando la motivazione del gesto, china il capo e si rassegna, come il suo omonimo moratiniano, alla volontà dello zio, ma questi alla fine gli cede i suoi diritti.

El anciano y los jóvenes sta dunque a testimoniare l'efficacia del modello moratiniano che, a distanza di un solo anno, vede già fiorire le prime imitazioni.42 Questa commedia anonima peraltro non è che la prima di un filone inesauribile in cui il terzetto zio-nipote-fanciulla giocherà tutte le combinazioni possibili.

Ne offre conferma quella sorta di parodia del Sí de las niñas che è rappresentata da Mentira contra mentira (anch'essa del 1807), in cui l'autore, il ben noto Félix Enciso Castrillón, rielabora Moratín nella direzione della pura comicità. Lo spunto è chiaramente moratiniano: un vecchio zio, Don Santos, vuole sposare una certa Isabel   —42→   che è stata fidanzata al giovane nipote Carlos (curiosa la fortuna di certi nomi!). Lo sviluppo invece diverge: Don Santos che, come il modello moratiniano, vuole evitare ad ogni costo che Carlos si intrometta, cerca non solo di tenerlo lontano da Isabel ma ha addirittura concertato le sue nozze con l'ultraquarantenne Antonia. Tuttavia Carlos, con una serie di espedienti e di trovate, gioca lo zio e finisce per impalmare l'amata.

Prevalgono, in questa commedia, le concessioni ai gusti tradizionali del pubblico, che Enciso, esperto uomo di teatro, sa bene accattivarsi facendolo assistere alle burle che il giovane gioca al vecchio: una formula di sicuro effetto, da Plauto in qua.

Sull'altare del riso vengono naturalmente sacrificate la carica umana dell'opera di Moratín, la sua indagine psicologica, la sua problematica di fondo. Anche le innovazioni tematiche di Moratín vengono meno; la pieza di Enciso trae infatti dal suo modello solo ciò che è riconducibile all'eterno archetipo di commedia: quella che presenta la lotta fra un giovane e un vecchio, il cui premio, che spetterà al giovane, è l'amore di una fanciulla.

Mentira contra mentira è dunque anche una rinunzia alla storia e, come tale, si colloca fuori dalla linea evolutiva avviata dalla Petimetra o, forse intenzionalmente, vi si oppone. Enciso insomma rappresenta, al principio del secolo XIX, quella reazione, continuamente risorgente e fuori di ogni corrente letteraria e ideologica, contro un teatro troppo impegnato o almeno troppo inserito nella storia; e, parallelamente, l'aspirazione a un tipo di commedia pura, quintessenziata e di totale evasione.

Profondamente inserita nei problemi del tempo è invece, per la sua stessa natura, la satira teatrale che incontra un discreto svolgimento in questo scorcio di secolo affiorando in battute sparse qua e là e, nel caso de El gusto del día, costituendo la trama di un'intera commedia.

Modello inevitabile è, in questo campo, La comedia nueva, di cui viene ripreso l'atteggiamento di fondo aristocratico ispirato a un razionale buon senso.

La satira si appunta pertanto contro gli spettacoli di gusto popolare: le comedias de magia o, in genere, de grande espectáculo e, soprattutto, le commedie lacrimose.

Da epoca ormai lontana doveva essere abbastanza corrente farsi beffe degli ingenui che accorrevano a estasiarsi dinanzi ai prodigi   —43→   dei vari mágicos, se già Ramón de la Cruz sorrideva del successo del Mágico de Salerno:


usted eche «Vayalarde»
verá qué risa y qué aplausos...43

Nell'epoca di cui ci stiamo occupando, il tema venne ripreso dalla Gálvez la quale diede così l'avvio a quel filone della satira «antimagica» che, di tappa in tappa, sarebbe approdato alle parodie di Hartzenbusch. Ella, prima per bocca di Cilindro, deride le comedias de resortes (alias de magia) in cui


se andan
los actores por los ayres,
colgados como banastos,
o salen, como las furias,
a torno por las entrañas
de un escotillón;


(Los figurones lit., I, 7, p. 270)                


poi riprende la beffa attraverso la derisione di Esdrújulo, il quale dice di aver composto


comedias de magia,
y en todos los desenlaces
venía el diablo, y cargaba
con los actores; en otras
de mejor gusto llegaban
los héroes hasta el cadalso;
y desde allí se escapaban
sin saber cuándo ni cómo...


(ibidem, I, 9, p. 276)                


Infine Panuncio, irritato contro il pubblico che l'ha fischiato, lancia l'anatema:


Plegue al cielo que en el siglo
diez y nueve los poetas
mágicos de Vayalarde
a ser tus delicias vuelvan.


(ibidem, III, 2, pp. 329-30)                


Ma non manca neppure di irridere i drammi militari «di grande spettacolo» sul tipo del famoso Cerco de Viena di Don Eleuterio, visto che immagina, per bocca di Esdrújulo, una scena popolata di patiboli o illuminata dall'incendio delle galere di Carlo V (III, 10, p. 356).

Coloro che, a differenza della Gálvez, la quale indulge volentieri ai toni sentimentali, puntano sulle risorse di una maggiore comicità lanciano invece i loro strali contro le commedie lacrimose:


las lloronas del siglo,
que las tripas me retuercen,
y degüellan todo vivo


(El celoso y la tonta, II, p. 15 a)                


secondo la definizione di Isusquiza, al quale inoltre si deve l'affermazione che ormai


a sentimentar
todo el mundo se ha metido.


(ibidem, II, p. 15 b)                


Il Marqués del Río, che è un po' l'alter ego di Mor de Fuentes ne La mujer varonil, associa nella riprovazione le «antiguas comedias», con i loro «disparates» di «aire, agua, fuego y tierra», e le «insípidas lloronas»; ad esse contrappone l'ideale di una commedia il cui compito sia di far ridere -visto che


mucho más interesan
los chistes y la alegría,
que los ayes y tristezas-


attraverso la descrizione della borghesia:


Dedíquense las Comedias
a pintar la gente culta
que es tan ridícula y necia
quando menos como el vulgo.


(I, 1, p. 83)                


  —45→  

Queste idee, d'altronde, Mor esponeva in maniera più particolareggiata nella prefazione alla commedia stessa, in cui attaccava a fondo le commedie lacrimose; non esitava infatti ad affermare che esse erano «para el arte un nuevo Vandalismo que lo reengolfa en la barbarie de su primer origen». Ad esse opponeva la «vera commedia» o «Comedia festiva», mescolanza di battute scherzose e di moralità,

la qual se encamina más a promover la sonrisa apacible, compañera inseparable de la complacencia, que a escitar las carcajadas violentas y convulsivas en el auditorio.44


E poiché nelle lloronas vedeva una certa faciloneria di contenuti e di composizione, esigeva, per contrasto, nelle festivas, obbedienza alle regole, capacità di suscitare l'interesse, abbandono di ogni convenzionalismo e infine tutte le doti di un'arte raffinata: naturalezza delle scene, proprietà dei caratteri, dialogo «festivo y animado» espresso in «lenguage fluido, castizo y decoroso».

Ma l'attacco più deciso fu quello sferrato da Andrés Miñano nel Gusto del día, commedia nel complesso abbastanza scolorita ma certamente efficace sul piano della polemica «antisentimentale».

Miñano capì quale partito si sarebbe potuto trarre dal combattere questa battaglia sul piano prevalentemente ideologico anziché letterario.45 Pertanto fece ricorso all'arma sempre valida del casticismo e degli ideali di semplicità del castellano viejo che contrappose al gusto extranjerizante delle commedie sentimentali. Riprendeva infatti, nel Discurso preliminar, quel

mal gusto que ocasiona en nuestros Jóvenes la imitación ciega de quanto ven o nos viene de Países extrangeros;46


e, nel corpo della commedia, anticipando certi atteggiamenti polemici dei romantici, non esitava ad accomunare nella medesima riprovazione commedie sentimentali e drammi neoclassici e a farsi beffe delle famose regole aristoteliche come di stramberie anch'esse importate dall'estero:

  —46→  

Nuestros paisanos -diceva appellandosi al misoneismo di quella borghesia cui più direttamente si rivolgeva- como tan majaderos, se ríen de Coturnos y de Zuecos; dicen también que dos a lo menos de esas tres unidades son cuentos de viejas inventados para embobar a los niños grandes;


(I, 8, p. 3 5)                


e postulava, invero senza troppa originalità, commedie moraleggianti,

aquéllas que hagan reír honestamente, ridiculizando los vicios y extravagancias de los hombres para conducirles por este medio a su enmienda.


(II, últ., p. 74)                


Ma soprattutto operava quella contrapposizione di costumi spagnoli, integri alla maniera del buon tempo antico, ai costumi importati dall'estero, fonte di inevitabile corruzione, che diverrà quasi un passaggio obbligato delle numerose polemiche pro e contro il romanticismo.

La pieza, infatti, si burla della passione che il prototipo delle commedie sentimentali, Menschenhass und Reue -Misantropía y arrepentimiento nella traduzione spagnola- di Kotzebue (o Kozbüe, come scrive Miñano) suscita nel servo Roque e soprattutto in Doña Eulalia47 che giunge perfino a identificarsi (lei, buona e onesta massaia) con l'eroina adultera della commedia. Ma biasima pure lo snobismo esterofilo del Marqués de la Bombonera, cui oppone il solido buon senso e il sano tradizionalismo di Don Alfonso del Moral, il quale apprezza tanto la buona musica quanto «la sopa y la olla», si fa scrupolo di non giungere tardi alla messa (I, 7, p. 26) e motteggia sulle imprese dei palloni aerostatici (I, 7, p. 28); nello stesso tempo, per essere in linea col tema in voga, discetta sulla serietà del matrimonio e biasima, al solito, le nozze contratte per interesse. Infine offre a Jacinta la sua mano in sostituzione di quella di un giovane corteggiatore privo di mezzi; poiché invece a Don Alfonso i mezzi non mancano, la sua proposta è accolta con giubilo da tutti i personaggi e, certamente, anche dal pubblico benestante.

Miñano veniva dunque ad assorbire in una prospettiva etico-sociale anche il problema letterario; così facendo, d'altronde, portava al pieno svolgimento taluni aspetti che già emergevano nel Café, dove il giudizio critico nei confronti delle teorie e delle realizzazioni   —47→   letterarie di Don Eleuterio e di Don Hermógenes coinvolgeva un giudizio negativo sul loro comportamento umano.

Poco oltre la soglia del secolo, in prossimità ormai dei grandi avvenimenti che stavano per travolgere l'antiguo régimen, il teatro comico spagnolo si presentava dunque con un quadro abbastanza definito e con alcuni punti fermi, ormai collaudati da un'esperienza di vari decenni.48

Si trattava di un teatro che anzitutto vedeva nella borghesia l'interprete e la destinataria delle sue piezas e che pertanto si faceva portavoce di quella prospettiva castiza -moderata e tradizionalista- che fra qualche lustro si sarebbe chiamata del justo medio. Parallelamente, diffondeva quegli ideali riformistici che tale borghesia andava perseguendo, portando puntigliosamente sulla scena i problemi etico-sociali più dibattuti.

La matrice neoclassica non disdiceva a un tale teatro: gli ideali di regolarità, di semplicità, di schiettezza e di razionalità ne fecero agevolmente la bandiera del moderatismo. Ben presto diverrà corrente l'equazione «neoclassicismo = buon senso spagnolo» che neppure l'avvento del romanticismo riuscirà a vanificare.

Con queste premesse, è chiaro che -come s'è visto- non poteva fiorire un teatro propenso alla piena comicità; al contrario, ne scaturirono molte opere abbastanza pensose e fondamentalmente serie, sebbene non si debba escludere che certe situazioni, così legate al tempo, potessero stimolare il sorriso più di quanto non facciano oggi, in condizioni ambientali totalmente diverse.

Altra conseguenza dell'adesione al neoclassicismo fu la ricerca di strutture rigorose, di situazioni razionalmente accettabili e di un linguaggio semplice e perspicuo. Se si eccettuano i casi più felici restringibili essenzialmente a Iriarte e a Moratín, si tratta spesso più di un'aspirazione che di una realizzazione efficace, specialmente per quel che riguarda le strutture le cui maglie spesso appaiono allentate per effetto di trame non di rado episodiche e raffazzonate.

Si avverte invece un maggiore sforzo, che pertanto viene coronato da un successo migliore, nel tentativo di presentare situazioni e personaggi in vario modo ancorati alla realtà del momento presente, da cui traggono appunto una loro credibilità.

  —48→  

Ancor più positiva è la conquista di un linguaggio che in ogni modo si cerca di rendere, a sua volta, credibile come le situazioni che esprime e che lo esprimono. Qui la ricerca si muove nella direzione del quotidiano al punto da far perdere al dialogo quella vivezza che ben pochi oltre a Moratín, furono in grado di mantenere.

Sul piano dei contenuti, accanto ai problemi etico-sociali, questo teatro si apre generalmente al gioco dei sentimenti: particolarmente ad opera di Moratín, l'amore riprende a essere una funzione importante della pieza, soprattutto grazie all'opposizione della sfera sentimentale a quella economica.

Non per questo si ritorna alla comedia antigua, in cui certamente l'amore -spesso anche contrapposto all'interesse- svolgeva una funzione di rilievo: qui il contrasto è per lo più giocato su precise referenze al mondo contemporaneo e alla sua problematica, laddove in epoca barocca la lotta per il raggiungimento dell'amore appariva come una situazione perenne dell'uomo, vissuta e sofferta, o goduta, nei termini del convenzionalismo neoplatonico.

Ne offre illuminante conferma il tema della comunicazione che, sia pure in maniera ancor titubante, affiora qua e là in questo scorcio di secolo e che, come si è rilevato, nasce proprio in margine a quell'opposizione e in quella situazione storica.49



  —49→  

ArribaAbajoCapitolo II

L'età di Fernando VII fino al 1830


I sei anni di lotta che precedono l'avvento al trono di Fernando VII conoscono, com'è naturale in un'epoca di così intenso travaglio, il fiorire di commedie strettamente legate a fatti e a situazioni del momento. Notevolmente sfruttato è il filone antinapoleonico, edizione aggiornata e acre di quella satira antifrancese che da almeno mezzo secolo faceva ridere le platee spagnole alle spalle del paese vicino e delle manie xenofile dei connazionali: basti ricordare El engaño francés, Napoleón desesperado, Napoleón rabiando, El sermón sin fruto, fra le molte che un recente studio attentamente analizza50 e che pertanto non è il caso di riprendere in esame in questa sede; anche perché il loro legame con un episodio circoscritto della storia nazionale le priva di un diretto riflesso sulla produzione successiva. Esse sono tuttavia indicative di un nuovo rapporto che si va instaurando col presente, il quale viene affrontato ora, sotto l'urgenza di fatti eccezionali, nella sua più corposa immediatezza.

La storicità di queste commedie ha poco che vedere con le mitiche rievocazioni dei grandi personaggi di cui aveva largheggiato la tragedia neoclassica e che sarebbero state riprese dai drammi romantici: personaggi e avvenimenti non solo possiedono ora tutta la freschezza del momento che si sta vivendo ma appaiono delineati secondo i tratti deformanti che ad essi presta l'immediatezza della reazione.

Caratteristica fondamentale di queste commedie è la loro «popolarità» che si ravvisa tanto nell'interpretazione dei personaggi (Giuseppe Bonaparte istupidito dal vino, lo spagnolo maccheronico parlato dai francesi ecc.) quanto nella grossolana comicità che li avvolge.51

  —50→  

Egrave; quanto non passerà nelle commedie successive che, in genere, si collocheranno nuovamente sulla linea della prospettiva borghese di stampo moratiniano ma che non dimenticheranno, invece, anche se l'ammorbidiranno alquanto, la lezione impartita di una più stretta adesione ai fatti e ai problemi del momento.

Significative, in questa direzione, sembrano due commedie composte intorno all'anno della Costituzione, che osservano e riportano le reazioni degli ambienti borghesi dinanzi ai grandi avvenimenti e cambiamenti dell'epoca.

L'una, El egoísta o El mal patriota (composta nel 1812 e rielaborata nell'anno successivo),52 con la quale Mor de Fuentes ritornava alle scene dopo le prime esperienze compiute all'inizio del secolo, stigmatizza il comportamento di quella parte di Spagnoli che, chiusa nel suo egoismo,


sin sacrificios nin riesgos
aspira a coger el fruto
de los trabajos ajenos.


(II, 6, p. 31)                


Nella fattispecie, un benestante di Brihuega, Don Estevan, generoso per paura con i Francesi, si mostra tirchio con le truppe degli insorti e cerca perfino di far leva sull'amore che un ufficiale empecinado prova per sua figlia al fine di farsi ridurre i contributi d'obbligo. La sua visione miope e meschina è irriducibile e solo verso la fine dell'opera, quando i due giovani stanno per darsi la mano, si esprime la speranza che


habrá caído en la cuenta
de las fatales resultas
de la yerta indiferencia.


(III, últ., p. 64)                


La commedia, nonostante le successive rifiniture che caratterizzano il testo nella versione pervenutaci, risente ancora dell'impulso, da   —51→   cui nacque, di ritrarre una figura propria di quel particolare momento:

un Egoísta -come dice l'autore- que concentrado todo en la pequeñez de su empedernida mezquindad, se niega a contribuir por su parte a la causa pública, prescindiendo de la sinrazón y las resultas de tan pernicioso sistema.


(p. III)                


La tesi appare forse troppo scoperta: buoni e cattivi si fronteggiano in maniera un po' semplicistica; l'impegno docente traspare fra le righe. Ma di là dalle incertezze, anche strutturali, l'opera di Mor rivela un'adesione alla realtà contemporanea sconosciuta, con tale intensità, all'epoca precedente. Al contempo manifesta una profonda sfiducia nei confronti della società; se infatti è Don Estevan l'oggetto immediato della riprovazione, non mancano allusioni a vaste categorie di persone che ne condividono la grettezza e la vigliaccheria: valga quest'interessante riferimento a certi emigrati politici:


tantos Personages
que a las islas se acogieron,
y desde allí con su anteojo
están observando atentos
de esta guerra sangrienta
el ansiado paradero...;


(II, 6, pp. 31-32)                


o l'allusione agli eroi da tavolino, paragonati a


los mirones
que en estando el toro muerto,
se pasean por la plaza
echando plantas y retos.


(ibidem, p. 32)                


A questa sfiducia si accompagna e si oppone una speranza nell'avvenire che è autentica ansia di liberazione dal presente:


Si tras tanta desventura,
llegamos en algún tiempo
a disfrutar en España
el anhelado sosiego...


(ibidem)                


  —52→  

È indubbio che, sotto l'incalzare di avvenimenti angosciosi, il clima è mutato perfino rispetto al primo Mor e i toni del romanticismo incipiente si fanno più marcati e visibili. Soprattutto percorre l'opera un vago idealismo che lascia avvertire la sua presenza non solo nei passi di ispirazione patriottica; basti qui ricordare un interessante brano in cui Fernando descrive un suo passato amore -tutto romantico di certo- per una donna esistente solo nel mondo del suo fervido sogno:


Mi corazón amoroso,
después de varios empeños,
como siempre acompañados
de zozobras y tormentos,
en sueños se figuraba
un fantástico modelo
de perfección, que servía
a sus impulsos de centro...


(II, 12, pp. 39-40)                


È evidente che in un clima sìffatto e in un mondo così scettico e convulso ma capace, al contempo, di intense passioni, non potevano più trovar luogo né la problematica sociale dell'amore né l'ottimismo illuministico e riformista di Moratín e della sua scuola. La commedia di Mor non è infatti problematica sotto nessun aspetto; è bensì moraleggiante e si fonda su di un'etica certamente sociale, alla stregua di Moratín e di altri predecessori, ma assai più per censurare che per redimere; vuole essere didattica ma in fondo si limita a insegnare la sfiducia e il desengaño.

Più sulla linea moratiniana si colloca invece Martínez de la Rosa che scriveva ¡Lo que puede un empleo! non senza un certo ottimismo ben spiegabile nell'atmosfera euforica delle Cortes di Cadice. L'intento che lo muoveva non era sostanzialmente diverso da quello di Mor; era

el vivo deseo de presentar en el teatro a cierta clase de hipócritas políticos, que so color de religión se oponen entre nosotros a las benéficas reformas


e di far sì che

el público conozca a los enemigos de nuestra libertad


(Advertencia, p. 9)                


  —53→  

Senonché, a differenza di Mor, egli faceva dell'ipocrita un personaggio un po' isolato, simile al furfante di Trigueros e di Moratín (sebbene non così eccezionale né così emarginato) e ancor più al cattivo consigliere delle tragedie neoclassiche di cui mantiene il ruolo di capro espiatorio. Don Melitón, infatti, è colui che ha convinto l'ingenuo Don Fabián della perfidia del liberalismo e pertanto l'ha indotto a rifiutare la mano della propria figlia al giovane liberale Teodoro. Ma il padre di quest'ultimo, il saggio Don Luis, che ha ben compreso la situazione, cerca di farlo cadere in un tranello; con la solita lettera falsificata, gli propone l'ufficio, altamente rimunerato, di protettore della libertà di stampa. Non esita, l'ipocrita Don Melitón, a cambiare immediatamente bandiera e così a scoprirsi e a restare scornato, mentre Don Fabián si ravvede e i due giovani possono coronare il loro sogno.

Lo schema è dunque abbastanza consueto e moratiniano (del Moratín del Barón, s'intende), così come moratiniana, e illuministica, è la convinzione che la malvagità sia alla fine sconfitta e che ragione e buon senso non possano non avere il sopravvento.

Il fatto nuovo è invece rappresentato anzitutto, come e ancor più che nell'Egoísta, da una più viva adesione al presente storico-politico, qui conseguita al punto che la realtà della vita e la realtà della scena potrebbero quasi sovrapporsi: scritta a Cadice nel 1812 e ambientata ad Alicante ma all'epoca delle sessioni delle Cortes, la commedia non solo è ricca di riferimenti a tali sessioni ma continuamente dibatte i problemi che ne costituivano l'oggetto; inoltre l'autore arriva perfino ad apporre alla lettera falsificata la data di «Cadice, 31 marzo 1812», vicinissima a quella della rappresentazione (24-10-1812).

In secondo luogo, al cauto riformismo conservatore della precedente generazione di commediografi, Martínez de la Rosa sostituisce un'ideologia innovatrice che si fa beffe dell'antiguo régimen e che non concepisce, nei fautori di esso, altro che ipocrita perfidia o eccezionale ingenuità. Certamente, egli appare nel complesso meno sfiduciato di Mor de Fuentes, anche se animato da un'uguale ansia di rinnovamento. Tuttavia non può esimersi dal guardare al mondo circostante con una trepidazione che irresistibilmente emerge nel finale, dove non riesce a reprimere il timore che molti nemici si nascondano dietro il volto anonimo della folla. A Don Fabián, ormai ravvedutosi, Luis propone di fare una passeggiata: intanto, dice,

iremos notando en los que pasen algunos don Melitones.


  —54→  

Fabián risponde:

Creo que no faltarán.


Luis allora non può far altro che esprimere un'incerta speranza:

Usted ya los ha conocido. ¡Ojalá a todos les suceda otro tanto!


(II, 10, p. 26 b)                


Attribuire a queste due commedie funzione di modello per la produzione immediatamente successiva significherebbe valorizzarle oltre i limiti della loro relativa modestia. Si può tuttavia affermare che esse, collocate come sono alle soglie dell'età fernandina, rappresentano una concentrata anticipazione del clima che dominerà nella commedia spagnola fino agli anni Trenta53.

Scetticismo, sfiducia o una più generica insoddisfazione per un presente acutamente sofferto si accompagnano infatti, di norma, nelle piezas che vanno in scena in questo periodo, a una vaga speranza di miglioramento o di rinnovamento che affiora per lo più al momento conclusivo dell'opera.

Questo vale in particolar modo per le commedie politiche le quali, dopo il ritorno del Deseado, conoscono ancora una breve ma rigogliosa esistenza nel triennio liberale. Fra le molte che si scrissero in questo periodo54 ne ricorderemo anzitutto una di Francisco de Paula Martí (autore di numerosi drammi di carattere, per così dire, «militante»), che nel titolo stesso denunzia un programma di viva storicizzazione di situazioni contemporanee: El hipócrita pancista, o acontecimientos de Madrid en los días 7 y 8 marzo del año 1820. La vicinanza degli avvenimenti descritti è suggestiva se si pensa che la commedia andò in scena solo tre mesi dopo: 18 giugno.

Il desiderio di riprodurre «dal vero» si avverte tanto nell'ambientazione, in cui è previsto un caffé che vuol richiamare il celebre Lorencini, quanto nell'introduzione di alcuni personaggi che in certo   —55→   modo simboleggiano i principali orientamenti politici del momento: Luis, liberale moderato; Agustín, liberale exaltado; Indalecio, servile e Remigio, apostólico.

La satira si appunta sui due ultimi che perfino nell'abbigliamento appaiono come l'emblema di un mondo che -nell'illusione dell'autore- volge ormai al tramonto: Indalecio, autentico Tartufo, è vestito da beato; Remigio, famiglio dell'Inquisizione, veste, secondo la didascalia, «antiguo régimen».

Ma se Remigio aspira solo a difendere i propri interessi, Indalecio nasconde sotto il saio del beato vizi più sordidi: vorrebbe approfittare della forzata lontananza del padrone di casa, liberale esiliato, per sedurne la moglie e, al contempo, sposarne la figlia Ramona, sottraendola così al puro amore di Luis, finché si scopre che è un frequentatore di prostitute e che ha sedotto la giovane Teresa. Sul finire della commedia, lo scorno di cui è vittima lo fa in parte ravvedere: sposerà Teresa mentre anche Ramona e Luis si uniranno in matrimonio.

L'impegno politico di quest'opera è particolarmente evidente non solo nelle prese di posizione a favore del liberalismo ma anche nell'intento di divulgare taluni principi costituzionali55 e soprattutto di rassicurare il pubblico moderato circa la moralità della Costituzione e il suo ossequio nei confronti della monarchia e della religione.56

Ma il piglio propagandistico dell'opera non riesce a nascondere un giudizio complessivamente negativo della società: in fondo, la maggioranza dei personaggi maschili (le donne qui non possiedono ideologie) è deplorevole o per l'adesione all'antiguo régimen (Indalecio e Remigio) o per un liberalismo esasperato (Agustín) o, infine, per la mancanza di idee (Eusebio, definito nel reparto «anciano, sencillo y de opinión vacilante»). Di fronte ad essi non si trovano altri che Prudencio e Luis, padre e figlio dalle idee liberali.

  —56→  

Il ristabilimento della Costituzione e il trionfo del Liberalismo offrono tuttavia adito alla speranza di un rinnovamento in cui i grandi valori, nuovi e tradizionali, trovino una forma di serena convivenza; la commedia si chiude al grido di Agustín, ripetuto coralmente dal popolo:

¡Viva la Constitución, viva el Rey, viva la Religión, viva la Nación!


Gorostiza volle invece ricordare l'insurrezione de Las Cabezas e il 1º gennaio 1821, nell'anniversario dell'avvenimento, mandò in scena, al teatro del Príncipe, un atto unico dal titolo Virtud y patriotismo o el 1º de Enero de 1820, che pubblicò subito dopo con una dedica entusiasta «al ciudadano Riego».

Sebbene anche in questa commedia l'arrivo finale degli insorti indichi che la nuova era di pace e di libertà è cominciata, il quadro complessivo è dipinto a tinte fosche. L'autore si serve di una trama alquanto semplice -la cattura del liberale Don Justo da parte di due familiari del S. Uffizio interrotta dal sopraggiungere delle truppe di Riego -per descrivere le pietose condizioni in cui versava la Spagna intera, lacerata da stuoli di servi del sottogoverno: famigli dell'inquisizione, guardie di finanza, esattori di decime, amministratori, che, nella fattispecie, si contendono il diritto di infierire su Don Justo.

A ragione, questi dirà della sua patria:

la veo humillada, y pobre, y esclava, y salpicada con inocente sangre, y poblada de cadahalsos, y hogueras, y víctimas, y verdugos; cuando debiera estar libre, segura, y venturosa, siendo envidia y modelo a un tiempo mismo, de las demás naciones civilizadas...


(7, p. 25)                


L'evoluzione che questo tipo di commedie conosce -soprattutto sul versante di un'intensificazione dei rapporti col presente e dell'osservazione spregiudicata della realtà contemporanea- nel passaggio dalla prima alla seconda esperienza costituzionale (nei confronti dell'Hipócrita pancista e di Virtud y patriotismo, le anteriori El Egoísta e ¡Lo que puede un empleo! acquistano infatti il sapore di bonarie reprimende) lascia intendere di quali interessanti sviluppi poteva esser capace il genere politico. In realtà la restaurazione operata da Fernando VII e la repressione compiuta da Calomarde ne impedirono ogni ulteriore germinazione.

  —57→  

E tuttavia la vitalità del genere è ancora attestata da un ultimo frutto per così dire spurio: a meno di due anni dalla restaurazione assolutista, certo Don J. M. de C. (José María de Carnerero?)57 fece rappresentare La noticia feliz, una commediola abbastanza puerile in cui non solo proseguiva sulla linea del trasferimento sulla scena dei fatti contingenti, ma applicava pure gli schemi impiegati dai commediograti liberali, ribaltandoli ai fini di un'esaltazione dell'assolutismo. Qui il liberalismo appare come l'appannaggio di vecchi pedanti e ridicoli (certa Doña Gumersinda Quinconces e certo Don Guindalesio Zarzaparilla che aspira alla mano della figlia di lei, Doña Paquita), mentre i giovani seri e innamorati (la suddetta Doña Paquita e il brillante ufficiale Don Álvaro che combatte per la liberazione del re) sono i difensori del nuovo regime. Non manca neppure il vecchio saggio, Don Pedro, che spiega quanto fosse assurdo imporre una costituzione che il popolo rifiutava, violare la giustizia e divenire infine lo zimbello dell'Europa intera58.

D'altro canto, pur con la scomparsa delle commedie politiche, certi atteggiamenti di fondo rimasero, vitali, in quelle altre opere che portavano in scena i temi eterni dell'umana convivenza.

Si tratta di commedie che, pur senza riferirsi a fatti concreti del mondo contemporaneo (che la censura non avrebbe sicuramente permesso), vi aderiscono ugualmente in maniera profonda, dal momento che riflettono, in varia misura, quell'esteso sentimento di frustrazione e, per così dire, di scoramento che, fin dal 1814, colpì la borghesia spagnola quando vide cadere le grandi speranze riposte nell'instaurazione di un regime liberale. Pertanto il mondo che esse descrivono pullula di ipocriti, di truffatori, di gente avida di impossessarsi dei beni altrui, di persone incapaci di amare:


Lo que se llama
sociedad, trato de gentes,
recíproca confianza,
—58→
no es otra cosa que engaño
monaditas, y alaracas.


(La sociedad sin máscara, I, 1, p. 6)                


Questa definizione che il Marqués de Cagigal, in arte Aristipo Megareo, metteva in bocca a un suo personaggio, potrebbe agevolmente collocarsi come lemma a numerose commedie di questo periodo.

Di fronte all'arida tristezza di quella vita, i commediografi rinunziano definitivamente all'impostazione problematica che bene o male aveva caratterizzato le commedie neoclassiche. In effetti, essi non sono alla ricerca di soluzioni che forse sentono irrealizzabili: si limitano in genere a contemplare il mondo circostante, rilevandone le disarmonie e tutt'al più consigliano la fuga o una qualche forma di evasione.

La prima opera che affronti questa tematica, sia pure in maniera ancora poco impegnativa, è Indulgencia para todos, che Gorostiza componeva intorno al 1816, quando si era appena agli inizi della repressione fernandina. Sorridente e scettica, serenamente disincantata, la commedia descrive una burla giocata dal futuro suocero a un troppo perfetto Don Severo per farlo cadere negli errori e nelle debolezze dei comuni mortali. Il rigido moralista finisce effettivamente per invischiarsi in amori e in duelli, perdere il suo denaro in una casa da gioco, ricorrere alla menzogna e alle astuzie di un servo per carpire denaro al padre e via dicendo. La saggia morale conclusiva che bisogni avere «indulgenza per tutti» (anche per gli autori della burla, a loro volta non esenti da colpe) naturalmente non cancella l'impressione della relatività e precarietà della condotta morale.

Concepita con mentalità ancora prettamente illuministica,59 l'opera vuol essere un'esaltazione della tolleranza -dirà Severo alla fine: «quiero un día / ser de todos conocido / por tolerante y prudente / que es lo mismo que indulgente (V, últ., p. 628 b)60- ma il fine docente   —59→   appare di gran lunga superato dalla constatazione dell'estrema debolezza dell'uomo che coinvolge presente e passato in una prospettiva borghesemente antieroica; di essa si fa interprete Don Fermín che così ammonisce il futuro genero:


esas Porcias y Lucrecias
si de cerca se miraran,
se vieran, ni más ni menos,
como se ven hoy las Juanas,
las Pepas y las Franciscas.
En todo tiempo hubo gaitas,
Severo, y no nos cansemos.


(II, 8, p. 610 a)                


Questo clima scettico e bonario non si confaceva evidentemente alla durezza dei tempi: fu infatti subito sostituito da visioni meno serene dell'esistenza, in cui la nota del desengaño acquista tonalità più intense e il sorriso lascia il passo all'amarezza della meditazione.

Un tale sentimento di profondo desengaño si riflette soprattutto nella particolare trattazione del motivo amoroso. Dopo tante commedie che si concludevano con le nozze dei protagonisti, già i neoclassici avevano manifestato qua e là il desiderio di soluzioni diverse. Ma ora si direbbe che, con nozze finali o senza, l'impegno dei commediografi non sia tanto quello di narrarci una storia d'amore quanto quella di presentarcene le contraffazioni e gli inganni.

Sul finire degli anni Dieci, Cagigal e, nuovamente, Gorostiza compongono due commedie curiosamente complementari, La sociedad sin máscara e Tal para cual, nelle quali l'amore appare solo un gioco in cui o ci si affida ai capricci della sorte o si lotta senza esclusione di colpi.

La sociedad sin máscara -cui si è fatto cenno poco sopra- anticipa sotto qualche aspetto la Marcela di Bretón, visto che anche qui una piacente viudita, Doña Flora de Peralta, tiene una tertulia cui partecipano vari personaggi maschili che aspirano alla sua mano. La rivalità conosce anche toni spietati: con la complicità di una cugina gelosa, un corteggiatore deluso arriva a trasformarsi in agente   —60→   provocatore inducendo due rivali a parlar di politica per avere il mezzo di denunziarli alla giustizia (situazione tipica del momento: siamo nel 1818!). Finalmente Flora opta (ma, si direbbe, senza troppo amore né troppa convinzione) per Don Tadeo, riconoscendo la necessità di trovare


un marido que me quiera
y un director que me guíe.


(III, últ., p. 145)                


Decisione repentina e scarsamente giustificata che si può probabilmente attribuire alla non molta sensibilità teatrale di Aristipo Megareo ma che, al contempo, bene esprime un mondo in cui l'amore può essere gioco da tertulia, calcolo o lotta ma, in fondo, non sentimento.

La commedia di Gorostiza presenta la situazione inversa: tre donne hanno ricevuto promesse di matrimonio dal medesimo Don Nicasio che, messo alle strette, si decide, dopo vari tentennamenti, a sceglierne una. Ma accanto allo scanzonato dongiovanni Gorostiza pone in evidenza la figura di una delle tre fidanzate, una baronessa nella cui casa è ambientata la vicenda. Ella è, come Don Nicasio, il simbolo di una sostanziale incapacità di amare che non esita a dichiarare apertamente. La sua preoccupazione è semmai quella di dover fingere un amore che non prova per il fidanzato il quale non ha fatto sorgere in lei altro sentimento che quello di un generico «agradecimiento» per le attenzioni che le usava.

Ella, in realtà, non ha mai amato nessuno: ha sposato senza amore un vecchio ed ora che è vedova si domanda freddamente:


¿en quién puedo yo emplear
mi afecto con más ganancia
que en mí misma?


(1, p. 20)                


E all'amica Clara, altra fidanzata di Don Nicasio che, incerta fra due pretendenti, domanda che debba fare, non esita a rispondere:

Baronesa
Toma, casarse.
Dª Clara
¿Con quién?
Baronesa
Con quien usted ama
si es que éste quiere, y sino
con el primero que salga.

(8, p. 48)                


  —61→  

Nonostante l'affinità dei temi, le due commedie possiedono toni assai diversi: tanto festosa e scanzonata quella di Gorostiza, quanto seria e meditabonda quella di Cagigal. Ma il fondo di scetticismo è comune a entrambe; uno scetticismo che determina assenza di soluzioni e perfino di ammonimenti o suggerimenti. La morale dell'una e dell'altra è infatti del tutto estrinseca e dà l'impressione di essere stata aggiunta quasi per rispetto alla prassi invalsa: per Gorostiza essa è che le astuzie degli uomini e delle donne si equivalgono; quella di Cagigal, più pragmatica e disincantata, è che sia bene conoscere la società «sin máscara», visto che non è possibile cambiarla.

La citazione di commedie di un qualche rilievo che vanno in scena nel decennio successivo è, per almeno due terzi, un elenco di consimili storie di frustrazioni e soprattutto di inganni d'amore.

Inaugura la lista Don Dieguito di Gorostiza, rappresentato nel 1821, in cui un ingenuo e vanitoso petimetre di provincia è circuito da un'intera famiglia madrilena -padre, madre, figlia con l'aggiunta di un ospite- che aspira a concludere le nozze fra lui e la ragazza allo scopo di appropriarsi del suo patrimonio. Don Anselmo, un saggio zio dell'ingenuo giovanotto, mette allo scoperto il loro meschino interesse: finge che il nipote sia povero, per cui quelli lo abbandonano e lo disprezzano. Don Dieguito apre gli occhi e prova un profondo desiderio di amore puro e disinteressato e di fuga dall'angosciosa realtà cittadina:


a la Montaña me vuelvo;
no más ciudad, no más vanos
cumplimientos ni lisonjas;
no más amor cortesano:
una pasiega rolliza
que me estime y me hable claro,
una mujer que se case
conmigo y no con el gato
de Don Anselmo, una buena
madre de mis hijos, trato
de buscar, cuando la encuentre
mi corazón.


(V, 10, pp. 113-114)                


Un passo così ricco di Sehnsucht, unito a un intenso bisogno di comunicazione schietta («que me hable claro»), posto al termine dell'opera,   —62→   sembra voler riverberare sull'intera commedia un senso di generale disgusto che da questa famiglia di gente avida si estende a tutto il costume cittadino.

Parrebbe, a un esame superficiale, la ripresa della vecchia tematica della lotta fra l'amore e l'interesse. In realtà non c'è lotta, che presuppone vitalità, così come non c'è amore; domina incontrastato l'interesse economico che si camuffa da amore e che naturalmente, una volta smascherato, lascia scorgere un vuoto sconsolante.

Egrave; una situazione che sei anni più tardi verrà rielaborata dal Duque de Rivas, allora esule a Malta, in quella commedia intitolata Tanto vales cuanto tienes, la quale non potrà calcare le scene spagnole che assai più tardi, nel 1834.

La commedia appare sconfortata fin dal titolo -così proverbialmente universale- e intende appunto mostrare come spesso l'amore non sia che una forma di travestimento dell'interesse. Qui infatti Rufina e Alberto, che avevano accolto trionfalmente il fratello Blas al suo ritorno dall'America, credendolo ricco, gli si rivoltano contro e lo scacciano quando apprendono che un assalto di pirati lo ha privato di ogni suo avere. Come però vuole lo happy ending, una società di assicurazioni gli procura il debito indennizzo, col quale egli potrà beneficare la nipote Paca e il suo fidanzato Juan che, soli, non l'hanno respinto al momento del bisogno.

Specchio della società mercantile contemporanea (con i suoi vari problemi di trasporti, di assicurazioni, di fallimenti e di usure), la commedia ne mostra intenzionalmente i freddi calcoli e il vuoto sentimentale.61

Il giudizio di Rivas non è tuttavia assoluto: egli opera infatti una certa distinzione di tipo sociale, per cui i peggiori, Rufina e il cugino Miguel, risultano rispettivamente appartenenti alla nobiltà e alla casta militare. La prima, marchesa spiantata, pur di arricchire, cerca di passare la figlia dall'uno all'altro pretendente a seconda delle prospettive economiche del momento; il secondo, ufficiale, si adatta a qualsiasi bassezza pur di soddisfare il vizio del gioco.

Di fronte stanno i buoni borghesi: Blas e Juan, in primo luogo (un mercante e un assicuratore), che antepongono l'onestà commerciale   —63→   e l'aiuto reciproco a qualsiasi altro interesse, e anche rispettabili rappresentanti della classe popolare: i due servi, Ana e Pascual, che provano umana simpatia per Blas, e un falegname che, vista la miseria di Rufina, non insiste per ottenere il pagamento del suo credito.

In altri casi, il posto dell'interesse è occupato dalla vanità, come accade in La niña en casa y la madre en la máscara, con cui Martínez de la Rosa ritornò al palcoscenico nel pieno svolgimento del triennio liberale. Può sembrare curioso che questo scrittore, il quale nel 1812 aveva in certo modo inaugurato la commedia politicamente impegnata, ripiegasse ora su temi di etica più generale. Il fatto è che ormai al commediografo si affiancava l'uomo di stato, il quale si rendeva conto di come i problemi della società che si doveva governare andassero oltre la semplice adesione al liberalismo. O, per meglio dire, si trattava di ricercare un'applicazione dei principi liberali nella convivenza civile e perfino nell'intimità delle famiglie.

Certo il tema era d'ascendenza moratiniana e a Moratín l'autore si richiama infatti esplicitamente nell'Advertencia, dichiarando che, come il suo predecessore aveva presentato «las resultas de la educación apocada y monjil que solía darse a las hijas en España», così egli aveva inteso censurare le conseguenze «del mal ejemplo y del descuido de las madres».

Senonché nel corso dell'opera ci si accorge che non si tratta solo dell'incuria di Doña Leoncia la quale si immerge in un'intensa vita mondana lasciando la figlia lnés abbandonata a sé stessa e altrettanto avida di piaceri, per cui rischia di divenire facile preda dell'avventuriero Teodoro. Viene infatti censurata tanto la fatua vanità della madre che giunge a rivaleggiare con la figlia contendendole l'amore di Teodoro, quanto l'incapacità di Inés di formarsi un concetto razionale della libertà femminile. Ella da una parte eccede nell'uso di questa libertà, mescolandosi in compagnie disdicevoli,62 dall'altra è incapace di un gesto di coraggio che la sottragga all'ingiusta soggezione nei confronti della madre. Quando, verso la fine dell'opera, dopo varie perplessità, tenta questo gesto, lo compie nella direzione sbagliata: cerca infatti di fuggire con Teodoro, ossia con una maschera ipocrita dell'amore.

Un'altra commedia dunque sull'incapacità di amare: incapace la madre che cerca in Teodoro una conferma alla sua illusione di donna   —64→   ricca e matura di essere tuttora interessante agli occhi degli uomini; incapace la figlia che, avendo a portata di mano l'amore quieto e sicuro di Don Luis, si incapriccia della vita elegante e spensierata che le promette Teodoro.

La commedia si chiude tuttavia con qualche accento di speranza nel pianto finale che unisce Leoncia e Inés e lascia intendere che entrambe hanno riscoperto la forma più legittima dell'amore: la prima quello di madre, la seconda quello di Don Luis.

Si va così profilando, in queste commedie della prima età fernandina, in contrapposizione alle varie forme fallaci dell'amore, l'ideale di un amore semplice e casalingo, che rifiuta tanto la cortesanía cittadina, come nel Don Dieguito, quanto le passioni accese e il lusso esorbitante, come nella Niña en casa e, in certa misura, in Tanto vales cuanto tienes (in quest'ultimo caso nella modestia che unisce Paca e Juan in contrasto col sogno di un matrimonio opulento in cui si culla la madre Rufina). È un ideale che corrisponde non solo alla prospettiva esistenziale propria della borghesia ma anche a quel profondo bisogno di intimità e di ordine interiore che sempre sorge nelle epoche di intensa agitazione od oppressione politica. Ma è anche un tono nuovo che non solo dista moltissimo da quelli del futuro dramma romantico, ma si allontana anche, entro certi limiti, da quelli della commedia neoclassica, complessivamente più accesi e anticonformistici.

Il fatto è naturalmente ben spiegabile: se i commediografi neoclassici si presentavano come dei riformisti e quindi con programmi sia pur moderatamente innovatori, questi dell'età fernandina si limitano a sperare nella restaurazione di una società onesta e giusta; non è dunque fuor di luogo che aspirino al ristabilimento delle semplici virtù del buon tempo antico di cui la famiglia, che si regga su di un amore tranquillo e domestico, è uno dei più naturali caposaldi.

Di tali virtù tradizionali si fece interprete e paladino, in quegli stessi anni, Antonio Gil y Zárate: nel maggio del 26 fece rappresentare Un año después de la boda, in cui affidava a un Don Gregorio, tipico rappresentante del castellano viejo, il compito di difenderle e stimolarle.63 Questo Don Gregorio, alla stessa stregua dei   —65→   protagonisti di Don Dieguito, è un provinciale che aspira a ritornare, anche lui, alla natia Montaña perché nauseato della società madrilena.

Lo irritano soprattutto le manie di grandezza e la condotta morale del nipote che ha comprato il titolo di marchese e che, quantunque sposato da un anno, non solo non ama la moglie (alla quale, inoltre, concede, ricambiato, la più assoluta libertà) ma corteggia pure una baronessa (al solito, si tratta di una «joven viudita») dalla quale spera di ottenere un impiego a corte.

Nell'inseguimento di questo suo sogno, il marchese trascura i suoi più elementari doveri, arrivando perfino a lasciare la moglie esposta alle ardite profferte di un conte libertino. Alla fine però una scintilla di gelosia lo ridimensiona e lo riporta a una visione più saggia della vita: con la più viva approvazione dello zio, egli e sua moglie rinunziano d'ora in poi alle ambizioni, al lusso e alla mondanità in genere:


No más grandezas.
Por ti renuncio a la Corte


dichiara il marchese alla sua sposa. Ed ella di rincalzo:


No más bailes. Ya me apestan
las modas. He de vender
mis brillantes y mis perlas.


E il marito, a sua volta:


Yo mi landó, mis caballos
y hasta el tiro de colleras.


(III, 5, p. 96)                


È il trionfo del buon senso e dell'antica sobrietà castigliana; ma arriva tardi, dal momento che tutta la commedia, fino alle ultime battute, aveva presentato una visione della vita familiare rilassata e perfino   —66→   corrotta e una concezione dell'amore frivola e interessata. È un mondo in cui uno prende moglie solo


porque es
a su esplendor necesaria


(I, 1, p. 8)                


e in cui, dopo un anno di matrimonio, si deve constatare che


los afectos con el tiempo
disminuyen,


(ibidem)                


mentre la gelosia è considerata appannaggio di «gente ordinaria» e il corteggiamento quasi un obbligo sociale, al punto che, come afferma la marchesa nell'intento di discolparsi:


Una dama del gran tono
hace siempre un papel feo
cuando no tiene su corte.


(II, 3, p. 33)                


Su questo sfondo si svolge a suo agio l'attività truffaldina del Conte e della Baronessa: azione secondaria che tuttavia contribuisce a dar l'ultimo tocco a un paesaggio morale gravemente sconfortante.

Abbastanza simile, nonostante la differenza di ambienti e di situazioni, è l'atmosfera che avvolge l'altra commedia che Gil y Zárate mandò in scena pochi mesi dopo: ¡Cuidado con las novias!, rappresentata nell'ottobre di quello stesso anno.

La trama sembra un po' ricalcare quella del Don Dieguito: anche qui infatti alcuni furfanti circuiscono l'ingenuo provinciale Don Cándido al fine di arricchirsi alle sue spalle sposandolo con Isabel, la figlia di certa Doña Engracia presso cui il giovane è ospitato. Collaborano nell'opera di circonvezione, oltre alla madre e alla figlia, un Don Melitón, che tira le fila della congiura, e un vanesio petimetre, Don Silverio, il quale accetta di parteciparvi nonostante che sia quasi fidanzato con la stessa Isabel. Raggirato abilmente, insensibile ai richiami del vecchio e saggio Don Justo, Cándido abbandona l'amore serio e tranquillo di Inés e finisce per firmare un contratto di matrimonio con Isabel. Un litigio fra i compari e un opportuno   —67→   intervento di Don Justo scoprono la trappola tesa e liberano Cándido dall'impegno assunto con tanta leggerezza.

Il riscatto finale non attenua tuttavia di molto l'impressione di una generale perversione inutilmente contrastata dallo sparuto gruppetto di persone oneste. Per ben quattro atti prosegue inarrestabile (e fluisce agilmente sul piano della rappresentazione) l'opera di circonvenzione di Don Cándido; d'altra parte, le rivelazioni che pullulano nel quinto nascono da equivoci talvolta così facili e fortuiti da crear l'impressione di una soluzione posticcia.64

Parallelamente l'amore e l'amicizia compaiono soprattutto in forma ingannevole e frodolenta che trova un'adeguata espressione in un linguaggio falsamente retorico di cui l'autore invita a sorridere.65

L'altro, l'amore vero, in quanto schietto e incapace di retoricismi, può vivere solo nella semplicità della campagna ed è necessariamente soffocato dalle aure viziate della città. Al momento di staccarsi da Cándido, Inés prorompe in questo lamento così ricco di romantici rimpianti:


Mientras hemos habitado
en nuestro rústico pueblo
fui feliz; un dulce error
alimentaba en el pecho;
y al ver que nuestras edades,
nuestros gustos, nuestros genios
eran unos, discurría
que las dichas de himeneo
sólo en eso se cifraban.
Vine a Madrid. ¡Qué funestos
desengaños me ha costado
viaje tan fatal! Huyeron
cual humo todas mis dichas.


(V, 5, p. 24 b)                


In Cándido invece l'amore è un sentimento per così dire passivo, che sgorga solo dopo la scoperta dell'inganno. La sua vittoria è quindi lenta e difficile; per questo, quando il giovane, aperti finalmente gli occhi, pensa di ritornare a lnés e di sposarla subito, Don Justo lo ammonisce:


No, debéis
diferir el casamiento
hasta que la reflexión
adquiera en vos más imperio
para refrenar los vicios.


(V, últ., p. 28 b)                


Una sottile vena di sfiducia nell'uomo s'insinua inaspettatamente perfino in quelle commedie che, sulla scia del Celoso y la tonta o La mujer varonil, sembrano prefiggersi come scopo preminente quello di divertire alle spalle di un personaggio un po' fuori della norma.

Nel 25 due commedie di questo tipo vengono rappresentate, a quanto pare con successo,66 sui palcoscenici di Madrid: El entremetido, ancora di Gil y Zárate, ed El amigo íntimo, ancora di Gorostiza.

Se per l'ultima occorrerebbe un notevole sforzo per reperirvi un qualsiasi impegno che non sia quello di interessare e divertire,67 nella prima è possibile scorgere una qualche maggiore attenzione ad aspetti e problemi di comportamento.

El entremetido presenta un tipo di ficcanaso moralista che vuol conoscere i fatti di tutti per mettervi ordine (il suo ordine naturalmente) ma non conosce quel che avviene sotto il tetto di casa sua e,   —69→   soprattutto, crea una serie di equivoci e di malintesi che solo il caso riesce a rabberciare.

Don Melchor, il protagonista, è talmente convinto di vivere, lui saggio e previdente, in un mondo di sciocchi bisognosi del suo aiuto che quando, al termine dell'opera, si scoprono gli equivoci in cui era caduto, ha solo un momento di perplessità («no me quiero ya meter en nada, en nada») ma è subito ripreso dalle sue manie di faccendiere:

¿Qué quiere usted? Es mi comidilla. Si me quitan el mangonear, me muero.


(III, últ., p. 83 b)                


Certo, si sorride alle spalle del protagonista e dell'allegra confusione che involontariamente scatena, ma al contempo non si può non avvertire la preoccupazione morale di cui lo circonda l'autore e un tocco di pessimismo che non sarebbe fuor di luogo riportate alla particolare situazione del tempo.

Indubbiamente non si può dimenticare che, quando componeva quest'opera, nonché le altre due ora esaminate, Gil y Zárate si trovava rifugiato a Cadice, in attesa che, dimenticando i suoi trascorsi liberali, le autorità centrali gli concedessero il permesso di rientrare a Madrid (e l'ottenne in effetti nel 26);68 non è perciò pensabile che rischiasse di compromettere ulteriormente la sua personale situazione celando in Don Melchor qualche allusione a figure concrete del tempo. Pare tuttavia lecito supporre che, più o meno coscientemente, egli avesse riversato nel suo personaggio quel senso di diffusa irritazione contro l'occhiuto paternalismo che stava producendo numerosi entremetidos, moralistici e ignoranti: Calomarde, il padre Carrillo e altri della stessa risma.

Qualcosa del genere sembra tralucere proprio dalla moraletta finale, che chiude l'opera con una serietà meditabonda apparentemente sproporzionata al tono dominante piuttosto leggero:

Aprenda -dice al protagonista il saggio Don Pedro- que aquellos que más se afanan por averiguar vidas ajenas y arreglar los negocios de otros, suelen ser los que más ignoran cuanto pasa en sus casas, y más en desorden tienen sus asuntos propios.


(III, últ., p. 83 b)                


  —70→  

Di fronte a una tale diffusa visione disincantata della propria epoca, è davvero eccezionale il caso del gorostizano Las costumbres de antaño (1819), in cui la rievocazione della Spagna quattrocentesca, realizzata attraverso un trucco organizzato alle spalle del misoneista Don Pedro, fa sí che questi si renda ben conto dei vantaggi che il presente offre rispetto al passato. Ma è una pieza d'occasione, composta per le nozze di Fernando VII e questo basta a spiegarne il tono singolare69.

Rari sono pure i casi di commedie originali (escludendo cioè le refundiciones sempre in auge) che riprendano motivi moratiniani, come El matrimonio tratado di Cagigal, che spezza un'ennesima lancia contro le nozze combinate70.

Tennero invece a lungo il cartello altre commedie ispirate a vecchi schemi: La vieja y los dos calaveras (1815), fondata sugli equivoci che nascono dall'omonimia fra padre e figlio71; Los dos Mendozas (1817)72, non priva di qualche felice pennellata nella descrizione dei caratteri, ma imperniata anch'essa sull'omonimia, assai meno credibile, di due fratelli, al solito l'uno buono e l'altro cattivo; El sobrino fingido (1817), dove l'omonimia nasce da un trucco, perché un conte assume per amore la personalità di un contadino.

Logicamente non sono queste le commedie che possono destare l'interesse dello storico e certamente non modificano il quadro che si è tratteggiato nelle pagine precedenti e che appare pertanto discretamente uniforme73.

  —71→  

Un discorso a parte esige La pata de cabra (1829)74, commedia di magia nata come puro divertimento, che tuttavia dovette apparire non priva di un qualche significativo messaggio agli stuoli di spettatori che le decretarono uno strepitoso successo destinato a ripetersi per numerose stagioni.

Il segreto di Grimaldi (non per nulla un capocomico esperto dei gusti del pubblico) fu quello di rinverdire il teatro di magia, inserendone le tematiche e gli ingredienti tradizionali negli schemi strutturali e ideologici della commedia borghese contemporanea.

L'opera presentava infatti la consueta vicenda di due giovani innamorati, Juan e Leonor, che riescono a coronare il loro sogno superando i vari ostacoli frapposti dal tutore Don Lope, il quale vorrebbe che la sua pupilla sposasse il nobile Don Simplicio.

Che cupi persecutori insidiassero la felicità di due giovani e che la magia intervenisse a favore di questi ultimi era certo motivo ricorrente nelle commedie di questo genere; ma qui i personaggi rivestono panni quotidiani e familiari: il persecutore è un anziano borghese che, continuamente rimbeccato dall'impertinente Leonor, tenta vanamente di affermare la sua autorità; il promesso sposo, dal nome comicamente risonante di Simplicio Bobadilla de Majaderano y Cabeza de Buey, è uno sciocco pusillanime. Intorno a loro, personaggi della vita quotidiana: uno scrivano, alguaciles, servi.

Naturalmente non manca, com'é ovvio, la dimensione «magica», qui rappresentata essenzialmente dal talismano (una zampa di capra, per l'appunto) che permette a Juan di trionfare sui suoi avversari, oltre che da figure della mitologia classica: Cupido, Vulcano, i Ciclopi; compare anche un buffo mago.

Entrambe le schiere di personaggi -la «reale» e la «magica»- rivelano l'intenzione di rivolgersi a quel ceto medio che finora non aveva offerto molti spettatori alle comedias de magia: sia infatti la prima schiera, così ricca di figure moratiniane rese solo più caricaturali (e la caricatura del nobile sembra costruita su misura per accattivare le simpatie della classe media), sia la seconda, pervasa di riferimenti eruditi e di battute incomprensibili ai meno colti75 rispondevano pienamente alle esigenze di quel tipo di spettatori.

  —72→  

Un tale sovvertimento del pubblico tradizionale costituiva in certo modo una scelta politica: significava infatti prediligere al popolo fautore dell'assolutismo e della reazione (Grimaldi, sceso in Spagna con i «centomila figli di S. Luigi», l'aveva udito pochi anni prima gridare: «¡Vivan las caenas!») la borghesia che ne rappresentava l'opposizione. Per questo l'autore ne assunse anche le prospettive esistenziali e se ne fece, a modo suo, l'interprete.76

Il mondo in cui i suoi personaggi si muovono -nella dimensione realistica- è infatti osservato e descritto con lo stesso scetticismo, si potrebbe perfino dire con la stessa amarezza, di tante commedie contemporanee. Anzi, per sottolinearne le deficienze in maniera ancor più radicale, Grimaldi applica fin dalle prime righe dell'opera il topico del «mondo alla rovescia».

In apertura infatti, Juan descrive i suoi fallimenti nei vari mestieri, causata da troppa serietà professionale: avvocato scrupoloso, non ebbe clienti; medico capace, fu perseguitato dai colleghi; musicista, fallì perché non era italiano.

Più avanti, i musicisti spuntati miracolosamente dalla terra, si rivelano autentici virtuosi, così da far esclamare:

Parece que hay más habilidad debajo de la tierra que encima.


(I, 6, p. 15)                


E naturalmente è «alla rovescia» tutta la vicenda, in cui un tutore di ascendenza moratiniana pretende che la sua autorità conti più della volontà della fanciulla nella scelta dello sposo, un nobile sciocco è preferito a un borghese intelligente, la giustizia dello stato è posta al servizio dei persecutori contro le vittime innocenti.

  —73→  

Il «mondo alla diritta» lo si ritrova solo nella luna dove il povero Simplicio è stato trasportato dal suo berretto trasformatosi in pallone aerostatico: lì gli amanti sono costanti, gli sposi fedeli, i mercanti onesti, i funzionari cortesi. Topici anche questi, s'intende, ma talora non privi di riferimenti più concreti al mondo contemporaneo e in prospettiva indubbiamente borghese, come nel passo seguente:

Allí la literatura está en honor. Todos los hombres de talento son ricos, y todos los ricos son hombres de talento. Los periodistas hablan con imparcialidad de las cosas que pueden juzgar, o callan acerca de las que ignoran. La polémica es urbana. Todo al revés, amigo mío, todo al revés; en fin, allí no son necios los que escriben comedias de magia.


(III, 1, p. 56)                


Per fortuna la magia -o l'amore di cui essa qui diviene il romantico emblema- svolge la funzione di ristabilire l'ordine violato e di far trionfare le vittime sui persecutori. Rimangono così comicamente scornati non solo Don Lope e Don Simplicio ma anche, e si può immaginare con quanto giubilo del pubblico, lo scrivano e gli sbirri, che si vedono sfuggire la preda mentre un incantesimo li trattiene «en el aire, a una vara del suelo» (II, 9, p. 41). Non diversamente capita ai mitici colleghi dei poliziotti, ai ciclopi che aiutano Don Simplicio e che finiscono sconfitti dalla dolcezza delle Grazie.

Il che permetterà all'autore di lanciare, sul termine dell'opera, il suo messaggio di speranza:

no será la primera vez (...) que el amor y las gracias habrán triunfado de la fuerza.


(III, 5, p. 65)                


Così La pata de cabra si trasformava in una favola rassicurante che nella comicità serena e liberatoria scaricava le tensioni e gli odi repressi di un pubblico che tendeva a scorgere nella vicenda rappresentata una certa allegoria dei tempi in cui viveva.

Possiamo dunque concludere che, nel periodo che va, grosso modo, dal 15 al 30, pur nell'estrema difficoltà di esprimere il proprio pensiero, gli scrittori di teatro si attestano su di una linea comune, che   —74→   è in fondo di opposizione o di semplice scontentezza, ma che per molti versi richiama il romanticismo ormai diffuso in tutta Europa.

Si sarebbe perfino tentati di affermare che il rigore dei tempi riuscì a modo suo giovevole all'arte teatrale. Impediti nelle libere manifestazioni delle proprie idee, timorosi di assumere posizioni morali troppo definite e quindi compromettenti, i commediografi abbandonarono quell'atteggiamento docente che aveva caratterizzato la precedente generazione e ripiegarono sull'osservazione e sulla presa di coscienza; tutt'al più, per scrupolo, aggiunsero di tanto in tanto una moraletta finale adattata alla meglio.

Le commedie di questo periodo appaiono perciò complessivamente più fluide e compatte delle precedenti (escludendo dal raffronto, s'intende, quelle di Moratín): l'autore inoltre si ritrova più spazio per l'espressione dei sentimenti e per le descrizioni ambientali.

L'impegno dei commediografi si sposta così dal dibattito di problemi alla ripresa di stati d'animo: condizione certamente imposta dal clima cupamente repressivo dell'epoca che tuttavia costituì una significativa premessa verso il pieno sviluppo della commedia romantica e bretoniana.

Ma la lezione che Bretón apprese con maggiore interesse da questi suoi predecessori immediati fu forse quella relativa al tema della comunicazione che, già intuito dai due Moratín, sembra acquistare nell'età fernandina carattere di una maggiore urgenza e consapevolezza. Più che mai, si direbbe, nella severa repressione di ogni libertà di parola, gli scrittori avvertono l'esigenza di un linguaggio franco che esprima i reali sentimenti dell'individuo.

Alcuni si riallacciano semplicemente ai Moratín, insistendo nel deprecare l'educazione ipocrita che esige dalle fanciulle la dissimulazione dei propri sentimenti e perfino la menzogna. Così protesta un personaggio de La niña en casa:


¿Pues, acaso,
desde los años más tiernos
a qué enseñan a las niñas?
A ocultar dentro del pecho
los gustos más inocentes,
a disfrazar sus deseos,
a desmentir sus voces... ecc.


(II, 2, p. 81 a)                


A sua volta Gorostiza, pur col suo consueto sorriso, non esita a   —75→   sollevare un velo sugli abietti egoismi che si nascondono dietro tali principi pedagogici: nell'Amigo íntimo, Don Vicente confida infatti nell'educazione impartita dalle monache alla figlia per poterne forzare a suo piacimento la volontà:

poquito cuidado han tenido las madres que la educaron en acostumbrarle a disimular, y a no hacer nunca sino lo que se le manda, para que ahora...


E quando la ragazza -più evoluta ormai della Paquita moratiniana -si rifiuta di dichiarare il suo amore a quel Don Frutos che ella non ama, poiché, dice:

Eso sería engañarle, y usted no querrá...


il padre non esita a redarguirla e ad esigere da lei la più completa menzogna:

Sí, señora que lo quiero; ¡viose tal sandez!


(III, 5, p. 114 a)                


Martínez de la Rosa coglie abilmente le implicazioni politiche del problema: Carlota, come tante altre eroine, obietta timidamente al padre che, con la sua concezione dell'obbedienza ad ogni costo, ella sarà costretta all'ipocrisia e alla menzogna. Indignato, Don Fabián attribuisce una tale, a suo parere inconcepibile, dichiarazione ai nefasti influssi delle cattive letture e delle idee liberali.77

Così l'autore stabiliva un netto spartiacque fra l'abitudine alla menzogna propria dell'antiguo régimen e il desiderio di sincerità che caratterizza le nuove generazioni liberali.

All'insincerità per difetto, altri accosta quella per eccesso che si verifica ogniqualvolta il sovraccarico retorico dell'espressione, anziché manifestare il sentimento, lo mistifica. Questo accade soprattutto quando si prende a prestito il linguaggio letterario, modellato sui canoni delle mode imperanti e che pertanto è istituzionalmente insincero. La satira, in questi casi, discende dalla Comedia nueva   —76→   ma si orienta a colpire non tanto il fenomeno letterario quanto le sue applicazioni sul piano della realtà quotidiana. Lo si è visto in ¡Cuidado con las novias!, dove l'ironia nei confronti di espressioni improntate al manierismo romantico sottintende un'istanza di semplicità e di chiarezza; ma vale la pena ricordare ancora un passo dell'Entremetido nel quale l'insincerità di siffatti calchi è esplicitamente sottolineata. Il servo Perico così spiega a Mariquita la ragione per cui il suo innamorato ha cessato di scriverle:

Como ha apurado en sus cartas cuanto ha leído en la nueva Heloísa y otras novelas, no sabe ya qué decir.


(I, 4, p. 61 b)78                


E c'è anche, naturalmente, chi sa sfruttare a fini comici l'incapacità di comunicare. Rivas, nel suo Tanto vales cuanto tienes, adotta il modello, non nuovo e destinato a esser variamente ripreso, del personaggio che, incurante delle domande e delle interruzioni altrui, prosegue imperterrito nel suo vaniloquio. Qui, il servo Pascual, mentre tutti attendono ansiosamente di sapere se ha trovato lettere di Blas, racconta comicamente gli inutili particolari dell'arrivo della diligenza. È, se vogliamo, l'antico espediente entremesil del dialogo fra sordi, che qui però acquista una nuova comica dignità.

Ma non manca naturalmente chi affronta invece il risvolto positivo della questione e postula un messaggio perfettamente decodificabile (il «que me hable claro» di Don Dieguito, su cui già ci si è soffermati) o auspica una comunicazione diretta quale solo possibile veicolo di un amore autentico. Così Cagigal, il quale fa sì che Flora, sollecitata da Don Narciso ad accogliere l'amore di Don Tadeo, si dichiari sì disposta a conceder la mano a quest'ultimo, ma esiga, al contempo, che sia Tadeo stesso a dichiararsi. E questo non per il rispetto di una formalità, ma bensì perché una terza persona, ella afferma:


no puede hablar en la lengua
en que el amor e interés
reproducen sus ideas.


(III, 12, p. 126)                


  —77→  

Don Tadeo, a sua volta, le riconosce l'opportunità di una manifestazione esplicita dei propri sentimenti:


que me explique con usted
con absoluta franqueza...


(III, últ., p. 144)                


A queste condizioni si realizza l'amore. Un amore che, in questo caso, appare infine poco appassionato e quasi poco convinto ma che viene ricercato secondo le istanze tipicamente romantiche di un sentimento che si esprima senza remore e senza infingimenti.

Ma Cagigal sapeva che questa richiesta di sincerità nel messaggio amoroso non era che un aspetto di un'esigenza più generale che nasceva in margine all'esperienza di una società mendace, piena di malizie e di sotterfugi:


En la sociedad del día
los labios no están de acuerdo
con el corazón. Halagan
y él no toma parte en ello.


(II, 1, p. 49)                


Emblematici questi versi del pur modesto Aristipo Megareo: grazie ad essi sappiamo che ora si giudica il cuore come la scaturigine del messaggio e che solo nell'accordo fra sentimento e parola (cuore-labbra) si pensa che riposi la salvezza della società.





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