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ArribaAbajoCapitolo III

Verso l'«alta comedia»


1.- Formulismi dell'età di Cristina

Il periodo della reggenza di Cristina è quasi tutto dominato, sul versante della commedia, dalla fertile personalità di Bretón de los Herreros. Nessun altro nome di rilievo accanto al suo; un solo ingegno nuovo si appresta a percorrere un cammino diverso: Ventura de la Vega, buon amico di Bretón e abile scrittore, che comincia a far parlare di sé me che per ora si limita a tradurre e, con le traduzioni, ad affilare lo stile.

Sembra dunque spenta la stirpe dei commediografi, mentre si fa più frequente il caso di scrittori che, in momenti di pausa, si dedicano alla composizione occasionale di opere comiche.

Sembra inoltre che solo a Bretón sia affidato il compito di tentare formule nuove, mentre viene a mancare, nei suoi contemporanei, la spinta verso qualsiasi forma di sperimentalismo. Si direbbe che ormai ci si trovi il cammino tracciato e ci si adagi facilmente in strutture ultracollaudate. L'aspetto più significativo di una tale rinunzia alla sperimentazione è offerto da un curioso ricupero di Moratín in forme e moduli estremamente vicini al modello, che si aveva diritto di considerare ormai superati e remoti.

Espronceda e Ros de Olano, per esempio, disseppelliscono l'abusatissimo tema della rivalità amorosa fra zio e nipote che richiamano esplicitamente nel titolo -Ni el tío ni el sobrino- anche se vi imprimono uno svolgimento diverso da quello del Sí de las niñas. Qui un anziano Don Martín è circuito da una Doña Paca che vorrebbe fargli sposare la figlia Luisita, di cui è invece innamorato il nipote Eugenio, uno scimunito di cui tutti si fanno beffe. Dopo un intermezzo in cui un altro innamorato di Luisita sfida a duello il pavido Don Martín, giunge dall'America un Don Juan che smaschera le due donne in cui riconosce due note truffatrici.

Affiorano dunque i motivi moratiniani del matrimonio fra età diseguali (il commento finale sarà: «Viejo que casa con niña, / o lleva víctima, o maula»), della finta santocchia (Luisita, esaltata dalla madre come fanciulla di ogni virtù, lettrice assidua di libri   —164→   devoti ecc.) e della truffa a fini matrimoniali, sebbene quest'ultimo tema appaia piuttosto filtrato attraverso il Gorostiza del Don Dieguito.

Un titolo anche più moratiniano inventò Javier de Saelices, il quale nel 1836 pubblicò El no de las viejas, che forse non andava esente da qualche influsso bretoniano. Dal Bretón di Marcela, infatti, ma forse anche dal gorostizano Tal para cual, potè trarre Saelices l'idea di una donna matura che rifiuta il troppo stretto legame del matrimonio. Come le precedenti eroine che forse le servirono di modello, la protagonista Doña Blasa così espone il suo ideale di vita:


Quiero, amiga, divertirme
sin las trabas de un marido,
mucho menos de un querido,
que pretenda intervenirme.
La vida tiene placeres
mucho mejores que amar...


(I, p. 10)                


Tuttavia finisce per accettare le profferte di un certo Don Marcelo cui «gusta la carne añeja» (III, p. 89): soluzione non priva di originalità, in un gusto che si direbbe decadentistico154.

In questo periodo Martínez de la Rosa dovette comporre La boda y el duelo, una commedia che egli stesso definiva, nell'Advertencia preposta, «de la escuela de Moratín»155.

Più che di scuola si dovrebbe parlare di imitazione, anche se mascherata dall'accostamento del tema del duelo a quello della boda, che parrebbe riportare l'opera a motivi romantici. Vi si svolgono due azioni intrecciate: da una parte Luisa che ama Carlos, fratello di un'amica contessa, mentre la madre, una marchesa, le vuole imporre le nozze con l'anziano Don Juan; dall'altra, la suddetta contessa   —165→   che, serena e scanzonata, fa celebrare la messa anniversaria per il defunto marito e intanto accetta la corte di un giovane tenente. Moratín e Bretón dunque (o forse, per ragioni cronologiche, ancora una volta Gorostiza), come sembrano attestare i caratteri dei personaggi e le soluzioni dell'intrigo.

Nella zona moratiniana è facilissimo stabilire equazioni: Luisa= Francisca (la fanciulla è timida, soffre ma è incapace di ribellarsi); Marquesa=Doña Irene (la madre parla sempre in luogo della figlia, le si impone con la sua autorità); infine Don Juan=Don Diego: l'anziano è desideroso di accasarsi ma capisce i diritti dei giovani e, nonostante le obiezioni della marchesa, fa sposare Luisa e Carlos.

Nell'altra zona, l'allegra vedova finisce per avvertire la meschinità che l'avvenire le serberebbe accanto al tenentino, essendo ella «joven, y rica y viuda» e vi rinunzia lietamente.

Ed è forse in questa giustapposizione di Moratín e di Gorostiza-Bretón che risiedono gli accenti più originali della non molto originale commedia; e non è chi non avverta un pizzico di romanticismo appunto in quell'accostamento di nozze e di funerale. Un romanticismo che peraltro affiora quasi spontaneamente sul fondo moratiniano, soprattutto nei toni violenti e appassionati di Carlos che giura di uccidere il rivale e nell'angoscia di Luisa che, incapace di rompere il cerchio delle convenzioni, prorompe in questa serie di opposizioni:


Amo a Carlos, y le pierdo;
amo a mi madre, y la engaño;
me quiere un hombre, le aprecio,
y también voy a mentirle...
Voy a decirle que es dueño
de un corazón... que no es mío
y que está por otro ardiendo.


(II, 8, p. 31 b)                


Nelle opere di questo periodo emergono pure, sebbene con frequenza non particolarmente intensa, richiami al mondo politico; ma mentre in Bretón essi erano caratterizzati dal contatto con la realtà immediata, i suoi contemporanei sfiorano in genere temi sorpassati o, per così dire, metapolitici.

Nel No de las viejas un personaggio ricorda l'esilio di cui ebbe a soffrire per la sua fede liberale ed esprime la sua gratitudine a Isabella che ha ridato benessere alla Spagna, «enterrando lo absoluto»   —166→   (I, p. 48): ma questi argomenti affronta nel 36, quando sono ormai sfuocati dal tempo.

Eugenio de Tapia che, scrivendo El hijo predilecto (in cui un figlio indegno, costantemente preposto, con la complicità della madre, a un altro buono e sincero, viene alla fine diseredato a vantaggio del suo antagonista), ritornava, nel 39, ai temi dei rapporti familiari già dibattuti otto anni prima, trovava modo di inserirvi pure un accenno politico. Immaginando che la vicenda si svolga poco dopo il 1823, introduce un ridicolo scrivano, Don Judas, a tesser l'elogio -che risulta necessariamente comico- dell'assolutismo e ad esprimere il timore di sentir cantare il Trágala per la terza volta.

Cose lontane, come si vede, sorpassate da nuovi, urgenti problemi: si pensi che, nel frattempo, la Spagna era stata straziata da una guerra civile.

Più vicina all'effettiva situazione del tempo è Don Crisanto o La politicomanía che Manuel Rancés e Hidalgo fece rappresentare al teatro dalla Cruz verso la fine del 1835.

Il piacere di far politica era una scoperta relativamente recente ed è probabile che il vizio di Don Crisanto fosse, nell'epoca, abbastanza diffuso. Senonché la satira, in luogo di toccare aspetti concreti del costume, serve solo a trasformare il protagonista in un figurón, della cui mania approfittano la figlia Engracia e il fidanzato Leandro per concludere felicemente la loro relazione amorosa. È vero che compare anche qualche richiamo a problemi politici più propri del tempo, ma questi vengono affrontati in maniera generica e secondo una mentalità di epoche più lontane. Talune esaltazioni del justo medio sviano verso concezioni addirittura preilluministiche, se si pensa che un certo Don Facundo (interprete, a quanto pare, del pensiero dell'autore) ritiene inattuabile l'uguaglianza dei diritti perché sottrarrebbe braccia alla campagna e alla miniera:


Si pensara el labrador
bajo su rústico techo
que tiene el mismo derecho
a gozar que su señor,
y fulminando el acero
contra el mismo a quien servía,
partiera con él un día
grandeza, pompa y dinero,
¿quién dirigiendo el aratro
—167→
el fértil surco trazara?
¿Ni quién la mina explotara
de mil peligros cercado?


(II, 17, p. 57)                


Una frecciata a Martínez de la Rosa è la sola allusione diretta alla politica contemporanea. Replica Don Crisanto alle argomentazioni di Facundo:


¡El justo medio!!! ¡Qué horror!
Lenguaje de pastelero,


(II, 17, p. 59)                


con verisimile allusione a colui che gli avversari chiamavano «Rosita la pastelera» e che era, al momento, uno dei politici più in vista.

Se la politica non sembra suscitare un particolare interesse nei commediografi degli anni Trenta, sempre assai vivo rimane invece l'interesse per il linguaggio di cui si colgono diversi aspetti. Lo stesso Rancés e Hidalgo si giova della mania del protagonista per mettergli in bocca quel fraseggiare specialistico che, adattato alle vicende ordinarie, determina effetti comici sicuri. Espediente già più volte messo in atto e che ora ritorna, oltre che nel Don Crisanto, anche ne Los amoríos de 1790, in cui García de Villalta introduce una zia Cleta che parla un linguaggio prezioso e involuto, logicamente comico.

Ma Villalta conosce anche il linguaggio romantico per eccellenza che distribuisce a piene mani nel corso dell'opera. César, che aspira alla mano (e l'otterrà) di Cecilia, nipote di Doña Cleta, si rivolge alla fanciulla come uno dei tanti innamorati romantici che da anni ormai calcavano le scene spagnole (la commedia fu rappresentata nell'epoca del pieno fervore teatrale romantico, il 1º gennaio del 1838):


Angélica beldad, cuya luz pura
con delicias inunda el alma mía...


Cecilia risponde esponendo i principi informatori del codice romantico (semplicità, schiettezza, verità, antiretorica):


Yo no sé, noble señor,
mi ignorancia perdonad,
—168→
decir más que la verdad
sin ornato ni color.


(I, 15, pp. 20-21)                


Un altro corteggiatore accumula invece altri ingredienti della langue romantica. Si domanda (e anche l'interrogativo è una delle componenti tipiche):


El vergel ameno,
el hermoso bosque,
la ciudad activa,
¿qué son para el hombre
a quien la fortuna
esquiva sus dones?


(II, 1, p. 29)                


E, per concludere, ecco la considerazione finale di Doña Cleta che, dinanzi allo sbocciare dell'amore fra César e Cecilia, abbandona l'abituale retoricismo:


no olvidemos un momento
que es un puro corazón
el más fino sentimiento.


(II, últ., p. 52)                


Si tratta ormai di un codice così diffuso e accettato che non è più sfruttato a fini comici. Per far ridere, si ricorre piuttosto ad altre forme di manierismo che, semmai, si rifanno al linguaggio classicheggiante156.

Al contrario, il codice romantico viene impiegato correntemente per esprimere referenti che si muovano nella sfera del sentimento, soprattutto, com'è logico, quando si tratti dell'amore.

Se, col sopraggiungere del realismo, molti ingredienti propri del movimento romantico tenderanno a scomparire, persisterà invece abbastanza a lungo questo tipo di linguaggio. Un segno di questa sua persistenza ci può essere offerto da una commedia di Santos López Pelegrín (Abenamar): Cásate por interés y me lo dirás después. Rappresentata   —169→   nel 1840, ossia con qualche anno di anticipo rispetto all'Hombre de mundo, sembra indicare uno dei più acuti momenti di trapasso verso l'alta comedia. L'opera narra un intreccio di torbidi amori che sembra preludere, ancor più che a Ventura de la Vega, a López de Ayala (si pensi a Consuelo). Un certo Don Diego, abbandonata Isabel de cui ha avuto un figlio, sposa Luisa. Costei ama in realtà Don Juan il quale tuttavia l'ha gettata nelle braccia di Diego, perché, ella dice,


hay amantes caprichosos,
que tan sólo son dichosos
a la sombra del marido.


(I, 3, p. 11)                


Tuttavia Luisa, scontenta di un marito che neppure la ama, finisce per fuggire col suo primo amore ma, sorpresa dalla morte, lascia infine campo libero a Isabel che sposa, in ultimo, il pentito Don Diego.

L'opera, vicina al dramma ma senza il dinamismo di quello e prevalentemente rivolta verso le zone dell'interiorità, si regge tutta su di un linguaggio la cui ascendenza romantica è palese. Fin da principio, quando Isabel scopre che Diego, attratto dal denaro di Luisa, sta per abbandonarla, ci imbattiamo in una tipica contrapposizione fra civiltà e barbarie a tutto vantaggio della seconda:


Mejor es nacer salvaje,
mejor, mil veces mejor;
del desierto entre el ramaje,
no hay quien el honor ultraje;
mil veces maldito honor...
Aquí donde el oro impera,
aquí es mentira el amor....


(I, 2, p. 9)                


Analoghi concetti esprime Luisa quando è ormai convinta di essere stata sposata solo per denaro:


Más feliz es la pastora
que sabe allá en su rincón
que el amor es la ambición
del pastor que la enamora...


(II, 1, p. 18)                


  —170→  

Accenti di questo genere pervadono l'intera commedia in maniera tanto più curiosa se si pensa alla personalità dell'autore, satirico e costumbrista e amante, per lo più, di un linguaggio semplice e disteso.

Una chiave interpretativa di questa apparente contraddizione sembra offrircela Tapia che, nel già citato Hijo predilecto, pone a confronto una concezione plebea e una borghese della comunicazione. Immagina che il «prediletto» Serafín si rivolga a Isabel -che i genitori gli hanno destinata- con una franchezza che sconfina nella volgarità:


Éste es mi franco lenguage:
no gasto más cumplimientos
ni piropos, ni esas frases
de sentimentales necios...


Ma Isabel ribatte:


que un hombre bien educado
no como el ínfimo pueblo
ha de vestir con inculto
lenguage sus sentimientos.


(II, 9, p. 28)                


Il linguaggio culto postulato dalla fanciulla per l'espressione dei sentimenti coincide ormai con quello romantico che ha cessato evidentemente di scandalizzare al punto da poter essere accolto nel seno della borghesia.

Certo è che quando il linguaggio si attesta su livelli pacificamente accettati e cessa di essere fonte di ricerca e problema esistenziale, significa che il fermento creativo di un movimento letterario si va esaurendo.

La routine s'impone anche agli ingegni migliori: come già Martínez de la Rosa ed Espronceda, anche Hartzenbusch, reduce dal trionfo degli Amantes de Teruel di appena tre anni prima, fa rappresentare nel 1840 una stereotipata La Visionaria. In essa non solo ricupera vecchi motivi patriottici antinapoleonici e antibritannici (la commedia è ambientata a Palma di Maiorca nel 1805), ma rielabora pure il tema dell'incapacità pregiudiziale di comprensione. Doña Críspula, persuasa che Don Vicente, il quale vorrebbe comprare la casa in cui ella abita, aspiri invece alla mano di sua figlia Valentina, interpreta fatti e parole secondo questa sua incrollabile convinzione. Problema della comunicazione dunque, che tuttavia una lettura della   —171→   commedia fa capire quanto venga ridimensionato al livello di un equivoco non molto diverso da altri che movimentano l'opera e che perseguono il solo scopo di destare l'ilarità. In Doña Críspula è rimasto solo un barlume di quell'angosciosa impotenza a comunicare che incideva profondamente nei caratteri degli Amantes de Teruel.

2.- «Don Frutos en Belchite»

Di tutti i commediografi di questo periodo, Bretón è forse il solo che più a lungo resista nella trattazione non consuetudinaria e nell'approfondimento di tematiche romantiche. Tuttavia, dopo il 40, dopo aver cioè svolto il tema della comunicazione tanto a fondo nel Pelo de la dehesa, non sembra più in grado di percorrere la medesima strada. Quando infatti, a cinque anni di distanza, penserà di sfruttare il successo della commedia presentandone un seguito e una conclusione, si muoverà su di un piano sostanzialmente diverso. Don Frutos en Belchite ha perduto i colori vivaci della commedia costumbrista, così come il protagonista ha perduto il suo fare rusticano, e si avvicina all'alta comedia se non si trasforma definitivamente in essa. Don Frutos, raffinato dai viaggi e dall'esperienza, è ora un distinto signore e ospita con dignità e cavalleria la mai dimenticata Elisa che un fortunato incidente di carrozza ha fatto cadere nei pressi della sua casa.

I due ora comunicano sia perché Frutos usa un linguaggio civile, ben diverso da quello che lo caratterizzava nella commedia precedente, sia perché Elisa ha un poco rinunziato alle sue manie di aristocratica madrilena. Ma in questo loro incontrarsi a mezza strada vanno perdute le efficaci spigolosità dei personaggi senza che per questo si realizzi un'intesa per motivi superiori. Semplicemente è avvenuto un livellamento e i due parlano, come innumerevoli altri esseri, lo stesso linguaggio. La sola barriera che li divide è rappresentata dall'esistenza del marito di Elisa e di un impegno matrimoniale assunto in precedenza da Don Frutos. È sufficiente che la morte si porti via l'ingombrante consorte e che Frutos, con un espediente simile a quello già collaudato nella prima commedia, si liberi onorevolmente dall'impegno perché finalmente si realizzi il lungo sogno d'amore.

  —172→  

Il definitivo trionfo dell'urbanità che questa commedia sancisce rappresenta forse lo sbocco naturale di un teatro che sempre si era mosso nel quadro di una mentalità borghese e che nella borghesia aveva scorto le forme più genuine di una prospettiva esistenziale seria e ricca di valori.

Egrave; chiaro peraltro che, raggiunta questa meta, la commedia romantica aveva esaurito il suo compito e doveva cedere il passo a nuove forme teatrali.







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ArribaAbajoAppendice

Traduzioni e rielaborazioni


Oltre che dalle refundiciones del teatro barocco -le quali esercitarono una loro influenza nella direzione di una più attenta analisi psicologica e della caratterizzazione dei personaggi157- la scena spagnola fu invasa, nella prima metà dell'Ottocento, da traduzioni di opere straniere, nonché da quelle rielaborazioni che, collocandosi accanto alle commedie definite semplicemente traducidas, erano variamente indicate con i termini di comedias imitadas, adaptadas, arregladas, acomodadas (per lo più con l'aggiunta, in questi ultimi casi, «al teatro español»).

Si tratta di un fenomeno di vasta portata sociale e culturale, degno di una particolare attenzione non solo per la sua ampiezza ma soprattutto per l'interesse che tali opere destarono nel pubblico e nella critica. Non si dimentichi che le rappresentazioni di opere straniere furono sempre di gran lunga più numerose di quelle spagnole, spesso anche per una maggiore tenuta di cartello. In cima a tutte, nel secondo quarto di secolo, le commedie del celeberrimo Scribe158, nella cui traduzione si avvicendano a gara i migliori ingegni comici di Spagna: Gorostiza, Bretón, Ventura de la Vega.

Si può dire, d'altronde, che tutti i commediografi si dedicarono, in quel periodo, alle traduzioni, soprattutto dal francese, anche -come ci racconta Bretón159- per il vantaggio economico che quelle rappresentavano.

Data la sua vastità e complessità, il fenomeno esigerebbe un'analisi notevolmente ampia che esulerebbe dalle intenzioni di questo saggio: in questa sede può riuscire tuttavia utile una più modesta serie di osservazioni e di rilievi su di un campionario ristretto di opere trascelte nell'ambito delle principali categorie. Al fine di operare alcuni raggruppamenti, ci si servirà delle definizioni in uso nell'epoca,   —174→   che si sono indicate all'inizio di questo capitolo; sia chiaro tuttavia che vi si ricorre per comodità di classificazione, dato che non è possibile attribuirvi un valore costante né un intento rigidamente distintivo160.

Comedias traducidas

Come esempi di traduzione letterale o quasi letterale, prenderemo in esame due atti unici di Bretón che ottennero un successo notevole e conobbero continue riprese in varie successive stagioni teatrali: Un paseo a Bedlam, condotto su Une visite a Bedlam di Scribe, ed El confidente, da Le confident, ancora di Scribe.

In entrambi i casi, Bretón rimane il più possibile fedele al testo, battuta per battuta, con poche soppressioni di parti ritenute superflue e alcune varianti che, essendo assai scarse, stanno a testimoniare una scoperta intenzionalità.

Anzitutto vengono eliminate -secondo una prassi comune a tutti i traduttori spagnoli dei vaudevilles161- le parti cantate: sono soppresse totalmente o sostituite da battute che ne sintetizzano l'essenziale.

Il tutto è poi sottoposto, nei limiti del possibile, a un processo di ispanizzazione che evidentemente persegue lo scopo di avvicinare maggiormente l'opera al pubblico ma che risponde anche a quell'esigenza di hispanidad e di casticismo che si va facendo strada in quegli anni (le due opere tradotte furono rappresentate per la prima volta rispettivamente nel 1828 e nel 1831).

Per un tale fine l'autore si avvale di vari espedienti, di cui il più ovvio è quello di ispanizzare i nomi dei luoghi e delle persone, come avviene nel Confidente: Mme de Marcilly diviene Doña Teresa, Saint-Félix si trasforma nel Don Félix così frequente e convenzionale nel teatro barocco, mentre M. de Villeblanche è sostituito da Don Eugenio. Solo la serva Cathérine è tradotta alla lettera in Catalina,   —175→   ma a un certo punto assume i connotati di una casticísima Catujilla (13, p. 4 b).

Altri rivelano il tentativo di operare un trasferimento da un sistema ideologico a un altro. Nel Paseo, una battuta antiinglese è sostituita da un'altra antifrancese. In Scribe cantava Alfred, parlando del manicomio di Bedlam:


A vos fous il ne manque rien,
ils sont le plus heureux du monde;
en France on le trait moins bien;
chez nous pourtant l'espèce abonde.


(6, p. 16)162                


Bretón modifica:

Vuestros locos son los más felices del mundo, no los tratan así en otras naciones. ¡Oh! Y lo que es en Francia hay buena cosecha de ellos.


(id., p. 10)                


Analogamente sostituisce il francese pronunziato all'italiana da Crescendo con un italiano maccheronico che, da lungo tempo, era la lingua buffa del teatro spagnolo163, e moralizza due battute sul matrimonio che il pubblico spagnolo avrebbe probabilmente accolto con fastidio. Affermava Scribe:

Je trouve tout naturel qu'un mari reste éloigné de sa femme.


(2, p. 7)                


Bretón svuota la battuta di ogni malizia:

No es ninguna cosa del otro mundo el estar un marido ausente de su mujer.


(id., p. 4)                


Poco dopo, ancora Scribe:

c'est déjà si singulier d'être mari! et puis un mari qui se plaint, comprenez vous, on en voit partout.


(6, p. 17)                


Ed ecco la versione moralizzata di Bretón:

  —176→  

Ya veis, harto trabajo tiene uno con ser marido, sin ser además marido regañón.


(id., p. 10)                


Che è, curiosamente, quel medesimo procedimento di moralizzazione che presiedeva alle refundiciones del teatro secentesco164.

Ma naturalmente le forme più efficaci di ispanizzazione riguardano il linguaggio: non si può dire quanto le traduzioni abbiano giovato come esercizio linguistico alla ricerca dell'espressione più idiomatica. Valga qualche rapido raffronto:

Une visite à BedlamUn paseo a Bedlam
Vous voyez que je ne vous passe
rien.
(3, p. 10)
Ya veis que nada me dejo en el tintero
(id., p. 6)
C'est ta presence qui l'a fait fuir.
(13, p. 28)
Tu figura de tapiz le ha dado miedo
(14, p. 16)
Va toujours, je t'écoute
(13, p. 31)
canta hasta que se te caiga la campanilla
(14, p. 18)
Le confidentEl confidente
Grand-mère!... juste ciel!
(7, p. 19)
¡Virgen de Atocha! ¡Abuela yo!
(id., p. 3 b)
Je vous le demand, alors, que
deviendrai-je?
(15, p. 32)
¡Apuradillo me vería!
(id., p. 5 b)
il ni avait personne; j'en étais bien
sûr.
(16, p. 33)
No hay tal individuo, picotera.
(id., p. 5 b)

Se questa ricerca dell'espressione più corrente e più vivace conduce sulla via del romanticismo, assai più significative, al riguardo, sono altre modificazioni stilistiche, e perfino di contenuto, che compaiono nel Paseo.

Nelle scene XI e XII di Scribe, Amélie canta i seguenti couplets:



1 Il est partie loin de sa mie,
loin du bel ciel da sa patrie;
mais en vain l'ingrate tous le jours
m'oublie;
serai fidèle à mes amours
toujours.
—177→

2 Il est parti, l'ami que j'aime
Ai tout perdu, le bonheur même;
n'en est pour moi qu'avec celui
que j'aime!
Tout est chagrin, tout n'est qu'ennui
sans lui!


Bretón compie, qui, eccezionalmente, una variazione totale nell'evidente intento di trovare tonalità più patetiche; per conseguirlo, ricorre alle immagini naturali e ai topici della poesia bucolica, facendo recitare (il canto è sempre bandito) ad Amelia le seguenti strofe:



1 1) Huyes la tierna Silvia,
huyes la dulce patria.
¡Ingrato! Amor castigue
tu bárbara inconstancia.
.....................................
Cual leve mariposa
vuela de rama en rama,
en pos de los placeres
tú, fementido, vagas.

2 2) Tú me dijiste un día
a la sombra de un haya,
¡acuérdate! «no he visto
tan donosa zagala.
Bellos son tus luceros
más que el de la mañana;
como el aura de mayo
lúbrica tu garganta».


Il sentimentalismo facile e triviale di questi versi svela l'intenzione di attingere momenti di patetismo più profondo; un'intenzione che diviene anche più palese al termine dell'opera, dove il finale, allegro e un tantino scanzonato, del modello è sostituito da una breve scena che si conclude con queste parole del protagonista:

Querida Amelia, tus brazos, que harían perder el juicio al hombre más sensato, me lo han hecho recobrar a mí. Estoy por añadir una jaula al escudo de mis armas.


E, alludendo alla pazzia che aveva colpito Amelia:

Sí; porque una locura nos separó, y otra nos reconcilia para siempre.


(últ., p. 23)                


  —178→  

In questa chiusa così chisciottesca, in cui pazzia e saggezza appaiono entrambe come frutti dell'amore, si avverte un chiaro preludio di romanticismo: e siamo nel 1828.

Un ultimo aspetto di queste tradizioni bretoniane è lo spostamento dal mondo aristocratico tanto caro a Scribe a quello della borghesia. Nel Confidente non solo è introdotto, in sostituzione di M de Villeblanche, quel Don Eugenio che il reparto definisce «coronel retirado», ma la didascalia iniziale subisce una curiosa modifica notevolmente programmatica nella sua apparente leggerezza. Nel testo francese è detto:


Un salon éléganment meublé.


In quello spagnolo:

El teatro representa un salón sencillamente amueblado, pero con gusto.


Comedias arregladas (o adaptadas, acomodadas) al teatro español

Assumiamo come campioni El cocinero y el secretario (o El secretario y el cocinero: compaiono le due forme) e La segunda dama duende.

La prima, che Gorostiza condusse su Le secretaire et le cuisinier di Scribe è una traduzione piuttosto libera, pur nella sostanziale aderenza alla trama e alle strutture del modello. Di essa si può dire che quasi ogni battuta del testo spagnolo combacia con la battuta corrispondente dell'originale ma che, al tempo stesso, non esiste frase che non abbia subito una qualche variazione che va oltre le normali esigenze di un passaggio da lingua a lingua.

Il risultato è un linguaggio spumeggiante totalmente nuovo; si confronti, proprio all'inizio, l'avvio della prima battuta: discorsivo, narrativo in Scribe ed effusivo in Gorostiza:

Je vous le repète, dites que je ne suis pas. Que diable aussi, le comte de Saint-Phar, mon maître, avait bien besoin de se faire donner l'ambassade de Copenhague! Depuis que nous sommes nommés, je crois que la tête tourne a toute la maison: chacun veux monter.

Jesús, Jesús, ¡qué liorna! Esto no es vivir... y desde que al amo le han dado   —179→   la dichosa embajada, ni se come, ni se duerme, ni se hace nada a derechas en esta casa... luego todos quieren ascender y subir como la espuma.


Ed ecco altri confronti che non esigono commento, tanto è chiara la volontà di Gorostiza di ricreare il testo in senso vigorosamente castizo:

Le secrétaire et le cuisinierEl cocinero y el secretario
Là, je vous domande, quelle rage de
protection! Moi qui voulais choisir
moi-même...
(3, p. 51)
Bien decía yo que al fin había de
haber empeño al canto. Nunca le
dejan a uno escoger a su gusto ni...
(id., p. 7)
Nous y voilà! Je ne pourrais pas en
donner une.
(bid.)
Ésta es otra que canta y baila.
(id., p. 8)
On m'avait bien dit qu'avec des
protections on arrivait à tout.
(8, p. 60)
Bien dicen que quien a buen árbol
se arrima...
(id., p. 17)
Diable! Notre secrétaire est un homme
de mérite.
(1, p. 66)
No parece rana el secretario
(id., p. 22)
Messieurs, je vous laisse, chacun
votre affaire.
(ibid., p. 68)
Ea... señores, la de Antón perulero,
cada cual atienda su juego.
(id., p. 27)
Un instant; je demande que les
perquisitions ne commencent qu'après
le déjeuner.
(22, p. 86)
Un momento: sería de dictamen que
no se empezasen las pesquisas hasta
que nos hubiésemos desayunado;
porque, esto, amigos míos, pasa ya de
castaño oscuro.
(id., pp. 44-45)
Qu'entends-je?
(ibid., p. 87)
¿Qué bulla es ésta?
(id., p. 45)

La traduzione è tutta costellata di queste felici libertà, ma vi compaiono anche altri espedienti atti a imprimere un tono generale più ispanico.

Ora sostituisce Madrid (con un richiamo a Salamanca) a Parigi: il cantato di Scribe


Mais dans Paris comment donc, sans encombe,
chercher un fous qui vient de s'échapper?


(16, p. 74)                


è così reso da Gorostiza:

pero si buscar un calavera en Madrid es lo mismo que un estudiante en Salamanca.


(id., p. 32)                


  —180→  

Ora moralizza le battute che sembrano irridere all'intoccabile istituto del matrimonio:

Un homme marié qui vivait en garçon, car je n'ai jamais vu ni sa femme ni son fils.


(7, p. 55)                


Casa, en fin, de hombre solo, pues aunque era viudo y tenía un hijo, éste estaba en su regimiento, y nunca supimos de qué color era.


(id., p. 12)                


L'esigenza di trovare una «morale» all'opera, secondo una consuetudine invalsa in Spagna ma evidentemente negletta dall'allegro vaudeville, impone infine a Gorostiza di ampliare notevolmente la conclusione. In Scribe, che tuttavia affidava il finale ai soliti brani cantati, essa, nella parte recitativa, suonava semplicemente:

Et moi derrière [il cuoco si poneva dietro a tutti, mentre il segretario prendeva posto accanto al padrone di casa]: voilà chacun à sa place; ce n'est pas sans peine.


(p. 88)                


Gorostiza modifica e aggiunge:

Y yo me pondré detrás, esto es, cada cual en el sitio para que ha nacido y ninguno en el de otro. ¡Ojalá que en las distintas mutaciones de la comedia humana se conformasen todos tan presto con su suerte como se han conformado con la suya el Secretario y el Cocinero!


(p. 47)                


La seconda commedia, che lo stesso traduttore Ventura de la Vega, definisce esplicitamente «arreglada al teatro español», è una rielaborazione, autonoma nel linguaggio ma pedissequa nelle strutture, di Le domino noir di Scribe. La commedia era ambientata nella Spagna secentesca già nel testo francese e narrava l'immaginaria avventura di una figha del Conde-Duque de Olivares che, destinata al convento, finiva poi per sposare il giovane Horace.

Fin dal titolo Vega lascia trasparire il suo intento di operare un'ispanizzazione più intensa e più rigorosa: ciò che egli vuole è puntualizzare e storicizzare il vago ispanismo un tantino folcloristico del modello. Il richiamo a Calderón contenuto nel titolo si accompagna pertanto ad altri riferimenti più concreti alla realtà storica del secolo XVII. Ecco pertanto che alla generica didascalia di un ballo negli appartamenti della regina è sostituita la più precisa ed evocativa indicazione della Corte del Buen Retiro; alla battuta anacronistica di Miano:

Rassurez-vous, vous le saurez demain par la gazette de la cour


(I, 1, p. 262)                


  —181→  

fa riscontro un'allusione ben più esplicità all'ambiente culturale del tempo:

No importa. Mañana nos lo dirá don Francisco de Quevedo en algún gracioso romance.


(id., p. 3)                


Infine l'autore spagnolo sopprime la battuta (II, 6, p. 319) in cui Juliano offre ai suoi ospiti nientemeno che sigarette («Messieurs, voici des cigarettes», nella Spagna degli Absburgo!).

La traduzione appartiene al 1838, ossia alla piena epoca romantica: lo scrupolo di fedeltà storica che essa rivela è la forma più consona ai tempi che il processo di ispanizzazione potesse assumere; certamente lo scrittore aveva presente La Corte del Buen Retiro, il dramma che Escosura aveva messo in scena l'anno precedente.

Questo processo di puntualizzazione storica prosegue nella scelta dei nomi dei personaggi e nella loro caratterizzazione. Juliano, troppo generico e troppo poco spagnolo, diviene Conde de Orgaz; Horace, che forse suonava troppo classicheggiante e corneilliano, si trasforma in un piú castizo Don Luis; lord Elfort, attachée dell'Ambasciata d'Inghilterra, diviene il Marchese di Porto-Riveiro, diplomatico portoghese che, secondo le tradizioni mistilinguistiche dell'entremés accolte anche dalla comedia, parla regolarmente nella sua lingua. Le due fanciulle, infine, Brigitte e Angèle, ricuperano nomi tradizionali da commedia: Leonor e Beatriz.

Soppressi, anche qui, tutti gli intermezzi cantati, è mantenuta tuttavia la canzoncina che Angèle-Inesille intona nella casa di Juliano; ma anche in questo caso, il desiderio di ispanizzare è evidente e si realizza nell'introduzione di una letrilla di gusto tradizionale che nulla ha che vedere col testo originale. Questo infatti esordiva:


La belle Inés
fuit flores;
elle a des attraits,
des vertus;
et bien plus
elle a des écus! ecc.


(II, 7, p. 326)                


laddove nel testo spagnolo la fanciulla canta:


Han sonado tres palmadas,
es cerca de anochecer,
—182→
¿y tan de prisa te pones
el manto y el guardapiés?
    ¿Adónde vas, niña?
    -Madre, no me riña,
    que voy a rezar
    a la Virgen del Pilar ecc.


(id., p. 35)                


Sul piano strettamente linguistico, anche là dove il testo originario è tenuto presente, Vega, come già si è visto Bretón e Gorostiza, ricorre a ogni tentativo pur di introdurre la frase castiza, ottenendo così un contesto vivo e colloquiale, assai più spigliato dell'incolore dialogo di Scribe. Valgano pochi significativi raffronti tratti dalla scena VI dell'atto II (p. 320 in Scribe e 31 in Vega):




Le domino noir


Tu te trompes
Te le crois bien, elle faisait semblant.
Mais non, mon ami, ce n'était pas elle.
Laisse-moi donc tranquille.
Et nous avons fait un joli coup.





La segunda dama duende


Si no hay tal.
¡Ya!... Se haría la dormida.
¡Dale!... Si no es eso.
¡Don Luis!... Busca quien te escuche.
¡Y por señas que la hemos hecha buena!


Le traduzioni che abbiamo esaminate si estendono nell'arco di circa un ventennio, appartenendo quella di Vega al 1838 e le altre tre al 1821 (quella di Gorostiza), al 1828 e al 1831.

La distanza cronologica si nota forse in quella preoccupazione per il rispetto della storia che caratterizza l'opera di Vega e che, come si è rilevato, è un tipico frutto di quegli anni. Ma per il resto si nota il perdurare di certe costanti che attestano la continuità del processo di ispanizzazione e soprattutto l'interesse, sia pure su di un piano più tecnico, per quei problemi di linguaggio che le commedie originali andavano continuamente affrontando e sviluppando.

Comedias imitadas

L'esempio più caratteristico e più riuscito di questo tipo di commedie è probabilmente rappresentato da No más mostrador di Larra. Lo scrittore, nel presentarla al pubblico, non ne aveva citata la fonte,   —183→   che era il solito Scribe (Les adieux au comptoir): se n'era poi scusato, in seguito a un attacco mossogli dal Diario de Comercio, affermando di aver preso dal commediografo francese soltanto l'idea e di averla poi sviluppata in maniera autonoma; tanto che, soggiungeva, di un atto unico aveva fatto una pieza in cinque. Commedia peraltro di non grande merito, precisava infine, di cui gli erano ben noti «los defectos de su plan, de su estilo, de sus caracteres»165.

Dato il tipo di rapporto col modello, un confronto non può aver luogo che sul piano della trama e dei personaggi. Le modifiche arrecate da Larra riguardano soprattutto la prospettiva sociale in cui è calata la vicenda. Scribe ha una concezione classista che gli ispira la morale, se di morale si può parlare, del suo vaudeville: ognuno deve stare al suo posto e l'aspirazione alla nobiltà da parte di un bottegaio è pertanto riprovevole e ridicola. Larra interpreta la vicenda non solo secondo lo spirito dell'epoca liberale ma anche secondo una lunga tradizione teatrale spagnola che trovava il suo capostipite nei lontani Menestrales: per lui insomma è assai preferibile un onesto mercante a un nobile spiantato e ridicolo. Pertanto l'aspirazione alla nobiltà è fonte di riso perché è un poco un degradarsi, ossia per motivi opposti a quelli di Scribe. Per questo, mentre nell'opera di Scribe il conte non è che un'invenzione creata per assecondare le ambizioni di Mme Dubreuil, in quella di Larra è un personaggio reale che veste i panni scenici del figurón e sul quale si appunta la satira.

Di questo spostamento di prospettiva è indice, fra l'altro, un'affermazione delle due giovani: quella francese si dichiara disposta a sposare Bernard, presentatosi sotto le spoglie di un conte, «anche se fosse un mercante» (come se si trattasse di un notevole sacrificio scendere tanto in basso nella scala sociale), mentre la spagnola si limita ad affermare che amerebbe Bernardo, pure travestito da aristocratico, «anche se non fosse un conte».

In generale poi, la commedia di Larra tesse l'apologia del buon borghese, tradizionalista e semplice, secondo un costume ormai corrente.

Ancor più lontana dal modello appare La fonda de París che Mor de Fuentes compose prendendo probabilmente lo spunto dall'Hôtel des Quatre-Nations, anch'esso dell'infaticabile Scribe.

  —184→  

Come Larra, anche Mor amplia notevolmente l'atto unico francese portandolo a cinque, sebbene non riesca a nascondere il carattere originario di composizione breve: rimane una specie di sainete allungato dalla giustapposizione di episodi simili.

Nell'opera francese, Juliette, figlia dell'albergatore, è corteggiata da un francese, un inglese, un tedesco e un russo; ma ella è fedele a un ufficiale, certo Sans-Regret. All'arrivo del reggimento di questo ultimo, un canto finale esalta la Francia.

Con minor serenità, anzi con un certo livore sciovinista, Mor fa dell'opera un'esaltazione della Spagna a scapito delle altre nazioni. Marcelo, uno spagnolo, emerge in mezzo a francesi, italiani, svizzeri -ospiti, come lui, di un albergo-, per la sua generosità, il suo senso cavalleresco, la sua gentilezza; inoltre, di volta in volta, esalta il teatro spagnolo («Calderón, Lope y Moreto / que en medio de sus desbarros / mostrando están más ingenio...» (II, 1, p. 43), secondo una formula arcinota), la letteratura spagnola, i sentimenti spagnoli e mette in ridicolo, a turno, la società francese («este hervidero inmenso, / donde reinan por esencia / corrupción y desenfreno», ibidem), il teatro francese, la grossolanità degli Svizzeri, l'incultura degli Italiani (che sanno solo cantare) e via discorrendo.

Ridotta a un centone di lodi e di satire, condizionata la trama dalla necessità di offrire il destro alle une e alle altre, l'opera è scarsamente riuscita, ma è ugualmente l'indice della fedeltà al principio di ispanizzazione, qui condotto fino all'estremo, forse anche sotto l'impulso delle polemiche socio-letterarie dell'epoca (la commedia è del 36).

Come si può desumere de questo breve campionario, le traduzioni rielaborazioni significarono per il teatro spagnolo del primo Ottocento una ginnastica utilissima sul piano linguistico e ideologico. Della loro portata culturale si resero bene conto i critici contemporanei che si soffermarono nell'analisi di commedie tradotte assai più che in quella di opere originali, non di rado occupandosi della traduzione in sé e postulando continuamente maggiore finezza ed espressività.

Nel 1830, durante il pieno fervore delle traduzioni, il Correo pubblicava un violento attacco contro «esa horda salvaje de traductores incorregibles» cui rimproverava un'eccessiva pesante letteralità   —185→   e la mancanza di quel processo di ispanizzazione di cui si è trattato nelle pagine precedenti:

Nada de aquello de apropiarse el pensamiento (digámoslo así) (...) variarle en lo que convenga, darle una forma más análoga a nuestras costumbres y a nuestro gusto.


Concludeva affermando che Comella e gli altri scrittori i quali «a fines del siglo último y principios del actual inficionaban el teatro» erano infine migliori degli attuali traduttori.

Nell'anno seguente, lo stesso giornale ribadiva la propria ostilità asserendo che solo chi sa comporre commedie originali è in grado di essere un buon traduttore.

Larra non solo si occupò spesso del valore della traduzione quando recensiva opere straniere, ma dedicò al problema un articolo che appunto intitolò De las traducciones, aggiungendovi come sottotitolo: De la traducción del vaudeville français en el teatro español. Esordiva con poche succinte verità:

Varias cosas se necesitan para traducir del francés al castellano una comedia. Primera, saber lo que son comedias; segunda, conocer el teatro y el público francés; tercera, conocer el teatro y el público español; cuarta, saber leer el francés, y quinta, saber escribir el castellano.166


Ma soprattutto insisteva sulla necessità di adattare il modello al costume e alla psicologia del pubblico per cui si traduce:

Traducir bien una comedia es adaptar una idea y un plan ajenos que están en relación con las costumbres del país a que se traduce, y expresarlos y dialogarlos como si se escribiera originalmente: de donde se infiere que por lo regular no puede traducir bien comedias quien no es capaz de escribirlas originales.167


Quanto al vaudeville, annotava la difficoltà di naturalizzare un genere così spiccatamente francese e osservava che, a parte i trionfi passeggeri, sono rimasti i soli vaudevilles

que tenían más analogía con nuestras costumbres, o aquellos en que una idea verdaderamente cómica y original se hallaba bien adoptada y desarrollada por un traductor hábil.168


  —186→  

In questo senso riconosceva a Bretón di essersi adoperato egregiamente e di essere uno dei pochi in grado di «españolizar el género nuevo». A Bretón accostava, con uguali lodi, Ventura de la Vega, allora agli inizi della sua carriera di traduttore.

Una carriera, dovremmo aggiungere, che si dimostrò ricca di sviluppi sempre più positivi e che raggiunse il suo culmine proprio con la traduzione de Le domino noir, che la Revista de Teatros definiva

una de las traducciones que más fama han merecido y que ha puesto a don Ventura de la Vega a la cabeza de nuestros buenos traductores.169


Il riconoscimento della critica al lavoro serio e alacre di Bretón e di Vega è dunque una nuova conferma del significato che le traduzioni acquistarono come apertura e stimolo verso la produzione di commedie originali.



  —187→  

ArribaNota bibliografica

Sono qui indicati i riferimenti bibliografici delle commedie citate nel saggio. Tra parentesi è stata riportata, quando è stato possibile reperirla, la data -in qualche caso semplicemente l'anno- della prima (o presumibilmente tale) rappresentazione (che, salva diversa indicazione, si intende avvenuta a Madrid): i dati relativi sono stati desunti, di regola, o da esplicite attestazioni contenute nel testo consultato o dalle seguenti opere:

A. M. COE, Catálogo bibliográfico y crítico de las comedias anunciadas en los periódicos de Madrid desde 1661 hasta 1819, Baltimore, John Hopkins, 1935.

A. K. SHIELDS, The Madrid Stage 1820-1833. (Tesi dell'Università del North Caroline), Chapel Hill, 1933.

Cartelera teatral madrileña, I: 1830-1839, Madrid, CSIC, 1961 e II: 1840-1849, Madrid, CSIC, 1963.

E. COTARELO Y MORI, Isidoro Máiquez y el teatro de su tiempo, Madrid, Perales y Martínez, 1902.

Anciano (El) y los jóvenes, ms. Bibl. Nacional n. 162712 (19-10-1807).

BRETÓN DE LOS HERREROS, MANUEL:

Obras escogidas de Don Manuel Bretón de los Herreros, París, Garnier, s.d. Tomo I:

Los dos sobrinos o La escuela de los parientes, p. 1 (30-5-1825). A Madrid me vuelvo, p. 29 (26-1-1828).

Marcela o ¿a cuál de los tres?, p. 55 (30-12-1831).

Todo es farsa en este mundo, p. 126 (13-5-1835).

Me voy de Madrid, p. 159 (21-12-1835).

La redacción de un periódico, p. 193 (5-7-1836).

El amigo mártir, p. 227 (10-10-1834).

Muérete y ¡verás!, p. 274 (27-4-1837).

Ella es él, p. 362 (15-2-1838).

Tomo II:

Flaquezas ministeriales, p. 1 (26-10-1838).

Un día de campo o El tutor y el amante, p. 43 (4-3-1839).

El pelo de la dehesa, p. 79 (13-2-1840).

  —188→  

Don Frutos en Belchite, p. 113 (27-1-1845).

El cuarto de hora, p. 168 (10-12-1840).

Da Obras de Don Manuel Bretón de los Herreros de la RAE, Teatro, Madrid, Imprenta Nacional, 1850:

Tomo I:

Achaques a los vicios, p. 47 (1830).

La falsa ilustración, p. 211 (Siviglia, 1830).

Tomo II:

El hombre pacífico, p. 105 (7-4-1838).

El qué dirán y el qué se me da a mí, p. 157 (29-11-1838).

Da Obras de Don Manuel Bretón de los Herreros, Madrid, Ginesta, 1883, I:

El poeta y la beneficiada, p. 75 (15-3-1838).

Un novio para la niña o La casa de huéspedes, p. 157 (30-3-1834).

Altre edizioni:

A la vejez viruelas, Madrid, Burgos, 1825 (14-10-1824).

Un paseo a Bedhlam, Madrid, Yenes, 1839 (16-7-1828).

El confidente, Madrid, Lalama (Bibl. Dram.), 1863 (30-5-1811).

Un tercero en discordia, Madrid, López, 1874 (26-12-1833).

El plan de un drama o La conspiración (in collaborazione con V. de la Vega), Madrid, Repullés, 1835 (22-10-1835).

No ganamos para sustos, Madrid, Repullés, 1839 (12-5-1839).

¡Una vieja!, Madrid, Yenes, 1839 (30-11-1839).

BURGOS, JAVIER DE: El baile de máscaras, in Colección de los mejores autores españoles, XXIII, París, Baudry, 1840, p. 268 (Granada, 1832).

CAGIGAL, FERNANDO (ARISTIPO MEGAREO): El matrimonio tratado, Barcelona, Roca, 1817 (1818).

ID.: La sociedad sin máscara, Barcelona, Roca, 1818.

CARNERERO, JOSÉ MARÍA DE: El afán de figurar, Madrid, Repullés, 1831 (7-6-1830).

ID.: (J. M. DE C.): La noticia feliz, Madrid, García, 1823 (26-11-1823).

Dos Mendozas (Los), ms. Bibl. Nacional n. 15849 (1817).

ENCISO CASTRILLÓN, FÉLIX: Mentira contra mentira, s.l. (Madrid?), García y Cía, 1808 (7-9-1807).

ID.: La comedia de repente, Madrid, Repullés, s.a. (1814).

ESPRONCEDA, JOSÉ - ROS DE OLANO, ANTONIO: Ni el tío ni el sobrino, BAE, LXXII, p. 153 (25-4-1834).

  —189→  

FLORES ARENAS, FRANCISCO: Coquetismo y presunción, Madrid, Imprenta que fue de García, 1831 (7-5-1831).

FORNER, JUAN PABLO: Comedia nueva La escuela de la amistad o El filósofo enamorado, Barcelona, Nadal, 1797 (25-4-1796).

GÁLVEZ DE CABRERA, MARÍA ROSA: Un loco hace ciento, in Teatro nuevo español, Madrid, García y Cía, 1801, p. 353 (3-8-1801).

ID.: El Egoísta, in Obras poéticas de Dª María Rosa Gálvez de Cabrera, Madrid, Imp. Real, 1804, p. 111 (18-6-1809).

ID.: Los figurones literarios, ibidem, p. 237.

GARCÍA DE VILLALTA, JOSÉ: Los amoríos de 1790, Madrid, Repullés, 1838 (1-1-1838).

GIL Y ZÁRATE, ANTONIO: El entremetido, in Obras dramáticas, París, Baudry, 1850, p. 59 (1825).

ID.: ¡Cuidado con las novias! o La escuela de los jóvenes, ibidem, p. 1 (1826).

ID.: Un año después de la boda, Madrid, Burgos, 1826 (30-5-1826).

GOROSTIZA, MANUEL EDUARDO: Indulgencia para todos, in Tesoro del teatro español, París, Baudry, 1838 (14-9-1818).

ID.: Las costumbres de antaño, Madrid, Repullés, 1819.

ID.: Tal para cual o Las mujeres y los hombres, Madrid, Repullés, 1820 (12-7-1819).

ID.: Don Dieguito, Madrid, Imprenta que fue de Fuentenebro, 1820 (7-1-1820).

ID.: Virtud y patriotismo o El 1º de Enero de 1820, Madrid, Viuda de Aznar, 1821 (1-1-1821).

ID.: El amigo íntimo, in Biblioteca mexicana, popular y económica, p. 93 (s.l.s.a. la copia consultata presso l'Inst. del Teatro di Barcellona) (3-3-1821).

ID.: El cocinero y el secretario, Madrid, Yenes, 1840 (15-16-1821).

ID.: Contigo pan y cebolla, Madrid, Repullés, 1833 (6-7-1833).

GRIMALDI, JUAN: Todo lo vence amor o La pata de cabra, Madrid, Sucesores de Cuesta, 1899 (18-2-1829).

HARTZENBUSCH, JUAN EUGENIO: La visionaria, in Teatro, Madrid, Tello, 1890, II, p. 8 (21-3-1840).

IRIARTE, TOMÁS DE: El señorito mimado o La mala educación, Barcelona, Viuda de Piferrer, 1790 (9-9-1788).

ID.: La señorita mal-criada, Madrid, Cano, 1788 (3-1-1791).

ISUSQUIZA, DÁMASO DE: El zeloso y la tonta, Madrid, Cruzado, 1804 (1803).

LARRA, MARIANO JOSÉ: No más mostrador, in BAE CXXIX, p. 225 (29-4-1831).

LÓPEZ PELEGRÍN, SANTOS: Cásate por interés y me lo dirás después, Madrid, Yenes, 1840 (19-10-1840).

  —190→  

MARTÍ, FRANCISCO DE PAULA: El mayor chasco de los afrancesados o el gran notición de la Rusia, Madrid, Viuda de Vallín, s.a. (14-1-1814).

ID.: El hipócrita pancista, o acontecimientos de Madrid en los días 7 y 8 de marzo del año 1820, Madrid, Fuentenebro, 1820 (8-6-1820).

MARTÍNEZ DE LA ROSA, FRANCISCO: ¡Lo que puede un empleo!, in BAE CXLVIII, p. 9 (24-10-1812).

ID.: La niña en casa y la madre en la máscara, ibidem, p. 67 (6-12-1821).

ID.: Los celos infundados o El marido en la chimenea, ibidem, p. 297 (29-1-1833).

ID.: La boda y el duelo, in BAE CIL, p. 9.

MENDOZA, ANDRÉS DE: La lugareña orgullosa, Madrid, Sancha, s.a. (8-1-1803).

MIÑANO, ANDRÉS: El gusto del día, Madrid, Villalpando, 1802 (dicembre 1802).

MOR DE FUENTES, JOSÉ: El calavera, Madrid, Cano, 1800.

ID.: La muger varonil, Madrid, Cano, 1800.

ID.: El egoísta o El mal patriota, Madrid, Repullés, 1813 (1812).

ID.: La fonda de París, Barcelona, Bergnes, 1836.

MORATÍN, LEANDRO FERNÁNDEZ DE: da Teatro completo, Madrid, Aguilar, 1955.

El viejo y la niña, p. 19 (22-5-1790).

La comedia nueva o El café, p. 165 (7-2-1792).

El barón, p. 229 (28-1-1803).

La mojigata, p. 361 (19-5-1804).

El sí de las niñas, p. 541 (24-1-1806).

MORATÍN, NICOLÁS FERNÁNDEZ DE: La petimetra, in BAE II, p. 66.

RANCÉS E HIDALGO, MANUEL: Don Crisanto o La politicomanía, Madrid, Repullés, 1835 (16-12-1835).

RODRÍGUEZ DE ARELLANO, VICENTE: La Fulgencia, Madrid, García y Cía, 1801 (29-5-1801).

SAAVEDRA, ÁNGEL, DUQUE DE RIVAS: Tanto vales cuanto tienes, in BAE CI, p. 217 (2-7-1834).

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SCRIBE, EUGÈNE: da Oeuvres complètes, Paris, Dentu, 1874:

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Le domino noir, IV, 6, p. 259.

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TAPIA, EUGENIO DE: La madrastra, in Poesías de Don E. de Tapia, Madrid, Pérez, 1832, II, p. 1 (19-12-1831).

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TRIGUEROS, CÁNDIDO MARÍA: Los menestrales, Madrid, Sancha, 1784 (16-7-1784).

VEGA, VENTURA DE LA: La segunda dama duende, Madrid, Yenes, 1842 (19-4-1840).

Vieja (La) y los dos calaveras: Valencia, Gimeno, 1823 (9-12-1815).