Visioni, impressioni e sentimenti di Rafael Alberti a Roma
e ad Anticoli Corrado
Giulia MASTRANGELO LATINI
Universidà di Macerata
Fra i luoghi e le città in cui Rafael Alberti visse
nel suo lungo esilio, Roma, nella quale arrivò nel
1963 e dove rimase molti anni, ebbe un ruolo di particolare
importanza. Egli stesso ci ha raccontato la sua dimora romana
nel libro di memorie La arboleda perdida287 e ha dedicato alle
impressioni provate durante questa sua permanenza alcune
poesie, raccolte sotto il titolo di una di esse: Roma, peligro
para caminantes288. Attraverso queste due opere, cronachistica,
ma non sempre e solo, l'una, poetica l'altra, cercheremo
di interpretare i pensieri e le sensazioni del poeta e la
rielaborazione lirica che ce ne ha lasciato.
Alberti, dopo
essere vissuto diciannove anni in Argentina, ottenuto il
passaporto, decise di stabilirsi a Roma: perché? A
questa domanda, egli cerca di dare una risposta:
[...] yo pensaba en Roma, en la que había pasado,
en 1935, quince días inolvidables con Valle-Inclán,
sintiéndome en Italia más cerca, más
bañado de la claridad mediterránea, más
próximo en espíritu a los litorales españoles,
a las costas andaluzas. Después, la explayadora simpatía
de gran parte del pueblo italiano [...]
(A. P., p. 164)
Egli
fa riferimento anche, fra gli elementi che lo spinsero verso
Roma, ai nonni florentini che un giorno avevano lasciato
Firenze per trasferirsi in Spagna e infine dice di non saper
dare una spiegazione assoluta, «acaso el deseo de una nueva
vida más clara y popular». (A. P., pp. 164-165) Il
poeta stesso non sapeva, allora quando arrivò, che
sarebbe rimasto a Roma quindici anni.
—144→
Rafael
Alberti lascia l'Argentina con sentimenti contraddittori:
era contento, da una parte, perché aveva cominciato
a sentire quella nazione «amada de verdad, pero cada vez
más estrecha y preocupante después del peronismo»
(A. P., p. 163), ma si sentiva, dall'altra, oppresso dalla
nostalgia dei paesaggi: «¡[...] pampas inmensas de trigos
y caballos! ¡Cielos de pájaros floridos, de cóndores
y negros caranchos acechadores de la muerte!» (A. P., p. 164),
«[...] orillas de cielos inalcanzables, cosechas y caballos»
(A. P., p.165). Per questi sentimenti di tristezza che si
provano ogni volta che qualcosa si perde per sempre, il poeta
chiese a Roma di dargli altrettanto di quello che aveva lasciato
e nacque così il primo dei dieci sonetti che egli
dedicò a Gioacchino Belli, il grande poeta dialettale
romano che non esitava a gettare in faccia a tutti la verità,
per quanto sgradevole e dolorosa fosse.
Ognuno dei dieci
sonetti è preceduto da uno o due versi del Belli,
che anticipano e spiegano quello che Alberti vuole dire.
Il primo: Lo que dejé por ti cita
Ah! chi nun vede sta parte de monno
nun za nnemmanco pe
cche ccosa è nnato.
(R. P. C., p. 13)
a dimostrare
che egli già sa quanto Roma possa dare. Per ottenere
quindi tanto, per otto versi ripete dejé, con un'insistenza
martellante a esprimere la pena del cuore. Negli ultimi due
versi finalmente chiede alla città, anzi esige, il
suo contributo d'amore ed è un contributo molto alto:
Dejé por ti mis
bosques, mi perdida
arboleda, mis perros desvelados,
mis
capitales años desterrados
hasta casi el invierno
de la vida.
Dejé un temblor, dejé
una sacudida,
un resplandor de fuegos no apagados,
dejé
mi sombra en los desesperados
ojos sangrantes de la despedida.
Dejé palomas tristes junto a un río,
caballos sobre el sol de las arenas,
dejé de oler
la mar, dejé de verte.
Dejé por ti
todo lo que era mío.
Dame tú, Roma, a cambio
de mis penas,
tanto como dejé para tenerte.
Alberti
andò a vivere a Trastevere, «la verdadera capital
de Italia» (A. P., p. 165) secondo la sua definizione: così
è sentita infatti dagli stranieri sensibili e dai
romani 'veri', quelli che possono vantarsi di esserlo da
generazioni. Dapprima abitò in Via di Monserrato 20,
dopo, in Via Garibaldi 88. Non gli interessava la Roma monumentale,
anche se riteniamo che la visitò accuratamente, ma
la Roma
—145→
antioficial,
la más antigoethiana que pueda imaginarse: la Roma
trasteverina de los artesanos, los muros rotos, pintarrajeados
de inscripciones políticas o amorosas, la secreta,
estática, nocturna y de improviso, muda y solitaria.
(A. P., p. 167)
Come si può dedurre da queste parole,
Alberti arrivò a comprendere, fino ad assimilarle,
le caratteristiche del popolo autentico e poté cantarlo
«humildemente, graciosamente» (A. P., p. 167). Lo aiutò
la conoscenza del Belli, che egli chiama «el inmenso poeta
sonetista, de originalísima gracia popular y burla
casi quevediana» (A. P., p. 165), con la sua plebe aspra e
tenera, brontolona e compassionevole.
Si trasformò
così in un 'trasteverino', con le stesse recriminazioni
che si possono ascoltare passeggiando per Trastevere contro
il traffico caotico che turba il desiderio di una vita tranquilla.
Oltretutto il poeta ha una paura terribile delle automobili,
paura che provavano anche Neruda e García Lorca. A
questi va aggiunto Jorge Guillén, del quale Alberti
riporta una poesia, a lui dedicata, contro
los coches de presuntos asesinos
que buscan su botín
de transeúntes
e contro l'automobilista in genere:
Toreas sin el arte del
toreo
que lidia reses bravas. ¡Espectáculo:
lidia
de transeúntes! Muy valientes.
(A. P., p. 166)
L'identificazione
del poeta con i 'trasteverini' viene completata dalla citazione
del Belli scelta per il sonetto Roma, peligro para caminantes,
nella quale si vedono i romani imprecare sempre più
contro il traffico, che tuttavia al tempo del poeta era di
carrozze e 'botticelle':
E ll'accidenti, crescheno 'ggni ggiorno.
(R. P. C., p. 14)
Nel sonetto non troviamo le stesse immagini con cui ne La
arboleda perdida viene rappresentato questo stato d'animo:
è strutturato in forma di avvertimento per chi cammina
e la parte migliore si trova negli ultimi tre versi:
Si vivir quieres, vuélvete paloma;
si perecer,
ven, caminante, a Roma,
alma garage, alma garage inmenso.
(R. P. C., p. 14)
Qui risalta il gioco verbale fra «alma garage»
e «alma ciudad», definizione presa da Cervantes, posta all'inizio
del sonetto prima della citazione del Belli: il poeta sembra
volerci dare con pochissimi elementi il senso della decadenza
della città sotto questo aspetto.
—146→
Per il resto il
sonetto presenta una certa freddezza, con un andamento didattico-informativo,
che ci fa preferire la prosa delle sue memorie, vivace, che
rappresenta con una evidenza quasi cinematografica la difficoltà
del poeta che cammina per Roma. Qui si richiama all'immagine
del toreo che abbiamo visto in Guillén, ma dalla parte
del transeúnte:
Puedo confesar que en mi amado barrio tuve que volverme
torero, adiestrándome en ceñirme, en adelgazarme
contra los muros, en salir por pies, corriendo veloz como
ante un toro, al ver llegar aquellas exhalaciones interplanetarias,
ciegas y sin aviso, por tan estrechas calles y retorcidos
callejones.
(A. P., pp. 166-167)
Campo de' Fiori289 è
una piazza di Roma molto caratteristica soprattutto per il
pittoresco mercato dove si può trovare di tutto, per
cui non poteva non attrarre il poeta che lo canta nel IV
sonetto dove non solo la confusione di colori, gli oggetti
più disparati, le grida dei venditori che si incrociano,
ma anche la battuta pronta e arguta, sono perfettamente rappresentati
in un quadro vivo e dinamico, disordinato e luminoso:
Perchas, peroles, pícaros, patatas,
aves, lechugas,
plásticos, cazuelas,
camisas, pantalones, sacamuelas,
cosas baratas que no son baratas.
Frascati, perejil,
ajos, corbatas,
langostinos, zapatos, hongos, telas,
liras
que corren y con ellas vuelas,
atas mil veces y mil más
desatas.
Campo de' Fiori, campo de las flores,
repartidor de todos los colores,
gracia, requiebro, luz,
algarabía...
(R. P. C., p. 16)
Ma poi l'attenzione
del poeta si appunta sulla statua di Giordano Bruno290 che campeggia
nel centro della piazza: nessuno sembra accorgersi di lui
e c'è negli ultimi versi il richiamo alla nota stridente
fra la vivacità della vita che si svolge indifferente
con il suo ritmo quotidiano e l'oblio di una morte ingiusta
di tanti anni fa:
—147→
Como
el más triste rey de los mercados,
sobre tus vivos
fuegos, ya apagados,
arde Giordano Bruno todavía.
(R. P. C., p. 16)
Il fascino che la città esercita
su di lui è cantato da Alberti ripetutamente: è
Trastevere, sono i resti dell'antica Roma, sono i ricordi
di chi passò per la città e l'ammirò,
come Cervantes, sono le stesse frasi che, oggi come ieri,
si trovano scritte sui muri. Fra queste egli sceglie di cantare
le frasi amorose in una breve poesia che intitola appunto
Amor, dove cuori e frecce vogliono esprimere con ingenua
grazia l'ardore dei sentimenti e dove la lieve ironia si
scioglie nella tenerezza del poeta solitario:
El Trastevere vive enamorado.
Los muros de las calles
y las plazas
sueñan de corazones dibujados.
Marcella
y Mario mueren con dos flechas.
Ignazio a Eugenia le dispara
cuatro.
Antonella y Vittorio,
de tanto amor se han puesto
juntos los corazones para abajo.
Yo los miro en la noche
cuando gimen
en la sombra los gatos.
(R. P. C., p.28)
E veniamo
così ai gatti di Roma ai quali Alberti dedica ampio
spazio fra le sue poesie e molte pagine de La arboleda perdida.
Qui il capitolo XXIX comincia con la descrizione di Buco,
gatta nonostante il nome maschile. Il poeta dice: «seguimos
siempre tratándole en masculino» (A. P., p. 168) e
parla con amore di questo animale dandocene descrizioni deliziose:
Bello, elástico,
suave y arisco a un mismo tiempo, se hallaba siempre en estado
de calentura, enamorado de cuanto gato rondaba las terrazas
y los tejados del barrio. Desde la ventana de mi cuarto de
baño, por un grueso tubo que descendía a las
tejas, el Buco bajaba para reunirse con sus escandalosos
enamorados, dando a la noche los más maullantes, desgarrados
conciertos de amor que ha orquestado toda la raza felina.
Luego, ya durante el día, unido a otros gatos más
pacificados, intentaba merendarse a las palomas -ese lírico
y codiciado símbolo de la paz- que acudían
bajo mi ventana a guerrear por la comida que arrojábamos
a aquella romana grey gatuna.
(A. P., p. 168)
Con il racconto
delle imprese di Buco si intreccia quello della vita di Cocorito,
un bellissimo pappagallo. In tal modo abbiamo una rappresentazione
animata di una parte della vita stessa del poeta in quei
giorni romani. Le scene che egli ci descrive si possono osservare
anche oggi girando per le strette vie di Trastevere. Si comprende
dalla sua prosa vivace e realistica che il poeta osservava
attentamente i gatti che, si sa, costituiscono con la loro
presenza una delle caratteristiche di Roma. E non è
un caso che in questa
—148→
città esistano le gattare,
donne, così indicate con termine dialettale, che quotidianamente
portano da mangiare ai gatti randagi. La loro presenza non
sfugge ovviamente al poeta che ricorda quelle «caritativas
ancianas [...] llenas de ternura y devoción» (A. P.,
p. 174). Alcune descrizioni sembrano quasi fotografare i
gatti: «Un gato, salido de no se sabe dónde, rayo
con pelos, atraviesa entre los automóviles la Via
Garibaldi» (A. P., p. 173).
Ma, passando gli anni, il poeta
si accorge che i gatti sono scomparsi dai tetti, che il loro
numero è diminuito e si chiede
con profunda melancolía y tristeza: ¿dónde
están los gatos de los tejados y calles de mi barrio,
dónde aquellos que siempre contemplé entre
las ruinas ilustres de Roma?
(A. P., p. 175)
Alberti fa allusione
con amarezza e satira alla legge del 1959 del Ministro dell'Agricoltura,
con la quale veniva ridotta a 200 metri, rispetto ai 500
precedenti, la possibilità per i gatti di allontanarsi
dal luogo in cui vivevano e così commenta:
[...] los pobres gatos perdieron con el advenimiento de
la democracia 300 metros de expansión.
(A. P., p. 175)
Anche nelle liriche Rafael Alberti esprime il suo amore
ai gatti e lo fa in modo diverso da come abbiamo appena visto.
Ora troviamo espressioni rapide:
Gatos en las columnas asombradas.
(R. P. C., p. 59)
ora quadri
di sottile umorismo:
La
vieja loba madre
ha sido derrotada por los gatos.
Rómulo y Remo bajan por la noche
para mamar la leche
de las gatas
y jugar con los gatos por los Foros.
(R. P. C.,
p. 59)
ora il rilievo di una presenza dominante:
En vez de la princesa,
en vez del duque,
hoy sale por
la puerta derruida
un gran gato sarnoso.
(R. P. C., p. 60)
—149→
e quando, in momenti in cui
rifiuta la città, vuole rappresentarla come una «ciudad
sin amor», rende il concetto più fortemente sottolineando
l'assenza dei gatti:
No
hay ni un gato muerto,
pues ni hasta los gatos
hacen el
amor.
(R. P. C., p. 42)
Quel «desgarrado y doloroso amor, lleno
de maullidos y silencios impresionantes», quelle «batallas
nocturnas, crispadas de celos y ensañadas persecuciones,
a veces todo presidido por una pálida luna asombrada»
(A. P., p. 174), sono scomparsi: a Roma
Todo está desierto,
pasadas las 12.
Muerto.
(R. P. C.,
p. 42)
Roma diventa paesaggio soggettivo, la tristezza del
poeta si riflette nelle vie, nell'atmosfera della città.
Il pessimismo, una sensazione di fallimento lo spingono a
dire a se stesso:
Tú
no has llegado a Roma para soñar. Los sueños
se quedaron tan lejos, que ya ni los divisas, ni ellos te
buscan ya, pues ya ni te conocen.
(R. P. C., p.75)
Il poeta
faceva lunghe passeggiate di notte, lo deduciamo dai suoi
Nocturnos. La città gli si presenta sempre diversa
giacché la vede, a nostro avviso, secondo i suoi stati
d'animo: ora è una città che «sabe a sangre»
(R. P. C., p.64), ora una città dove domina l'acqua
delle fontane e fontanelle:
Lo que dice es tan sólo lo que suena.
Agua de Roma
para mi destierro,
para mi corazón
[...]
agua sólo
sonido, repetición constante,
agua sueño sin
fin,
agua eterna de Roma.
(R.P.C., pp. 66-67)
quell'acqua
che
correrá siempre
desmandada y loca,
libre y presa y perdida en su locura.
(R. P. C., p. 88)
—150→
come canta
nella lirica Oyes correr en Roma.
Vi sono momenti in cui
il poeta capta i profumi primaverili:
Huele a flores de acacia, a irresistibles,
blandos, hondos
aromas seminales
(R. P. C., p. 73)
momenti in cui, ricordando
Valle-Inclán, gli sembra di sentirne la presenza e
momenti in cui, vivendo profondamente la vita della città,
avverte le sfumature più sottili del suo fascino.
Pensiamo alla lirica Los dos amigos, dove solo negli ultimi
due versi ci rendiamo conto che uno dei due interlocutori
è Giorgio, il cavallo di un conduttore di carrozzella.
La 'botticella', che ancora resiste nel traffico romano,
vive il suo malinconico declino nella poesia di Rafael Alberti:
Tengo tristeza, ¿sabes?
mas sólo a ti, Giorgio, mi caballo,
se lo puedo
decir, sin que me dé vergüenza.
(R. P. C., p.63)
Il poeta sembra qui un romano vero e una conferma l'abbiamo
nel fatto che un romano autentico come Alberto Sordi in tempi
recenti ha avvertito questa tristezza nel suo film Nestore dedicato ad un cocchiere e al suo vecchio cavallo.
Alberti
si rende conto della sua totale compenetrazione con la città
e con i suoi abitanti, una compenetrazione tuttavia solo
spirituale. Nei due testi che abbiamo esaminato non parla
di problemi sociali, il suo universo romano ha confini ben
delimitati. Questo è espresso con semplicità
ed efficacia nella bellissima lirica Cuando me vaya de Roma:
Cuando me vaya de Roma,
¿quién se acordará de mí?
Pregunten al gato,
pregunten al perro
y al roto zapato.
Al farol perdido,
al caballo muerto
y al balcón
herido.
Al viento que pasa,
al portón oscuro
que no tiene casa.
Y al agua corriente
que escribe
mi nombre
debajo del puente.
—151→
Cuando me vaya de
Roma,
pregunten a ellos por mí.
(R. P. C., p.76)
Un
romano non avrebbe saputo esprimere meglio la propria adesione
allo spirito della città.
E veniamo ora ad Anticoli
Corrado, «un pequeño pueblo maravilloso en los Montes
Sabinos, en la provincia del Lazio, famosísimo en
el siglo XIX y comienzos del XX por sus bellas modelos»291 (A.P.,
p. 178), dove il poeta ebbe una casa, «un estudio», come
lo chiama. Forse Alberti sentì la necessità
di allontanarsi ogni tanto dalla vita cittadina, affascinante,
ma pesante. In effetti si trovò molto bene in questo
paese e lo dice espressamente:
Aquellos estíos en Anticoli están fijos en
mí como los más felices y fecundos de mi larguísimo
exilio.
(A. P., p. 182)
Addirittura trova analogie nel paesaggio
con quello andaluso: gli ulivi gli suscitano il ricordo di
Federico García Lorca, la cui presenza riesce a ritrovare
solo qui.
Ne La arboleda perdida parla soprattutto delle
sue attività ad Anticoli e racconta fatti. Ad esempio,
dice che un'opera che gli piacque molto eseguire fu El lirismo
del alfabeto, cinquanta lamine per rappresentare un grande
alfabeto:
Cada letra -todo
el alfabeto- se me exaltaba en un color, se me hacía
visible, hasta casi poder tocarlo, su sonido. Era lo mismo
que un ejército invencible, en el que las iniciales
se alzaban como los jefes de las palabras, unas torres mayúsculas,
altos capitanes que en una batalla sin fin, entrelazados,
provocaron desde hacía siglos todas las conmociones,
desde las más ligeras hasta las más profundas,
del ser, del pensamiento.
(A. P., p. 180)
Ci siamo soffermati
su questo argomento poiché queste pagine mostrano
un aspetto particolare dell'attività di Rafael Alberti:
il disegno che, a quel che dice nella lirica Dejaste de pintar292,
suscitava in lui rimpianti per l'abbandono. Ma, accanto ad
argomenti importanti, egli riferisce avvenimenti divertenti,
come la realizzazione nel paese del film Il segreto di Santa
Vittoria, con il ricordo degli attori e l'eccitazione degli
abitanti.
Come trasferisce in poesia questo insieme di sentimenti?
Rafael Alberti scrive Canciones del alto valle del Aniene
(1967-1972)293, una breve opera composta di prosa e
—152→
poesia,
nella quale poco si trova di quello che egli ha detto ne
La arboleda perdida. E' un insieme di riflessioni sulla vita,
sulla tristezza della vita; il paesaggio, divenuto soggettivo,
come già abbiamo osservato, riflette lo sconcerto
del poeta che si interroga:
Murallas altas los montes.
Murallas.
Negras nubes,
en ejército,
con el viento grande avanzan.
Dios de los truenos, ¿qué soy
solo y perdido en
el valle,
en medio de esta batalla?
(C. A., p. 420)
Il poeta
sente il peso dell'esilio e cerca nella tranquilla bellezza
di Anticoli Corrado quella pace interiore della quale le
vicissitudini della sua vita gli impediscono di godere:
Pero mis infinitas madrugadas
sin sueño, mis largos sobresaltados amaneceres me
trastornan, me cambian mis deseos de paz, de una siempre
anhelada armonía del mundo.
(C. A., p.437)
Quando
lascia il paese, il poeta esprime indirettamente la sua malinconia:
il paese è quasi vuoto perché è arrivato
l'autunno, ma è un autunno personificato che si presenta
nella piazza dicendo semplicemente: «soy el otoño».
Questa bella immagine ci viene proposta sia ne La arboleda
perdida, sia in C. A. e mi sembra sia il solo caso in cui
questo avvenga.
Alla fine dell'opera, è quasi un'invocazione
il grido del poeta in un passo in prosa di disperata amarezza:
Merezco un poco de sosegado
sol, una brizna de hierba sin sangre, un sorbo de agua porque
sí, no por la angustia de la sed, un posible cerrar
los ojos sin desvelo... algo que haga posible el llevarme
de aquí, allá al final, la idea de que todo
no fue una maldición, un inexplicable castigo.
(C. A.,
p.437)
Qui Rafael Alberti parla a cuore aperto, senza nascondere
nulla dietro una sottile ironia o il racconto cronachistico
della sua vita quotidiana. Le sue angosce diventano palpabili
angosce di ogni uomo di fronte alla violenza, la caduta della
speranza coinvolge ogni pobre clavel minacciato dalla spada:
Y de
—153→
pronto se entran
en lo oscuro, sin quebrar las paredes, las voces frías,
tajantes de la espada, y ese pobre clavel, que por breves
horas tan sólo quise alzar en mi mano, lo oigo caer
decapitado, deshecho, en la penumbra de mi cuarto que pronto
va a imponerme la violencia del día a través
del cristal de la ventana.
(C. A., p.437)
Il poeta chiude
questa raccolta di scritti con una visione cupa dell'esistenza:
il lungo esilio ha inciso profondamente nella sua concezione
della vita, le dolorose esperienze sia vissute direttamente,
sia osservate negli altri gli hanno tolto la possibilità,
pur anelata, di vedere spiragli di luce in tanta oscurità.