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ArribaAbajoParte seconda

Romantici



ArribaAbajoI - Teorici

Rievocando la Spagna dei primi anni del secolo XIX, Alcalá Galiano accenna all'esistenza di due partiti letterari facenti capo rispettivamente a L. F. Moratín e a Quintana. Il primo, che rappresentava in certo modo la linea ufficiale (godeva infatti dell'appoggio di Godoy) era caratterizzato da un classicismo di pura osservanza che si rifaceva a Boileau, a Racine, a Batteux e da una sostanziale ammirazione (anche se non priva di riserve specie per quanto riguardava la questione delle unità) per il cosiddetto teatro nazionale, accompagnata da un atteggiamento timidamente antifrancese. Il secondo -politicamente all'opposizione- era invece orientato verso un classicismo meno puro che guardava piuttosto a Voltaire e a Blair, e al contempo ripudiava quasi tutta la tradizione nazionale mentre rivelava interessi e aperture verso ciò che proveniva dall'estero.

Un'ulteriore differenza fra i due «bandos» era rappresentata dalla prevalenza di interessi filosofici fra i quintaniani, eredi dell'illuminismo settecentesco, cui si dovrebbe contrapporre (anche se Alcalá Galiano non lo dice espressamente) una tendenza maggiormente letteraria e, per così dire, filologica dei moratiniani.116

In sostanza, al principio dell'Ottocento, la cultura spagnola manteneva quella spaccatura fra eruditi, moderatamente riformisti e sostanzialmente rispettosi della tradizione, e i più decisi innovatori-ideologici, che è facile riscontrare nel corso dell'ilustración settecentesca, collocando da un lato (con la coscienza, s'intende, della precarietà di una siffatta operazione) Moratín padre, Luzán, Samaniego ecc. e dall'altra Feijoo, Jovellanos, Forner, Montengón e così via.

S'intende che l'orientamento politico dei due partiti era facilmente esposto alla possibilità di variazioni e inversioni di tendenze determinate dalla particolare mutevolezza del clima politico del tempo: cosicché i cosmopolitici quintaniani posson divenire profondamente antifrancesi dopo il tragico 2 Maggio, mentre i moratiniani vanno a ingrossare le file degli afrancesados;117 il fatto è che, dal 1808, la Francia rappresenta la garanzia del conservatorismo borghese e del moderatismo monarchico-liberale mentre i settori più rivoluzionari cercano ora nei fatti più recenti della storia nazionale l'impegno per la conquista delle loro mete.118

Nonostante la confusione e il disorientamento propri di epoche politicamente agitate e di là dalle situazioni contingenti, si nota dunque una costante e lineare caratterizzazione politica e ideologica dei due gruppi culturali.119

Ma la situazione descritta da Alcalá Galiano per il primo decennio del secolo è destinata a perdurare ancora nei decenni successivi, come una storica ripresa di temi e di orientamenti che la generazione romantica prende veramente e direttamente in consegna da quella che la precede.120 Ne abbiamo un'immediata conferma non appena scoppia la famosa polemica Böhl de Faber-Mora, che assume subito il colore di uno scontro fra tradizionalisti e progressisti.

Che Böhl, nella sua difesa del teatro secentesco, presentasse argomenti nuovi, che appartenesse all'escuela romancesca anziché al vecchio bando classicistico non aveva evidentemente alcuna importanza agli occhi dei suoi avversari; questi videro infatti nelle sue teorie una delle più pericolose forme di reviviscenza dell'antico tradizionalismo conservatore, che avrebbe rischiato, come affermò allarmatissimo Mora, di porre la Spagna «a la vergüenza en el mundo culto e ilustrado».121

D'altra parte, nelle posizioni di Böhl, nonostante gli elementi indubbiamente nuovi, non mancavano aspetti riconducibili nel quadro di un definito orientamento ideologico. Proprio per quanto concerne, per esempio, il concetto di ilustración, cui Mora si appellava in difesa del classicismo, Böhl ne diede ben presto un' interpretazione nazionale e pietistica che non poteva non urtare contro la visione cosmopolitica e laica dei suoi avversari. L'ilustración española, sostiene infatti Böhl in un articolo del 1817, consiste nel riconoscimento delle doti tradizionali del paese, le quali possono essere coltivate

valiéndose del manantial inagotable de su antigua literatura, donde yace sepultado cuanto es menester para llenar el corazón de piedad cristiana, satisfacer la razón con sana doctrina, y divertir el entendimiento sin peligro.122



Concetti che fra non molto sarebbero divenuti familiari a tutti gli Spagnoli ma che in quel momento suonavano non altrimenti -e in parte erano- che come il codice del misoneismo e dell'oscurantismo.

Cosicché, quando Mora propose di sostituire allo spirito cavalleresco esaltato da Böhl «un ilustrado patriotismo» come quello che gli Spagnoli avevano dimostrato in epoche recenti (abbandonando dunque «el espíritu quixotesco y de caballería, cuya aplicación se haría más verisímil a las aventuras y desconcertadas empresas del caballero de Córcega Napoleón»123), intendeva chiaramente contrapporre gli ideali del liberalismo più avanzato -che appunto attingevano agli episodi della recente storia di Spagna- alle posizioni di un tradizionalismo che egli giudicava superato e afrancesado; l'allusione a Napoleone perseguiva proprio lo scopo di includere Böhl de Faber nel gruppo di quei conservatori che avevano sposato la causa bonapartista.

Il tedesco comprese bene il «velen dell'argomento» tanto che rispose all'attacco di Mora con un articolo dal titolo chiaramente allusivo: Donde las dan las toman. In esso ritorceva l'accusa di afrancesamiento incolpando il suo avversario di acquiescenza a «los principios enciclopédicos... que tratando de una subversión total, pretenden introducir el despotismo en la república literaria al mismo tiempo que quieren al republicanismo en el orden social».124

Si trattava in realtà, di due ben distinte forme di afrancesamiento; ma, sapendo quanto l'accusa fosse, in quel tempo, odiosa e pericolosa, ciascuno cercava, a modo suo, di mettere in cattiva luce l'altro contendente. In ogni modo, anche Böhl coglieva nel segno quando definiva repubblicani i suoi avversari. È vero, come sostiene il Pitollet,125 che Mora era cattolico intransigente, lealista e monarchico alla stessa stregua di Böhl e che pertanto definirlo repubblicano era altrettanto improprio quanto definire bonapartista il critico tedesco. Ma in realtà ciascuno dei due interlocutori veniva classificato secondo le tendenze dominanti nel gruppo cui idealmente apparteneva; né è casuale che in appoggio a Mora intervenisse ben presto quell'Alcalá Galiano che allora militava nelle file degli exaltados e che, nel fervore della polemica, la signora Böhl non esitò ad accusare come l'autore di strofe ferocemente antimonarchiche.126

Una cosa è certa: a quell'epoca Böhl rappresentava -come dieci anni prima Moratín- la linea ufficiale e filogovernativa, mentre Mora e i suoi amici stavano all'opposizione. Non è perciò da stupire che la polemica si concludesse con l'insediamento di Böhl nella Real Academia mentre la maggior parte di coloro che militavano nel partito avverso avrebbe, dopo poco tempo, affrontato la via dell'esilio.

Non si deve certamente sminuire l'opera del console anseatico, cui spetta il merito di aver introdotto in Spagna, in maniera organica, le teorie romantiche sul teatro e soprattutto di aver fatto il punto sul carattere nazionale di ogni letteratura: un argomento destinato a divenire capitale nei successivi dibattiti.127 Tuttavia l'aspetto storicamente più rilevante della lunga polemica cui egli diede l'avvio fu quello di aver portato definitivamente alla luce, esasperandolo, il contrasto fra due orientamenti culturali nettamente distinti con il relativo sottofondo politico di ciascuno. Ciò che infatti colpisce in tutta la vicenda è lo scarso rilievo dato, soprattutto da parte degli oppositori, ai problemi estetico-letterari rispetto alle implicazioni di tipo ideologico.128

E certamente non potrà esser scevro di significato e di conseguenze il fatto che il primo clamoroso ingresso delle teorie romantiche in Spagna avvenga all'insegna del tradizionalismo e del conservatorismo e che incontri i suoi avversari più accesi fra i liberali di maggior apertura, i quali fanno del classicismo la loro bandiera.

Questa curiosa vicenda spagnola, così poco classicoromantica nella sostanza, così all'opposto di quanto accadeva nel resto d'Europa (si pensi alla contemporanea polemica sorta in Italia in margine all'articolo di Mme de Staël, dove l'identificazione fra romantici e liberali da una parte e classici e reazionari dall'altra era ben chiara), non mancherà di imprimere un particolare marchio d'origine sul romanticismo spagnolo e sarà forse la non minore fra le cause di tante riserve e diffidenze nei confronti del movimento. Tra l'altro, lascerà come un visibile strascico nei settori del liberalismo più avanzato una certa ripugnanza a definirsi romantici e perfino a servirsi del termine romántico anche da parte di molti che ormai avevano pienamente accolto le nuove dottrine.

E tuttavia un elemento univa i contendenti: quell'appassionato nazionalismo che spingeva l'uno a restituire il debito lustro alle passate grandezze della Spagna, gli altri a rifiutare il passato in nome di una grandezza presente. Per tutti insomma ogni questione è vista e giudicata pur sempre in termini di hispanidad e tanto il conservatore Böhl de Faber quanto il progressista Mora imbevono il loro rispettivo tradizionalismo e cosmopolitismo di tinte nazionalistiche non senza spunti di spiccata xenofobia.

È un atteggiamento di fondo che converrà tener presente in vista degli sviluppi futuri del movimento; così come converrà non dimenticare che proprio il teatro, il celebre «teatro nacional», è il banco di prova di questo primo significativo scontro fra le opposte tendenze. E anche questo fatto, nonostante le innegabili ascendenze schlegeliane, rappresenta un aspetto abbastanza peculiare del romanticismo spagnolo il cui primo atto può anche apparire, se esaminato in prospettiva diversa, come un'appendice ottocentesca alla lunga polemica pro o contro il teatro barocco che si era trascinata attraverso il secolo precedente.

Resta in ogni modo il fatto che, al termine della lunga e vivace «querelle caldéronienne», la cultura spagnola sembra non essersi sostanzialmente scostata dalle posizioni settecentesche; paradossalmente ce ne proviene la testimonianza da una rivista aperta e impegnata come l'Europeo. Certo il periodico barcellonese non nasconde le sue simpatie per le teorie romantiche di cui si fa diffusore attraverso i due articoli famosi di Monteggia e di López Soler; tuttavia non si può affermare che, soprattutto nel saggio di quest'ultimo, l'adesione al vangelo romantico appaia incondizionata. Per meglio dire, l'autore, invece di identificare (come, memore del Berchet, aveva fatto Monteggia) il romanticismo con la poesia e il classicismo con la negazione di essa, li considera a un certo punto due generi letterari che possono essere coltivati alternativamente «según el carácter particular y la inclinación de los escritores».129

Si tratta di un' interpretazione di chiara marca classicistica che, almeno teoricamente, svuota il romanticismo di ogni significato e che, ciononostante, sarà destinata a una particolare fortuna in Spagna. Il fatto è che, con una formula siffatta, si veniva incontro a quella riluttanza, che anche in seguito caratterizzerà la cultura spagnola, a ripudiare il classicismo. È infatti significativo che, anche quando si infittiranno le critiche e le satire al romanticismo, il classicismo riceverà pochissimi attacchi e anche questi rivolti per lo più ad aspetti secondari del movimento e soprattutto quasi mai a opere e ad autori. Si potrà bensì biasimare l'atteggiamento negativo di certi classicisti nei confronti della letteratura secentesca, ma i prodotti del movimento neoclassico saranno per lo più intoccati: in altri termini, mentre Lope e Calderón continueranno ad essere criticati da parte di alcuni, mentre numerosi strali saranno lanciati contro opere romantiche di grido, nessuno oserà mai esprimere un giudizio negativo su L. Moratín o Jovellanos o Quintana.130 Anzi, sulla scia appunto di López Soler, si proseguirà nel tentativo di trovare una formula -e il decantato justo medio sarà una delle tante, forse la più fortunata- che permetta ai romantici stessi di salvare il classicismo.

È difficile, a tanta distanza di tempo, cogliere le ragioni che possono aver sospinto gli Spagnoli a quest'operazione di salvataggio di un movimento che ormai si stava estinguendo in tutto il resto dell'Europa. Forse fu anche questo il prodotto di un geloso, avaro tradizionalismo che non volle rinunziare alle conquiste più recenti, così legate a nomi prestigiosi e a vicende patriottiche; forse in tutti, anche nei più accesi innovatori, era la convinzione che il movimento neoclassico avesse contribuito non poco a portar fuori la Spagna dalle secche di una cultura stantia e a collocarla alla pari delle altre nazioni europee.

Quest'atteggiamento è tanto più sensibile quando si affrontano i problemi del teatro. Proprio López Soler, il primo teorico del romanticismo, in un successivo articolo dedicato a una succinta storia del teatro spagnolo, assume improvvisamente il tono, si direbbe, di un discepolo di Luzán. Fin da principio, per esempio, trattando del teatro secentesco, riconosce che

al paso que los rasgos más brillantes y felices embellecen las obras de nuestros autores de comedias, las afean los más clásicos errores y los descuidos más groseros.131



Più avanti, scopre in Lope «gracia, soltura, naturalidad del diálogo, decencia y nobleza de sus personajes» ma non manca di avanzar qualche riserva a proposito della precipitazione con cui scriveva e delle eccessive peripezie dei suoi drammi. Dopo Lope de Vega, la storia del teatro spagnolo si muove in una continua ascesa le cui tappe sono Moreto e Calderón ma la cui meta è Moratín, definito come il «Terencio español», colui che, riunendo in sé «la fluidez de Lope, el artificio de Calderón, la gracia de Moreto y la profundidad de Molière» seppe fissare «el verdadero carácter de la comedia española».132

Perfettamente in linea con queste dichiarazioni sta l'invito finale a respingere, accanto alle opere di Valladares, Comella e simili, le comedias de santos, gli autos e i sainetes e a rappresentare il meglio delle commedie di Lope, Moreto, Rojas, Tirso, Calderón, Solís (che, al solito, secondo una tradizione inaugurata da Luzán e accolta da A. G. Schlegel, è accostato ai grandi del Siglo de Oro), Iriarte, ma soprattutto di quelle di Moratín, le quali ultime

hacen tal honor y aumentan de tal suerte el crédito de las musas castellanas, que difícilmente ninguna nación extranjera se lo atreverá a disputar.133



Per quanto poi concerne la tragedia, i nomi che egli cita sono quelli di Cienfuegos e di Quintana, con il che il quadro del sostanziale classicismo di López Soler è, si può dire, completo.

Poco dopo quest'articolo, la rivista cessava le sue pubblicazioni e così si spegneva anche l'ultima eco del triennio liberale di cui l'Europeo si era fatto in qualche modo portatore. In quegli anni bui dell'«ominosa década», quando il tempio delle muse spagnole, per dirla con Mesonero Romanos, era ridotto ad albergo di gufi e di civette,134 a ben poche voci era ormai affidato il compito di continuare a diffondere il messaggio culturale. Una di queste, forse la più importante, era quella di Alberto Lista che -dopo essersi servito, fra il 20 e il 23, della tribuna del Censor- ora continuava, dapprima nel Colegio de San Mateo, poi in quello della calle Valverde, a far professione di fede liberale e a infondere nei suoi alunni (quasi tutta la futura generazione romantica) l'amore per le lettere.135

La sua opera va dunque valutata, ancor più che per sé stessa, per le tracce che, grazie al particolare fascino della sua personalità,136 essa dovette lasciare nei suoi alunni.

Certo il pensiero di Lista, attraverso la sua lunga carriera di maestro (e i suoi voltafaccia politici e ideologici137) subì evoluzioni e modifiche che esula dai limiti di questo saggio seguire passo passo. Interessa tuttavia, in questa sede, cogliere l'essenza di tale pensiero, prescindendo da limiti cronologici definiti, sia perché molte idee di Lista passarono intatte nei più tardi Ensayos e Lecciones, sia per la difficoltà, in taluni casi, di stabilire datazioni sicure.138 D'altra parte, tanto le sue collaborazioni al Censor quanto i saggi del 44 rivelano una sostanziale, coerente fedeltà ai principi del classicismo e dell'illuminismo settecenteschi.

È quasi impossibile classificare una personalità così multiforme e non di rado contraddittoria entro gli schemi delle fazioni politiche dominanti nel tempo: fu certamente, come sostiene lo Juretschke,139 un cattolico liberale, ma con forti legami ai principi del dispotismo illuminato, dell'alleanza fra Trono e Altare, dell'applicazione rigida e ineludibile della legge.

È un credo che, trasferito sul piano letterario, non consente altro che una piena adesione ai principi di ordine e di regolarità del classicismo. Dirà diversi anni più tardi, codificando un pensiero cui egli (che -come dice Ochoa- considerò l'ordine come un idolo140) restò fedele per tutta la vita:

Así como la libertad en el orden civil y político es la obediencia a las leyes, así en el orden literario es la sumisión a las reglas.141



«Sin reglas no hay arte» è d'altronde un principio che troviamo spesso ribadito nell'opera di Lista.142

Ma il fondo classicistico del suo pensiero emerge ancora, per esempio, nell' interpretazione edonistica della poesia143 oppure nell' identificazione di bellezza con unità, armonia, moralità.144

È evidente che con tali presupposti non potrà mai giungere a una completa accettazione del romanticismo, di cui anche in età matura continuerà a rifiutare punti sostanziali come il ripudio delle regole o l'idea della missione del poeta145 e che, nelle più giovanili pagine del Censor, respingerà in quelle stesse premesse di cui il suo allievo Durán si farà banditore pochi anni più tardi. Annota infatti con viva disapprovazione:

Existe en el día una secta de literatos alemanes cuyos principios en poesía son opuestos a los que hasta ahora ha consagrado el buen gusto en las naciones más civilizadas. Dicen que cada pueblo tiene su poética particular...146



Il riflesso di queste posizioni nei suoi giudizi sul teatro è logico e conseguente. Grazie a una curiosa identificazione fra libertà e buon gusto -che richiama e sembra perfino contraddire la già citata fra ordine civile e regole artistiche- egli invita anzitutto a bandire il cattivo gusto dalle scene spagnole:

en un país donde hay libertad -scriveva sul Censor nei famosi tre anni liberali- que es, digámoslo así, el buen gusto de la política, no se puede permitir el mal gusto en la escena...147



E tale mal gusto non esita a scorgere nelle commedie di santi, di magia, «de amoríos heroicos, de capa y espada, de moros y cristianos, de caricaturas cañizarescas, de guerras y hambres en el estilo de Comella...»148 secondo una elencazione dunque da cui probabilmente trasse ispirazione López Soler nel citato articolo sul teatro, di poco posteriore.

Se, al principio degli anni Venti, il suo giudizio sul teatro contemporaneo è così severo, maggior simpatia manifesta nei confronti del teatro secentesco; una simpatia che si andrà intensificando nel corso degli anni ma che, secondo una vecchia formula, continuerà a mescolare ammirazione e riserve di evidente impronta classicistica; che, al solito, gli farà scorgere in Calderón il punto d'arrivo e che infine non farà mai velo alla sua scoperta predilezione per il teatro francese di Corneille e di Racine e per quello spagnolo di Moratín, il cui Sí de las niñas gli appare come «uno de los pocos dramas perfectos que hay en nuestro idioma».149

Vale infine la pena di segnalare la costante esigenza di logica e di moralità150 che, come annota il Cossío, «llevará consigo un análisis minucioso de los caracteres, de sus móviles y motivaciones, siempre con la vista fija en los principios de la moral...»;151 che è, nella sostanza, il programma dei refundidores.

Forse in questa posizione di Lista, maestro venerato e dittatore del «buon gusto» letterario, sta una delle spiegazioni più semplici ma non meno veritiere del perdurante classicismo dei letterati spagnoli. La sua ombra si erge, ammonitrice e severa, dietro a molte personalità romantiche per raffrenarle e ricordare loro l'esigenza di pagare il debito tributo all'insegnamento dei classici. Già si è visto come influenze del saggio pubblicato da Lista sul Censor si possano ravvisare nell'articolo Teatro in cui López Soler parrebbe quasi ritrattare la sua precedente, benché cauta, adesione al romanticismo;152 si dovrebbe ora ricordare che Durán, al momento di intraprendere la sua campagna a favore del teatro nacional (con quel Discurso, si noti, in cui assumerà posizioni talvolta contrastanti con quelle di Lista153) sentirà l'obbligo di rendere il dovuto omaggio al maestro, dichiarando:

Una empresa tan ardua y difícil debía desempeñarse por manos más hábiles que las mías, y más acostumbradas a expresar por escrito los pensamientos con toda la gala y bizarría propia de nuestra rica y armoniosa lengua; mas por desgracia uno de los hombres a quien creo más capaz de tratar dignamente esta materia, y a cuya amistad debo toda mi educación literaria, se halla de continuo sabia y modestamente ocupado en la enseñanza de la juventud, y en obras más importantes, que le impiden dedicarse a esta. Ecc.154



Ma prima che Durán spezzasse definitivamente una lancia a favore di una totale riabilitazione del teatro barocco, Martínez de la Rosa componeva l'ultima poetica classicistica.

Colui che gli avversari, ravvisando in lui una muliebre arte del compromesso, chiamavano malignamente «Rosita la pastelera» si mostrava in questo scritto altrettanto accomodante e disposto a transigere quanto lo era sul piano dell'attività politica. Infatti affermava:

Me siento poco inclinado a alistarme en las banderas de los clásicos o de los románticos;... y tengo como cosa asentada que unos y otros tienen razón cuando censuran las exorbitancias y demasías del partido contrario, y cabalmente incurren en el mismo defecto así que tratan de ensalzar su proprio sistema.155



La sua Poética pertanto proponeva, per così dire, una serie di formule di compromesso, alla cui base stava tuttavia un atteggiamento di fondo neoclassico, che tradiva abbastanza chiaramente l'allievo di Boileau.

L'imitazione della natura deve conciliarsi con il «duro anhelo» dell'arte; il «buen gusto» con la «fantasía» e il «genio»; la libertà va certamente concessa all'artista, ma con l'avvertenza che

la libertad empero no es licencia.156



Come si vede, le concessioni alle teorie romantiche sono abbastanza esigue, dal momento che, a ben pensarci, nessuna delle formule esposte urta contro i precetti del classicismo mentre stenta a trovare consenzienti i partigiani del romanticismo. Non a caso, il classicismo di fondo emerge a tutte lettere quando il critico affronta il problema delle unità pseudoaristoteliche che giudica assolutamente inviolabili.

Parimenti, i giudizi che egli esprime sul teatro nacional non differiscono sostanzialmente da quelli di Luzán, di Montiano, di Moratín: il solito biasimo per l'«irregolarità» e il solito benevolo accenno ai pregi che fanno dimenticare i difetti, secondo i versi divenuti famosi:


y la razón severa
al mirar tantas dotes peregrinas
el grave fallo en su favor modera;157

o, come dirá nella più tarda Apéndice:

Las antiguas comedias españolas poseían aquel no sé qué más poderoso a veces que la beldad misma,158



dove il ricordo di Feijoo ci riporta a posizioni antiche. D'altronde, concezioni chiaramente illuministiche si rendono avvertibili là dove, trattando degli «errori» di Lope de Vega, non si trattiene dall'esclamare:

¡Cuánto no es de lamentar que un talento tan extraordinario no naciese en otra época, o que no tuviese cordura bastante para anteponer a los vivas y palmoteos de un público seducido, el aplauso de la razón y el voto del buen gusto!159



Pertanto, rivolgendosi ai giovani, da una parte li incita all'ammirazione per il grande secolo XVII («Seguid, seguid su ejemplo: de memoria / sus cantos aprended»160), ma al contempo avverte che sbaglierebbe chi, ai suoi tempi, volesse seguire le orme dell'antico teatro, alla stessa stregua di chi, disdegnandolo, si lasciasse guidare soltanto dal genio, dai precetti o dall'imitazione straniera.

Nonostante i vari tentativi di apertura, la Poética di Martínez de la Rosa rimane dunque un testo del neoclassicismo moderato (ma esistette mai, in Spagna o in altra parte d'Europa, un neoclassicismo inflessibile?) per il quale è tuttora valida l'affermazione del Menéndez Pelayo: è la chiave che chiude il periodo aperto dalla Poética di Luzán.

Cosicché, alle soglie degli anni Trenta, la cultura spagnola aveva compiuto assai pochi passi in direzione romantica e continuava, si può dire ininterrottamente, a mantenere nei confronti del teatro nazionale quell'atteggiamento di simpatia e di diffidenza che aveva caratterizzato l'ala più moderata del classicismo settecentesco.

Si trattava di una posizione che dieci anni prima poteva ancora sembrare volta alla difesa di solidi e vitali valori di cultura; ma ora cominciava ad assumere l'aspetto di un conservatorismo che tendeva a isolare la Spagna nei confronti di un'Europa debitamente catechizzata dal vangelo romantico, riproponendo così quella situazione d'impasse da cui gli Spagnoli, cent'anni addietro, avevano creduto di uscire grazie all'adesione al classicismo e all'illuminismo.

Fu proprio questa la situazione che doveva allarmare Durán e certi gruppi dell'«intelligenzia» madrilena di cui egli si faceva interprete: fu allora che, come dichiarerà circa vent'anni più tardi, sentì di dover abbandonare quel classicismo cui, per il magistero di Lista, era stato a lungo fedele, poiché avvertì che era giunta l'ora della «emancipazione literaria»; questa consisteva, continua il critico, nella difesa dell'antica letteratura

considerándola en sí misma, y como medio necesario para recuperar la perdida originalidad e independencia que debiera nacer de la unión de lo pasado con lo presente.161



Sul saggio di Durán molto si è detto e molto si potrebbe ancora dire dal momento che, sotto il piglio dimesso, nasconde numerose, felici intuizioni.162 In questa sede, basterà pertanto soffermarsi su quegli aspetti che riusciranno particolarmente fecondi nei confronti delle realizzazioni teatrali del decennio successivo.

In primo luogo, occorrerà notare che il più grande merito del Discurso sta nell'aver compiuto finalmente quel passo -che ormai da tempo si aspettava- verso una nuova prospettiva storico-estetica che permise una piena rivalutazione del teatro secentesco, sottraendolo finalmente al giogo delle unità e della svariata legislazione classicistica e conferendogli, al contempo, una dignità artistica pari a quella del teatro classicheggiante.

Veniva a stabilirsi, per opera di Durán, quell'identificazione fra teatro autenticamente spagnolo e teatro secentesco che è ancora uno dei limiti di tanta critica contemporanea e, conseguentemente, si provvedeva a collocare fuori della tradizione nazionale il teatro classicheggiante, definito contrario al modo di existir, sentir y juzgar degli Spagnoli.163 Mentre però negava al classicismo il diritto di residenza in Spagna, a Durán mancò il coraggio -o forse la volontà- di considerarlo, per dirla col Berchet (nonché, in fondo, con Monteggia), «poesia dei morti»; al contrario, romanticismo e classicismo non furono per lui altro che due generi letterari differenti (come già aveva asserito López Soler)164 che lo scrittore dovrà scegliere, alternativamente, in base alla tradizione del proprio popolo.

È chiaro che, nonostante il rigore delle argomentazioni, questa dottrina lascerà pur sempre spazio per rivalutazioni parziali o totali del classicismo o per la richiesta, che ebbe tanta fortuna, di un justo medio fra classicismo e romanticismo che venisse a costituire quel terzo genere che qualcuno chiamò género español. In realtà, i fautori del justo medio non sempre si accorsero che esso era già nella formula duraniana, la quale postulava il ritorno alla tradizione (e quindi al teatro che «para evitar perífrasis y rodeos» chiamò romantico) come equidistanza tra due forme di extranjerismo: l'una, esplicitamente definita, del classicismo francese, l'altra, richiamata solo per allusioni, del romanticismo che si andava sviluppando nella Francia contemporanea.165 Riallacciando la tradizione ingiustamente interrotta, si evitavano da una parte le pesanti limitazioni letterarie imposte dai classicisti e dall'altra l'immoralità, gli orrori, i troppo arditi accostamenti del romanticismo francese. Non dimentichiamo che proprio Hugo, nella Préface, contrappone bensì cristianesimo e paganesimo, come farà pure Durán nel suo Discurso; ma nel cristiano scorge soprattutto il dramma perenne fra corpo e spirito, che determina, nella poesia, la giustapposizione assidua di sublime e di grottesco: quel grottesco che contiene in sé non solo il comico, ma anche il deforme, l'orrendo, le passioni, i vizi, i crimini, tutto ciò insomma che costituisce l'aspetto più negativo dell'uomo moderno. E il grottesco è, per l'Hugo, l'essenza del teatro moderno, l'elemento che, audacemente accostato al sublime, distingue la letteratura romantica da quella classica.

Durán, al contrario, evita accuratamente ogni accenno al dramma del cristiano; non si agita in lui alcun tormento, non angoscia esistenziale, ma tutto è serenità di spirito e delicatezza di sentimenti. E la religione cristiana è fonte di quella bellezza che «arrebata al universo de las idealidades».166 La distanza dall'Hugo è veramente grande, tanto più se all'ultima proposizione di Durán si affianca l'ammonimento dello scrittore francese a guardarsi dallo pseudoromanticismo alla Delille, in cui il brutto e il deforme vengono ingentiliti e nobilitati, falsando così quell'istanza di verità che sta alla base del romanticismo. Si tratta di una sostanziale differenza di fondo, dunque, che riposa nella diversa istanza di verità: realistica nell'Hugo, ideale in Durán.

Orbene, la tradizione castiza offriva per l'appunto questo vero ideale, non storico ma semistorico o, come avrebbe detto più tardi Unamuno, «intrahistórico». Nel teatro spagnolo Durán crede di poter scorgere questa particolare forma di verità, dal momento che esso, fin dalle origini, ha regolarmente violato la verità storica per sostituirvi quella ideale della tradizione. Per questo, dunque, ha trasformato gli eroi greci e romani in «caballeros españoles»;167 così ha fatto Calderón ne Las Armas de la hermosura, in modo che Coriolano agisca sotto l'impulso di «principios caballerescos». Non è il caso, soggiunge Durán, di scandalizzarsi per l'anacronismo evidente:

¡Qué inconsecuencia, qué anacronismo de costumbres! exclamarán los críticos. Tienen mucha razón; pero pongan a Coriolano el nombre de Amadís, muden los tiempos y las localidades, y así desapareciendo a su vista las ideas asociadas de la historia romana desaparecerá también la incongruencia que tanto escándalo les causa.168



Questo è forse l'insegnamento più fruttifero che dal Discurso trassero i drammaturghi romantici, i quali amarono romanzare la storia, spesso falsarla, o preferirono rifarsi al mondo semistorico delle leggende tradizionali, in nome appunto di una verità superiore.

Il che costituirà, come vedremo, non piccolo motivo di originalità per il teatro spagnolo, anche se, all'atto pratico, non verrà sfruttato adeguatamente.

Per il resto le indicazioni di Durán per un'eventuale ripresa della tradizione teatrale rimangono vaghe. D'altro canto, occorre aggiungere che lo scopo immediato del saggio non era tanto la rinascita teatrale quanto la riabilitazione del teatro barocco, anche se un rinnovamento del teatro spagnolo ne era lo sbocco naturale.

Tenendo presenti questi limiti, è tuttavia possibile intravedere, per così dire di sbieco, il messaggio che Durán intende lanciare alla futura generazione di autori teatrali attraverso gli appunti che muove alla critica anteriore. Ad essa infatti egli rimprovera di essersi dedicata a distruggere il teatro secentesco, mentre avrebbe potuto impegnarsi più costruttivamente a perfezionarlo,

fijándole las reglas convenientes, y purgándole de los defectos que le afean, no por ser inherentes al género a que pertenecen, sino por ser propios del mal gusto del siglo en que se inventó.169



In queste frasi, dietro le quali par di avvertire la presenza di Lista e in cui vibra un atteggiamento di fondo classicistico, sono tracciate le linee di un'auspicabile rinascita del teatro: riallacciarsi bensì al teatro barocco ma, in definitiva, renderlo più «regolare» o -come Durán aggiungerà più tardi170- più filosofico e più vicino alla verosimiglianza prosaica. In altri termini, le finalità non solo dei refundidores ma dello stesso L. F. Moratín, fatta eccezione per le leggi delle unità e per certe innovazioni di terminologia.

Dei due «bandos» di cui parla Alcalá Galiano, quello dei moderati moratiniani concludeva, per così dire, la sua parabola con il Discurso duraniano: grazie ad esso, il ricupero del teatro antico si poteva finalmente realizzare attraverso la contemperanza del rispetto della tradizione, dell'aggiornamento culturale e della regolarità.171

Col passar del tempo, diviene più arduo riconoscere i lineamenti ideologici dei vari teorizzatori che intervengono nella questione; come è naturale, si verifica un certo avvicinamento fra le parti, soprattutto ora che moderati, esaltati, afrancesados si trovano accomunati nella lotta contro l'assolutismo e nelle persecuzioni che su di loro indistintamente si abbattono. Inoltre tutti ormai concordano su alcuni punti definitivamente acquisiti alla coscienza culturale spagnola, come la violabilità delle regole, la validità, con qualche limite, della letteratura secentesca, la necessità di restituire alla Spagna una grandezza civile e culturale che la ponga almeno alla pari con le altri nazioni europee.

Un osservatore attento non manca tuttavia di scorgere, sotto le affinità che emergono in superficie, il perdurare di certe divergenze di fondo attestanti la vitalità dei due antichi orientamenti. Se rileggiamo in questa chiave il Discurso de apertura en Cáceres di Donoso Cortés (1829) e la prefazione al Moro Expósito di Alcalá Galiano (1834), ci rendiamo facilmente conto che l'estetica di cui si fanno promotori ha veramente il sapore di un'innovazione e presenta aperture ignote al moderato riformismo di Durán.

Entrambi infatti perseguono l'ideale di una poesia ricca di sentimento, forte e istintiva, che per molti aspetti sembra potersi identificare con la «poesia popolare» tanto quanto l'estetica duraniana sembrava condurre piuttosto verso i domini della «poesia d'arte».172

Di fronte alla concezione di una poesia idealizzatrice propria di Durán, essi pensano al poeta come a colui che interpreta una realtà cruda e angosciosa, che unisce reale e ideale e che perviene a creazioni le quali, come sostiene Alcalá Galiano, «no son copias, pero cuya identidad con los objetos reales y verdaderos sentimos».173

Forse per questo essi appaiono assai più recisi di Durán, disposto in fondo a conciliazioni e a ricerche di equilibrio: la loro interpretazione della poesia non ammette infatti alternative e coesistenze come non ammette regole che non siano, come ancora dirà Alcalá Galiano, quella di seguire i propri impulsi.174 A maggior ragione rifiutano un discorso su romanticismo e classicismo, probabilmente timorosi di cadere nella questione superata dei generi letterari, ora eludendone un esplicito riferimento (Donoso Cortés), ora esprimendo forti dubbi sulla sua validità (Alcalá Galiano): il loro problema è, in fondo, di poesia e non-poesia.

Questa visione più universale li conduce anche a posizioni assai meno chiuse e nazionalistiche: l'amore per le patrie lettere, da cui sono indubbiamente animati, non impedisce loro di ammirare i grandi prodotti del genio europeo; in generale poi si può notare che, mentre Durán punta esclusivamente sulla riabilitazione della Spagna quasi in antagonismo con l'Europa, Donoso Cortés e Alcalá Galiano tendono essenzialmente e reinserire la Spagna nel contesto culturale europeo.

Sono le ultime tracce di un cosmopolitismo che andrà gradualmente attenuandosi o che svanirà assorbito dalle formule di un eclettismo di maniera.

La lezione dei liberali più avanzati sarà accolta soprattutto dai lirici, da Espronceda in particolar modo; ben poco delle loro posizioni passerà invece nel teatro, forse perché i loro saggi ne trattano solo di sfuggita, forse perché il Discurso di Durán aveva avuto più intense risonanze. Tuttavia qualche drammaturgo sul finire degli anni Trenta sembra in certo modo volerne accogliere e ritrasmettere il messaggio: Bretón, Gil y Zárate e quanti altri cercheranno le «emociones fuertes» e punteranno verso una riproduzione più impegnata (ideale anch'essa, ma in direzione dissacrante) della verità storica.




ArribaAbajoII-Drammaturghi

1. Le opere (1834-1844).

Il 24 settembre 1834, il pubblico madrileno, che già aveva seguito con interesse la rappresentazione de La Conjuración de Venecia, assisteva alla prima del Macías di Larra: un dramma che sembrava ispirarsi, come il precedente, alla sensibilità romantica ma per il quale l'autore rivendicava un'universalità negatrice, per sé stessa, di qualsiasi schieramento letterario. Dichiarava infatti a modo di prefazione:

He aquí una composición dramática a la cual fuera muy difícil ponerle nombre.


E dopo aver negato, via via, che essa potesse esser definita «comedia moderna según las reglas del género antiguo» né «comedia de costumbres», né «comedia de carácter», né «tragedia como la entienden los rigurosos Aristarcos» né «drama mixto, de grande espectáculo» né «drama romántico», si domandava:

¿Qué es, pues, Macías? ¿Qué se propuso hacer el autor?


E rispondeva dicendo che Macías altri non è che «un hombre que ama»; e che lo scopo del dramma era solo quello di «retratar a un hombre». Soggiungeva infine:

Quien busque en él el sello de una escuela, quien le invente un nombre para clasificarlo, se equivocará.175


Dietro questa recisa affermazione forse non è sufficiente vedere la consueta presa di posizione dei liberali più avanzati, anche se vi ebbe certamente la sua parte; il Macías si sottraeva realmente a una precisa classificazione secondo i criteri del tempo, in quanto innestava le più stimolanti acquisizioni dei teorici recenti -Durán in primo luogo- sul tronco delle ultime esperienze neoclassiche, ivi comprese quelle dei refundidores.

Per questo, l'aspetto del Macías che maggiormente colpisce lo storico del teatro è la sua funzione quasi emblematica di tratto d'unione fra la tragedia neoclassica e il dramma definitivamente romantico.

Anzitutto, occorre infatti precisare che il Macías è una refundición, sebbene diversa da quelle di Trigueros e di Solís, in quanto manca di riferimento preciso a un'opera definita, ma piuttosto trae ispirazione dalla leggenda quale si era andata codificando attraverso le elaborazioni di Santillana, di Mena, di Lope, di Bances Candamo.

Manca dunque la possibilità di istituire un confronto diretto con una fonte secentesca, quantunque il lopesco Porfiar hasta morir sia certamente il riferimento più ovvio e più calzante; ma si può ugualmente ravvisare, nell'opera di Larra, l'impiego dei consueti procedimenti di concentrazione, di razionalizzazione, di ricerca di verosimiglianza che avevano caratterizzato l'opera dei refundidores.

Per cominciare, infatti, l'azione non solo si svolge in un solo giorno e in un solo luogo (e l'intenzionalità di questa operazione è sottolineata attraverso le didascalie poste all'inizio del dramma) ma si condensa intorno alla catastrofe con l'eliminazione di ogni antefatto e la sua sostituzione con un riassunto contenuto nelle battue iniziali. In generale, poi, si nota un costante intervento dell'autore che aggiunge o sottrae o, in ogni modo, modifica le linee essenziali della leggenda al fine di preparare meglio lo sviluppo della trama cercando le solite motivazioni atte a rendere più credibili e drammatici gli avvenimenti successivi.176

Larra tenta inoltre -in una ricerca di verosimiglianza- di attribuire alla malvagità degli uomini ciò che Lope, per esempio, assegnava alla malignità della fortuna.177 Infine, per quanto possa stupire, moralizza la vicenda: il Macías della tradizione, innamoratosi di Clara già promessa a un altro, continua a cantarla anche dopo le nozze di lei, attirandosi così l'ostilità del marito e, con essa, la propria morte; al contrario, in Larra, il trovatore gallego ama, di un amore ricambiato, Elvira che ha promesso di sposare entro un anno; le mene dei suoi nemici gli impediscono il ritorno a tempo debito, mentre si fa credere alla fanciulla che egli si sia sposato, per cui ella finisce per accedere alle nozze con Fernán Pérez. Il fatto che a questo punto Macías continui ad amare Elvira è moralmente assai più giustificato del persistente amore, sia pure platonico e letterario, del personaggio barocco; non solo, ma ora il trovatore acquista una coloritura patetica più profonda mentre tutta l'odiosità si riversa sul suo rivale.

Ma la matrice neoclassica non è solo reperibile in questi ritocchi. Lo è ancora negli aspetti meno felici del Macías che ne costituiscono i limiti principali: per esempio, in un certo linguaggio tuttora affettato e retorico e in talune lunghe tirate in risonanti endecasillabi in cui i personaggi aspirano a far mostra di nobili sentimenti178 o che tendono a sostituire l'azione per l'impaccio delle unità di tempo e di luogo.

Lo è soprattutto nell'accentramento dell'interesse intorno al protagonista, per cui alla barocca comedia de enredo viene sostituito il dramma del personaggio. Si tratta di un'operazione la cui programmaticità è richiamata dal titolo dell'opera e che riconduce da una parte ad analoghi interventi compiuti dai refundidores (si pensi anche qui a certe variazioni di titoli, a volte significativamente spiegate nelle prefazioni, come Sancho Ortiz de las Roelas, La buscona, La melindrosa, in luogo dei secenteschi La Estrella de Sevilla, El anzuelo de Fenisa, Los melindres de Belisa) e dall'altra a una lunga consuetudine -di cui si discorreva in altro luogo- di tragedie neoclassiche incentrate, anch'esse per lo più fin dal titolo, intorno a un personaggio della storia di Spagna.

Tuttavia, proprio qui sta il punto di rottura o, per lo meno, il fatto nuovo -«romantico», se si vuole- rappresentato dal Macías. Il protagonista, quantunque si possa accostare ai Pelayo, Guzmán, Mudarra delle tragedie neoclassiche, ne differisce tuttavia per la più intima e dolente umanità che lo caratterizza. Quella di Macías non è più una tragedia politica come, salvo rare eccezioni, erano state quelle neoclassiche -fino alle recentissime opere su Blanca de Borbón di cui si è trattato- ma è la vicenda individuale appunto di «un uomo che ama». Il fatto è importante perché indica il venir meno della premessa classicistica che assegnava alla tragedia «le nobili azioni di nobili personaggi»: certo anche Macías appartiene alla storia ma in maniera per così dire incidentale, senza la possibilità di influire minimamente sul cammino di essa; appartiene, per meglio dire, a quella zona subalterna, in cui le linee della storia e della leggenda assai più facilmente si intersecano e si confondono.

Conseguentemente, il processo di mitizzazione, già in atto nella produzione neoclassica, si fa più rapido e intenso e i legami con la storia divengono estremamente esili.

Non per questo l'autore rinunzia alla storia stessa, verso la quale anzi sembra dimostrare qualche preoccupazione: una preoccupazione forse un po' vaga e velleitaria che non evita errori e anacronismi179 ma che comunque si manifesta in tentativi di ricostruzione ambientale (Enrique de Villena e il suo trattato sulla ciencia gaya, la sua fama di mago, gli intrighi della politica castigliana, le severe armature, le trovas) e palesa la sua intenzionalità nella didascalia iniziale: Macías, drama histórico en cuatro actos y en verso. La época es uno de los primeros días de enero de 1406.

Su questo fondo semistorico -o semileggendario che dir si voglia- si stagliano personaggi curiosamente forniti di una sensibilità ottocentesca, nei confronti dei quali è evidente che Larra non ha compiuto il minimo tentativo di ricostruzione. Macías, infatti, sulla scia di Ortis e di tanti altri eroi romantici, appare ora vittima degli intrighi dei potenti. Il piano del dramma pertanto si sposta dalle linee tradizionali e, in luogo dello scontro fra onore e amore, vi si realizza la lotta fra le leggi libertarie dell'amore e la costrizione tirannica di un ordinamento sociale ingiusto. E, in generale, i vari personaggi appaiono come uomini del presente proiettati nel secolo XV, rivestiti bensì delle armature, invischiati negli intrighi cortigiani, ma insieme figli di Rousseau e partigiani del liberalismo.180

Cosicché l'ambiente vagamente medievale non sortisce altro effetto che quello di sospingere la vicenda in una sorta di intemporalità ambigua e fiabesca.

Certamente questa è la zona del Macías in cui sono maggiormente avvertibili le influenze dei teorici degli anni Venti, particolarmente dei fautori della linea castiza; Larra sembra infatti aver preso alla lettera e tradotto in pratica le affermazioni di Durán a favore dell'anacronismo nel teatro spagnolo.

Durán si era proposto di attingere, attraverso le violazioni del vero storico, un vero ispanico; ampliando, Larra sembra proporsi il raggiungimento di un vero universalmente umano che, pur senza evitare il confronto con la concretezza storica, tende ugualmente a spostarsi verso le regioni intemporali della metastoria.

In altri termini, posti dinanzi al secolare antagonismo fra vero storico e vero ideale o poetico, entrambi optano senza esitazioni per il secondo. Affermava Larra nelle poche righe di introduzione al Macías:

Macías es un hombre que ama y nada más. Su nombre, su lamentable vida pertenecen al historiador; sus pasiones al poeta.181


Inutile aggiungere che proprio di queste passioni egli si vantava di essersi fatto interprete.

Analogamente, a conclusione e quasi in contrasto con una serie di rilievi storici posti all'inizio del Doncel de Don Enrique el Doliente, dichiarava che il suo racconto non era debitore né a cronache né a leggende antiche, soggiungendo tuttavia:

si no hubiese sucedido, pudo suceder cuanto vamos a contar, y esta reflexión debe bastar tanto más para el simple novelista, cuanto que historias verdaderas de varones doctos andaban por esos mundos impresas y acreditadas de cuyo contenido no nos atreveríamos a sacar tantas líneas de verdad, o por lo menos de verosimilitud, como las que encontrará quien nos lea en nuestras páginas, tan fidedignas como útiles y agradables.182


Sul piano europeo queste posizioni non rappresentavano certo una novità, poiché erano condivise da quel settore del romanticismo che si suole definire «storico» e vantavano pertanto antecedenti anche illustri.183 Proprio A. G. Schlegel aveva rivendicato per i romantici il possesso di una verità più profonda di quella attingibile con le sole forze intellettuali:

Il genio romantico, nel suo medesimo disordine, è tuttavia più vicino al secreto dell'universo, poiché l'intelletto non può mai afferrare che una parte della verità, dove che il sentimento, abbracciando tutto, penetra egli solo nel mistero della natura.184


Schiller, affrontando più direttamente la questione, aveva semplicemente dichiarato che il piacere estetico non dipende dalla verità storica ma dalla verità poetica.185

Queste proposizioni ottennero larga eco in Spagna, come dimostra il fatto che Lista, il maestro dei romantici, riprendeva ed elaborava le parole di Schlegel, affermando:

El mundo físico es para el poeta cristiano símbolo perpetuo de verdades morales.186


Ma già prima che Lista desse corpo a questo suo pensiero, un anonimo articolista del Correo literario y mercantil, riferendosi espressamente al teatro, scriveva, nel 1828, che lo spettatore

no pide la verdad a secas, es decir, pura y simple, como algunos creen, antes por el contrario pide algo más que la verdad.187


Vent'anni più tardi, Zorrilla, che aveva raccolto e non di rado schematizzato l'esperienza romantica, esponeva in maniera più particolareggiata questo medesimo principio all'attore Julián Romea, quando stava per mettere in scena Traidor, inconfeso y mártir.

Tú crees -gli diceva- que la verdad de la naturaleza cabe seca, real y desnuda en el campo del arte, más claro, en la escena: yo creo que en la escena no cabe más que la verdad artística.


Il dramma pertanto

es un cuadro, es un paisaje, cuyas veladuras, que son el tiempo y la distancia, se entonan de una manera ideal y poética, en cuyo campo jura y se tira a los ojos la verdad de la naturaleza.


Tutto ciò autorizza anche la violazione della storia: Zorrilla dichiara di aver fatto una persona sola del re e del «pastelero»

prescindiendo a sabiendas de la verdad de la historia por la poesía de la tradición.188


Ma Zorrilla esprimeva in un discorso articolato ciò che lo stesso Larra aveva intuito e formulato più concisamente nel 1833, quando proprio lui, apostolo della verità,189 aveva ammesso, in teatro, una pluralità di veri, spiegando che

en las artes de imitación la perfección consiste no en representar a la naturaleza como quiera que pueda ser, sino de aquella manera que más contribuya al efecto que se busca.190


Come si può desumere da queste citazioni, varie sfumature compaiono quando si tratti di individuare specificamente il vero ideale. Tuttavia, nella pratica teatrale prevarrà l'identificazione con il vero ispanico, tradizionale o castizo che dir si voglia, di cui si era fatto apostolo Durán. Lo stesso vero universalmente umano perseguito nel Macías risulta filtrato attraverso la tradizione spagnola colta in uno dei suoi momenti più caratteristici. E nonostante le modifiche arrecate alla leggenda e alla storia, non è evidentemente possibile liberare la figura del trovatore gallego dalle incrostazioni che vi hanno lasciato lunghi secoli di tradizione.

Questa posizione nei confronti del vero veniva anche a soddisfare la sostanziale indifferenza per la storia che caratterizza la cultura spagnola del tempo. Ben poco gli Spagnoli avevano assorbito dello storicismo imperante in Europa, forse per la particolare urgenza dei problemi del presente che non permettevano un'indagine obiettiva del passato. Per meglio dire, se esistette uno storicismo ispanico, esso nacque con la pregiudiziale che il passato dovesse necessariamente prefigurare un presente a sua volta preliminarmente definito nei suoi tratti essenziali.

Al passato si guardò pertanto come alla proiezione di un presente idealizzato, nella certezza e con l'intenzione di scorgervi la conferma di quel complesso di virtù, sentimenti, ideali che si definì col nome di casticismo. Per questo alla storia si preferì la tradizione, ossia una specie di storia sotterranea, più intima e meno ufficiale, che poteva essere più facilmente sottoposta a manipolazioni e forzature.

È chiaro che in questa prospettiva si confondono realtà e immaginazione, avvenimenti storici e racconti popolari, in un miscuglio il cui sbocco non può essere altro che la fiaba. Lo provano, in altro campo, i romances históricos di Rivas, così poco storici in realtà, così vicini, per spirito e argomenti, alla drammaturgia contemporanea, dei quali si è giustamente affermato che costituiscono la premessa immediata alle Leyendas, ormai totalmente fiabesche, di Zorrilla.

Il Macías, col suo protagonista così appassionatamente fedele, con i suoi risvolti di vita conventuale, con i suoi ideali ottocenteschi trasferiti al secolo XV, rispondeva dunque alle esigenze di una nazione che da secoli era giudicata di amanti infuocati, che aveva fatto la sua bandiera della fedeltà amorosa e che Böhl, in una sua ricerca sul Volksgeist, aveva definito «no menos religiosa que rica de imaginación y entendimiento».191

Il dramma di Larra in questo modo inaugurava o, per meglio dire, codificava una formula destinata ad avere particolare fortuna nella drammaturgia romantica spagnola al punto da costituirne l'elemento forse più caratterizzante.

Pur non possedendo un talento teatrale spiccato, Larra aveva contratto, con traduzioni e adattamenti, una certa conoscenza dei gusti del pubblico; inoltre era un uomo geniale e soprattutto un profondo conoscitore del proprio tempo. Per questo trovò la formula adatta a un pubblico borghese prevalentemente orientato verso il moderatismo in ogni campo. A questo pubblico egli offriva un dramma nuovo che stava a indicare l'aggiornamento compiuto dalla cultura spagnola, ma che non era l'imitazione di modelli stranieri e non spezzava i legami con la tradizione culturale e teatrale; in tal modo riusciva a soddisfare l'orgoglio nazionale e lo sciovinismo politico e letterario degli spettatori.

Senonché ora, in precario equilibrio fra presente e passato, fra mito e storia, il Macías si trovava a muoversi in un'incerta dimensione temporale che in certo modo costrinse l'autore a ricercare un tempo diverso, interno al dramma stesso, su cui si scandisse l'azione e che ne costituisse l'elemento propulsore. Scoprì allora il plazo, ossia uno dei temi più suggestivi e tipici del teatro romantico spagnolo, per mezzo del quale, come annota il Casalduero, «el conflicto se desarrolla en el tiempo, no en el espacio».192 L'idea di una scadenza non era invero una novità in senso assoluto dato che essa già compariva in quell'altra leggenda degli amanti di Teruel che proprio in quegli anni era oggetto di rielaborazione da parte di Hartzenbusch; non si può neppure escludere che Larra abbia compiuto una contaminazione fra le due storie, entrambe in fondo d'amore e di morte.

Ma l'aver introdotto questo tema nella leggenda di Macías è l'indice di una sensibilità nuova per il problema del tempo, anche se esso non trova ancora, in quest'opera, un suo pieno sfruttamento: nel Macías infatti il plazo spira troppo presto, sul limitare del dramma, e perciò non viene ancora ad associarsi a quel senso di angoscia esistenziale e di ossessione temporale che compaiono nelle opere successive, ma ne è certamente il preannunzio.

Presto altri scrittori imboccarono la stessa strada del teatro storico-leggendario attingendo al ricco patrimonio della tradizione nazionale. Così Pacheco scrisse nel 1835 -ma non fece mai rappresentare- Los Infantes de Lara che si preoccupò di definire trajedia histórica e in cui, se ebbe qualcosa da rimproverarsi, fu di non aver condotto sino in fondo la trattazione del vero ideale: più tardi infatti riconobbe di non aver saputo «sacar el partido posible de las bellezas de la tradición».193

In effetti, probabilmente sospinto dalla consueta ricerca di una maggior verosimiglianza, forse anche dal timore di cadere negli eccessi del macabro che si rimproveravano al teatro francese, Pacheco sopprime i tratti più forti della leggenda (l'uccisione a sangue freddo degli Infanti, l'invio delle sette teste, il lamento di Gonzalo Gustioz), mentre fa luogo a una storia di amore, di gelosia (Doña Lambra vorrebbe che Elvira, amata da Gonzalo Gustioz, sposasse suo fratello Álvaro), di complotti e di incontri furtivi, che impallidisce rispetto alla vigorosa barbarie del racconto tradizionale.

Ben più felice è l'adesione di Hartzenbusch, che con Los Amantes de Teruel segna il momento più alto di questa prima fase del teatro romantico e, insieme, rappresenta la formula più riuscita del compromesso fra imitazione e inventività proprio di ogni processo di refundición.

Hartzenbusch definì la sua opera semplicemente drama ma, come Larra, si preoccupò di stabilire una data, il 1217, e dei luoghi definiti: Valencia e Teruel; in questo modo si inseriva di proposito nel filone pseudo-storico inaugurato dal Macías. Sull'altro versante, quello dei rapporti con i modelli (Artieda, Tirso, Montalbán), Hartzenbusch, primo tra i refundidores, non tenta più il reinserimento della vicenda entro gli schemi delle unità aristoteliche, sebbene ugualmente concentri i lunghi antefatti in poche battute iniziali; ma opera un pari approfondimento dei personaggi, tenta una giustificazione morale e psicologica delle loro azioni, attribuisce un carattere all'eroina e così via, secondo formule e prassi che ormai conosciamo e che Larra mise felicemente in luce nella sua recensione.194 Ma aggiunge ancora l'amore-passione, il plazo, l'esotismo, il sangue, i masnadieri, il rintocco delle ore, ossia una serie di motivi che riappariranno puntualmente nel teatro spagnolo di quegli anni.

In ogni modo, anche Hartzenbusch creava una favola seducente, che i pochi tocchi storici contribuivano a sospingere verso una maggiore intemporale lontananza; e, parlando di favola, non alludo soltanto a quel «dormitorio morisco» e a quelle «letras de sangre» così improbabili; ma anche a quei mitici Adel e Zulima che s'inseguono e si sfuggono e soprattutto al clima generale di attesa e di incertezza fino a quell'incredibile morte per amore e per dolore. Alla creazione di questo clima giovava non poco l'abile sfruttamento del tema del plazo. Un tema che Hartzenbusch trovava già ampiamente svolto nei modelli ma che egli sapeva trasferire dal piano barocco del desengaño e del rapporto problematico fra tempo fisico e tempo metafisico a quello dell'angoscia esistenziale. E questo otteneva in primo luogo attraverso una variazione di strutture, concentrando i due terzi dell'opera nel periodo di attesa e dedicando il rimanente alla catastrofe successiva allo spirare della scadenza.195 Secondariamente, suddivideva il periodo di attesa in una serie di porzioni temporali sempre più piccole: da sei giorni prima della scadenza (atto I) a tre giorni (atto II) a poche ore (atto III: Isabel si adorna per la cerimonia) a pochi minuti (ivi: il corteo si avvia alla chiesa), a pochissimi istanti (ivi: l'arrivo di Adel, il quale annunzia che Marsilla è vivo), alla scadenza infine che compare quasi fisicamente sulla scena col rintocco delle campane.

Hartzenbusch veniva così a conferire una definitiva dignità letteraria al tema del plazo che Larra aveva introdotto nel dramma ottocentesco e a tratteggiarne i lineamenti essenziali. Negli Amantes de Teruel il tempo è werden, è ossessione incalzante, è inafferrabilità del presente: tutti i personaggi appaiono infatti o protesi verso un futuro che sfuggirà loro o ripiegati nel rimpianto di un passato altrettanto irraggiungibile. Questo è veramente il tempo del dramma, non quello dell'ipotetico anno 1217.

Altrettanto fuori del tempo, ma in maniera anche più scoperta, si collocava l'altro grande successo di quegli anni: El Trovador, che era apparso sulle scene il 29 Febbraio 1836, circa un anno prima del dramma di Hartzenbusch.

Questa volta la vicenda non era tratta dalla tradizione letteraria ma da una tradizione popolare e sotterranea di racconti di streghe e di ricordi dell'Inquisizione, cui si univa l'eco di letture e la risonanza dei gusti del tempo; forse anche un ricordo del Macías che poté influire sulla creazione del protagonista, il trovatore Manrique.

García Gutiérrez si rese conto che la sua opera non poteva ambire al titolo di storica e la chiamò pertanto (con notevole improprietà) drama caballeresco; ma non seppe, o non volle, resistere alla tentazione di collocarla in un'epoca e in un luogo storicamente definibili, quantunque in modo un po' vago: «Aragón. Siglo XV». E chi appena conosca il celebre dramma sa quanto questo sfondo medievaleggiante giovi all'atmosfera ambigua e sognante dell'opera. Ancora una volta, dunque, le notazioni storiche perseguono lo scopo di rafforzare il clima leggendario.

L'assenza di un vero senso storico è anche qui compensata, potremmo dire in direzione di verità ideale, da un acuto sentimento del tempo che si manifesta non nell'angosciosa dimensione della scadenza ma nell'ossessiva malinconia del ricordo. Si può dire che l'intero dramma si dipani sull'onda dei ricordi; proprio all'inizio Leonor rievoca l'incontro notturno con Manrique:


con voz pausada
cantar una trova oí.
Era tu voz, tu laúd...
Me figuré verte allí
en la obscuridad profunda;
que a la luna moribunda
tu penacho descubría.


(I,4)                


Più tardi sarà Manrique a far leva sul ricordo per convincere Leonor a seguirlo:


¿Te acuerdas?
Era una noche plácida y tranquila...
la luna hería
con moribunda luz tu frente hermosa,
y de la noche el aura silenciosa,
nuestros suspiros tiernos confundía.


(III, 5)                


Oppure si rivolgerà al passato nella ricerca di una felicità tramontata, in un passo in cui la sensibilità romantica si combina con tonalità alla Jorge Manrique:


Tiempos en que amor solía
calmar piadoso mi afán
¿qué os hicisteis? ¿Dónde están
vuestra gloria y mi alegría?
De amor el suspiro tierno
y aquel placer sin igual,
tan breve para mi mal,
aunque en mi memoria eterno,
ya pasó... Mi juventud
los tiranos marchitaron
y a mi vida prepararon
junto al ara el ataúd...


(III,4)                


La stessa Azucena è dominata dal ricordo allucinante del rogo in cui perì la madre:

Me acuerdo de cuando achicharraron a tu abuela: iba cubierta de harapos; sus cabellos, negros como las alas del cuervo, ocultaban casi enteramente su cara; yo, tendida en el suelo, arañando frenética mi rostro, había apartado mis ojos de aquel espectáculo que no podía soportar... Todavía retiembla en mi oído el acento de aquel grito desesperado que le arrancó el dolor... Debe de ser horrible, precisamente horrible, ese suplicio: aquel grito desentonado expresaba todos los tormentos de su cuerpo, y los verdugos se reían de sus visajes, porque la llama había quemado sus cabellos, y sus facciones contraídas, convulsas, y sus ojos desencajados, daban a su rostro una expresión infernal...


Così intensa è l'ossessione di questo ricordo tanto crudelmente minuzioso, che invano Manrique le domanda:


¿No podéis olvidar todo eso?


(V, 6)                


Una risonanza immediata di questo motivo, destinato a esercitare una vasta influenza negli anni successivi, è forse reperibile in Elvira de Albornoz, un'altra opera prima, che José María Díaz sottopose al giudizio del pubblico pochi mesi più tardi, il 23 Maggio. In essa Tello, alla stessa stregua di Manrique e con tonalità non dissimili, si affida ai ricordi di un passato d'amore per riconquistare Elvira, mentre non può non avvertire l'irripetibilità delle occasioni perdute in un tempo definitivamente trascorso:


Daba la media noche, y profanando
el templo del Señor, en él entraba,
y no la religión me conducía;
el amor solamente me guiaba.
Allí, dejando tu aposento, Elvira,
bajabas tú como deidad del cielo,
y el alma que adorando te esperaba,
henchías de dulcísimo consuelo.
Virgen, sin mancha, sin amor impuro,
abrasada en pasión, desesperada
viste una vez correr por mi mejilla
una lágrima sola y preguntaste
la causa de mi llanto: Elvira mía,
no la ignoraba yo que para siempre,
para siempre, mi Elvira, te perdía:
¿te acuerdas?


(IV, 2)                


Tuttavia questo motivo del ricordo si innestava su di una tematica generale rapportabile -senza necessità di mediazioni- al Macías o al clima che il Macías aveva contribuito a divulgare. Era infatti la storia di un amore impossibile (reso anche più patetico dal fatto che l'amante è un templario legato al voto di castità) che il ritorno di Don Tello dalle crociate -quando ormai l'amata Elvira è andata sposa a un altro- riaccende nel cuore di entrambi, destando una lotta fra dovere e amore che si risolve solo con la morte in duello del marito e col suicidio di Elvira. Il tutto poi si adagia su di uno sfondo medievale spagnolo, collocato, al solito, ai margini della storia (la vicenda, benché inventata, ha per protagonisti personaggi dai nomi illustri di Albornoz, Quiñones, Tello de Meneses) e continuamente richiamato dai consueti ingredienti: oltre al già ricordato ritorno del crociato, le cacce, i tornei, il «salón gótico» e l'immancabile (e questa volta superfluo) trovatore. Non si può invero non concordare con un recensore contemporaneo, il quale affermava che l'argomento «no puede estar más manoseado»;196 ma proprio questo manierismo ormai in atto attesta la vitalità della formula coniata da Larra.

Questi drammi, che abbiamo rapidamente esaminati, erano il prodotto di ingegni vissuti e maturati nel clima rarefatto dell'epoca fernandina, i quali del turbine ideologico che aveva scosso l'Europa avevano potuto cogliere solo il riflesso che veniva loro fornito dalle caute interpretazioni di taluni loro compatrioti. In particolar modo, come si è visto, essi avevano risentito dell'influsso di Durán o degli ambienti di cui Durán si era fatto portavoce.

Forse per questo motivo si mossero su di un piano parzialmente diverso da quello della contemporanea cultura europea. Non solo infatti li distingueva l'assenza di un vero spirito storicistico, ma anche la tradizione cui si rivolsero differiva da quella generalmente ricercata negli altri paesi. Il loro mondo mitico per lo più apparteneva già da secoli alla tradizione colta -Macías, Amantes de Teruel, Infantes de Lara- oppure, quando sembrava tratto dal patrimonio popolare, come nel Trovador, veniva ben presto assorbito entro una cornice tutt'altro che popolare e decantato in una coscienza raffinatamente letteraria, come dimostrano, nell'opera di García Gutiérrez, la figura stessa del trovatore e l'intensa elaborazione formale dei versi.

Cosicché, mentre l'Europa era ormai volta verso la Volkspoesie, la Spagna, pur affacciandosi al mondo popolare, continuava sulla linea della Kunstpoesie.

Si andava così delineando, ad opera di questi primi dramaturghi, quel clima incerto e suggestivo che i contemporanei chiamarono del «justo medio» e che fu generalmente inteso come il risultato di un compromesso -il famoso «eclettismo»- fra il rigore normativo del classicismo e le sregolatezze romantiche; ma che altri, confusamente e tuttavia non senza una certa proprietà, chiamò «género español». In effetti il teatro spagnolo aveva trovato la sua via e, per così dire, il suo tono.197 Non aveva prodotto il capolavoro ma aveva certamente proposto una traccia che molti si apprestavano a seguire.

Meno efficace, ai fini dei futuri sviluppi, fu invece l'opera di autori che trassero più diretta ispirazione da fonti non spagnole. La Conjuración de Venecia, composta da Martínez de la Rosa durante il suo esilio in Francia sotto l'impressione in lui destata dalla rappresentazione dell'Hernani, segnava un tipo di dramma storico che non ebbe il seguito che ci si doveva aspettare in considerazione dell'enorme successo ottenuto e degli indubbi meriti intrinseci.

È vero che anche questa pieza mescolava realtà storica e fantasia e che portava in scena motivi -come il panteón e la prigione- destinati, questi sì, ad avere lunga ripercussione; ma il dramma, ambientato nella Venezia medievale, impediva necessariamente quella ricerca di verità ispanica e quell'habitus «castizo» che diverranno quasi un passaggio obbligato. Se infatti diamo uno sguardo alla produzione degli anni successivi, ci rendiamo conto che solo eccezionalmente verrà affrontato un episodio che non appartenga alla storia spagnola: si potrebbero indicare, al riguardo, alcuni drammi di Gil y Zárate, ossia di un autore che spesso cercò di mettersi contro corrente (Rosmunda, Masanielo, Guillermo Tell, La familia de Falkland), Juan Dandolo di Zorrilla e García Gutiérrez, La cabeza encantada dello stesso Martínez de la Rosa e poche altre opere.

D'altro canto, La Conjuración de Venecia si riallacciava anche troppo alla tragedia neoclassica, di cui riproduceva quel dramma politico (non si dimentichi che il tema amoroso appare in subordine rispetto a quello della congiura) che d'ora innanzi sembrerà interessare ben pochi scrittori.

Per questo si potrebbe affermare che, nonostante le aperture -non solo verso le nuove scuole ma anche verso la nuova sensibilità letteraria- il dramma di Martínez de la Rosa appartiene a una tappa anteriore al Macías -quella stessa all'incirca in cui si possono collocare la Blanca de Borbón di Gil y Zárate e quella di Espronceda- quando il teatro classico viene a patti col romanticismo di cui accoglie ingredienti tipici ma non sempre assorbe le istanze più profonde. Lo attesta, fra l'altro, l'assenza di un autentico sentimento del tempo, nonostante la suggestiva battuta iniziale che parrebbe promettere assai di più in questa direzione.198 Non esistono, qui, le fughe verso il passato né verso l'avvenire, non affiora l'idea di una scadenza in agguato e la dimensione temporale in cui si muove il dramma è quella stessa che emana dal logico dipanarsi della vicenda.

Anche il linguaggio di quest'opera è notevolmente diverso da quello degli altri drammi romantici: in una prosa semplice, quotidiana, senza ricerca di effettismi, senza lirismi, è un pregevole e riuscito tentativo di riprodurre un dialogare credibile e accessibile. Ciononostante non avrà seguito: gli Spagnoli forse vi avvertirono la presenza di moduli sorpassati (in effetti la fonte potrebbe essere El delincuente honrado, anch'esso così intenzionalmente prosastico e quotidiano) e pertanto continuarono a produrre un «teatro di poesia», in cui sentimenti nobili e profondi, dolori esasperati, evasioni e rêveries troveranno nel verso la struttura espressiva più confacente.

A differenza di Martínez de la Rosa, Bretón era vissuto sempre in Spagna e nelle sue commedie aveva interpretato lo spirito castizo nella sua forma più tradizionalmente conservatrice, accattivandosi la vivissima simpatia del pubblico. A un certo momento volle anche lui giocare la carta del romanticismo e fece rappresentare, un mese dopo il Macías, l'Elena di cui anni più tardi parlava con sufficienza riconoscendovi la presenza di facili concessioni alla moda.199 In Elena l'autore aveva in effetti accatastato tutti i possibili lances romantici: la passione irrefrenabile e funesta (¡Oh, mujer, mujer fatal, / nacida para mi mal!); la follia che scaturisce dal dolore sovrumano; l'odio e la vendetta; il bandito gentiluomo; il suicidio del malvagio schiacciato dal cumulo delle sue colpe; un figlio del peccato allevato nascostamente in una capanna solitaria; gli sfondi desolati.200

Si trattava insomma di quello che sarebbe stato chiamato il romanticismo exagerado, che, con qualche leggerezza ma in modo non del tutto inesatto (si pensi a certo Dumas) si sarebbe identificato col romanticismo francese e che non ebbe praticamente seguito. Anche Elena rimase pertanto un esperimento che non fece scuola.

Altrettanto isolato rimase il tentativo di Ochoa (un altro scrittore formatosi durante il lungo esilio) di introdurre in Spagna quella che era stata definita la tragedia borghese. Incertidumbre y amor (che nel titolo richiamava appunto la capostipite del genere, Kabale und Liebe già nota in Spagna col titolo El amor y la intriga e portata in scena nel 1800), rappresentata al teatro della Cruz il 1º Giugno del 1835, prospettava, come l'opera schilleriana, un caso di amore fra persone di differente ceto sociale. Ernesto, tentennante fra l'amore di Luisa, povera e derelitta, e le convenzioni sociali che lo spingono a sposare la cugina Isabel, opta infine per l'amore: troppo tardi però, poiché Luisa, credendosi abbandonata, ha già bevuto un veleno mortale.

Affiorerà bensì a lungo, nel teatro romantico, la lotta fra la società ingiusta e l'individuo, ma raramente l'accento si poserà su problemi di ceto e di censo soprattutto nella società contemporanea: si preferirà, in genere, spostare anche questi episodi nei secoli andati e pertanto, come già accadeva nel Macías, impersonare l'oppressione nei potenti e nei loro intrighi.201

La scarsa influenza esercitata dalle ultime due opere va probabilmente ricercata anche nella loro ambientazione nella società contemporanea che urtava contro quell'ideale di dramma semistorico che si era andato formando e che, inoltre, mostrando un presente moralmente negativo,suscitava ostilità in gran parte dell'opinione dominante.

Al contrario, la collocazione in prospettiva storica, ispanica naturalmente, dovette contribuire al successo che, dopo le perplessità destate dalla prima rappresentazione, arrise al Don Álvaro,202 che pure era nato fuori di Spagna e si ispirava ai temi così poco spagnoli dello Schicksalsdrama.

Inoltre Rivas si era mantenuto nell'ambito della tradizione spagnola, mescolando le fonti orali dei racconti dell'indiano, della penitente e del salto del diavolo con le fonti letterarie del Diablo predicador e delle reminiscenze calderoniane.203

È vero che la vicenda del Don Álvaro è ambientata non più nel lontano medio evo ma nel secolo XVIII appena trascorso: tuttavia anche questa collocazione storica, unita ad alcuni tocchi di ricostruzione ambientale (la soldataglia presso Velletri, il convento e l'ermita) e all'intenzionale inverosimiglianza dell'ostinato accanimento del destino, è sufficiente a sospingere la vicenda in una lontananza fiabesca.

Il Don Álvaro pertanto si inseriva di pieno diritto nel filone del Macías, precorrendo El Trovador e Los Amantes de Teruel. Ma vi si inseriva pure per quella fuerza del sino di cui si faceva interprete e che da un lato portava -sulla direttrice delle refundiciones- alla tematica calderoniana del libero arbitrio, mentre dall'altro riconduceva alla solita problematica del tempo.

In effetti Don Álvaro riprendeva Segismundo cui lo avvicinavano l'angoscia di un destino predeterminato e la lotta (e le conseguenti sconfitte) per sottrarvisi. Ma al personaggio calderoniano Rivas si accostava con animo di refundidor, trasformando l'eroe barocco, proteso verso la scoperta del vero e bramoso di inserirsi nei disegni della Provvidenza, nella romantica vittima di un destino assurdamente avverso, di una sorta di Antiprovvidenza.

Perciò, mentre Segismundo, accogliendo il monito provvidenziale, medita sul passato e su di esso cerca di organizzare l'avvenire, Don Álvaro tenta un'inutile fuga dal ricordo ossessivo che ripetutamente lo assale a ogni nuovo attacco del destino.

Così ricordo e fatalità, strettamente intrecciati, determinano l'ingresso della dimensione temporale in maniera non molto dissimile dal Macías o da Los Amantes de Teruel. In fondo anche qui grava sul protagonista un plazo, non espresso in precise determinazioni cronologiche, più misterioso e occulto, ma non meno incombente.204

Un esito di gran lunga più limitato ebbe l'altro Schicksalsdrama: l'Alfredo che Pacheco scrisse prima degli Infantes de Lara; esso fu rappresentato il 23 Maggio del 1835 e, dopo altre due rappresentazioni, fu totalmente dimenticato. Alfredo era una strana pieza che, mentre rispettava le tre unità, attingeva al repertorio del romanticismo più truculento e -fatto piuttosto eccezionale- era scritto totalmente in prosa.

Chissà che fra le cause dell'insuccesso non si debba annoverare proprio l'assenza di metrificazione che lo stesso autore, più tardi, attribuì alle bizzarrie della moda. In realtà in Spagna, come si accennava poco prima, esisteva una predilezione per il verso, certo anche da parte del pubblico; e in versi (tutt'al più misti a scene in prosa) furono scritti quasi tutti i drammi romantici, favorendo quella tendenza alla letterarietà che già era affiorata nei trattati dei teorici. Non a caso Rivas, con felice intuito, versificò, per la rappresentazione in Spagna, parecchie scene del Don Álvaro che, nella sua primitiva stesura parigina, era totalmente in prosa.

Ma certo non mancarono altre ragioni di insuccesso: l'ambientazione non spagnola del dramma, la particolare scabrosità della vicenda e soprattutto il ricorso al «meraviglioso».

Il teatro spagnolo romantico avvertì, nonostante talune eccezioni, l'esigenza di una sostanziale razionalità, che non contraddiceva ma anzi confermava l'aspirazione alla verità ideale: tanto che, secondo Durán -come s'è visto- proprio tale razionalità l'avrebbe dovuto distinguere dal teatro secentesco. E ancora alla razionalità avevano fatto appello i refundidores, premurandosi di sopprimere quanto potesse sembrare proprio di un mondo non naturale.205

Pacheco invece devia da questa linea e già in apertura descrive Alfredo che ha udito una voce interna e ha scorto una visione che lo spingono all'Oriente. Quando poi, più avanti, il protagonista, affascinato da Berta, decide di sposarla, l'autore fa sì che l'ombra di Jorge (il fratello di Berta assassinato assurdamente da Alfredo) si levi per impedir loro l'accesso alla cappella, esclamando:


Deteneos, sacrílegos.


(III, 10)                


Altri tocchi in questa direzione si notano poco dopo, quando si mormora che il castello di Alfredo è divenuto un luogo di orrori:

Hay fantasmas, ruido de cadenas, apariencias misteriosas.


(IV, 1)                


In questa prospettiva, Alfredo poteva dunque sembrare ancor legato alle comedias de magia, tanto deprecate da tutta la critica contemporanea.

Ma anche il tema della fatalità -che aveva, pochi mesi prima, dato lustro al Don Álvaro- vi appare svolto in maniera forzatamente inverosimile. Alfredo, afferrato dall'amore per Berta, vi scorge, chissà perché, l'impronta della fatalità:

El mismo hecho, el mismo principio en todas partes... ¡La fatalidad!... ¿Será por ventura la fatalidad la única ley del mundo? ¿No seremos todos sino débiles instrumentos de su poder; vanos juguetes de sus arcanos misteriosos?


(II,4)                


E questa fatalità si manifesta, in maniera altrettanto ingiustificata, quando egli uccide, senza un palese motivo, Jorge che lo ha scorto mentre abbracciava Berta:

¡Dios mío! ¡Dios mío! -¿Qué es lo que he hecho?- ¡Oh! ¡Él había visto mi felicidad!


(II, 7)                


Non sono dunque la calamità accidentale o la sfortunata coincidenza che comparivano nel Don Álvaro: è una sorta di forza superiore che trascina l'uomo a compiere azioni folli e ingiustificate.

Questa forza ha molti tratti satanici: non solo si identifica nell'amore per Berta, che Alfredo stesso definisce in questi termini:

No es una pasión humana... es un amor frenético, infernal,


(II, 4)                


ma finisce per impersonarsi nel torvo e misterioso Griego, vero genio delle tenebre, ispiratore del male fine a sé stesso, che al termine dell'opera compare sulla scena con tutte le caratteristiche diaboliche, come suggerisce la didascalia finale (e come già avvertì un critico contemporaneo206):

Al herirse Alfredo, aparece el Griego en el fondo, vese en sus labios una sonrisa infernal, y se desvanece. Horror general.


L'opera dunque pareva rifiutare quell'esigenza di razionalità e di verosimiglianza da cui il teatro spagnolo, neoclassico e romantico (a differenza di quello barocco), ben raramente si allontanò: per meglio dire, tale teatro poté spesso accogliere anche gravi inverosimiglianze storiche e avvenimenti improbabili ma rifiutò regolarmente fatti irrazionali e interventi preternaturali.

E che l'inverosimiglianza intesa in questi termini fosse il punctum dolens dell'Alfredo e causa non ultima del suo scarso successo pare confermato, oltre che dalle critiche piuttosto acri di taluni contemporanei, dallo stesso Pacheco, che molti anni più tardi tentò una sorta di riabilitazione del suo dramma, in cui, quasi a confutare antiche obiezioni, contro ogni evidenza affermava:

Las pasiones son ardientes pero naturales... el término es posible, es verisímil.207


Occorre tuttavia soggiungere che l'Alfredo -come, peraltro, La Conjuración de Venecia e, in parte, altre opere che, deviando dalla linea che assumerà il teatro spagnolo, non esercitarono influenza in tale direzione -aveva assorbito tonalità e tematiche che non mancheranno di fare scuola. In particolar modo, l'opera di Pacheco, così ricca di spunti in armonia con le mode e la sensibilità del tempo, si colloca spesso all'origine di certi topici destinati a ritornare puntualmente lungo tutto l'arco della produzione romantica.

Alla luce delle considerazioni esposte, si può dunque tentare un bilancio della produzione teatrale spagnola dalla Conjuración de Venecia a Los Amantes de Teruel, ossia, approssimativamente, dei primi tre anni di esperienza romantica fra il 23 Aprile 1834 e il 19 Gennaio 1837.

Gli aspetti più caratteristici si possono riassumere nel tono storico-leggendario, nell'abbassamento del rango sociale dei protagonisti, nell'ispanità tradizionale dei temi, nel sentimento del tempo. Sul piano negativo, si può invece parlare del rifiuto di una prospettiva non storica, dell'irrazionalità e di un certo tipo di inverosimiglianza.

Per chi abbia una qualche confidenza con taluni passaggi obbligati della critica del tempo e di quella dei nostri giorni, fa meraviglia scoprire quanto poco rilievo sia dato invece al ricordo del teatro barocco e quanto scarsa sia l'influenza da questo esercitato sulle opere romantiche.

Un richiamo tematico è bensì ravvisabile nel Macías, ne Los Amantes de Teruel e, in parte, nel Don Álvaro, ma si è visto quanto lo spirito animatore di queste opere sia di antagonismo assai più che di simpatia con il teatro secentesco. Questo non è pertanto un modello ma neppure, come si è visto, una fonte diretta -e tanto meno ineludibile- del teatro romantico. Manca perfino l'intenzione di un richiamo, che sarebbe altrimenti sottolineata da qualche allusione. Al contrario, se un'allusione compare, tende a ironizzare su quelli che tradizionalmente venivano additati come i difetti tipici di quel teatro. Bretón, per esempio, inserendo nella sua Elena una scena comica in cui una vecchia signora, catturata dai banditi, teme per la propria virtù, fa pronunziare a un bandolero le seguenti parole:


Déjale, Caifas, no sea
que de pudor se desmaye
esa Lucrecia en adobo,
y tengamos aquí un lance
de Calderón.


(IV, 6)                


Alla stessa stregua, in Incertidumbre y amor, un servo avverte:

Aventura de Calderón tenemos en campaña. Dama tapada.


(II, 4)208                


Insomma il teatro barocco è ormai un fatto lontano da cui ci si va staccando sempre più: è vero che si continuano a mettere in scena -sia pure arregladas o refundidas- le antiche comedias ma esse non hanno più la facoltà di incidere sulla produzione letteraria.

Il distacco si fa più netto con le opere successive a Los Amantes de Teruel. Nell'anno più fecondo della drammaturgia romantica, il 1837, si avverte infatti la tendenza ad abbandonare quei temi leggendari che permettevano ancora qualche aggancio esteriore col teatro secentesco e a riportare sulla scena (in un apparente ricupero di certi aspetti propri del teatro neoclassico) personaggi pienamente storici, anzi spesso i grandi interpreti della storia di Spagna. Si può dire che questa tendenza abbia propriamente inizio sul finire dell'anno precedente, quando, il 17 Dicembre 1836 (un mese prima degli Amantes de Teruel), J. M. Díaz fece rappresentare la sua seconda opera, il Felipe II. A non molta distanza compaiono sulle scene Filippo IV (P. de la Escosura, La Corte del Buen Retiro: 3-6-1837), Doña María de Molina (nel dramma omonimo di Roca de Togores: 24-6-1837), ancora Filippo II (A. Muñoz Maldonado, Antonio Pérez y Felipe II: 20-10-1837), Carlo II (A. Gil y Zárate, Carlos II el Hechizado: 2-11-1837), Carlo V (P. de la Escosura, Bárbara Blomberg: 19-11-1837), Fernando IV (M. Bretón de los Herreros, Don Fernando el Emplazado: 30-11-1837) e, a una certa distanza, data la minore notorietà, Ramiro II di Aragona (A. García Gutiérrez, El Rey Monje: 18-12-1837).

Fra tutte queste opere, solo per Doña María de Molina e per Don Fernando el Emplazado è possibile segnalare antecedenti nel Siglo de Oro. Ma è risaputo che Roca de Togores preferì rifarsi alla storia del P. Mariana anziché a La prudencia en la mujer, tanto che il suo è uno dei pochi drammi dell'epoca che siano stati preceduti da un'attenta documentazione storica.209 Per quanto poi concerne il dramma di Bretón, è sufficiente una comparazione superficiale per escludere qualsiasi possibilità di rapporti con La inocente sangre di Lope de Vega. Un'opera, quest'ultima, che si conclude col supplizio dei Carvajales provocato da loro nemici i quali hanno buon gioco sull'animo impetuoso e irriflessivo, ma onesto, del giovane re; in cui Fernando non è protagonista e in cui il plazo compare solo in un accenno, verso la fine, come minaccia scagliata ma non come scadenza incombente e operante. Al contrario, quello di Bretón è il dramma di Fernando IV, della sua malvagità e tirannide giustamente punite; un dramma che trae origine dalla condanna dei Carvajales e dalla terribile citazione dinanzi al tribunale divino.

In tutte poi è eccezionale trovare passi o toni riecheggianti gli ingredienti tipici del Siglo de Oro. Si potrebbe, sì, citare la prima parte dell'atto II del Rey Monje, che per molti aspetti parrebbe tratto da un'antica comedia: Ramiro, con l'aiuto di una dueña e servendosi di una scala, entra furtivamente in casa dell'amata Isabel, mentre il servo Ortiz ne sorveglia l'ingresso. Ortiz viene ucciso in duello dal padre di Isabel e Ramiro è costretto a fuggire.

Accanto a questi tipici lances ben si colloca un linguaggio infiorettato di metafore barocche e di acuti requiebros. Si pensi che Ramiro intreccia complimenti a Isabel sulla base di «sol, noche oscura, gloria» e simili, fino al punto di esclamare, quando l'amata si allontana:


¿Ya, mi sol, os eclipsáis?


(II, 1, 2).                


Ma una lettura di quell'atto nel contesto generale dell'opera insinua ben presto il dubbio che García Gutiérrez abbia voluto, di proposito, «ricostruire» un ambiente vagamente arcaico (l'opera è ambientata nel secolo XII) e che all'uopo si sia giovato di recursos secenteschi. Gli altri episodi infatti hanno tutti i colori forti o languidi del romanticismo più di maniera: Ramiro che scopre, dietro un arazzo, illuminato da torce, il triste féretro enlutado in cui crede rinchiusa la sua Isabel; l'orgia dell'atto IV; il delirio di Isabel; il lugubre rintocco della campana di Huesca e soprattutto un linguaggio ben diverso che trascende dai versi delicati come


blanca azucena inocente


(V, 4)                


o (con un vago anticipo di Bécquer)


Sólo una vez supe amar
pero esa vez... amé tanto


(I, 6)                


ai toni cupi:


hay entre los dos un mar
de negra sangre manchado


(V, 4)                


o beffardi:


A mí me agrada el desorden
y el vino de las orgías
y las báquicas canciones...


(IV, 2)                


In un contesto siffatto, il linguaggio e le situazioni barocche non possono non acquistare il carattere di una sorta di costumbrismo archeologico, di una rievocazione di una epoca che sia totalmente tramontata.

Un intento di ricostruzione ambientale più scoperto e forse anche meglio realizzato è reperibile nella Corte del Buen Retiro, in cui Patricio de la Escosura, secondo quanto dichiarò l'anno successivo, avrebbe cercato di «amalgamar el romanticismo de Calderón con el de Dumas y de Victor Hugo».210

Riesce arduo, per il lettore moderno, individuare nell'opera i due tipi di romanticismo che forse, nella mente di Escosura, si riducevano alla solita contrapposizione semplicistica di moralità ispanica e immoralità francese. In ogni modo, di calderoniano non c'è assolutamente nulla, nemmeno la figura di Calderón, che è rappresentata con sensibilità certamente non secentesca.

Calderón compare infatti nell'opera, accanto a Góngora, Quevedo, Velázquez, per ricreare il clima raffinatamente artistico e letterario della corte di Filippo IV, dove i poeti recitano passi tratti dalle loro opere211 o riecheggianti il loro stile,212 mentre Velázquez è colto durante la composizione di un quadro.213

L'intento ricostruttivo è spinto così a fondo che la vicenda dell'opera vi si innesta profondamente e trova la sua giustificazione proprio in quel clima raffinato che si è detto: se infatti la gelosia del re nasce alla lettura di un sonetto composto da Villamediana, essa trova la conferma definitiva nel quadro mitologico dipinto da Velázquez, per il quale hanno posato Villamediana e la regina.

Il tono estetizzante di questo mondo riprodotto secondo un registro artistico-letterario (unito a una sostanziale assenza di riferimenti politici e sociali) ne sottolinea dunque la lontananza e l'irripetibilità; al contempo fa sì che anche questo dramma attinga i toni leggendari, cui contribuiscono naturalmente anche altri elementi.214

Un consimile livello di costumbrismo archeologico fondato su aspetti letterari della vita nel Siglo de Oro è reperibile -sia pure in forme artistiche assai più modeste- in Fray Luis de León o El Siglo y el Claustro che J. Castro y Orozco mandò in scena il 15 Agosto del 1837. Luis innamora di sé Elvira, grazie ai suoi versi; quando sta per professare, gli studenti salmantini cantano letras del Brocense; frequenti sono i riferimenti a Garcilaso, a Herrera, a Diego de Mendoza; quest'ultimo è anche un personaggio dell'opera in stretta relazione con Luis stesso.

Ma anche qui l'intento è quasi esclusivamente «ricostruttivo» e sortisce l'effetto di creare un'ambientazione vaga e sfumata cui contribuiscono non poco proprio i personaggi storicamente reali ma profondamente distorti; soprattutto Luis de León, la cui figura è falsata fino a rasentare la parodia.215

Il Siglo de Oro non adempie dunque ad altra funzione che a quella di fornire un certo numero di elementi atti a trasportare il pubblico in un mondo vagamente fiabesco: il suo ambiente culturale, le sue figure di primo piano non rivestono, per lo scrittore romantico, alcun carattere di esemplarità; sono semplicemente aspetti seducenti di un mondo che la colta borghesia madrilena può contemplare con un sottile godimento estetico, che può divenire più intenso quando un'audace (purché moderatamente audace) violazione della storia sembra dar vita a un acuto gioco d'ingegno.

Le rievocazioni del mondo cinque-secentesco nei drammi del 1837 non si distinguono pertanto da quelle di altre epoche se non per la più forte presenza di riferimenti al mondo letterario e artistico (che peraltro non compaiono neppure in tutte le opere ambientate in quell'epoca216) i quali, pur favorendo la creazione di un clima mitico, rallentano o quanto meno equilibrano le violazioni della storia.

Tuttavia mitizzazioni più profonde e integrali sono di gran lunga più diffuse e correnti dei pochi tentativi di ricostruzione che abbiamo esaminato e si realizzano, tanto nei confronti del Cinquecento e del Seicento quanto di altre epoche, a partire dal 1837.

Dapprima le violazioni della storia sono determinate, almeno in parte, dal desiderio di stimolare negli spettatori una certa reazione politica. Si tratta ancora di un'eredità neoclassica ma non vi sono estranee le particolari circostanze del momento in cui questi drammi sono composti e rappresentati. Sono infatti manifestazioni tipiche del 1837, l'anno della Costituzione, e nascono ora al calore degli entusiasmi destati dal ritorno del liberalismo ora dal desiderio di colpire sulla scena gli ideali conservatori perseguiti dal carlismo allora nel suo pieno vigore.

Nell'ambito del legittimismo anticarlista nasce per esempio Doña María de Molina (per cui veramente più che di violazioni si dovrebbe parlare di invenzioni217) con l'evidente scopo di commuovere le platee sfruttando l'analogia fra la situazione dell'antica Maria e quella dell'attuale reggente Cristina: un'analogia che, avvertita dagli spettatori, fu causa non secondaria del successo ottenuto dall'opera.218

Di fronte all'ispirazione filomonarchica di questo lavoro, si profilano alcuni foschi drammi che, sospinti da intenzioni anticarliste, giungono a posizioni antimonarchiche e, come dirà un critico contemporaneo, «tienden a poner la soberanía en ridículo»; soggiunge il critico:

Todos los Reyes que han sido dispóticos y perversos, hallan favorable acogida por los autores románticos, que sin escrúpulo ninguno los reproducen en el teatro aún más perversos y despóticos que fueron...219


Ma non si tratta solo di esagerazioni o di scelte; spesso l'amore della causa sposata conduce a deformazioni storiche rilevanti. In Antonio Pérez y Felipe II (rappresentato il 20 Ottobre 1837) e nel più celebre Carlos II el Hechizado (del 2 Novembre 1837) posizioni di fondo antimonarchiche e anticlericali (queste ultime in armonia non solo con la lotta al carlismo ma anche con la politica interna di quegli anni220) inducono gli autori a creare figure e situazioni forzate e storicamente insostenibili. Nel primo dramma il re prudente è dipinto come un ipocrita assetato di sangue che può ascoltare con untuosa pietà un sermone sul quinto comandamento e al contempo deliberare esecuzioni sommarie; che ama, di un amore adultero accompagnato da vani rimorsi, Anna d'Eboli e che per gelosia perseguita fino alla morte il suo valido; che infine si serve della delittuosa collaborazione del priore dell'Escorial e perfino del papa per consumare i suoi crimini.

Un po' diversamente da lui, il Carlo II di Gil y Zárate è invece la vittima di un clero coalizzato ai suoi danni, fra cui emerge la ripugnante figura di Don Froilán che tenta di piegare alle sue voglie la figlia illegittima del sovrano. La tesi per così dire propagandistica dell'opera (la quale, sia detto per inciso, possiede una sua robustezza e non manca di efficacia spettacolare) affiora spesso e talvolta è esplicitamente dichiarata come nel monologo che pronunzia Florencio quando la sua amata Inés è catturata dai famigli dell'Inquisizione:


Esos nobles infanzones
que conquistaron el mundo,
a los pies de un fraile inmundo
hora humillan sus blasones.
¡O mengua! ¡O torpe baldón!
¿Cómo España ha de ser grande,
si consiente que le mande
quien le imprime tal borrón?


(III,10)                


Meno fazioso ma ugualmente desideroso di suscitare odio per la tirannide è Don Fernando el Emplazado che Bretón mandò in scena il 30 Novembre 1837, a meno di un mese di distanza dall'opera di Gil y Zárate. Più che violare la storia, Bretón, come già sottolineava il recensore dell'Eco del Comercio,221 metteva a fuoco dilatandolo a dismisura un fatto secondario dell'attività politica di Fernando IV, l'uccisione dei Carvajales, ottenendo il risultato di una prospettiva falsata. Il re castigliano assume in tal modo le torve fattezze del tiranno (anche grazie all'inserimento di una sua supposta propensione amorosa verso la donna amata da Pedro Carvajal) e i Carvajales acquistano i nobili tratti dei difensori della libertà. L'autore può così di tanto in tanto erompere in frasi dal forte sapore libertario:


¡Ay tristes de los que quedan
de un tirano a la merced!


(I,9)                



¿Y es posible que aún no rompas,
pueblo oprimido, la férrea
cadena vil que te agobia?
¡Cobardes!


(III,6)                



Libertad es don de Dios


(IV, 3)                


e così via.

Don Fernando el Emplazado è forse l'ultimo dramma in cui l'infedeltà alla storia sia determinata da un impegno politico. D'ora innanzi gli autori saranno indotti a prendersi certe libertà solo dal gusto dell' imprevedibile e del romanzesco.

Già pochi giorni prima della rappresentazione del dramma bretoniano (il 19 Novembre 1837) Escosura aveva messo in scena quella Bárbara Blomberg che ottenne un discreto successo di pubblico e di critica. In quest'opera il fatto storico -l'amore di Carlo V per una dama austriaca da cui ebbe Don Juan de Austria- diviene quasi il pretesto per intessere una romantica vicenda d'amore e di sacrificio. Bárbara, per salvare la vita di suo padre, accetta di farsi credere la madre del bambino che sta per nascere: per questo sacrifica il suo profondo amore per il luterano Roberto che, disperato, si avvelena.

Lo spostamento dell'asse della vicenda su questo piano più intimo e borghese distorce naturalmente la consueta prospettiva: Carlo V, le lotte fra cattolici e luterani, i gesti ispirati a un antico senso di cavalleria vengono ad assumere la funzione di contorno mitizzante per una vicenda in cui, oltre all'amore-sacrificio, compaiono altri ingredienti squisitamente romantici come l'agguato presso «una ermita desmantelada», il veleno che Roberto ha troppo presto ingerito e, soprattutto, la lotta fra i sentimenti puri e nobili e la prepotenza di chi governa.

El Rey Monje, che invece seguiva di poco a Don Fernando el Emplazado e che praticamente chiudeva la più felice annata teatrale (fu rappresentato il 18 Dicembre) manifestava un'analoga, ma forse anche più profonda, irriverenza per la storia. La stessa scelta dell'argomento -come annotava un articolista della Gaceta de Madrid222- appariva in fondo pretestuosa data la nebulosità delle notizie pervenuteci intorno a Ramiro II d'Aragona, lo scarso fascino della sua personalità, e perfino l'incertezza che grava sul fatto centrale della «campana di Huesca»223

La verità è che García Gutiérrez aveva sì compiuto, in omaggio ai tempi, una sua conversione abbandonando i toni leggendari del Trovador per rivolgersi alla storia; ma in realtà aveva oculatamente trascelto figure ed episodi ai confini fra storia e leggenda, i quali, permettendo un'ampia libertà di trattazione, favorivano, in fondo, un ricupero, su registro diverso, di quei toni lontani.224

La critica del tempo loda in questi drammi che si susseguirono nel 1837 la presenza di atteggiamenti «filosofici» nei confronti della storia o ne rimprovera l'assenza; in altri termini vi cerca un pensiero informatore o un rovello interpretativo che spieghino un simile ritorno in massa alla storia di Spagna.

Ma gli autori, come s'è visto, propendono, tranne rare eccezioni, a un generico sfruttamento di questo patrimonio culturale per la creazione di un clima particolarmente suggestivo; forse anche al fine di istituire un interessante rapporto di intelligenza con lo spettatore che sia in grado di apprezzare l'ingegnosità delle invenzioni. Così la storia non è mai l'essenza del dramma, che pure ambisce a definirsi storico, ma è abbassata al rango di una semplice funzione.

Negli anni successivi si assiste a un conseguente processo di corrosione dell'elemento storico che rimane di prammatica ma che perde ulteriormente di concretezza e di funzionalità fino ad apparire nulla più di un motivo di colore e di un dato meramente formale.

Riesce praticamente impossibile seguire tutta la produzione teatrale di quegli anni;225 tuttavia, seguendo il criterio di lasciarsi guidare per lo più dai nomi maggiormente prestigiosi o comunque di persone più addentro nel «mestiere», possiamo facilmente notare questo processo di costante disimpegno dalla storia.

Gli scrittori che continuano a puntare la loro attenzione su personaggi storicamente esistiti si collocano, in genere, sulla linea già additata da Fray Luis de León o dal Rey Monje: del personaggio rimane poco più del nome e di qualche episodio o atteggiamento al suo nome tradizionalmente legati. In questi casi, sembra che si prediliga, sulla scia del Rey Monje, la figura meno nota o leggendaria e che ci si rivolga di preferenza a un medio evo mitico e favoloso. In questo senso Ramiro II e Jaime I d'Aragona, Don Julián e Doña Urraca si contrappongono ai nomi più celebri e noti o, in qualche caso, storicamente più sicuri, della produzione immediatamente anteriore: María de Molina, Filippo II, Carlo V, Fernando IV.

Altri rinunziano invece al personaggio storico e si limitano a collocare una vicenda del tutto inventata sullo sfondo di un passato più o meno di maniera.

Il disamore alla storia che afferra i drammaturghi spagnoli dopo la relativa parentesi del 1837 è forse da mettere in rapporto, oltre che col ritorno al potere dei moderati che non vedono di buon occhio le intemperanze dei drammi più impegnati, anche con un senso di sfiducia verso la storia del paese e verso il liberalismo. Governi deboli e incapaci si susseguono ogni pochi mesi: la guerra carlista prosegue fino al 1839, ma non è certo più in grado di stimolare la fantasia degli scrittori, dal momento che il panorama del mondo al potere è tutt'altro che confortante; si verificano nuovi moti liberali; Cristina rinunzia alla reggenza; Espartero si avvia verso la dittatura e poi verso l'esilio. Non è fuor di luogo pensare che in simili condizioni gli Spagnoli rinunziassero ai temi solenni e alle figure suggestive del passato per cercare invece rifugio in una storia lontana che, non più «magistra vitae», meglio favorisse l'evasione del presente.226

Ma non è neppure improbabile che su questo processo abbia in qualche modo influito un mutamento nella composizione del pubblico madrileno; sebbene manchino dati al riguardo, è tuttavia logico ritenere che, accanto alle élites della borghesia colta, si sia dovuto gradualmente far posto a sempre più numerosi elementi di estrazione piccolo borghese o popolare. Questa porzione nuova di pubblico aveva appena abbandonato gli effettismi e i colpi di scena delle opere «di grande spettacolo» o i facili patetismi delle commedie lacrimose e ora pretendeva di ricevere impressioni altrettanto facili e profonde: quelle appunto che venivano offerte grazie alle variazioni di temi storici, ora truci, ora sentimentali, ora semplicemente romanzesche. Certo questo pubblico era indifferente alla fedeltà storica ma doveva apprezzare la cornice del passato che le offriva una maggior possibilità di illusione e di commozione.

Parallelamente gli scrittori cominciavano a provare insofferenza per gli impacci e i vincoli posti dalla storia e dalle formule estetiche cui sembrava doversi sottoporre il dramma che ad essa si ispirava. Patricio de la Escosura, nel pubblicare la sua terza opera, Jaime el Conquistador, dichiarava che, dopo gli esperimenti della Corte del Buen Retiro -in cui, come si è detto, avrebbe tentato la fusione del romanticismo indigeno con quello francese- e di Bárbara Blomberg -dove il desiderio di evitare eccessi aveva determinato troppa «languidez»- tentava ora una via intermedia

dejando al ingenio seguir la senda que le marcaba la inspiración del momento.227


Un justo medio dunque che si identifica ora con la libertà della fantasia e che comporta un disimpegno dalla storia, come attesta lo stesso Escosura, il quale subito dopo (sulla scia di Larra) dichiara di aver voluto rappresentare del suo eroe non le battaglie ma la vita privata e di aver inventato l'indispensabile conclusione morale.

La vicenda del dramma è infatti l'amore di Jaime per una certa Teresa, per cui chiede e ottiene il divorzio dalla moglie Leonor. Breve è però il trionfo di Teresa, poiché il volubile monarca s'innamora di Violante d'Ungheria con la quale passa a nuove nozze. Uno sfondo di castelli medievali (la vicenda si suppone avvenuta al principio del secolo XIII) e di intrighi fra il re e il legato pontificio offre un'esile giustificazione storica a episodi sostanzialmente romanzeschi.228

L'elemento romanzesco predomina anche nel Conde Don Julián di M. A. Príncipe e in Doña Urraca di E. Asquerino, entrambi ambientati agli esordi della storia castigliana. Nel primo dramma (rappresentato a Madrid il 22 Maggio 1839, ma preceduto da rappresentazioni a Saragozza sul finire dell'anno precedente) Rodrigo abusa di Florinda, nonostante che ella sia amata da Pelayo, e imprigiona la regina Egilona, mentre Julián prende accordi con i Mori che tenta invano di disdire quando il re ha ormai mostrato il suo pentimento. Il secondo (a quanto pare, mai rappresentato) è tutto fondato su di una serie interminabile di agnizioni, per cui Doña Urraca dapprima rivela a Leonor di esser sua madre; poi, quando sposa il nobile Lara, le rivela che questi è suo padre; quando infine, ormai moribonda, avverte che Leonor vuole sposare il paggio Fernando, confessa che anche costui è il frutto di un suo antico «criminal amor».

È evidente, come si può desumere da questi veloci riassunti, che il personaggio storico è solo più usato come un supporto di vicende la cui relazione col personaggio stesso è molto vaga o del tutto inesistente.

Su questa strada si pongono numerosi altri scrittori, grandi e piccoli, giungendo a volte a sfigurare così sfacciatamente la storia da cadere infine nel ridicolo. Vi cadde lo stesso Escosura che nel 1838 pubblicò (ma ebbe il pudore di non far rappresentare) La aurora de Colón in cui -prendendo lo spunto dalla relazione fra Colombo e Beatriz Enríquez- immagina che il navigatore, alla vigilia della partenza da Palos, si invischi in una rivalità amorosa con un Don Pedro, il quale, pur di non cedergli la fanciulla, la uccide; ella, moribonda, chiede a Colombo di ricordarla e infine lo congeda dicendogli, con un marchiano errore storico:

y al Nuevo Mundo va, que ya te espera.


Siamo ormai ai confini con la comedia sentimental, i cui toni riconquistano poco a poco le scene, e il Colombo storico è lontanissimo.

Eppure il gusto per questo genere di teatro doveva essere assai diffuso se tre ingegni, e non fra gli ultimi,229 si unirono per comporre La Vieja del candilejo, un'opera strampalata (che conobbe tuttavia quattro rappresentazioni a partire dall'8 Marzo 1838) in cui Pedro el Cruel («quantum mutatus ab illo!») incarica un popolano, pena la morte, di scoprire l'autore di un assassinio. Come in un dramma poliziesco, l'improvvisato investigatore scopre che l'assassino è il re stesso, tradito da un certo difetto di deambulazione.

L'anno successivo, García de Villalta descriveva nello Astrólogo de Valladolid (31 Gennaio 1839) gli ultimi anni del regno di Enrico IV di Castiglia non senza qualche tocco di ricostruzione ambientale; ma anch'egli non sapeva resistere alla tentazione di introdurre l'elemento romanzesco che non solo svuota la struttura storica ma fa naufragare l'opera in una puerile inverosimiglianza: immagina infatti Villalta un amore tra la futura regina Isabel e l'oscuro doncel Ferrán Calvo, il quale altri non è -come si scoprirà alla fine- che Fernando d'Aragona introdottosi sotto mentite spoglie nella corte di Castiglia.

Nello stesso anno Gil y Zárate, con la sua Rosmunda, cerca addirittura rifugio in una mitica Inghilterra del 1156 per una storia di gelosie e di tentati assassini i cui protagonisti sono, fra gli altri, il re Enrico II e sua moglie Eleonora.230

Nel 1840 Gregorio Romero Larrañaga faceva rappresentare Garcilaso de la Vega, un dramma nel complesso dignitoso e certamente superiore alla media di quegli anni, in cui tuttavia il poeta toledano -come alcuni anni prima Luis de León- diviene il pretesto per una serie di avventure (alla cui base stanno, al solito, amore e gelosia) le quali mostrano il protagonista impegnato in prove di generosità e di destrezza cavalleresca e si concludono col trionfo dell'amore.

Una sanzione definitiva a questa disinvolta distorsione dei fatti e dei personaggi la diedero, con la loro autorevolezza, Zorrilla e Rivas: il primo, collocando Pedro el Cruel -ormai divenuto figura da «novela» -al centro di vicende inverosimili ma cariche di effetto nelle due parti del Zapatero y el Rey; il secondo, riprendendo toni e formule del teatro barocco e trasformando le gigantesche figure di Carlo V e di Francesco I in due galanes vanerelli che corrono le più impensabili avventure in una Madrid notturna i cui piaceri si offrono al re prigioniero grazie a un'inverosimile porta segreta (Solaces de un prisionero, rappresentata il 2 Marzo 1841).

Molti scrittori tuttavia avvertirono i pericoli e i limiti di questo genere di drammi e preferirono tentare la via della pura invenzione senza scomodare i grandi del passato. Non perciò rinunziarono alla storia che introdussero nelle loro opere con la sola funzione di sfondo; una funzione che, in realtà, si riduce spesso al minimo e non di rado non riesce a superare lo stadio della didascalia iniziale.

In sostanza si tratta di quel tipo di dramma che Larra aveva definito «género bastardo»231 e che trova il suo antecedente nel Paje di García Gutiérrez, rappresentato il 22 Maggio del 1837. Totalmente privo della felice ispirazione che gli aveva dettato El Trovador, García Gutiérrez ammassa in questa nuova opera alcuni dei più triviali espedienti romantici: l'amore incestuoso del paggio Fernando per Blanca che si scoprirà esser sua madre, il suo odio per Rodrigo che ha sposato Blanca e che si scoprirà esser suo padre, l'assassinio dettato dalla passione, il veleno bevuto un istante prima delle fatali rivelazioni.

Ebbene, per questo dramma, il cui unico spunto vagamente d'altri tempi è una trova cantata sul laúd (atto II), l'autore immagina una data curiosamente precisa: il 20 Marzo 1369, in cui avrebbe inizio la vicenda.

Questa sarà dunque la strada che molti imboccheranno, anche se, naturalmente, non manca di affiorare qualche eccezione. Fra queste si deve ricordare Doña Mencía di Hartzenbusch, rappresentata il 9 Novembre 1838, in cui il fanatismo religioso e il senso di oppressione del Santo Uffizio ricreano una genuina atmosfera di tempi andati (non senza qualche spunto propagandistico alla stregua di Carlos II el Hechizado) sebbene nulla propriamente autorizzi la precisa collocazione della vicenda al principio del secolo XVII come suggerisce la didascalia.

Ma i più, come si diceva, sembrano prediligere la soluzione sbrigativa indicata dal Paje. Si può anzi dire che i nomi più illustri della drammaturgia del tempo si lascino sedurre con maggiore facilità da questo tipo di dramma, forse perché concede loro una più ampia libertà d'azione.

Il 28 Settembre 1838 si recita Amor venga sus agravios di Espronceda e Moreno López (con lo pseudonimo di Senra y Palomares), un dramma quasi parodistico d'amore e di morte (un morto per asfissia dentro un cassone, due per avvelenamento) che, senza ragioni apparenti, viene situato nella Madrid degli anni 1623-24.

Nello stesso anno, Romero Larrañaga, allora appena agli esordi, compone una Doña María de Ordóñez, datandola 1054 senza altro motivo che quello di autorizzare una ambientazione esteriore di tipo medievale.232

L'anno successivo, lo stesso García Gutiérrez assegna la data del 1278 al suo Samuel in cui si narra una storia di persecuzioni alle quali è sottoposto un ebreo: una storia che, considerando il plurisecolare antisemitismo, non esigerebbe davvero una datazione tanto esatta.

Rivas, nello stesso anno 1841 in cui si rappresentò Solaces de un prisionero, portò in scena La morisca de Alajuar, la cui vicenda s'immagina accaduta negli anni 1609-10: data che certamente si spiega poiché gli avvenimenti si svolgono in margine all'editto di espulsione dei moriscos, ma priva di un effettivo significato, dal momento che tale fatto storico non ha praticamente rapporto con l'azione.233

Ma doveva toccare a Zorrilla il compito di assumere nel suo teatro e insieme di sanzionare definitivamente anche questo tipo di dramma.

Dopo i primi tentativi di opere fortemente ricalcate sul teatro secentesco, le quali non furono rappresentate mai o lo furono molto più tardi,234 Zorrilla esordì nel 1839 con Cada cual con su razón; un dramma per il quale rivendicava una discutibile ascendenza lopesca e calderoniana che cercò di garantire sia attraverso continui richiami alla hispanidad dei personaggi,235 sia attraverso una datazione insieme precisa e generica: dalle 23 del 21 alle 23 del 22 Settembre 16.... Certo la data si giustifica perché nella vicenda entrano personaggi del tempo come Filippo IV o gli alguaciles, ma, al solito, la vicenda in sé (Juan de Cisneros, ottenuto il perdono del re, gli sottrae con un sotterfugio la figlia che il galante monarca corteggia e la fa sposare al fidanzato Pedro che si scopre esser figlio del suo illustre rivale) non ha alcun colore temporale definito.

E se, nell'opera successiva, Juan Dandolo (scritta in collaborazione con García Gutiérrez e rappresentata il 24 Luglio 1839), un fosco ambiente di sicari e di ricatti può in qualche modo autorizzarne la collocazione in una convenzionale Venezia del Rinascimento; se, in Lealtad de una mujer y aventuras de una noche (rappresentata il 7 Marzo 1840), la data del 12 Marzo 1461 è legata alla presenza in scena di Carlos de Viana (ma la vicenda in sé potrebbe appartenere a qualsiasi altra storia di lotte civili), per molti drammi seguenti si può affermare che la datazione è quasi del tutto casuale. El Eco del torrente (rappresentato il 5 Febbraio 1842) si svolge nel secolo X solo perché vi si muovono mori e vi compaiono castelli; Los dos Virreyes (16 Aprile 1842) ha lo sfondo di Napoli e la data del 10 Novembre 1653, semplicemente per influsso della novella di Pier Angelo Fiorentino da cui Zorrilla desunse l'argomento; Caín, pirata - Un año y un día (10 Ottobre 1842), un'opera inconcepibilmente insipida e inverosimile -pertanto fuori di ogni possibile collocazione nel tempo e nello spazio- si svolge nel secolo XVII; El molino de Guadalajara (22 Ottobre 1843) s'immagina nel Dicembre 1357 solo perché due fazioni in lotta sono definite dei partigiani di Don Pedro el Cruel e di Don Enrique de Trastámara.

Ma se Zorrilla, che conosceva assai bene i gusti del pubblico e aveva uno spiccato senso del teatro, fece così largo ricorso a questo genere teatrale, sarebbe certo fuor di luogo imputare a faciloneria gli ultimi sviluppi del teatro romantico spagnolo.

In fondo questo attaccamento così pervicace alla storia anche quando ormai di essa comparivano solo le fattezze esteriori, se da un lato può indicare uno slittamento verso i toni popolareschi del feuilleton, dall'altra sottolinea la fedeltà immutata a quel tono storico-leggendario che, dal Macías in poi, aveva caratterizzato, con rare eccezioni, il teatro spagnolo. E anche il fatto che, salvo casi estremamente rari, la storia o pseudo-storia cui ci si rivolgeva fosse sempre e soltanto spagnola, stava ad attestare, se non più la presenza, almeno il persistente ricordo di quella ricerca di verità ispanica che aveva costituito fin da principio la preoccupazione dei drammaturghi romantici.

Su questa via proprio Zorrilla giungerà al Don Juan Tenorio, il capolavoro finalmente raggiunto che chiuderà la stagione romantica iniziatasi dieci anni prima: sarà una leggenda di profonda tradizione ispanica che l'autore, ricalcando le orme di Larra, di Hartzenbusch e, in genere, degli antesignani del romanticismo spagnolo, tenterà di inserire nella storia «por los años 1545, últimos del Emperador Carlos V»: una data e una precisazione che, vista la loro assoluta superfluità, sembrano caricarsi di una Sehnsucht tipicamente spagnola e romantica.

2. I temi.

a) Il tempo.

Questa spinta costante verso l'intemporalità di una storia mitizzata si accompagna, lungo tutto l'arco degli anni che abbiamo presi in esame, con quel sentimento acuto e angoscioso del tempo che già aveva caratterizzato i primi drammi.

Particolare fortuna ebbe il tema del plazo che sempre riveste il significato sinistro di un'oscura minaccia incombente oppure si accompagna inevitabilmente a eventi tragici e luttuosi.

Alcuni drammi seguono lo schema inaugurato dal Macías e portato a perfezione negli Amantes de Teruel. Ma già prima di quest'ultima opera, in Incertidumbre y amor compare un plazo gravido di funeste conseguenze: infatti allo scadere dei quindici giorni entro i quali Carlos si è impegnato a sposare la cugina Isabel, Luisa, credendosi abbandonata, si avvelena.

Nella più tarda Rosmunda, Arturo -che, novello Marsilla, era partito per far fortuna e aveva chiesto all'amata di attenderlo per due anni- trova, al suo ritorno, che la fanciulla è invischiata nel pericoloso amore per il re, da cui deriveranno tante gravi conseguenze. Nella Morisca de Alajuar, Fernando, che aveva promesso all'amata di ritornare entro un anno, giunge con un mese di ritardo cadendo da cavallo; da quel momento cominciano le lunghe sventure. In Un año y un día la scadenza indicata dal titolo è quella concessa al capitano Don Juan per sposare Isabel: il ritorno del promesso sposo, sottolineato dal rintocco delle ore, scatena le persecuzioni del Conte, lo svenimento di Isabel e le varie avventure che Zorrilla certamente non lesina.

In altri casi si tratta di scadenze brevissime che incidono fortemente sull'azione imprimendole un ritmo intenso e creando l'ossessione di un tempo minacciosamente incalzante.

Nella Corte del Buen Retiro la regina, per sottrarsi alle persecuzioni del ripugnante buffone, lo supplica:


Un plazo al menos.

Il nano le concede un giorno, dopo di che ella non avrà che tragiche alternative:

Mañana muerta, o deshonrada, o mía.


(III, 2,6)                


Nell'atto I di Antonio Pérez y Felipe II, il re affida a Pérez l'incarico di uccidere Escobedo entro le nove. La scadenza che incombe sul capo della vittima ignara offre a Muñoz Maldonado lo spunto per porre in bocca al sicario amare considerazioni sull'aggressività del tempo:

PÉREZ (Mirando al reloj que hay sobre la mesa) ¡El reloj marca ya las ocho de la noche. Una hora más y ya no existirá uno de los hombres más poderosos de la monarquía...! ¡Y ya Antonio Pérez no tendrá rival...! Ese constante y uniforme sonido que produce el movimento de esta péndola que arregla las horas de nuestra vida... ¡Me hace estremecer...! ¡Por él calculo yo los instantes que restan de vida al infeliz Escobedo...!


(I, 9)                


Nel II atto il plazo mortale incombe sullo stesso Pérez (ora incarcerato con Ana) che Filippo ha condannato a morire entro le undici. L'autore si serve di questa nuova scadenza per realizzare una scena i cui facili effettismi non devono far sottovalutare il profondo senso del tempo che la anima:

 

(Empiezan a dar las once, las que continuarán dando durante el diálogo siguiente...)

 
ANA.
¡El reloj del Salvador
las once está dando ya!
PÉREZ.
¡No más... ya no hay salvación!

Poco dopo:

 

A la última campanada se abre de repente la puerta grande del fondo: aparece en ella el verdugo con una cuchilla, dos mozos con un tajo, y varios con hachas: un religioso de San Francisco, que dice con voz espantosa:

 
¡Pérez...tu última hora!

Pur nell'ingenuità delle trovate, l'autore ha saputo tuttavia accostare i simboli estremamente espressivi del tempo (i rintocchi), della morte come dolore fisico (l'apparato del carnefice) e come pauroso trapasso (il cupo francescano).

Ma il senso più profondo del tempo come scadenza terribile fu espresso soprattutto da Bretón che ne operò una sorta di interpretazione a lo divino in Don Fernando el Emplazado. Infatti la scadenza di trenta giorni che incombe sul re è quella che gli ha proposto Juan Carvajal citandolo dinanzi al giudizio di Dio; e lo spettatore assiste all'avanzare del tempo, il quale si manifesta fisicamente nella malattia che corrode Fernando IV e che, di grado in grado, lo condurrà alla disperazione e alla morte. Sicché la somma aspirazione di Fernando sarà appunto quella di perdere la coscienza del tempo:


en voluptuosos delirios
el trono olvidar y el tiempo.


(IV, 1)                


Zorrilla avvertirà il partito che si potrà trarre da questa particolare formula e la farà sua nell'Eco del torrente, in cui Lotario vive, e finisce per impazzire, sotto l'incubo di un castigo che dovrà colpirlo entro una scadenza di sei mesi minacciatagli in punto di morte dal padre di Zelima.

Una qualche affinità con questa situazione presenta El molino de Guadalajara in cui Marchena vive sotto l'incubo della morte che, secondo un vaticinio, gli sarà inferta da un Carrillo: un plazo indefinito, ma altrettanto incombente e angoscioso.

Infine il Don Juan Tenorio porterà alle estreme conseguenze il tema del plazo a lo divino fino a trovare in esso quel superamento del problema del tempo che i suoi predecessori non avevano saputo raggiungere.236

Per costoro infatti la brama di un superamento non sfociava che in una perenne e vana fuga dal tempo che in genere si realizzava verso il passato.

I drammi romantici sono pertanto colmi di rimpianti per una felicità lontana, il cui ricordo può essere, come accade talvolta nel Trovador, fonte di momentanea dolcezza, ma più spesso è causa di richiami dolorosi alla tristezza del presente.

Vale per molti l'immagine foggiata da Don Álvaro nel celebre monologo:


risueño un día,
uno sólo, nada más,
me dio el destino: quizás
con intención más impía.
Así en la cárcel sombría
mete una luz el sayón,
con la tirana intención
de que un punto el preso vea
el horror que le rodea
en su espantosa mansión.


(III, 3)                


Per questo, il ricordo determina i brani più carichi di struggimento, che non di rado giovano a ridimensionare il personaggio più illustre sul piano di un'umanità più semplice e sofferta. Si pensi a taluni celebri passi de Los Amantes de Teruel: Isabel, sul punto di sposarsi, nel momento in cui il plazo sta per spirare, rievoca, in un discorso ricco di determinazioni precise, di immagini crudelmente puntuali, un passato irricuperabile:

Sí; a esa hora, a esa hora misma partió... para nunca volver. En este aposento; allí, delante de ese balcón... Por allí vino, dirigiendo el fogoso alazán, enseñado a pararse bajo mis balcones. Por allí vino, vestida la cota, la lanza en la mano ecc.


(III, 1)                


Parimenti Marsilla ricorda i recenti momenti di gioiosa speranza:


Siete días hace hoy, ¡qué venturoso
era en aquel salón!...

Analogamente María de Molina (nel dramma di Roca de Togores) e Sancha Benavides (in Don Fernando el Emplazado) rimpiangono, con l'infanzia, una serenità ormai impossibile. La prima esclama:


¡Quién me diera
ver en los verdes campos de Molina
las aguas serpear del riachuelo
que arrulló mi niñez!... ;


(III)                


la seconda:


Si recuerdo que mi infancia
meció cuna de marfil,
ni aún me sirve de consuelo
el recordar lo que fui...

E poco dopo prorompe in un grido di rievocazione disperata:


¡Oh, peña, peña de Martos!


(IV, 11)                


che richiama l'accorato


¡Sevilla! ¡Guadalquivir!

del monologo del Don Álvaro citato poco prima.

Pare che queste rievocazioni dolenti siano affidate in prevalenza a personaggi femminili. Ecco ancora il rimpianto di Magdalena in Garcilaso de la Vega:


Nací de la Italia hermosa
en los amenos pensiles;
deslizábase dichosa
la edad primera amorosa
de mis años juveniles.


(I,4)                


Luisa, in Incertidumbre y amor, sottolinea il contrasto fra la dolcezza del ricordo e la tristezza del presente che la vanifica:

¡Oh! ¡Si vieras! Aquellos sitios en que fuimos tan felices, aquellas deliciosas orillas del Guadalquivir, aquellos campos de mi hermosa patria, me parecían ahora un horrible desierto.


(I, 11)                


Doña Urraca, nel dramma omonimo, lamenta l'impossibilità di respingere i ricordi:


¡Ah! Sí: recuerdos de un día
en que felice yo era
me persiguen por do quiera,
y agitan el alma mía.
Sin poder de la memoria
borrarles sólo un momento...


(I, 6)                


Parimenti, nella stessa opera, Leonor supplica Fernando:


¡Por piedad! ¡Por piedad! No me recuerdes
que hubo un tiempo de amor y de ventura...

Ernesto, in Incertidumbre y amor, sottolinca l'ossessività del ricordo:

hay uno entre esos recuerdos que me persigue noche y día como un atroz remordimiento sin dejarme gozar un instante de verdadera tranquilidad.


(I, 3)                


D'altro canto, già il Griego nell'Alfredo si era espresso circa l'incapacità umana di sfuggire all'agguato della memoria:

¿Cómo ha de aniquilarse una memoria cuando la despiertan a cada instante los objetos que estamos viendo? ¿Somos por ventura dueños de nuestros recuerdos ni de nuestra voluntad?


(V, 8)                


Ma se il ricordo è amaro, non meno angoscioso é il pensiero dell'avvenire; nel Paje, Rodrigo grida a Leonor:


¿Qué me importa el porvenir
si es hoy mi destino adverso?
Palpitando aquí se agitan
en convulsivos deseos
de un cariño no olvidado
mil deliciosos recuerdos:
¿y qué hay en el porvenir?...
La muerte acaso, el infierno...


(II)                


In María de Molina, il Conde de Haro, per descrivere un amore impossibile, gli nega una collocazione temporale, definendolo


sin esperanza en mañana
y sin recuerdos de ayer.


(II, 1)                


In termini simili si esprime Garcilaso:


Ya es un vacío el porvenir lejano
para quien nunca albergará esperanza:
el tiempo que se huyó recuerdo vano
de mentida bonanza.

Non esiste, per lui, altro che un tempo inafferrabile nel suo divenire:


Sólo el tiempo que pasa y condolece,
sólo el dolor que me atormenta es cierto;


(Garcilaso de la Vega, II, 2)                


un ugual senso di vuoto e di tedio esprime il Re monaco:


mi vida se agota
y lentas mis horas pasan
entre inútiles recuerdos
sin placer, sin esperanzas.


(El Rey Monje, III, 1)                


Il tempo dunque, sia esso scadenza, ricordo, presentimento, è sempre oppressivo, misterioso e sfuggente; non solo non coincide mai con la dimensione temporale sognata dall'uomo, ma si manifesta come forza esterna all'uomo stesso fino al punto da identificarsi fisicamente con i rintocchi delle ore e, metafisicamente, con la fatalità.

Entità misteriosa, il tempo era stato sentito in chiave problematica dall'uomo barocco che ne aveva scorto la soluzione trascendente; ma nel romantico, come si è visto, non determina altra reazione che uno sterile desiderio di fuga.237 Quest'epoca che, secondo Durán, avrebbe dovuto cercare nella ragione «medios supletorios a la falta de fe»,238 in realtà aveva trovato nel senso del tempo un tormento che proprio l'assenza di fede le impediva di superare.

Accadeva così che i toni storico-mitici di tanta produzione incontrassero un particolare sostegno nel sentimento arcano del tempo, gli uni e l'altro contribuendo a disancorarla sempre più dalla concretezza del quotidiano e dello storico e a sospingerla verso il mondo della fiaba o, per meglio restare in carattere con i tempi, della leyenda.239

b) Lo spazio.

Le considerazioni ora esposte per il tempo valgono anche per lo spazio in cui si muove il dramma romantico: anche esso vago, indeciso, opprimente, quantunque, spesso, assai più di maniera.

Molti elementi del paesaggio sono anzi in stretto rapporto con le determinazioni cronologiche della vicenda; non di rado, come si è visto, ne sono perfino la causa. Ma di là dal mondo di cartone dei castelli medievali,240 si stende a volte un paesaggio più genuinamente fiabesco, anche se non totalmente privo di artificio, dai toni prevalentemente cupi.

L'introduzione del paesaggio romantico in Spagna spetta probabilmente a Pacheco che nell'Alfredo non risparmia le tinte fosche neppure in questo settore. L'ultimo atto del dramma si svolge tutto fra lampi, tuoni, rumore di tempesta, oscurità. Si leggano alcune righe indicative della 3ª scena:

RICARDO (Abre una ventana del fondo; y aparece el Volcán ardiendo. Relámpagos y truenos...) - ¡Oh Dios! ¡También el cielo... también la naturaleza se estremece! ¿Qué noche de horrores es ésta? ¿Qué noche de desolación!


Nella scena 5ª Berta esclama atterrita:

¡Cómo brama la tempestad! Parece que batallan todos los elementos... que el universo entero se conmueve como mi corazón!


E così via sino al termine dell'atto.

Non tutti accetteranno toni così foschi ma almeno un'ombra di tristezza si stenderà sul paesaggio, come accade nel Trovador, dove scorci di natura calma e serena si incupiscono sotto il «resplandor siniestro de amarillenta luna» (IV, 6) o sotto la sua «moribunda luz» (III, 5).241

Non è certo il caso di dilungarsi in citazioni relative a un gusto così diffuso in tutta Europa: basti anche qui sottolineare l'intensità con cui Zorrilla se ne appropria e soffermarsi su certi suoi caratteristici «attacchi» di descrizioni naturali.

In Cada cual con su razón:


¡Qué noche tan triste! Cual lúgubre sueño
que rueda en tinieblas medrosa pasó.
Ni un paso, ni un bulto, ni un ¡ay! ni un gemido...


(II,3)                


In Juan Dandolo:


La noche está oscura:
horror, lobreguez
del cielo encapotan
el ancho dosel.
Silencio de muerte...


(III, 3)                


Nell'Eco del torrente:


la noche está oscura:
no brilla estrella ninguna...


(I, 2)                


c) La fatalità.

Ad acuire il senso generale di vago e di misterioso contribuiscono anche altri elementi che vale la pena di ricordare per la frequenza con cui ricorrono.

Il primo è certamente la fatalità che, introdotta dal Don Álvaro e dall'Alfredo, permea in realtà molta produzione romantica. In fondo quasi tutti i drammi sono la descrizione di un fracaso esistenziale su cui sembra non di rado incombere l'ostilità di forze oscure che sfuggono al controllo dell'uomo.

Si tratta di un clima generale che non può certo passare inavvertito ma che spesso gli autori si preoccupano di rafforzare ponendo in bocca ai personaggi riferimenti precisi a un destino avverso.

Già si è accennato al «mujer, mujer fatal» con cui Gerardo parla della nipote (Elena, I, 5). Per completare il quadro, occorrerà ricordare che la stessa Elena parla di sé in termini consimili. Dopo aver dichiarato:


Moriré con mi secreto,

soggiunge infatti:


Nací en hora funesta.


(II, l)                


Si tratta di una battuta che lo stesso Bretón rielaborerà in Don Fernando el Emplazado, in cui Sancha, commentando la sua situazione, ripete, a modo di ritornello:


¡Ay de mí,
que en hora amarga nací!


(IV, 11)                


Quest'idea di una fatalità che colpisce al momento della nascita compare in varie altre opere. Per esempio, nella neoclassica Blanca de Borbón di Gil y Zárate, contemporanea -non si dimentichi- del Don Álvaro, in cui, come si è detto, è ormai ravvisabile una sensibilità romantica, l'autore attribuisce al re Pedro la coscienza di una maledizione che pesa su di lui e quasi di una missione diabolica affidatagli dal destino.242 Così Roberto, in Bárbara Blomberg, quando comprende l'innocenza di Bárbara (troppo tardi, perché ha già ingerito il veleno), esclama:


Pero nací a penar; ¡tarde se ha roto
de mi funesta ceguedad el velo!


(IV, últ.)                


Mariana, la sorella di Juan Dandolo, associa, come già Elena, questa fatalità dei natali al mistero della propria persona:


Sí, misteriosa, es verdad,
¡pero es un secreto horrible!...
Niña, en mi mejor edad,
sobre mí pesa terrible
funesta fatalidad.


(Juan Dandolo, I, 9)                


Anche l'amore rientra in questa forma di predestinazione che condurrà a conclusioni luttuose. È anch'esso una fatalità -all'apparenza felice- che unisce due esseri nel momento stesso della nascita, come dirà Marsilla alla mora Zulima:

Con


Yo creo que al darme ser,
quiso formar el Señor,
modelos de puro amor,
un hombre y una mujer;
y para hacer la igualdad
de sus afectos cumplida,
les dio un alma en dos partida,
y dijo: Vivid y amad.
Al son de la voz creadora
Isabel y yo existimos,
y ambos los ojos abrimos
en un día y en una hora.

(Los Amantes de Teruel, I, 4)maggiore essenzialità, ma esprimendo lo stesso concetto, Pedro Carvajal dirà a Sancha:


para amarnos nacimos.


(Don Fernando el Emplazado, II, 15)                


Sappiamo che, in entrambi i casi, questo sentimento si ritorcerà sugli innamorati stessi, provocando le più tragiche sventure.

Un tale marchio, che segna per l'intera esistenza un individuo incolpevole, diviene facilmente fonte di amari interrogativi, come quello di Doña Urraca, che si domanda:


¿Por qué le ha de perseguir
desde que nace al mortal
ese destino fatal
que envenena su existir?


(Doña Urraca, IV, 2)                


Ma anche quando la fatalità non è espressamente richiamata, la sua presenza è tuttavia avvertibile ora in quegli incontri tragici di personaggi che un'agnizione rivela legati da vincoli affettivi (La Conjuración de Venecia, El Trovador, El Paje, Carlos II el Hechizado, El Rey Monje, Doña Mencía, Doña Urraca, ecc.), ora in quel «giunger troppo tardi» (in cui rientrano, in fondo, i casi precedenti) che caratterizza molti drammi e rivela la stretta connessione del motivo della fatalità con la tematica del tempo. Sotto questo aspetto possono ancora annoverarsi fra i drammi della fatalità Macías, Incertidumbre y amor, Fray Luis de León, Bárbara Blomberg, El eco del torrente.

Si potrebbe dunque applicare alla drammaturgia romantica quanto abbiamo visto affermare dall'Alfredo di Pacheco a proposito della vita:

El mismo hecho, el mismo principio en todas partes... ¡La fatalidad!


(II,4)                


È quasi superfluo annotare quanto risulti confuso, misterioso e, infine, fuori della storia un mondo così intensamente pervaso da forze oscure che sfuggono alla volontà dell'uomo e che anzi, imponendosi a lui dalla nascita alla morte, identificandosi con la stessa esistenza, finiscono per divenire l'unica dimensione temporale in cui gli sia dato muoversi.

d) Il mistero.

In perfetta armonia con questo mondo incerto è il mistero che circonda numerosi personaggi, il cui antecedente è da ricercarsi in parte nelle tragedie neoclassiche (e in particolar modo nell'opera dei refundidores243) oltre che nell'influenza esercitata da Victor Hugo.

Il primo eroe scopertamente misterioso del repertorio romantico è Don Álvaro ed è probabile che, con la sua personalità, abbia influenzato, anch'esso, il teatro successivo. Il mistero di Don Álvaro non è un dato estrinseco ma fa parte della sua stessa natura ed è causa non ultima delle sue disgrazie;244 tanto che Rivas fa sì che la connotazione misteriosa preceda addirittura, a modo di presentazione, l'ingresso del personaggio. Uno degli ultimi nel decennio di cui ci stiamo occupando, sarà quel Ramiro che, con analogo procedimento, Zorrilla, in apertura del Caballo del Rey Don Sancho, definirà come un individuo


que de misterios se cerca
y aquí entre misterios pasa
su misteriosa existencia.


(I, 2)                


Tra l'uno e l'altro si dispongono numerosissime altre figure intorno a cui aleggia un mistero che le segue durante tutta la vicenda o che si riflette su di essa a posteriori dopo le così frequenti agnizioni.

Sotto quest'aspetto, misterioso è, già prima del Don Álvaro, Rugiero della Conjuración de Venecia che si scoprirà figlio del giudice Morosini;245 lo è Manrique del Trovador, riconosciuto fratello di Nuño; lo è Inés, riconosciuta figlia di Carlo II (Carlos II el Hechizado); lo è il bandito Rejón, che si scopre esser stato sergente del Marchese (Elena).

Col passar del tempo, questo tipo di mistero che una comoda agnizione risolve diviene quasi pratica corrente. Già vi si è accennato a proposito del Paje, di Doña Urraca e dell'Astrólogo de Valladolid; ma si dovrebbero aggiungere alla lista, fra gli altri, Rosmunda (l'Alfredo amato da Rosmunda è in realtà Enrico II), La morisca de Alajuar (si apprende che tanto Fernando quanto María sono in realtà figli dei loro giudici) e varie opere di Zorrilla. Anzi, quest'ultimo, al solito, abusa dell'espediente e in Un año y un día arriva ad accumulare tante e così ingenue agnizioni da domandarsi come il pubblico le abbia potute accogliere senza proteste strepitose.

Rientra infine in questo medesimo schema del personaggio misterioso la ricomparsa di chi si era creduto morto. Anche in questo caso il capostipite è l'Alfredo, il quale presenta il ritorno di Ricardo che tutti credevano perito in Terra Santa; seguono Tello in Elvira de Albornoz, Gabriel de Zavala in Elena, Marsilla negli Amantes de Teruel, Pedro Figueroa in Amor venga sus agravios, Garcilaso de la Vega nel dramma omonimo, Vivero in Los Cortesanos de Juan II (di Morán), Isabel in Un año y un día ecc.

Ma forse ancora risponde a scopi analoghi il motivo del delirio che colpisce un personaggio e che compare in un certo numero di drammi; nel periodo esaminato, almeno in sei: La Conjuración de Venecia, Elena, Los Amantes de Teruel, El Paje, El Rey Monje, El eco del torrente. È anche questo un modo di sfigurare la realtà e di presentarla allo spettatore stravolta attraverso la lente deformante della follia.

e) I suoni.

Infine, vari suoni con funzione vagamente evocativa perseguono lo scopo di rendere misteriosa o suggestiva la realtà.

Già si è accennato ai rintocchi delle ore negli Amantes de Teruel, in Antonio Pérez y Felipe II e in Un año y un día. Si vorrebbero ora ricordare altri rintocchi delle campane che spesso, pur non indicando un'ora definita, suggeriscono tuttavia l'idea di importanti scadenze temporali. In Luis de León accompagnano l'angoscioso momento del distacco dal mondo:


Oís, hermano Luis, esas campanas
anuncian vuestro entierro: al mundo
un cadáver sois ya...


(IV, 8)                


Nel Rey Monje un «lúgubre son de campana» annunzia la morte del re (III, 2) e, poco dopo, la terribile campana di Huesca scandisce il ritmo con cui cadono le teste dei nobili ribelli.

Ne Los dos Virreyes di Zorrilla, il suono della campana che penetra fra le mura della prigione è abilmente usato per suggerire avvenimenti che si svolgono fuori scena: dapprima esso, con rintocchi lenti, annunzia l'esecuzione di Angelina (in realtà non eseguita), poi, con ritmo più veloce, la rivolta popolare che porterà alla liberazione dei prigionieri.

Un effetto quasi surreale ottengono le campane che, nella Corte del Buen Retiro, annunziano l'incendio del palazzo reale e costituiscono lo sfondo sonoro e malaugurante su cui si svolge il concitato dialogo amoroso fra Villamediana e la regina. La didascalia suggerisce:

empiezan a oírse las campanas de Madrid tocando a fuego. Primero pocas y a lo lejos; el rumor va sucesivamente aumentándose, hasta que al fin de la escena sea el que debieran producir todas las campanas de la Corte tocadas a un tiempo.


(I, 2, 2)246                


In altri casi, si fa ricorso alla musica per ottenere effetti particolari. Musica e canti nuziali, nel Paje, accompagnano l'agonia di Ferrán, che di essi vorrebbe fare lo sfondo per l'uccisione dell'amata-odiata Blanca:


El canto es de una orgía que celebra
nuestras bodas de muerte.


(IV)                


Una musica d'organo e il salmodiare dei frati acquistano, nella mente stravolta di Carlo II, il valore di un segnale divino, in seguito al quale decide di nominare suo erede il pretendente francese (Carlos II el Hechizado, II, 13).

Anche i colpi d'arma da fuoco hanno una loro funzione: oltre al colpo di pistola che, nel Don Álvaro, segna simbolicamente l'inizio delle fatali disavventure, si dovrebbe ricordare quello che, altrettanto simbolicamente, conclude la vicenda di Elena; «al abrazarse Elena y el Marqués, suena un pistoletazo»: Gerardo, che per tanto tempo ha intralciato il loro amore, è finalmente scomparso.

Si dovrebbe in ultimo ricordare la cupa suggestione affidata alle grida di orrore e al fragore degli elementi scatenati.247 Bretón, con il suo vigile senso teatrale, ne capì l'efficacia e in Don Fernando el Emplazado unì i due suoni ottenendo un gigantesco effetto: nell'atto III, in una scena resa buia dal temporale che imperversa, quando cadono i corpi dei Carvajales, scoppiano contemporaneamente un rombo di tuono e quello che, con iperbole geniale, l'autore definisce «un grito universal». C'è da pensare che la tela scendesse dinanzi a un pubblico fortemente impressionato.

3. Le prospettive esistenziali e i loro simboli

Come si può facilmente desumere dalle pagine precedenti, la fiaba che questo mondo misterioso racconta non è dunque serena ma tende al patetico e all'orripilante e di conseguenza non manca di rivelare una visione esistenziale dolorosa e pessimistica.

Il drammaturgo romantico non solo ha perduto ogni fiducia in un assetto provvidenziale dell'universo, ma non crede né alle strutture della società in cui vive né alle possibilità stesse della convivenza umana. In generale, la società gli appare ingiusta e oppressiva, per cui spesso attribuisce al suo eroe il compito di dissacrarne gli istituti: ne sono esempi insigni Macías e Marsilla (che conteranno tanti seguaci) i quali non provano alcuna riverenza per il sacro vincolo del matrimonio che di questa società è uno dei cardini; inoltre il trovatore gallego, respinto dalla società ingiusta, cercherà comprensione nei boschi e tra le fiere.248

In fondo, che cosa ci si può attendere da una società i cui re sono ingiusti e tirannici e i cui sacerdoti sono fraudolenti e libidinosi?

D'altronde lo stesso mondo dei sentimenti si rivela fallace e infausto o, nel migliore dei casi, irrealizzabile. L'amore più puro può rivelarsi incestuoso, come nel Paje, o condurre alla morte, come nella Corte del Buen Retiro e in numerose altre opere, o nella morte soltanto trovare la sua realizzazione (Los Amantes de Teruel). L'amore violento, peccaminoso -che compare con maggior frequenza- è a sua volta fonte inesauribile di sciagure: perciò viene definito ora «funesta pasión»,249 ora «amor funesto» e «invencible pasión»,250 ora «ciega impura llama»,251 «amor horrible, infausto»,252 «pasión volcánica, irresistible»,253 «furiosa pasión»,254 «pasión diabolica»255 e via di questo passo.

Ma spesso l'amore è impossibile perché all'uomo è negata la facoltà di comunicare. Il romanticismo aveva bensì scoperto il dialogo -e quindi il conforto di parlare lo stesso linguaggio, e quindi l'amore come comunicazione- che sostituiva ai monologhi dei personaggi neoclassici; ma insieme aveva avvertito il dramma di un dialogo tentato e frustrato -in altre parole il tormento dell'incomunicabilità- che, fra l'altro, bene si adattava al clima dominante nelle opere del tempo. Accade perciò che, nel mondo indeciso dei drammi romantici, non di rado il linguaggio dei vari protagonisti sia fatto di parole che si perdono nel vuoto; in questi casi, ciascuno parla un proprio linguaggio individuale che impedisce ogni effettivo rapporto. Fin dai suoi esordi, il teatro romantico presenta situazioni di questo genere: Macías ed Elvira, Marsilla e Isabel, Alfredo o Don Álvaro e coloro che li attorniano, tutti incontrano una difficoltà insuperabile a dialogare fra loro.

Negli Amantes de Teruel, Hartzenbusch ha costruito una scena efficacisima tutta imperniata su questa impossibilità di colloquio. È la prima dell'atto III, in cui Teresa agghinda Isabel per le prossime nozze: mentre la serva si dilunga in particolari concernenti la cerimonia imminente, la fanciulla segue il filo dei suoi pensieri che la portano in tutt'altra direzione. Cosicché alle affettuose chiacchiere di Teresa, ella risponde divagando:


¡Marsilla!

oppure:


¡Madre mía!

Poco dopo, accetterà il dialogo ma solo per cogliere, nelle parole della serva, lo spunto per lunghe divagazioni nel mondo dei suoi personali ricordi. D'altronde, si può dire che Los Amantes de Teruel sia tutto quanto un dramma dell'incomunicabilità, in cui ognuno parla e agisce secondo un suo particolare registro: dell'orgoglio offeso (Zulima), del puntiglio (Azagra) della paura (Margarita), della parola data (Martín) e via dicendo; ma si può giungere fino a un linguaggio che si autonega ponendosi in antitesi con gli stessi sentimenti che dovrebbe o vorrebbe esprimere: il «¡Te aborrezco!» con cui Isabel respinge Marsilla è veramente l'espressione di un amore che si camuffa da odio e quindi di un messaggio che disinforma.

Il tema dell'incomunicabilità trova anche descrizioni emblematiche nella rappresentazione della solitudine fisica e morale in cui si trovano sprofondati alcuni personaggi. Così Alfredo che a un certo punto esclama:

¡Todos me abandonan! ¡Todos se separan de mi lado con horror!,


e si domanda:

¿Para qué he quedado en el mundo?


(III, 10)                


Così Filippo II commenta la sua situazione:


Yo tan solo sobre el trono
busco amor y no lo encuentro:
de mi familia en el centro
gimo en mísero abandono...


(Ant. Pérez y Fel. II, I, 3)                


Con toni non dissimili, un altro re, Enrico IV di Castiglia, lamenta la sua solitudine:


¡Oh desdichado monarca!
¡Cuánto mi corona pesa!
Abandónanme los míos,
me escarnece la nobleza...


(El Astrólogo de Valladolid, II, 1)                


Le citazioni potrebbero proseguire ma basti qui ricordare certi episodi dei drammi più importanti: Don Álvaro solo nella notte (III, 3), Carlo II dinanzi ai quadri degli antenati (II, 13), Luis de León in veglia nella chiesa (IV, 4), Ramiro nel palazzo episcopale (III).

D'altronde il tema è così sentito che i drammi romantici pullulano di simboli atti a suggerire un'idea di cupa solitudine. Ora è l'ermita, che compare nel Don Álvaro con precise funzioni nello scioglimento catastrofico del dramma, in Antonio Pérez y Felipe II (atto V, dove è anche teatro dell'assassinio di Pérez), in Doña Jimena Ordóñez (atto IV), in Un año y un día (atto II); ora la cella di un convento (El Trovador, III; El Rey Monje, V; Amor venga sus agravios, II; Doña Urraca, IV);ora, frequentissima, quella di un carcere (Macías, IV; El Trovador, V; Don Fernando el Emplazado, II; Carlos II el Hechizado, IV; Rosmunda, IV; Antonio Pérez y Felipe II, II; El bastardo, V; Doña Urraca, III; El Conde don Julián, III; Los dos Virreyes, III; infine Solaces de un prisionero, dove costituisce lo sfondo di un buon numero di scene); ora un sepolcreto, (La Conjuración de Venecia, II; Doña María de Molina, III; Carlos II el Hechizado, V) o una camera ardente (El Rey Monje, II).256

Di fronte a questi simboli dell'incomunicabilità si ergono quelli che tendono a sottolineare l'aggressività e la violenza mortale che spesso costituiscono la forma più tipica dei rapporti umani: alludo soprattutto al sangue e, in parte, al veleno.

Di sangue grondano veramente i drammi romantici: si potrebbe perfino dire che esista una predilezione per lo stesso vocabolo «sangre» (e naturalmente per le sue suggestioni) di cui un'indagine statistica non tarderebbe a rilevare l'alto livello di frequenza.

Anzitutto al sangue si fa ricorso come a un espediente scenico di particolare effetto. Al riguardo sono notissime le «letras de sangre» con cui Marsilla scrive la sua denunzia della congiura; ma non si deve dimenticare che anche Luis de León firma col proprio sangue una dichiarazione d'amore (III, 8). Il sangue compare indirettamente in scena nel finale del Don Álvaro e del Trovador, espressamente richiamato dal grido d'orrore di un personaggio. Nel primo, il padre guardiano, contemplando stupefatto la scena del duello appena terminato, esclama:


¡Dios mío!... ¡Sangre derramada!


(V, últ.)                


Nel secondo, Azucena, costretta ad assistere alla morte di Manrique, urla:


¡Ay! ¡Esa sangre!


(V, últ.)                


Se, dal linguaggio gestuale o gestuale-parlato passiamo a quello esclusivamente parlato, possiamo rilevare anzitutto una vastissima gamma di metafore e iperboli, quali «tener sed» o «estar sediento de sangre», «beber la sangre», «saciarse, hartarse de sangre», «derramar la sangre como el licor»;257 si arriva anche a desiderare di baciare il sangue, come la protagonista di Elena, che esclama:


¡Pueda la herida sangrienta
mi amante labio besar,
y yo moriré contenta!


(V, 11)                


Un'immagine che ben tradisce la cupa fantasia degli scrittori romantici e al contempo assume un valore emblematico spiccato, è quella del mare di sangue che costituisce una barriera invalicabile verso la felicità. Nell'Alfredo, l'ombra di Jorge tenta appunto di trattenere i due amanti gridando loro:


¿No veis el mar de sangre que media entre vosotros?


(III, 10)                


Parimenti Ramiro avverte Isabel:


hay entre los dos un mar
de negra sangre manchado.


(El Rey Monje, V, 4)                


Nelle parole di Don Álvaro si tratta invece di un fiume di sangue che si dilata e ribolle sino a trasformarsi in un mare:


De sangre un río,
que yo no derramé, serpenteaba
entre los dos; mas ahora el brazo mío
en mar inmenso de tornarlo acaba.


(IV, 5)                


Come il sangue, anche il veleno è segno di morte; ma se talvolta di esso si serve il malvagio per liberarsi di un nemico innocente (così viene data la morte a Blanca de Borbón e ad Antonio Pérez; così si tenta, senza riuscirci, di uccidere María de Molina) più spesso è il mezzo disperato cui lo sventurato fa ricorso per liberarsi da insopportabili mali: così avviene nel Trovador, in Bárbara Blomberg, in Incertidumbre y Amor, nel Paje, in Amor venga sus agravios e, a livello di tentativo incompiuto, in Carlos II el Hechizado.

Nei primi quattro drammi colpisce il ripetersi del medesimo topico: il personaggio che ha bevuto il veleno assiste impotente alle ultime fasi della vicenda da lui vissuta; in tre casi, quando la felicità che pareva tanto lontana è ormai a portata di mano.258

È dunque da pensare che il veleno sia sentito dallo scrittore romantico, alla stessa stregua del mare di sangue, come il simbolo di quel diaframma che continuamente si frappone tra l'uomo e la felicità e, spesso, fra l'uomo e i suoi simili.

4. Alla ricerca di una «langue» romantica

Se un'indagine sul linguaggio dei drammaturghi romantici rischia di naufragare di fronte all'insorgere di tante personalità che impediscono una generalizzazione, è tuttavia possibile una ricognizione delle formule più ricorrenti e, conseguentemente, la ricostruzione della «langue» teatrale dominante negli anni Trenta e Quaranta.

Queste pagine tuttavia non si propongono una meta così ambiziosa che esigerebbe un' investigazione specifica e minuziosa, ma intendono semplicemente gettarne le eventuali premesse mettendo in evidenza taluni degli aspetti più notevoli di questo settore.

L'impressione generale che si ricava da una lettura dei testi romantici è quella di una diffusa tendenza a un linguaggio che aspira a presentarsi come semplice e quotidiano ma che in realtà non rinunzia alle sue prerogative letterarie: un linguaggio certamente accessibile e perspicuo, e quindi agli antipodi delle elucubrate sottigliezze culterane, ma a sua volta artificioso e ossessionato -si vorrebbe dire- dalla ricerca di effettismi.

Le fonti di esso -a parte un certo gusto di fondo che affratella le battute di tutti gli eroi romantici d'Europa- sono almeno in parte indigene o naturalizzate e vanno per lo più ricercate nel melodramma e nella commedia sentimentale, sia pure indirettamente e non senza l'opera moderatrice del neoclassicismo che già aveva contribuito a depurarle.

Il melodramma aveva conosciuto nel secolo precedente una notevole popolarità ed era logico che almeno la facile orecchiabilità di certi passaggi lasciasse un'impronta nel linguaggio teatrale. Già si è visto come Arellano sostituisse toni melodrammatici all'enfasi dei modelli barocchi; ora diversi autori romantici, e non dei meno importanti, riecheggiano, qua e là, la musicalità delle ariette.

L'arietta anzi può sgorgare nei momenti più impensati: per esempio, in Elena, che pur si compiace di toni forti, il truculento Gerardo, poco prima di uccidersi, esprime il suo rimorso in questo «cantabile»:


Diome el cielo un corazón
a la virtud inclinado
y una funesta pasión
hacia el crimen ha cambiado
su primera inclinación.
Generoso y compasivo
no te puede merecer,
y tu fatal atractivo
me forzó, ¡infeliz! a ser
falso, opresor, vengativo ecc.


(V, 14)                


Neppure Escosura seppe sottrarsi al fascino delle ariette e in Bárbara Blomberg, dopo aver posto in bocca a Blanca una facile sentenza di pretto gusto metastasiano:


Desdichada la mujer
que, llegándose a olvidar
de lo que juró guardar,
traspasare su deber.
Humillada se ha de ver...


(I, 2, 3)                


giunse a comporre un saltellante monologo per il solenne Carlo V:


De Alemania emperador,
de la noble España rey,
Italia bajo mi ley,
de un mundo nuevo señor,
¡y esclavo soy de este amor!!!

Nel Rey Monje è García Gutiérrez che si lascia prendere la mano dai toni cantabili e fa dire alla sua eroina:


¿Verdad que es horrible cosa
morir tan joven y hermosa,
morir amando?


(II, 2, 1)                


Toni consimili, altrettanto facili e triviali nei concetti e nel vocabolario, ma tendenzialmente più patetici e appassionati, furono propri della commedia lacrimosa che li espresse in versi di notevole presa su platee ingenue, sul tipo di:


recibe, ¡ay dulce bien! mi último aliento
recibe, ¡ay dulce bien! mi último aliento

con cui Diego si congeda da Isabel negli Amantes de Teruel di Comella.259

Li ritroviamo spesso nel teatro romantico: a scopo di esemplificazione (ben lontano dal voler esaurire la questione che potrebbe anche divenire sfuggente) si possono citare alcuni passi la cui adesione ai toni in esame sembra più evidente. Come richiamo al verso ora citato di Comella, converrà anzitutto sottolineare le ultime parole che Isabel pronunzia nella versione romantica degli Amantes de Teruel, dove gli echi dei languori settecenteschi si combinano con una più robusta sensibilità spazio-temporale:


Tuya fui, tuya soy; en pos del tuyo
mi enamorado espíritu se lanza.


(IV, últ.)                


Con altrettanto trasporto -cui si unisce, segno dei tempi nuovi, una certa aria di sfida- la protagonista di Elena dichiara:


Sí, le amo, le amo, señor,
y eterno será mi amor.


(I, 5)                


In un finale improntato al medesimo facile patetismo, Luisa di Incertidumbre y amor, moribonda, esclama:


¡Yo...! Yo seré tu esposa... en la eternidad.


(II)                


La protagonista di Adolfo cerca allo stesso modo di strappare le lacrime a spettatori non troppo esigenti mormorando:

¡Ah padre mío! ¿Por qué me sacrificaste? ¡Morir tan joven...!


(IV, 10)                


Il medesimo scopo di commuovere con mezzi facili affiora nelle numerose esclamazioni che punteggiano i drammi romantici: ricordo di stilemi propri del teatro neoclassico, se vogliamo, ma resi più accessibili attraverso un abbassamento del livello letterario (a mezza strada fra l'applicazione di norme retoriche e la ripresa del parlar quotidiano) e insieme più virulenti attraverso l'impiego di un lessico suggestivo. Per non smarrirsi in un mare di citazioni, sarà sufficiente accennare ad alcune esclamazioni che, poste a chiusura di un atto o dell'intero dramma, intendono realmente lasciare lo spettatore profondamente scosso.

Quest'intenzione si rivela, per esempio, in maniera perfino plateale nella chiusa del Conde Don Julián, dove l'autore, per rendere il grido finale il più emotivo possibile ricorre all'ingenuo espediente di giustapporre ben sei punti esclamativi, scrivendo:


Aún vive Pelayo!!!!!!

Ma, a parte queste realizzazioni semplicistiche, che si citano soprattutto a titolo di curiosità, per lo più si fa ricorso al linguaggio tradizionale dell' imprecazione e della deprecazione. In questo senso si conclude l'atto III del Paje, col grido:


¡Maldita seas, mujer!

Nel dramma Intrigar para morir di L. González (rappresentato il 20 Agosto 1838) la tela scende su queste due battute ad effetto:

CONDE DE VALFLORIDA (in punto di morte). ¡El infierno os confunda!

TODOS. ¡Qué horror!


L'autore aveva certo presente la più celebre chiusa del Don Álvaro, in cui Rivas aveva cercato di condensare gli elementi più evocativi del lessico imprecatorio e deprecatorio, nettamente distinti fra le quattro battute finali:

DON ÁLVARO. Yo soy un enviado del infierno, soy el demonio exterminador... Huid miserables.

TODOS. ¡Jesús, Jesús!

DON ÁLVARO. Infierno, abre tu boca y trágame. Húndase el cielo, perezca la raza humana, exterminio, destrucción...

EL GUARDIÁN Y LOS FRAILES. ¡Misericordia, Señor! ¡Misericordia!


Proprio la presenza di questo lessico -riflesso, quantunque pallido, del satanismo allora così diffuso soprattutto in Inghilterra e in Francia- denunzia la nuova «langue» sorta sull'antica. Al desiderio di commuovere strappando le lacrime, peculiare di certi fenomeni teatrali settecenteschi, subentra o si accompagna il gusto del terrificante: un gusto che deriva dalle recenti teoriche sul sublime, kantiane e postkantiane, ma che risponde pure alla visione cupa dell'esistenza di cui si è trattato nelle pagine che precedono.

Si è anche visto come lo scrittore romantico faccia talvolta ricorso a vocaboli denotanti o connotanti tristezza e orrore al fine di turbare la serenità -per lui innaturale- di un paesaggio: aggettivi come moribundo o siniestro applicati da García Gutiérrez alla luce della luna sono l'indice di una sensibilità chiaramente orientata sulla direzione del cupo e dell'orrido.

Si tratta di scelte lessicali in un determinato campo semantico cui aderirono sostanzialmente tutti i drammaturghi romantici che naturalmente non se ne servirono in ogni circostanza ma nei momenti in cui vollero creare una particolare tensione.

I richiami al mondo infernale sono naturalmente tra i più frequenti come quelli che creano un'immediata associazione con l'idea di un orrore arcano. Oltre ai passi che si sono citati or ora, vale la pena di ricordarne qualche altro. In Don Fernando el Emplazado, il re, che non può muoversi, esclama:


No puedo.
¡La mano de Satanás
me clava aquí!


(III, 8)                


In Carlos II el Hechizado, Florencio si rivolge al diabolico Froilán e ai suoi compari, definendoli:


almas de Lucifer.


(I, 8)                


Il medesimo insulto rivolge Marsilla a Zulima, anche se esso appare mascherato dall'uso raffinatamente letterario di espressioni sinonimiche:


Monstruo, por cuya voz ruge el abismo.


(Los Amantes de Teruel, III, 2, 3)                


Nella Corte del Buen Retiro, il nano, inseguendo il fantasma di un suo amplesso con la regina, commenta:


el demonio se reirá.


(V, 1, 1)                


Filippo II crede di scorgere l'angelo vendicatore che, dice,


me amenaza con el fuego eterno.


(A. Pérez y Felipe II, I, 4)                


Infine il re monaco, per descrivere l'infelicità umana, ricorre all'immagine dell'inferno calato nella stessa esistenza:


La vida es sueño ilusorio
que a instantes huyendo va,
y ¡quién sabe si será
un infierno transitorio
que a otro infierno paso da!


(El Rey Monje, V, 3)                


Anche in questo caso, fu probabilmente Pacheco colui che diffuse in Spagna il gusto per un siffatto vocabolario; un suo recensore, verosimilmente colpito dalla novità di un tale linguaggio, commentava:

lástima es que adolezca también el lenguaje de monotonía en boca de todos los personajes, y que se repitan tanto algunas palabras, como la de infierno, que se multiplica hasta el fastidio.260


In un campo molto affine si colloca la seguente imprecazione di Doña Mencía, in cui l'effetto è affidato allo spirito diabolicamente blasfemo del periodo e dei singoli vocaboli:


Deja que al cielo blasfemante acuse
que con mi corazón juega inclemente.


(III, 11)                


In zone contigue si situano le allusioni alla morte, cui si accompagnano determinazioni atte ad aumentare l'orrore del riferimento:


Un cadáver sois ya, pálido y yerto;


(Luis de León, IV, 8)                



Tú una maldición pusiste
y una tumba entre los dos.


(El Paje, IV)                


E tralasciamo i richiami al sangue, all'oscurità, al veleno,261 all'orrore e al terrore esplicitamente citati262 con una compiacenza lessicale estremamente indicativa; non aveva dunque torto Lista quando accusava i romantici di impiegare un «lenguaje furibundo».263

Infine l'ingiustizia che domina nella società e il sovvertimento di valori che essa determina affiorano in un linguaggio che, anche in questo caso, si affida essenzialmente

a scelte lessicali significative. Frequente, in questo campo, è l'impiego di una sorta di antifrasi, ossia dell'equivalente linguistico del sovvertimento sociale. Il crimine si sostituisce alle ingiustizie della legge:


Ya con eternos vínculos el crimen
a su suerte me unió;


(El Trovador, IV, 6)                



No más humanidad, crímenes quiero.


(Los Amantes de Teruel, IV, 7)                


L'odio diviene un surrogato dell'amore:


En el odio también delicias hallo;
en él también encontraré consuelos;
si no puedo gozarme en tus caricias,
en tu llanto podré gozarme al menos.


(Carlos II el Hechizado, I, 7)                


Oppure, più esplicitamente, viene espressa la brama di un totale sovvertimento:


que reventó el volcán, y honor y todo,
todo a la vez en su furor arrastra.


(Luis de León, III, 8)                





ArribaAbajoIII - Critici

A partire dal 1834, la critica ha la possibilità di esercitarsi su opere spagnole concrete, per cui può finalmente riferirsi alla situazione presente della cultura nazionale. Ne è esempio insigne il prologo al Moro Expósito che proprio in quegli anni affronta i problemi del romanticismo secondo la prospettiva che gli viene offerta dall'opera di Rivas.

Non per questo sono abbandonate le questioni teoriche -come ancora insegna il saggio di Alcalá Galiano- le quali anzi proseguono per lungo tempo, non di rado prendendo lo spunto dall'analisi di opere per addivenire alla formulazione di concetti generali o per puntellare affermazioni polemiche.

Il primo posto, in questo campo, è sempre occupato dalla diatriba classico-romantica che continua stranamente anche quando il problema ha perduto di attualità e nel resto d'Europa ci si sta ormai avviando verso nuove correnti.

Occorre dire che, in sede teatrale, queste discussioni trovano un certo alimento nella stessa produzione drammatica in cui, pur nel fervore di un'adesione compatta al romanticismo, non mancano esplicite manifestazioni di simpatia per le formule del classicismo più retrivo.

Si pensi che Gil y Zárate, dopo la classica Blanca de Borbón e dopo il romantico Carlos II el Hechizado, non esitava a pubblicare, nel 1838, la tragedia Rodrigo che aveva scritto anni prima: una composizione, al solito, in endecasillabi assonanzati e rigidamente rispettosa delle regole, sebbene l'autore riconoscesse che l'argomento «no se acomoda bien a las unidades clásicas»264 lasciando così intendere il perdurare della vecchia interpretazione di classicismo e romanticismo come generi letterari.

Zorrilla poi esordì neoclassico e proseguì con costanti notevoli concessioni al neoclassicismo. Nel 1839 mandava in scena Cada cual con su razón in cui operava un curioso accostamento tra spunti di tipo lopesco-calderoniano e la obbedienza alle regole che non si peritò di sottolineare in una strana prefazione, nella quale affermava compiaciuto:

indignado al ver nuestra escena nacional invadida por los monstruosos abortos de la elegante corte de Francia [el autor] ha buscado en Calderón, en Lope y en Tirso de Molina, recursos y personajes, que en nada recuerdan a Hernani y a Lucrecia Borja.



E invitava a non definire l'opera né classica né romantica, soggiungendo tuttavia che i classicisti vi avrebbero trovate rispettate le unità, mentre i romantici avrebbero dovuto pazientare se non vi trovavano

verdugos, esqueletos, anatemas ni asesinatos;



si poteva comunque rimediare mettendo un veleno autentico nella coppa in cui solo si fingeva di versare una pozione soporifera....

Vale a dire che la sua opera, per sottrarsi all'influsso francese, si rifugiava contemporaneamente nel teatro del Siglo de Oro e in quello classicistico (che cosa avrà pensato Durán di questo connubio?) e che ripudiava recisamente ogni contatto col romanticismo.265

E se, nelle opere successive, veniva maggiormente a patti col movimento romantico, tuttavia scriveva nel 1842 Los dos Virreyes che immaginava svolto nelle fatidiche ventiquattro ore del 10 Novembre 1653, e, l'anno successivo, Sofronia, tragedia en un acto, che ben figurerebbe fra le opere settecentesche per il rigore, lo spirito, la versificazione che la caratterizzano.

Ma si noti che, ancora nel 1848, quando non solo il classicismo era morto da decenni in Europa ma dello stesso romanticismo che l'aveva sostituito si coglievano solo le stanche propaggini, Eugenio Rubí poneva la seguente didascalia al suo dramma Un hidalgo aragonés:

La acción principia a las doce del día, y concluye a la misma hora del siguiente.266



Non è dunque fuor di luogo che, di fronte a simili prese di posizione dei letterati, i critici considerino la polemica classico-romantica tuttora aperta e manifestino una certa perplessità nell'assumere una linea di condotta al riguardo.

Oscillazioni fra classicismo e romanticismo si erano avute lungo tutto il corso delle discussioni sull'argomento, dall'Europeo al Discurso di Durán, alle lezioni di Lista, al prologo di Alcalá Galiano.267 Tuttavia, quando vengono alla luce le prime opere romantiche spagnole, la bilancia pende immediatamente a favore della nuova corrente, sebbene affiori fin da principio quel timore -che si farà più intenso col passare degli anni- di lasciarsi trascinare a deplorevoli eccessi.

Il recensore di Elena, per esempio, ossia di uno dei primi drammi scopertamente romantici, esprimeva la sua approvazione per le nuove forme che consistevano, a parer suo, in

entretener la imaginación, sorprender y conmover profundamente el corazón por otros modos que los hasta ahora empleados...



ma disapprovava gli eccessi contenuti nell'opera esaminata.268

Altri invece manifestava un'adesione senza riserve. Sulla stessa rivista, l'anno successivo, usciva il famoso invito:

romántica es nuestra historia, romántico nuestro cielo... romantícese también nuestra escena;269



e il recensore del Don Álvaro avvertiva che ormai si viveva in piena rivoluzione letteraria.270

Contemporaneamente, dalle pagine dell'Artista, Ochoa prorompeva in lodi entusiastiche dei romantici, giovani in cui rivive lo spirito cavalleresco del Medio Evo, e in severe censure dei clasiquistas, misoneisti e incapaci di ogni avventura dello spirito;271 mentre Espronceda irrideva al Pastor Clasiquino che vive fuori del mondo ed è solo preoccupato per i suoi sterili giochi formali.272

Insomma, in questi primi anni di letteratura romantica in Spagna, si ha l'impressione che il romanticismo ottenga una vasta approvazione e che il classicismo vada ormai tramontando. Un'impressione che troviamo condivisa dagli stessi contemporanei se la redazione dell'Artista, nel congedarsi dai lettori nell'Aprile del 36, dichiara di aver sì lottato contro il classicismo ma che

esto hicimos mientras vivió este mal andante mancebo con peluquín; ahora ya murió. Requiescat in pace.273



Senonché proprio in quegli anni qualcun altro cominciava a prender le distanze da classicismo e romanticismo che ritornavano ad esser classificati come generi letterari. La stessa Revista Española, riferendo sulla prima lezione tenuta da Lista all'Ateneo, affermava:

Las escuelas denominadas clásicas y románticas pueden ser buenas a la vez, pero nunca los extremos de ambas.274



Il Semanario Pintoresco, venendo incontro a un facile gusto popolare, cominciava la pubblicazione di satire antiromantiche e accoglieva un articolo di José de la Revilla dal titolo Teatros, il cui autore, dopo essersi vantato di non appartenere ad alcuna scuola, soggiungeva:

Hemos tenido también por muy cierto, que limitar la fantasía a un modo único y exclusivo de crear, sería tan dañoso como desencadenarla y dejarla abandonada a los accesos de su delirio y frenesí.275



È pur vero che espressioni di questo tipo -come annota il Peers che le definisce eclettiche276 -erano già reperibili con qualche frequenza negli anni precedenti parallelamente alle dichiarazioni di fede romantica e anticlassica; d'altro canto, è risaputo che in Spagna l'adesione al romanticismo non fu mai così totale da sopire ogni altro orientamento. Ciò che colpisce è tuttavia un fatto diverso: la scomparsa, dal 1836 in avanti, di ogni proposizione apertamente filoromantica o, analogamente, anticlassica. Evidentemente è sorto verso il romanticismo un atteggiamento di diffidenza quale non si era conosciuto in passato.

Che cosa poté determinare questo cambiamento di rotta? È probabile che la causa principale sia da ricercarsi nel massiccio ingresso del teatro romantico francese che avvenne fra la metà del 1835 e il corso del 1836. Gli Spagnoli avevano sì da lungo tempo seguito e applaudito quei vaghi precursori del romanticismo che rispondono ai nomi di Deschamps, Delavigne, Scribe, Ducange ecc.; tuttavia questi non potevano, con i loro facili sentimentalismi, destare scandalo o apprensioni moralistiche. Ma ora era il fior fiore del romanticismo più audace e rivoluzionario quello che calcava per la prima volta le scene spagnole. Di Hugo si erano rappresentati Lucrezia Borgia il 18 Luglio 1835, Angelo il 1º Ottobre 1835; Hernani il 24 Agosto 1836; di Dumas eran saliti alle scene nel 1836 Teresa, Ricardo Darlington, Caterina Howard, Antony, La torre di Nesle (col titolo Margarita de Borgoña). Né bisogna dimenticare che alcuni di questi drammi, come Lucrezia Borgia e La torre di Nesle (ossia quelli giudicati più immorali) avevano tenuto cartello abbastanza a lungo -e lo avrebbero tenuto ancora negli anni successivi- assai più di altri di produzione indigena.277

È abbastanza comprensibile che si diffondesse un certo allarme nelle schiere dei benpensanti madrileni, i quali non potevano non temere, insieme al diffondersi di un teatro giudicato immorale278 (e il successo delle due ultime opere citate sembrava confortare questo loro timore), l'affermazione di una nuova sudditanza culturale della Spagna nei confronti della nazione vicina. Né è peraltro da escludere un risvolto politico in un senso di irritazione contro la Francia che, così sollecita a reprimere le speranze liberali ai tempi dei centomila figli di S. Luigi, proprio in quegli anni si era rifiutata di offrire un appoggio al governo spagnolo nella lotta contro il carlismo.

La componente antifrancese, che continuamente affiora nella storia della cultura spagnola del primo Ottocento, non poteva dunque mancare di assumere una parte di rilievo anche in questa svolta del romanticismo.

Cosicché, dal 1836 in poi, si tende a distinguere marcatamente il romanticismo spagnolo da quello francese ma, al contempo, si vuole evitare che quest'atteggiamento venga confuso con un ritorno a superate posizioni classicistiche. Pertanto si fa sempre più strada l'ipotesi di una terza corrente, quella spagnola del justo medio, che si trovi equidistante dal classicismo e dal romanticismo.

A questo punto diviene quasi ovvio risfoderare l'antico argomento dell'imitazione della letteratura secentesca e soprattutto del «teatro nacional» (come al solito, il teatro rimane il punto di riferimento centrale delle varie discussioni), che, oltre a soddisfare il perdurante spirito classicistico sempre teso alla ricerca di modelli (per cui l'imitazione di Lope e Calderón si sostituiva a quella di Racine e Corneille o di Hugo e Dumas) poteva dare una patina di antica nobiltà alla nuova corrente.

Limitandoci al settore teatrale, si direbbe che ora gli sforzi di molta critica, soprattutto di quella militante, siano volti essenzialmente a propugnare questa linea nuova e a cogliere nelle opere dei contemporanei l'impronta di modelli secenteschi e un uguale distacco da classicismo e romanticismo.

Nel 1837, l'anonimo recensore del bretoniano Muérete y ¡verás! traccia, sul Semanario Pintoresco, una distinzione netta e programmatica fra le varie correnti: da una parte biasima i classicisti impacciati dalle «trabas» formali dalle quali era sì opportuno liberarsi purché si fossero seguite

las mismas razones morales y políticas que tanto honor hacen a los escritores clásicos;



dall'altra però rileva che gli scrittori prudentemente definiti «los apellidados románticos de la escuela francesa», rinunziando a ogni preoccupazione morale o religiosa,

cayeron en una extravagancia de ideas, en un abismo de horrores, en un colorido tan exagerado y ridículo que casi han llegado a hacer sinónimos de su moderna escuela el apellido de romántico con los de falso e inmoral.



A costoro contrappone, insieme al buon Delavigne, Bretón de los Herreros che conferisce alla sua opera «fin moral, caracteres verdaderos, con verosimilitud en la intriga». E questa si augura che sia la strada su cui si avvieranno gli ingegni spagnoli.279

Pochi numeri dopo, lo stesso periodico, analizzando Doña María de Molina, arrischia il termine «teatro moderno nacional», nel quale ravvisa

aquel carácter original, filosófico y profundo que conviene al gusto del país;



e crede di poter affermare che i drammaturghi spagnoli hanno evitato i «desvaríos» del teatro francese grazie alla funzione moderatrice esercitata dai modelli del loro teatro passato.280

Naturalmente Durán trova in questo clima la conferma delle teorie esposte nel Discurso e, prima recensendo a sua volta Doña María de Molina,281 poi nell'Análisis del « Condenado por Desconfiado»,282 crede di poter scorgere nei drammaturghi contemporanei coloro che hanno ripreso, adattandola ai tempi nuovi, l'antica scuola teatrale.

Per influsso di queste teorie, diviene un passaggio obbligato per il critico che voglia far professione di obiettività dichiarare la propria equidistanza da classici e romantici, biasimare gli eccessi degli uni e degli altri e dimostrarsi pronto ad accogliere la bellezza dovunque si trovi.

La Gaceta de Madrid, nel tracciare un quadro della produzione teatrale del 1838, espone la seguente posizione critica:

Distantes tanto del licencioso desenfreno que hoy pretende llamarse libertad literaria, como de una ridícula intolerancia, hemos procurado siempre adoptar un justo medio que conciliase aquellos dos extremos... No reconociendo nunca reglas ni principios fijos, ora hemos aplaudido sinceramente una obra escrita bajo el influjo de la moderna escuela, ora hemos sido los panegiristas de cualquiera composición perteneciente al género clásico.



Poche righe prima tuttavia, l'autore della rassegna sembrava formulare qualche riserva nei confronti di un dramma come Doña Mencía che giudicava positivamente

si bien escrito bajo la influencia de las opiniones románticas, al menos no con arreglo a las más exageradas.283



Parallelamente i pregi di un'opera teatrale consistono in primo luogo nell'evitare gli eccessi del classicismo e del romanticismo o, talvolta, nell'accomunare i pregi dell'uno o dell'altro.

Un certo C. B. y G., nella pagine critiche preposte al Conde Don Julián, esalta l'opera definendola

un ensayo de un género medio de literatura dramática en que, sustituyendo a la frialdad y a las travas del clasicismo caduco, el movimiento, la animación y una racional independencia, se evitan al mismo tiempo los extravíos y la anárquica licencia de un romanticismo frenético.284



Bretón loda invece, nella Rosmunda di Gil y Zárate, la presenza di forme semplici come nella tragedia classica e di movimento come in quella romantica.285

Questi concetti incontrarono una particolare diffusione nel 1839, sotto la spinta delle discussioni che si svolsero all'Ateneo intorno al problema delle unità. La sostanza dei vari interventi, che è superfluo riportare singolarmente, è sempre l'accoglimento di una prudente equidistanza (le regole non sono vincolanti ma non si deve eccedere in libertà;286 le unità di tempo e di luogo sono superate ma si deve rispettare quella di azione287) e di un richiamo al teatro nazionale.

«El nuevo sistema, que para nosotros es harto viejo...» diceva Hartzenbusch,288 mentre Enrique Gil, dopo aver tracciato una storia del teatro spagnolo, in cui riconosceva al classicismo settecentesco (che prudentemente si limitava a chiamare «escuela de las formas») una funzione di affinamento stilistico e letterario e attribuiva ai nuovi orientamenti l'errore di aver convertito «en licencia la libertad literaria» (a dodici anni di distanza ritornavano le espressioni della Poética di Martínez de la Rosa!), soggiungeva:

Afortunadamente para nuestra España todos los cambios y vicisitudes literarias que tanto han agitado y agitan aún a la vecina Francia, se han sentido en nuestro país como un eco más o menos lejano, más o menos sonoro; pero no han brotado de nuestro suelo tan espontáneos y tan violentos como allí, y sólo el espíritu fatal de imitación ha podido llevar a alguno de nuestros ingenios a extremos y exageraciones que debieran excusarse, y que no hallaban consonancia ni respuesta en el corazón de nuestro pueblo.



Dopo queste considerazioni che sembrano riportare, nei confronti del romanticismo francesizzante, le stesse parole impiegate da Durán per stigmatizzare il classicismo del secolo decimottavo, rilevava che in Spagna non esisteva, in fondo, altro problema che quello di risalire alle fonti tradizionali del «teatro antiguo español». Lamentava perciò che alcuni ingegni spagnoli, invece di abbeverarsi a tali fonti, avessero prodotto

creaciones desnudas muchas veces de verdad, hijas legítimas del moderno teatro francés.



A questo punto Gil credeva di poter invece scorgere una tale «verdad» spagnola nel Don Álvaro, in Doña Mencía e in Cada cual con su razón».289

Parallelamente all'opera di questi critici, il teatro spagnolo -come si è visto nel capitolo precedente- andava rivelando una sua fisionomia, non geniale forse ma indubbiamente fornita di tratti abbastanza marcati. E certo non mancavano ragioni che permettessero di ravvisare una formula nuova, spagnola appunto, del teatro moderno; non reggeva invece a un'indagine approfondita il tentativo di farlo rientrare negli schemi un po' spigolosi e semplicistici formulati dalla critica contemporanea. Soprattutto per la produzione successiva al 1837, ci si rendeva conto che la formula della ripresa del teatro antico non poteva avere più alcun senso.

In questo disorientamento ebbero abbastanza buon gioco gli appartenenti alla fazione progressista i quali da anni continuavano il loro discorso a favore di un superamento delle scuole e delle correnti. Già nel 1838 Alcalá Galiano definiva i drammaturghi del secolo XVII classici e romantici nello stesso tempo e invitava ancora una volta a respingere le suddivisioni tradizionali;290 gli faceva eco Donoso Cortés che, in sei articoli dedicati all'argomento, dapprima smitizzava classicismo e romanticismo proiettandoli su di uno sfondo storico, poi, espresse varie titubanze sull'interpretazione di queste correnti, consigliava di essere classici e romantici «a la vez».291 L'anno successivo il radicalismo liberale trovava un altro esponente in Gil y Zárate, il quale proponeva una letteratura teatrale in cui si fondessero i pregi di quella greca, spagnola, inglese e tedesca.292 Due anni più tardi, ritornando sull'argomento, proponeva, in due diversi articoli, la fusione del teatro classico, del teatro romantico e del teatro secentesco.293

L'eclettismo di questi scrittori, la loro disponibilità a tutte le scuole letterarie sono più apparenti che reali, poiché il loro scopo evidente è quello di svuotare i vari termini in vista di una produzione affatto originale. Dai loro articoli traspare l'idea che classicismo e romanticismo siano ormai superati: per quanto poi concerne il teatro barocco, basti leggere quanto afferma al riguardo Gil y Zárate nel saggio pubblicato sulla Revista de Madrid del 1841. Dopo avervi riconosciuto una serie infinita di difetti («la excesiva complicación de las intrigas, la inverosimilitud de los lances, lo violento de los desenlaces en general poco felices, la mala coordinación de las escenas, el frecuente cambio de las decoraciones, lo chocarrería de los graciosos» e così via per un brano lungo ancora circa il doppio di quello riportato) dichiara esplicitamente che il teatro antico è morto con Calderón, sebbene gli si possa attribuire la capacità di suggerire pensieri, concetti, vivezza di dialogo e via dicendo.294

Più conciliante di Gil y Zárate, Juan del Peral, in un articolo dello stesso anno, anzitutto pronunziava una frase divenuta famosa:

El exagerado drama romántico ha sido una llamarada que sólo ha brillado por un momento;



frase che è stata erroneamente intesa come l'epitafio del teatro romantico quando invece si riferisce esclusivamente all'exagerado dramma romantico, che, nelle righe successive, è più ampiamente spiegato come quello di marca francese:

importación extranjera, concebida por imaginaciones más exaltadas y ficticias que las nuestras, y creada para una sociedad, no ya escéptica como la nuestra, sino descreída enteramente, no podía echar hondas raíces en un país, en quien si bien ese género tuvo cuna hace luengos años, fue bajo muy distintas formas.



Dopo di che negava uguale possibilità di ripresa tanto per il teatro classico quanto per la commedia barocca, i cui difetti -precisava- perdonabili in Calderón, non lo sarebbero stati nei moderni scrittori. Questo tuttavia non gli impediva di tentare in extremis il salvataggio del género español suggerendo la solita formula che già abbiamo vista propugnata da Durán:

escribir la comedia antigua adecuada a nuestros gustos, a nuestras exigencias y a nuestras circunstancias.295



E questa gli pareva la via imboccata da Zorrilla, dal Duque de Rivas e da Rubí.

È chiaro che tutte queste proposizioni sulla mescolanza delle correnti o sul recupero del teatro secentesco sono, in fondo, poco più che immagini, prive come sono di effettiva concretezza e di autentici riferimenti alla realtà teatrale del tempo. Non è perciò pensabile che potessero in qualche modo influire sulla produzione originale; influirono sulla critica determinando un rilevante rimescolamento dei concetti tradizionali insieme a qualche pregevole apertura.

Si può così giungere a consigliare lo studio di Racine e Corneille come una sorta di correttivo a Lope de Vega e Calderón, che permetterà di creare

un teatro español nacional, digno del siglo XIX, y que cual hermoso ramillete reúna las bellas y esparcidas flores.296



Proseguendo sulla strada di questi bizantinismi, si definiranno romantici Racine e Corneille e si etichetterà come calderoniano l'Hernani, 297mentre altri -nientemeno che Hartzenbusch- dimostrerà che i fondatori del teatro romantico spagnolo (Larra, Martínez de la Rosa, Rivas) erano classici.298 Anche Lista contribuirà non poco a tale confusione, accostando Corneille e Racine a Shakespeare, Calderón, Dumas, Hugo.299

Pochi invece ebbero la lucida apertura di J. M. Quadrado che, con un certo coraggio anticonformista, protestò contro l'andazzo di attribuire a Hugo «cuanto hay de malo y deforme» e a Calderón «cuanto de bueno y perfecto existe», mentre si applaudivano opere come il Don Álvaro, El Rey Monje, Carlos II el Hechizado di chiara ascendenza hughiana. Al contempo bollava come inopportuna la ripresa del teatro barocco:

en los elogios desmesurados que a nuestros cómicos antiguos, y a Calderón en especial se prodigan, y en las formas y asuntos prestados de sus obras que nuevamente prevalecen, se descubre la pretensión de sustituir a la llamada escuela de Víctor Hugo, otra escuela, que no por española es menos ajena de nuestras costumbres y pasiones, ni circunscribe menos el círculo abierto a la imaginación.300



Certamente non mancano, fra i contemporanei, numerosi altri che proseguono sulla strada delle antiche polemiche o delle più recenti conciliazioni o, infine, nella ricerca di un «genere spagnolo» foggiato sul modello di Lope e di Calderón.301 Ma la presenza di articoli, come quelli accennati, in cui si mettono variamente in crisi le posizioni recentemente acquisite o si sovvertono i termini tradizionali della questione stanno ad attestare il progressivo estenuarsi del movimento. La stessa ricerca di una formula spagnola, perseguita per strade diverse e contraddittorie, ne è una conferma.

In questa prospettiva, pare assumere un valore perentoriamente conclusivo la discussione che, nel 1845, si svolse all'Ateneo sul tema «hasta qué punto puede ser conveniente en la actualidad la imitación de los poetas dramáticos de España del siglo XVII»; una discussione che, riferita dalla rivista El Español, rivela, nel distacco scientifico con cui viene affrontata nei vari interventi, la lontananza ormai storica del problema. L'atteggiamento dominante, inoltre, è di sostanziale diffidenza. Solo Amador de los Ríos, con vecchie argomentazioni, ed Escosura, non senza riserve, propugnano l'imitazione degli antichi commediografi. Gli altri, in varia misura, ne sottolineano la distanza temporale e spirituale: da Bretón e Hartzenbusch che mettono in particolare evidenza i convenzionalismi di quel teatro, a Rubí che gli nega l'imprescindibile verità, a Tejado e a Nocedal che ne biasimano il linguaggio affettato.

Lontano il teatro del Siglo de Oro, è lontano anche quel teatro romantico che un'intera generazione aveva vanamente sperato che ne fosse la continuazione: non a caso Escosura, nel suo intervento, rilevando certe affinità fra i due, parlava dei drammi romantici come di quelli

cuya época sin embargo ha pasado por fortuna de la literatura.302



Il difetto sostanziale delle disquisizioni teoriche di cui si è tracciato un quadro succinto risiede, come si è visto, in una paradossale voluta ignoranza della realtà. Gli stessi recensori, quando affrontano problemi teorici, sembrano dimenticare l'effettiva consistenza dell'opera da cui pure hanno preso lo spunto, per immaginare una sorta di platonica repubblica teatrale e discettare intorno al dramma ideale. Questo è tanto vero che, quando invece il discorso verte direttamente sulle opere, svaniscono o si attenuano notevolmente le questioni del classicismo, del romanticismo, dell'imitazione del secolo d'oro, per lasciare il posto ad una disamina degli aspetti tecnici o a una discussione sul problema fondamentale della verità.

Gli eventuali rari riferimenti ai grandi problemi estetici assumono allora solo il valore di formule. Definire degni di Lope e di Calderón un'opera o brani di essa è poco più di un complimento, come dimostra il fatto che lo si disse di lavori notevolmente diversi fra loro, come, per esempio, Doña María de Molina (in cui, si noti, il recensore tenta di dimostrare infondate le accuse di coloro che «incolpano» Roca de Togores di essersi rifatto alla tirsiana La Prudencia en la mujer),303 Doña Mencía,304 La Cabeza encantada o El Español en Venecia305 o Garcilaso de la Vega.306 Anche certe affermazioni come «vuelve a florecer la antigua vena dramática de nuestros ingenios» quale spunto alla recensione di Bárbara Blomberg307 o la promessa di indulgenza nei confronti di García de Villalta autore dell'Astrólogo de Valladolid, «por pertenecer su obra a una escuela templada de literatura»,308 rappresentano prese di posizione non più impegnative di quelle di Peral o di Durán quando affermavano tout-court che alcune opere di contemporanei riprendevano motivi o spiriti del teatro barocco.

Ma se la genericità di queste affermazioni è comprensibile a causa di una certa nebulosità di concetti che stentavano a trovare riscontro effettivo nell'ambito delle opere, stupisce invece che raramente sia rilevato il carattere innovativo di taluni temi tipicamente romantici.

Al contrario, quando non offrono lo spunto a facili -quantunque gustose- considerazioni ironiche309 o a un senso di fastidio,310 vengono per lo più passati sotto silenzio.

Se si toglie Larra -che avvertì il senso della fatalità e la potenza travolgente dell'amore negli Amantes de Teruel311 o la forza del sentimento della vendetta nel Trovador312 -la critica generalmente si limita a cogliere, fra i tratti romantici, e a lodare come aspetto positivo la presenza di contrasti,313 rilevando forti accostamenti tra l'«alma hedionda e infernal» di Froilán e quella «angelical y pura» di Inés in Carlos II el Hechizado;314 tra Mencía, «colosal, altiva, desdeñosa», e Inés «cándida, sencilla, angelical»;315 tra «amor y sentimientos dulcísimos» e «desgracia y venganza», tra «virtud» e «tiranía», tra «pinceladas suaves» e «rasgos sombríos y profundos» che Coello y Quesada scorge nella Conjuración de Venecia.316

Un tratto romantico adottato dalla critica è forse anche l'esaltazione di ciò che è vigoroso cui si contrappone, negativamente, ciò che è giudicato «flojo» o «lánguido». Abbiamo già notato come Escosura ritenesse che l'aspetto meno felice della sua Bárbara Blomberg risiedesse in una eccessiva «languidez»; parimenti alcuni recensori definirono «lánguidas» ora talune scene di María de Molina,317 ora l'azione di Fray Luis de León318 e di quello stesso Jaime el Conquistador in cui Escosura credeva di aver superato i difetti dell'opera precedente.319 Altri critica la «versificación floja»320 o, all'opposto, loda quella «robusta»321 oppure lamenta che il dramma «vuelve a aflojar»;322 altri ancora deplora un «cuadro pálido» in cui tuttavia spiccano «figuras vigorosas».323

Ma per lo più questi giudizi sulla versificazione o sulla struttura generale o ancora sul linguaggio dell'opera risentono di formule trite (e non è da escludersi che formulistiche siano anche le espressioni ora citate) o, nella migliore delle ipotesi, di una residua mentalità classicistica che individua nella perfezione formale uno dei sommi meriti artistici.

Ecco, a scopo esemplificativo, alcune definizioni.

VERSIFICAZIONE: fluida y sonora;324 fácil, armoniosa, sentida;325 robusta, armoniosa y fácil;326 sonora, fluida, y hermosa;327 buena y fácil;328 (versos) correctos y bellos;329 excelentes;330 duros.331

LINGUAGGIO: castizo y caballeresco;332 castizo y elegante;333 puro, castizo y elegante;334 castizo y puro;335 afectado;336 expresión correcta y elegante.337

Anche in questo campo, solo Larra ha qualche felice intuizione come nella recensione al Trovador, nei cui dialoghi in versi ravvisa

un sabor general más lírico que dramático.338



Il sottofondo classicistico di tanta critica affiora maggiormente quando, quasi a compensare l'impossibilità di appigliarsi alle unità di tempo e di luogo, si fa ricorso a quella di azione (la sola che si sia salvata, diceva Roca de Togores339) per impugnare la validità di alcune opere340 o si critica la prolissità di drammi che si sarebbero potuti contenere in soli tre o quattro atti.341

Altre considerazioni sottolineano invece il perdurare di una mentalità critica legata al presupposto dei «generi»: tale l'obiezione mossa a Romero y Larrañaga il quale, in Garcilaso de la Vega,

en vez de escribir un drama, sólo ha bosquejado una complicada novela;342



tale la distinzione di Larra fra lirico e drammatico che, trasferita dal piano del linguaggio a quello della struttura, diviene una riserva: il critico infatti loda bensì alcune scene felici tra cui quella del sogno narrato da Manrique, ma soggiunge:

si bien tiene más de lírico que de dramático.343



Si ha dunque l'impressione che, mentre il dramma romantico, pur prendendo le mosse dalla stessa matrice neoclassica, stava tentando, magari confusamente, di trovare una sua via nuova, la critica rimanesse sostanzialmente ferma a posizioni spesso anteriori a quelle degli anni Venti. Una tale impressione si rafforza maggiormente quando essa prende in esame gli aspetti più essenziali dei drammi contemporanei; in particolare, quando esamina il rapporto fra vero naturale o storico e vero poetico.

Il principio su cui poggiano tutte le affermazioni al riguardo è infatti che essi debbano coincidere e che, di conseguenza, l'infedeltà al reale sia fonte di notevole nocumento sul piano estetico. Fin dalle prime prove del teatro romantico, questo appare uno degli elementi fondamentali di giudizio, spesso in contrasto con le posizioni assunte dai precedenti teorici. Nella critica, meglio sarebbe dire stroncatura, dell'Alfredo apparsa sull'Eco del Comercio, si rimprovera ai caratteri di essere «puramente ideales», constatando che «no hay ni ha habido nunca en el mundo un Alfredo ni una Berta», per concludere che

Esto es alterar a su capricho la naturaleza humana para hacerla peor todavía de lo que ella es.



A ben osservare, sono pur sempre le posizioni del vecchio aristotelismo nella sua linea di interpretazione realistica, di cui è ripresa perfino una certa terminologia: «caracteres ideales», «alterar la naturaleza humana». Ma accanto alla componente retorica, alla base di esse sta spesso una preoccupazione morale, quella stessa che dopo poco tempo orchestrerà il grande attacco al romanticismo. Si leggano le righe immediatamente successive e ci si vedrà affiorare la diffidenza nei confronti del «romanticismo malo». Così infatti prosegue il recensore:

semejantes cuadros en oposición con nuestro gusto y costumbres jamás podrán agradar en el teatro... cuando se le [al pubblico] presenta durante tres largos actos una mujer manchada con un crimen tan vergonzoso y obsceno; y cuando en fin se introduce un personaje misterioso tan bobo para diablo como malvado para hombre.



Altre inverosimiglianze sono rimproverate a Pacheco, ma queste ultime in margine all'antica preoccupazione del ritorno a un passato non «ilustrado». Si domanda il critico:

¿Qué hermano hay, ni qué cadáver de cualquiera clase que resucite y se presente a los vivos? ¿Se querrá acaso volvernos al siglo de los duendes, brujas y almas en pena?



E, con un'interessante presa di posizione a favore dei romantici francesi, soggiunge:

En las obras de Víctor Hugo y Alejandro Dumas, escritas en el mayor fervor de estro romántico, no hay una cosa semejante.344



Due anni dopo, recensendo El Paje, la Gaceta de Madrid del 25 Maggio 1837 muoveva analoghi rimproveri ai caratteri dei personaggi, definendo «imposible, ideal» quello di Fernando (che stigmatizza come «creación imaginaria, no una copia de la naturaleza, una invención exagerada del poeta») e ugualmente «falso» e ingiustificato quello di Doña Blanca.

Ma naturalmente le discussioni maggiori vertono intorno alla storicità dei personaggi e degli avvenimenti. Il dramma storico che dominava le scene a partire dal 1834 era un fatto relativamente nuovo e colse, si può dire di sorpresa, i critici che, in un primo momento, parvero avvertire la necessità di definire in qualche modo la nuova creatura.

Larra, nel recensire La Conjuración de Venecia, attribuiva al dramma storico la caratteristica di portare sulla scena i grandi personaggi abbassandoli al livello di uomini, ma oscillava nel tentativo di delimitarne i caratteri. Giudicava drammi storici il Ricohombre (leggi: El Rey Don Pedro en Madrid), il García (leggi: del Castañar) e, logicamente, La Conjuración de Venecia; li definiva «fiel representación de la vida»; non vi scorgeva altra caratteristica se non quella di «hacer hablar cada uno, según su esfera, el lenguaje que le es propio».345 Ma nel 1836, quando già si profilavano i drammi semistorici, distingueva fra il vero «drama histórico», per lui coincidente con la «tragedia antigua», e un altro tipo di dramma che definiva «género bastardo». Del primo affermava che aveva il compito di presentare

los hechos gloriosos o los funestos resultados de los extravíos de las pasiones, fundados en la verdad, que los hace ejemplos irrecusables, presentados a los hombres o para su imitación o para su escarmiento.



Il secondo era invece identificato con

el cuento fantástico hijo de la imaginación del autor, y en que no se deducen los hechos imperiosa y precisamente de los datos admitidos en la base del argumento, ese hecho inventado y vertido en forma de drama... ése que no tiene verdad histórica en su favor que convenza ni más verosimilitud que una concesión gratuita...346



Per Larra, meno retore di tanti suoi contemporanei, la verdad, più che la verosimilitud (che tuttavia non sottovaluta) è la condizione prima per la validità dell'opera: in realtà il problema è quello di una fedeltà alla storia che egli poteva credere di aver rispettato nel Macías e che altri avesse parimenti rispettato nella Conjuración de Venecia e nell'Abén-Humeya, che ora recensiva.

E tanta era la sua preoccupazione di reperire questo rispetto per la storia che quando, poco prima, si era trovato dinanzi a un'opera come El Trovador, che aveva assai più i tratti del «género bastardo» che del «drama histórico» ma che egli sentiva ugualmente valida, aveva cercato di salvarla lodandone la felice ricostruzione dei costumi del secolo XV e limitandosi a censurare amabilmente l'uso anacronistico del «don».347

La strada imboccata da Larra trovò consenziente quasi tutta la critica giornalistica, la quale continuò a reagire contro ogni violazione della storia che apparisse -e appariva continuamente- nei drammi contemporanei o, viceversa, a esprimere approvazione ogni qual volta sembrasse che l'autore si fosse attenuto alla verità dei fatti.

Nella formulazione di questi principi non manca naturalmente la nota moraleggiante e pedagogica. Il Semanario Pintoresco, nel recensire Bárbara Blomberg, limita anzitutto l'azione del drammaturgo nei confronti della storia:

Ya que los hechos históricos se han de poner en escena, ya que las antiguas crónicas se han de convertir en abundante repertorio y frondosa almáciga de asuntos dramáticos, nosotros preferiremos siempre aquellas composiciones, que ajustándose en lo esencial a la verdad de la Historia, sólo conceden al arte la facultad de embellecer y adornar el asunto principal, sin desfigurarle ni adulterarle en manera alguna.



Ma di qui prende lo spunto per ricordare che, ove si dimentichi la rigorosa norma che «en el drama no se altere un punto la verdad de la historia», si incorre nel rischio di infondere nel popolo «lastimosos errores» e di privare del debito interesse «la parte ilustrada del público espectador». All'atto pratico poi, nel corso dell'articolo, si plaude all'autore per essersi giovato di alcuni punti oscuri della storia al fine di costruire su di essi un fatto di pura invenzione.348

Il critico, che non può non avvertire l'esigenza di uno spazio per la libera creatività, viene così incontro al poeta riconoscendogli questa possibilità di approfittare dei punti oscuri e controversi per inserirsi con la propria personalità e fantasia. È questo un principio che, tra gli altri, già aveva trovato un illustre assertore in Jovellanos (il quale se ne era fatto scudo per introdurre motivi nuovi nel suo Pelayo349) e che era destinato a incontrare nuovi sostenitori. Tra questi ultimi, ricorderemo Roca de Togores che, nelle note apposte alla sua María de Molina, giustificava le sue invenzioni nei medesimi termini; il critico del Conde Don Julián il quale, dopo aver accennato alle molteplici versioni della vicenda di Don Rodrigo, sosteneva che «este estado de duda y de incertidumbre autoriza al poeta para que tome el rumbo que mejor le cuadre» e soggiungeva che quello preso dall'autore era «acaso el más verisímil»;350 il recensore di Carlos II el Hechizado sulla Gaceta de Madrid che, a differenza del suo collega del Semanario, riteneva che l'empietà attribuita a Don Froilán fosse autorizzata dall'esistenza di pareri discordi intorno a questa figura;351 infine il critico di Bárbara Blomberg della Gaceta de Madrid che attribuisce a Escosura la caratteristica di essersi appoggiato a una «tradición histórica», dove il curioso accostamento di termini suggerisce o un vocabolario approssimativo o una felice, quantunque fugace, intuizione del carattere tipico del dramma romantico spagnolo.352

Ma, all'infuori di questo spazio, nulla è lasciato all'iniziativa del drammaturgo, le cui violazioni della storia vengono regolarmente stigmatizzate: in Luis de León è giustamente rilevata l'assurdità di fare del celebre asceta il protagonista di un'avventura d'amore;353 in Bárbara Blomberg di immaginare che l'imperatore Carlo V dovesse ricorrere a così meschini mezzucci per nascondere la sua paternità;354 a Gil y Zárate si rimprovera di aver reso mostruoso il pio Don Froilán e di aver dato una figlia all'impotente Carlo II;355 la società descritta nel Paje, dice rallegrandosi un critico, «afortunadamente tiene más de horriblemente fantástica que de real y verdadera»;356 dei personaggi del Rey Monje è rilevato l'anacronismo, tanto che Isabel «se parece en un todo a las jóvenes románticas de nuestros días en lo alegrita de cascos», mentre Ramiro é una sorta di «Antony del siglo XII».357

In generale, insomma, si può dire che tutti, più o meno, concordino sul principio chiaramente espresso da un recensore di Carlos II el Hechizado, il quale, pur accettando, come si è accennato, una certa interpretazione della figura di Don Froilán, si irritava dinanzi all'attribuzione di una figlia e Carlo II «cuando no hay noticia alguna de que jamás le tuviese, pasando siempre por impotente» e si domandava:

Ahora bien, ¿tiene facultades el autor dramático para traspasar hasta ese punto la verdad histórica? Nosotros creemos que no, y extrañamos que el señor Gil y Zárate, que tan fiel observador se muestra de aquélla en toda su obra, la viole tan abiertamente en esto. Cierto es que el drama perdería mucho sin semejante episodio; mas somos de opinión de que cuando se sigue exactamente la historia, debe sacrificarse todo a ella.358



È dunque chiaro che un incontro fra drammaturghi e critici non poteva aver luogo su questo piano della fedeltà storica. Qualche maggior comprensione affiora invece quando, da parte di alcuni, il problema è spostato sul piano della verità filosofica -come si soleva dire- in direzione politico-morale.

Si tratta di posizioni ravvisabili soprattutto intorno al 1837-38, durante la maggior pressione esercitata dai carlisti; in quest'occasione si chiede agli scrittori di fare del teatro una palestra di educazione politica e pertanto di impostare le loro opere «filosoficamente», ossia svolgendovi un'interpretazione dei fatti, o meglio una tesi, che raggiunga l'auspicato fine pedagogico.

La produzione di quegli anni poteva allineare un certo numero di opere in cui una tale impostazione era abbastanza palese: come si è accennato in precedenza, Doña María de Molina, Antonio Pérez y Felipe II, Carlos II el Hechizado, Don Fernando el Emplazado, El Rey Monje, Doña Mencía presentavano ora la lotta dei re contro nobili rivoltosi, ora soprattutto la cupa potenza della tirannide mascherata di pietismo e in sinistra collusione col potere spirituale. Queste opere vennero in genere accolte con entusiasmo dal pubblico e dai critici proprio grazie all'impegno politico che vi si poteva scorgere; anzi, la maggiore o minore trasparenza delle allusioni incise in maniera rilevante sul loro successo. Con una qualche malignità, la Gaceta de Madrid annotava a proposito di Doña María de Molina:

Tan idéntico este [drama] en su argumento a la situación presente de la nación: modelado, por decirlo así a las circunstancias del día, muchos contemplaban en María a nuestra excelsa Gobernadora; en Don Juan al fanático Pretendiente. Y el autor, para más asegurar el éxito de su obra, ha cuidado de hacer presentes ciertas alusiones, que en un pueblo liberal hallan siempre eco y reciben numerosos aplausos.359



In base a queste considerazioni, lo stesso periodico, nella Revista dramática del año 38, giudicava come «la obra dramática de mayor mérito» del 1837 Carlos II el Hechizado360 e del 1838 Doña Mencía. In quest'ultima riconosceva a Hartzenbusch il merito di essersi utilmente giovato della

facultad que se concede al poeta para atacar abusos, y contribuir por medio de la sana moral y de la filosofía verdadera a desterrar del vulgo ciertas impresiones quizá radicadas en él, y que por todos medios se deben procurar extirpar.



E vedeva la realizzazione di quest'intento negli attacchi all'Inquisizione -e indirettamente al carlismo- contenuti nel dramma:

Cuando una guerra civil consume nuestra desventurada patria, cuando este cáncer corroe su existencia, no deben perdonar los escritores públicos medio alguno de combatir al enemigo por todos los medios posibles. La enseña del partido contrario es el restablecimiento de ese afrentoso tribunal... Por tanto, el autor dramático que se propone combatirlo... ese merece el aplauso del público y el aprecio de todo hombre liberal y sensato.



Per gli stessi motivi, il recensore di Carlos II el Hechizado, dimentico delle infedeltà storiche che vi aveva censurate, lo definiva

el verdadero drama del siglo XIX: grande y filosófico como éste, es una lección del gran libro de la historia, que no caducará.361



Questo ideale di un dramma educativo e filosofico è ancora sottolineato da altri critici. Se El Trovador e Los Amantes de Teruel, afferma uno di essi, hanno conquistato l'indipendenza dai modelli francesi, in seguito si è capita la necessitá di aggiungere «un pensamiento moral, un hecho histórico, una verdad política de que el pueblo pudiese aprovechar».

Su tale direttrice si collocano, a parere del critico, anzitutto La Corte del Buen Retiro, che rappresenta «el drama histórico, poético, original, sucesor fiel de la escuela de Lope y Calderón» e, subito dopo, Doña María de Molina, in cui sono lodati «el buen juicio y filosofía con que está presentada la verdad histórica del argumento».362

Il prefatore del Conde Don Julián, il quale vuole scorgere nel dramma di Príncipe tutti i possibili elementi positivi, non può naturalmente trascurare l'intento pedagogico: ritiene pertanto che il pubblico trarrà il debito insegnamento dal «designio político» dell'opera, da cui si desumono la necessità di un'alleanza contro il nemico comune, le conseguenze della tirannide, i pericoli di affidarsi agli stranieri.363

Parallelamente, un altro critico ritiene altamente diseducativo il vezzo di presentare i re come essere perennemente malvagi e tirannici:

De aquí se sigue que la mayoría del vulgo, de esa mayoría artesana, que consagrada al trabajo los seis días de la semana, busca el domingo desahogo, solaz e instrucción en el teatro (y que ni se cura de crónicas ni historia, porque ni sabe leer, ni sabría comprenderlas caso que supiese), ve en él muchos de nuestros antiguos Monarcas, amén de algunos más venidos de allende de los Pirineos, vestidos de púrpura salpicada de sangre, y ornada de crímenes.364



Quest'insistenza della critica non valse tuttavia a imprimere una particolare svolta al teatro romantico che, dopo una mezza dozzina di opere impegnate, ritornò volentieri a forme assai meno rigorose e a toni sempre più fantastici. Tutt'al più ottenne, sul momento, di stimolare una certa moda che qualche articolista non mancò di rilevare. «Otro drama romántico nuevo, y con sus frailes por supuesto»: così veniva annunziato El Rey Monje sulla Gaceta de Madrid del 22 Febbraio 1837, la quale, pochi mesi dopo, ritornando ad esaminare la medesima opera, poneva in risalto il grosso rischio di ricadere, per questa via, nella infedeltà storica così a lungo deprecata. Un certo J.S.E., il quale sembra supporre che García Gutiérrez abbia voluto pagare, con quest'opera, un tributo al gusto dominante, commenta infatti:

Sean cuales fuesen las opiniones de un autor, y las que intente inculcar en el público sobre monjes y Reyes, no debe prescindir enteramente de los hechos históricos, ni le es permitido desfigurarlos de propósito...



e, introducendo un'interessante confronto, così distingue:

Entre no ser el teatro una cátedra de historia y convertirlo en una de errores, hay una distancia tan inmensa, como la que existe entre un drama verdaderamente romántico, y los que sólo deben llamarse libelos dramáticos.365



La verdad insomma fa valere ben presto i suoi diritti nei riguardi della filosofía,cosicché, dopo la breve parentesi dei drammi anticarlisti, si torna a ribadire la necessità di rispettare la storia con tanta più insistenza quanto più la pratica teatrale denunzia le più scoperte violazioni di essa.

Nel 39 Lista accusava i romantici di sfigurare la storia al fine di degradare moralmente i personaggi famosi;366 nel 41 El Iris, facendo una specie di consuntivo, denunziava: «todas las páginas de la historia de España han sido falsificadas»;367 ancora nel 41, un anonimo scorgeva in Cerdán, Justicia de Aragón (ma il discorso si poteva facilmente estendere a quasi tutti i drammi storici contemporanei) una violazione inutile e gratuita dei fatti: «La historia está falseada y sin resultados».368

Non si volle dunque mai comprendere che il dramma spagnolo avrebbe potuto trovare, e stava già trovando, una sua precisa fisionomia proprio nella violazione della storia e nell'accostamento di fatti della realtà e di prodotti della fantasia. La critica non l'aiutò a trovarsi, a definire meglio i suoi lineamenti; forse anche per questo esso produsse così poche opere di rilievo.

In realtà, non era mancata qualche intuizione circa la vera essenza del dramma spagnolo ma, sgorgata nel pieno fervore del teatro «filosófico», ne era stata frustrata. Un recensore del Paje aveva in effetti tracciato una intelligente linea di demarcazione fra il teatro francese in cui, a suo dire, «brilla un pensamiento moral y filosófico», e quello spagnolo in cui «se han hecho dramas de imaginación, floridos y seductores, mas no se ha cuidado de la filosofía, no se ha fijado un objeto moral». E proseguiva definendo El Trovador, Los Amantes de Teruel e così pure El Paje «dramas de sentimiento» e «joyas preciosas» ma negando loro la possibilità di esser giudicati «dramas profundos» e affermando che in essi «echamos de menos un objeto moral y filosófico, una idea concebida por el poeta y desenvuelta en la acción».369

In altre parole, lamentava che le opere più felici e libere del romanticismo spagnolo -di cui pure aveva afferrato i motivi più validi- non fossero drammi a tesi.

Solo a Larra era forse stato consentito di cogliere, ne Los Amantes de Teruel, le enormi possibilità che potevano nascere dall'unione della creatività del poeta e dei dati forniti dalla storia o dalla pseudo-storia; a meno di un mese dalla morte, egli aveva parlato dell'amore di Marsilla e Isabel come di

ese amor que la imaginación y la tradición abultan hasta lo infinito.370